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com/2009/05/la-mostra-delle-
atrocita-2.html)

«Contro il pericolo di guerre di massa, iscrivetevi alla Grande Caccia. Solo la Grande
Caccia può darvi un senso di sicurezza. Vivete pericolosamente, ma nella legge».

In un imprecisato futuro prossimo è stata istituita a livello mondiale la “Grande Caccia”,


uno sport estremo che si prefigge di regolamentare la violenza individuale e dare sfogo
agli istinti aggressivi, evitando che prendano la forma collettiva delle guerre. Una forma di
assassinio legalizzato, diventato un grande spettacolo popolare al punto da rendere i suoi
partecipanti dei veri e propri idoli.

«Suicidi, nella Grande Caccia c'è posto anche per voi».

Le regole della Grande Caccia sono: 1 - ogni iscritto deve impegnarsi a partecipare a dieci
cacce, alternativamente nel ruolo di Cacciatore e nel ruolo di Vittima. Gli accoppiamenti fra
i partecipanti sono effettuati dal selezionatore elettronico di Ginevra; 2 - al Cacciatore
vengono fornite tutte le informazioni sulla sua Vittima designata; 3 - la Vittima non sa chi
sia il proprio Cacciatore, è informata solamente dell'inizio della Caccia. Deve riuscire a
individuarlo ed eliminarlo; 4 - il vincitore di ogni singola Caccia riceve un premio. Chi
sopravvive alle dieci Cacce previste viene proclamato “decatlon” e riceve un milione di
dollari.

«Perché controllare le nascite quando possiamo controllare i decessi?»

(“La Decima Vittima”, Elio Petri, Italia, 1965, tratto dal racconto “The Seventh Victim” di
Robert Sheckley).

http://it.wikipedia.org/wiki/La_decima_vittima

Negli anni 2017 e 2019, un collasso economico ha trasformato gli Stati Uniti d'America in
un regime autoritario fondato sull'esasperato uso strumentale dei mezzi di comunicazione
di massa.

Lo spettacolo principale è “L'Uomo in Fuga”, un reality show televisivo in stile gladiatorio,


ambientato in un quartiere terremotato di Los Angeles, in cui vi sono dei "corridori" che
devono cercare di sopravvivere mentre vengono cacciati dagli "inseguitori", assassini
brutali che somigliano a wrestler professionisti, con armi personali, costumi e soprannomi.

(“L'implacabile”, tit. or. «Running Man», Paul Michael Glaser, USA, 1987, tratto dal
romanzo “L'Uomo in Fuga” di Stephen King, pubblicato con lo pseudonimo di Richard
Bachman nel 1982).

http://it.wikipedia.org/wiki/L%27implacabile_(film_1987)

Nel 2025, una serie di esplosioni nucleari ha trasformato l'America in un continente


desolato e desertico.

In una semidistrutta New York, isolata dal resto del mondo, abitata da rifiuti umani e
mutanti telepatici perseguitati da un regime dispotico, l’unica valvola di sfogo è il reality
televisivo "Endgame", spettacolare gioco che fa rivivere in ripresa televisiva diretta
sanguinose partite ispirate ai combattimenti gladiatorii, in cui i duellanti rivestono i ruoli di
prede e di cacciatori.

(“Endgame - Bronx Lotta Finale”, Joe D'Amato, Italia, 1983)

http://en.wikipedia.org/wiki/Endgame_(1983_film)

Nel 2018, in un mondo dove le nazioni e le etnie sono scomparse, controllato e guidato
dalle Corporazioni, che provvedono alle necessità della popolazione, l’unico sport capace
di entusiasmare ed appassionare una umanità affrancata dalle guerre, dal bisogno e dalle
malattie è il violentissimo Rollerball.

In un campo di gioco circolare, un catino metallico concavo, due squadre di giocatori,


alcuni su pattini a rotelle, e altri in moto, si contendono una grossa palla d'acciaio sparata
da un cannone pneumatico, per lanciarla in gol nella porta avversaria.

Trasmesso in diretta tv in tutto il mondo, il Rollerball è l'evento catartico adatto a


stemperare le ansie e le insoddisfazioni residue dell'animo umano. Quando a Jonathan E,
indiscusso ed acclamato capitano dello Houston, la squadra della Corporazione
dell'Energia, viene chiesto di ritirarsi, ufficialmente perché dopo tanti anni di vittorie lasci il
posto ai giovani, ma in realtà perché il sistema ne teme l'enorme popolarità, che potrebbe
renderlo un leader anche al di fuori del mondo sportivo, il campione rifiuta.

La decisione di Jonathan inasprisce il potere ed i dirigenti delle Corporazioni, dopo averlo


blandito in ogni modo, ne decretano la fine, da ottenersi con la sconfitta nel campionato in
corso. Ma lo Houston è squadra forte e compatta e il piano si rivela assai difficile da
realizzare. Così, agli arbitri viene imposto di chiudere gli occhi sui falli sempre più violenti
che le formazioni avversarie commettono. Sino alla finale, quando i due team si affrontano
in uno scontro mortale, senza più alcuna regola.

(“Rollerball”, Norman Jewison, USA, 1975, tratto dal racconto "The Rollerball Murders" di
William Harrison).

http://it.wikipedia.org/wiki/Rollerball_(film_1975)

Per prevenire lo scoppio della Terza Guerra Mondiale, sublimando le insopprimibili


tendenze aggressive, le superpotenze che governano il mondo decidono di introdurre i
cosiddetti "giochi della pace" internazionali, una battaglia in miniatura combattuta tra
squadre di soldati, in rappresentanza dei vari paesi del mondo, trasmessa in diretta
attraverso radio e televisione (con tanto di sponsor e pubblicità).

Addestrati ed organizzati con disciplina militare, i combattenti si danno battaglia sotto gli
occhi di computer imparzialmente programmati a contare il punteggio sulla base del
numero dei morti.

I giochi rafforzano il potere costituito nella misura in cui convogliano le emozioni di milioni
di spettatori, ma nell'edizione che si sta per inaugurare vicino Stoccolma, un giovane
contestatore francese si accinge a sabotare l'organizzazione per risvegliare la coscienza
della gente...
(“The Gladiators” - “The Peace Game”, “Gladiatorerna” - Peter Watkins, Svezia, 1969)

http://www.fantafilm.net/Schede/1961d/69-28.htm

"La violenza è la levatrice della storia" (George Sorel)

Gli atti di violenza hanno sempre rappresentato il motore propulsore dell'Umanità. Fin dai
tempi mitici di Caino e Abele, di Romolo e Remo, la violenza è stata fondatrice e levatrice.

L'uomo, "animale politico" (Aristotele) è sempre stato naturaliter attratto dal sangue e dalla
violenza. A riprova di ciò, vi sono le rovine degli anfiteatri romani in cui si "gustavano"
spettacoli di una violenza inenarrabile, in cui uomini pacifici ed inermi venivano sbranati da
animali mentre i gladiatori erano costretti a scannarsi fra loro per avere salva la vita
all'insegna del mors tua vita mea.

Questi spettacoli si sono protratti nel tempo, come nelle cacce rituali all'Ebreo in occasione
del Carnevale di Venezia, nei roghi settimanali ai danni di povere donne accusate di
stregoneria, fino alle più recenti, "civili", esecuzioni di morte mediante sedia elettrica o
iniezione letale.

Michel Foucault ha provato a spiegarlo in tutte le sue opere a partire da "Storia della Follia
nell'Età Classica" (1961): la storia dell'uomo è una storia di violenza e di follia: vivisezioni,
decapitazioni, uccisioni, torture, roghi, elettroshock, forni crematori, ecc. ecc. Prima di
introdurre la più “civile" ghigliottina, i condannati a morte venivano uccisi, pubblicamente,
mediante smembramento: si legavano braccia e gambe del malcapitato di turno a dei
cavali o dei carri, e tanti saluti.

Nella storia della violenza, un ruolo molto importante lo hanno avuto le istituzioni religiose
e politiche che, di volta in volta, hanno cercato di sopprimere o di cavalcare movimenti
violenti per raggiungere o mantenere il proprio potere. Sono stati per primi i romani, con i
giochi gliadiatorei, a trasformare scientificamente e grandiosamente gli spettacoli di morte
in uno strumento del potere. “Panem et Sanguem” : oltre al pane, dai al popolo la sua
dose di violenza quotidiana, soddisfa la sua sete di sangue e di vendetta, dagli dei
prostituti e delle prostitute per soddisfare le sue perversioni sessuali (i lupanari), dagli dei
riti con cui placare i suoi bisogni dionisiaci, e stai sicuro che non ti si rivolterà contro.

Quando entra in scena il cristianesimo, questo sistema va in crisi. I cristiani, che all'inizio
furono perseguitati e dati in pasto ai leoni, erano dei martiri, fomentavano la rivolta,
predicavano la non-violenza, mettevano in discussione l'autorità del Dio-imperatore. Il
sistema fu costretto a ri-organizzarsi. L'Impero si rinconvertì stabilendo un'alleanza con il
potere religioso, che tutt'oggi perdura. La conversione fu totale: si adottò un nuovo
calendario, sulle rovine dei templi pagani furono costruite delle chiese, si sostituirono
progressivamente i santi alle divinità pagane e al posto dei rituali efferati le liturgie
androcratiche della messa.

Da perseguitato, il cristianesimo diventò nelle mani dell’ecumenismo cattolico la principale


arma usata dal potere per soggiogare il mondo intero. Alla violenza del potere imperiale,
che continuava a conquistare e massacrare, fu associato così l'amore cristiano e la
promessa di una salvezza nell'aldilà. Si cominciò a uccidere non più in nome di Marte, il
dio della guerra, divino padre di Roma, incarnato dall'imperatore-guerriero, ma del nuovo
Dio unico cristiano, posto al di fuori dell'uomo, nel Regno dei Cieli. In nome del Dio
misericordioso, si sono giustificate le crociate, l'inquisizione, la caccia alle streghe, i roghi,
i genocidi, come quello del popolo amerindio (che continua ancora oggi), in generale, il
colonialismo.

Quando entrano in scena la rivoluzione francese e l'illuminismo, e crolla il sistema feudale,


assistiamo ad un nuovo matrimonio: quello tra scienza e religione. Il potere si ri-organizza
per accogliere la rivoluzione copernicana e cartesiana, non prima di aver perseguitato
Galileo Galilei, fino a tollerare perfino Darwin, l'aborto, l'inseminazione artificiale, la
rivoluzione sessuale, la pornografia, la pedofilia.

Quello che più ha spaventato del "pericolo rosso" era il suo ateismo di fondo, perché
minava l'apparato di cattura su cui si fonda il potere, ovvero i bisogni religiosi delle masse.
Nella società di oggi, ormai ampiamente secolarizzata, laicizzata, del tutto orfana del
sacro, ad offrire gli spettacoli di morte ci pensano i mezzi di comunicazione di massa:
giornali, televisione, cinema, videogiochi, internet, le nuove arene virtuali.

Qualcosa però non funziona. Questi spettacoli, questi rituali, non ci appagano del tutto. La
realtà virtuale non è soddisfacente. Vogliamo "realtà reali". E così, sempre più spesso,
capita che qualche maniaco sfugga al controllo, che faccia a pezzi la sua vittima
sacrificale, dopo averne abusato, e magari qualcuno ne approfitta per girare uno snuff
movie scaricabile da internet.

Sempre più spesso capita che qualche nevrotico, devastato da stress e psico-farmaci,
inappagato dalla realtà virtuale, decida di soddisfare brutalmente i propri istinti. Magari
facendo a pezzi il proprio amante, cucinandoselo e poi mangiandoselo.

SPETTACOLI DI MORTE Repubblica online 28 ottobre 2004

Uccide il compagno e gli frigge una gamba blogosfere 08 ottobre 2008

Calva Zepeda, da scrittore horror ad assassino cannibale bogosfere ottobre 2007

Cannibalismo, uccide l'amico e usa il corpo per cucinare Dopo l'omicidio


l'assassino con il corpo della vittima ha preparato dei ravioli che poi ha venduto ai
vicini Repubblica 17 dicembre 2005

Ergastolo al cannibale corriere 09 luglio 1995

Il “circo mediatico”, per definizione, trasforma gli eventi in spettacoli da dare in pasto alle
masse mediante una copertura esagerata dell’evento volta a creare una “hype” (isteria)
mediatica. Secondo la filosofa Ursula Pia Jauch (Università di Zurigo) «ogni hype è un
piccolo spettacolo da circo», ma anche una «pubblica ed eccitante messa in scena».

Ad esempio, in Italia casi come quello di Cogne, della strage di Erba, dell’omicidio di
Meredith, del delitto di Garlasco, dello stupro della Cafferella (guarda caso tutti episodi di
cronaca nera), hanno ricevuto e continuano a ricevere da parte dei media una attenzione
spropositata, che diventa morbosa e ha l’effetto di catalizzare l’interesse del pubblico.

Il termine “media circus” si è cominciato ad usare a metà degli anni Settanta ed è subito
diventato molto popolare. Il film del 1951 di Billy Wilder “The Big Carnival”, poi chiamato
“Ace in the Hole” (in it. “L’Asso nella Manica”) rappresenta il cinismo e la crudeltà del circo
mediatico, che all’epoca si reggeva soprattutto sulla stampa: il protagonista (Kirk Douglas),
un reporter incaricato di raccontare un disastro avvenuto in una miniera, senza alcun
ritegno morale riesce a far ritardare i soccorsi, coinvolgendo lo sceriffo e la moglie del
povero minatore intrappolato che finirà come vittima sacrificale di un “Grande Carnevale”
mediatico.

La trama si ispira a due eventi realmente accaduti. Nel 1925, W. Floyd Collins rimase
intrappolato all’interno di una cava di sabbia nel Kentucky in seguito ad uno smottamento.
Il Courier-Journal, un quotidiano di Luoisville, inviò sulla scena il reporter William Burke
Miller. Il reportage di Miller trasformò l’episodio in un evento di risonanza nazionale e vinse
il Premio Pulitzer. Il nome di Floyd viene citato nel film come un esempio di vittima
diventata una sensazione mediatica. Nell’aprile del 1949, una bambina di tre anni, Kathy
Fiscus, cadde in un pozzo abbandonato a San Marino, in California. Durante le operazioni
d salvataggio, durate alcuni giorni, migliaia di persone sono giunte sul luogo per assistere
allo svolgersi dell’evento. In entrambi i casi, le vittime sono morte.

http://en.wikipedia.org/wiki/Ace_in_the_Hole_(film)

A distanza di più di 40 anni da “The Big Carnival”, “Mad City - Assalto alla notizia” (Costa
Gavras, USA, 1997), porta sullo schermo un circo mediatico evolutosi tecnologicamente,
ma sostanzialmente immutato, rivolgendo una critica al sensazionalismo dei media
statunitensi - mostrando la vulnerabilità dell''opinione pubblica e l'enorme potere che
hanno i media di manipolare e distorcere la realtà – ma anche al sistema capitalista.

Sam Baily (John Travolta), dopo aver perso il suo lavoro di custode nel museo cittadino,
perde la testa e decide di andare a protestare dal suo ex-capo armato di un fucile.
Incidentalmente gli parte un colpo che ferisce il suo collega Cliff e Baily, preso dal panico,
decide di prendere in ostaggio un gruppo di bambini presenti al museo e il suo ex-capo.

A loro si unisce anche il reporter in declino Max Brackett (Dustin Hoffman), che per un
caso fortuito si trova all’interno del museo, il quale decide di sfruttare il caso per ritornare
al successo: finirà per trasformare l’evento in uno psico-dramma che farà registrare ascolti
record fino a concludersi tragicamente.

Mentre il circo mediatico si impossessa della vita del povero Sam, disperato per aver
perso il lavoro, tutto il carrozzone subisce una sorta di mutazione mostruosa, colpito dalla
malattia catodica: direttori di rete, anchormen, reporter e pubblico. Le telecamere sono
puntate sulla vittima sacrificale di turno come fucili di precisione, per fare arrendere Sam in
prima serata, pronte a far fuoco.

Mad City – Assalto alla Notizia

In Italia, il 13 giugno del 1981, alle 7 del mattino, milioni di telespettatori italiani seduti
davanti alla televisione assistono impotenti alla morte di Alfredino Rampi.

La Rai trasmette in diretta da ben 18 ore a reti unificate la lenta agonia del povero
bambino, precipitato alle 19 di due giorni prima in un pozzo artesiano di soli 30 cm di
diametro, ma profondo ben 30 metri, lasciato sconsideratamente aperto alle porte di
Roma.
Sul luogo della tragedia accorrono con il presidente Sandro Pertini centinaia di persone
che fanno una ressa inutile, nani e volontari dal fisico minuscolo che cercano di calarsi nel
pozzo per afferrare le mani di Alfredino. Invano...

La tragedia diventa improvvisamente un grande evento mediatico, un racconto per


immagini del vano tentativo di salvare una vita umana che indirizza l'eterno flusso
televisivo sulla strada della tv del dolore.

Dal punto di vista narrativo, come nota lo storico Giovanni De Luna, la diretta di Vermicino
è il primo mix tra generi televisivi differenti, in particolare tra informazione e fiction: una
inedita commistione tra le istanze relative al conoscere - legate all'informazione - e quelle
relative al "partecipare emotivamente e passionalmente", tipiche della fiction.

"Era giusto, non era giusto - si chiede Aldo Grasso, il critico tv del Corriere della Sera -
trasmettere quella terribile agonia dal pozzo della morte? Era giusto, non era giusto
puntare le telecamere su un bambino che sta sprofondando in un buco nero dove, di lì a
poco, sarebbero sprofondate, con la pietà e la vergogna per la fine del povero Alfredino,
tutte le nostre concezioni sulla tv, sul rapporto fra informazione e spettacolo? È opportuno
immettere in un circuito incontrollabile immagini che invocano solo la pietà? Una cosa è
soffrire, un'altra vivere con le immagini della sofferenza, che non rafforzano
necessariamente la coscienza o la capacità di avere compassione. Possono anche
corromperle".

1981, nasce a Vermicino la tv del dolore blogosfere 18 gennaio 2007

È Il 6 aprile 2009. Speciale di Porta a Porta sul terremoto in Abruzzo. Vespa si aggira tra le
macerie dell'Aquila. Attorno a sé uomini della Protezione Civile e cani che cercano povera
gente sotto i calcinacci. Improvvisamente si ferma. Raccoglie un povero peluche - solo
poche ore prima del tutto ignaro di diventare strumento di una simile bassezza - ed
esclama, con il cuore colmo di disperazione: "Non c'è terremoto in cui non si trovino cose
di questo genere, cose così dolorose. Sempre. Le abbiamo viste in Friuli. Le abbiamo
viste in Irpinia. Le abbiamo viste a Perugia. Adesso anche all'Aquila". Poi poggia
delicatamente, con grande rispetto, il peluche su un muretto, e scompare. Ventotto
agghiaccianti secondi.

"Ascolti record in tutte le edizioni del tg1 nella giornata del terremoto in Abruzzo. Il Tg1 ha
registrato uno share intorno al 30% nelle edizioni delle sei e trenta, delle sette e delle otto,
con un picco del 43 e un per cento nell'edizione delle nove e trenta. La straordinaria delle
11, durata oltre un'ora ha realizzato uno share del 33%, e l'edizione delle 13.30 il 32,4 con
5,7 milioni di ascoltatori. La straordinaria dalle 15 alle 16 ha avuto un ascolto del 21%.
L'edizione principale delle 20 si è confermata leader dell'informazione con uno share del
33,9% e con un ascolto medio di 8,7 milioni di ascoltatori e picchi di quasi 10 milioni. Lo
speciale tg1 Porta a Porta condotto da Bruno Vespa con David Sassoli, inviato sulle zone
del disastro, ha avuto uno share del 27% e una media di 6,7 milioni di ascoltatori. Record
anche per l'edizione on line del tg1 che raccoglie le offerte di aiuto e volontariato. Il tg1 è
presente in Abruzzo con otto inviati e nove operatori dall'alba di lunedì".

Sono le tredici e trenta del 7 aprile 2009. Il primo telegiornale italiano, il Tg1, utilizza i primi
90 secondi del servizio informativo pubblico - nel giorno in cui ha avuto luogo quella che è
stata unanimemente definita la più grave catastrofe dall'inizio del Millennio - per
sbandierare i suoi successi di audience, dell'irrinunciabile Porta a Porta e di tutti gli altri
speciali Rai.

Un serpentone di dati di una violenza e una volgarità assurde, che fa capire quanto ormai
l’informazione sia solo e soltanto intrattenimento, uno spettacolo vero e proprio, cinico,
amorale, disumano, del tutto assoggettato alla tirannia dello share.

Secondo un sondaggio del Sole 24 ore riguardo all’emergenza terremoto, per il 74% degli
italiani, Palazzo Chigi ha operato bene; il premier ha fatto bene (per l'83%) a recarsi nei
luoghi del dolore e la Protezione civile (per l'87%) è un punto di riferimento efficiente e
professionale fondamentale.

In “Lo Spettacolo del Dolore”, Luc Boltanski mette in risalto la continua instabilità che si
gioca tra emozione reale ed emozione mediale nella percezione degli eventi disastrosi:
l’emozione mediale per Boltanski deve essere in grado di attirare l’emozione reale ed è
questa capacità a determinare il rilievo politico di un evento, si tratti di un terremoto o di un
attentato dagli effetti devastanti.

Il rapporto tra emozione mediale ed emozione reale non è mai stabile: quest’ultima ha
molte occasioni per migrare perché attirata dalla possibilità di sedimentarsi entro differenti
offerte di emozione mediale prodotte dalle leggi dello spettacolo. Eppure è proprio
l’emozione mediale il fenomeno che crea lo spazio del politico durante il governo degli
eventi disastrosi perché capace di creare masse di potere connettendo globalmente la
percezione dell’evento.

Il soggetto che riesce ad indirizzare l’emozione mediale è quindi quello politicamente


sovrano in questo genere di stato d’emergenza. Governare l’emozione reale tramite quella
mediale risulta decisivo per le gerarchie politiche che seguono o sopravvivono ad un
disastro.

Le emozioni legate al senso morale hanno bisogno di tempo per essere elaborate dal
cervello. Per questo, l’attuale comunicazione, per lo più digitale e televisiva, pensata per
un “consumo veloce”, non è adatta a risvegliare emozioni come l’ammirazione o la
compassione.

È quanto rivela uno studio condotto da un gruppo di neuroscienziati guidati da Antonio


Damasio, direttore del Brain and Creativity Institute della University of Southern California.
La ricerca, una delle prime che passa in esame le emozioni complesse piuttosto che
quelle primarie come il dolore e la paura, è apparsa online su Proceedings of the National
Academy of Sciences (PNAS) e ha avviato una riflessione sulla percezione e
l'elaborazione degli eventi nel tempo dell’informazione digitalizzata.

Gli esseri umani selezionano le informazioni molto velocemente e possono reagire


emotivamente al dolore fisico altrui in frazioni di secondi. Lo stesso, però, non avviene nel
caso dell'ammirazione e della compassione, due emozioni sociali che hanno bisogno di
più tempo per essere ”ispirate”. Durante lo studio, i ricercatori si sono serviti di alcune
storie per indurre, in 13 volontari, ammirazione per le virtù e le abilità altrui, o compassione
per il dolore sociale di altre persone. La risonanza magnetica per immagini ha mostrato
che questi racconti attivano la corteccia posteromediale, legata al consapevolezza di sé e,
soprattutto, che il cervello umano ha bisogno dai 6 agli 8 secondi per generare una
risposta emotiva (contro la frazione di secondo necessaria in seguito ai racconti sul dolore
fisico). Una volta innescati, però, i sentimenti di compassione e ammirazione perdurano
più a lungo rispetto alle reazioni al dolore fisico.

Secondo gli studiosi, l’informazione veloce e frammentaria offerta dai nostri mezzi di
comunicazione (Internet e social network, televisione e videogame) potrebbe non darci il
tempo di provare queste emozioni.

”In una cultura mediatica in cui la violenza e la sofferenza diventano uno show, se le
informazioni scorrono troppo velocemente è difficile, soprattutto per un cervello in fase di
sviluppo, avere tempo sufficiente per provare quei sentimenti che fanno nascere nei
cittadini l’etica e la moralità”, ha commentato Manuel Castells, tra i maggiori studiosi a
livello mondiale della Società dell'Informazione.

Internet e Tv: troppo veloci per il senso morale Galileonet 14 aprile 2009

La TV dolore dei giorni nostri reportonline 17 Aprile 2009

TERREMOTO: Lo spettacolo del dolore reset-italia 14 aprile 2009

Pasqua d'Abruzzo. I media, l'iconografia del dolore e le coincidenze del calendario


17 aprile 2009

Tg1. Senza Vergogna agoravox 11 aprile 2009

La televisione italiana e la reputazione del povero sciacallo ildiariomontanaro

L’Aquila e gli Avvoltoi YouTube

LA MORTE IN TV FRA RIMOZIONE E SPETTACOLARIZZAZIONE

“Infotainment” significa letteralmente “informazione-spettacolo” (oppure anche “lo


spettacolo dell'informazione”). È un neologismo di matrice anglosassone che fonde le
parole “information” (informazione) ed “entertainment” (intrattenimento).

L'infotainment ha origine dalla mescolanza di più generi per andare incontro all'instabile
livello d'attenzione del pubblico e trasformare in spettacolo anche programmi che
dovrebbero essere informativi ed in qualche modo educativi.

L’infotainment è dunque classificato dagli studiosi come una sorta di macro-genere, una
tipologia ibrida, nella quale far confluire i numerosi programmi e format televisivi che
popolano e spopolano nella “neo-televisione”. Con questo termine – usato sulla sua
rubrica dal titolo la “bustina di Minerva” pubblicata sull’Espresso nel 1983 - Umberto Eco
voleva indicare il passaggio, nel sistema radiotelevisivo italiano, dal monopolio di stato al
duopolio determinato dall’ingresso delle emittenti private. Oggi si usa in modo molto più
ampio per indicare il radicale cambiamento dei linguaggi e nelle modalità espressive del
medium televisivo, in particolare per descrivere il nuovo tipo di televisione che, per attirare
il pubblico e far impennare l’audience, finisce per accorpare più programmi in un unico
contenitore superando le distinzioni di genere.
Il termine “infotainment” è implicitamente critico verso la perversione del giornalismo che
da medium che convoglia informazioni in modo serio su questioni di pubblico interesse
diventa una forma di intrattenimento che deve sempre avere notizie fresche nel mix.

Il criterio con cui i reporters e gli editori giudicano il valore delle notizie e il risalto da
assegnargli è parte integrale del dibattito (per cui si parla anche di “disinformazione”). In
particolare, l’infotainment è accusato di aver irrimediabilmente corrotto gli ideali di
responsabilità civica. C’è poi chi chiama in causa la natura commerciale del sistema
mediatico, in mano a corporazioni che ricercano soprattutto l’audience dando in pasto al
pubblico contenuti leggeri e dando ampio risalto ad argomenti insignificanti come lo sport e
il gossip riguardante le celebrità.

Nella sua critica all’infotainment in “News Flash”, Bonnie Anderson cita la CNN che il 2
febbraio del 2004 diede ampio risalto all’incidente capitato a Janet Jackson, che durante
una diretta tv nazionale mostrò accidentalmente una tetta. La notizia seguente riportava di
un attacco chimico al leader della maggioranza del Senato.

Scrive Giorgio Grignaffini: «L’infotainment è sicuramente una delle nuove frontiere della
televisione attuale; sviluppatosi all’interno del news magazine è diventato un modo nuovo
e flessibile per trattare tutta una serie di argomenti e di problematiche, mantenendo un
tono leggero ed accattivante» (G.Grignaffini, “I Generi Televisivi”, Roma, 2004).

Grignaffini individua quale contesto di sviluppo dei programmi di infotainment il news


magazine e prima ancora i tabloid magazine: «Si rifanno ai contenuti e ai modi
comunicativi tipici della stampa popolare inglese (i tabloid): a caratterizzarli è l’assoluta
prevalenza di argomenti leggeri, gossip, notizie legate al mondo dello spettacolo, un certo
sensazionalismo nelle modalità informative, la collocazione prevalente nelle fasce di day
time».

Diretta evoluzione dei tabloid magazine, per l’autore sono i programmi di “news magazine”
(termine usato come sinonimo di infotainment), «caratterizzati da una maggiore varietà di
argomenti trattati, dall’attualità alla politica, dalla cronaca ad argomenti più leggeri: la loro
collocazione va dalle fasce diurne a quelle di seconda serata».

Nel nostro Paese, a cominciare dagli anni Settanta, il mutato e più dinamico panorama
interno alla Rai stimola la ridefinizione dei generi tradizionali. Uno snodo cruciale in tal
senso è sicuramente la riforma della Rai, seguita all’approvazione della Legge n. 103 del
14 aprile 1975, una riforma che ebbe forti conseguenze dal punto di vista politico,
organizzativo e culturale per la televisione italiana ed ebbe il merito di inaugurare una
stagione feconda ed improntata ad una fortissima sperimentazione.

Il primo programma che operò la rottura dei generi fu “Odeon” (Raidue, 1976) di Brando
Giordani e Emilio Ravel. Progettata per coinvolgere una larga fascia di telespettatori dopo
il Tg2 della sera, la rubrica era il prodotto di una contaminazione tra la formula di TV7 e le
occasioni di spettacolo offerte dal mondo del cinema, della musica, del costume. Un
programma di straordinaria efficacia che per primo attuò un totale ribaltamento della
funzione informativa attraverso una elevata spettacolarizzazione, il riscorso all’ironia e alla
leggerezza, il rifiuto del noioso taglio sociologico. «Soprattutto nel palinsesto della
seconda rete – scrive F. Monteleone “Storia della Radio e della Televisione in Italia”
(Venezia, 2003) – anche per merito di una proficua intesa tra il suo direttore Massimo
Fichera e il direttore del Tg2, Andrea Barbato, nasce accanto al giornalismo di
approfondimento un giornalismo di osservazione del costume e dello spettacolo con tono
satirico, anche se francamente superficiale».

Il successo di Odeon fu enorme. L’audience della trasmissione fu la più alta tra quelle
registrate da un programma del telegiornale dopo la riforma: quasi quindici milioni di
telespettatori nel 1978. Questa stagione di esperimenti fortunati e vincenti continua in Rai
anche con le prime prove di talk show, con “Bontà Loro” (Raiuno, 1976) di Maurizio
Costanzo. L’infotainment prosegue poi la sua corsa verso la conquista dei palinsesti
televisivi nel corso di tutti gli anni 80’. A Raitre, in particolar modo, si deve il forte impulso
alla nascita del genere con il programma “Samarcanda” (Raitre, 1987) di Michele Santoro,
anche se andrebbe ricordato “Mixer”, che Gianni Minoli, insieme ad Aldo Bruno, idea nel
1980; Mixer si caratterizza da subito per un ritmo incalzante e velocissimo, un grosso
rotocalco di attualità in cui c’è di tutto: politica, cultura, musica, cinema, spettacolo e sport.
Una formula che ne farà uno degli esperimenti più moderni e intelligenti di quella
televisione che ha ormai abbandonato la rigidità dei generi per esplorare territori e
contaminazioni del tutto nuovi.

Seguono poi gli anni 90’, altro decennio cruciale per la crescita della neo-televisione, ma
che tuttavia non riesce a riproporre quei tratti di innovazione e vivacità che avevano
contraddistinto i decenni precedenti, finendo per proporre “tipologie informative opache e
obsolete”. Il punto di arrivo di questo percorso è l’inizio del nuovo millennio, con
l’affermazione definitiva dei programmi di infotainment, che riempiono buona parte dei
palinsesti delle principali reti nazionali.

Il fenomeno dell’ibridazione, inteso come processo di mescolamento e contaminazione, è


la caratteristica principale del genere infotainment. L’ibridazione riguarda sia i mezzi -
diversi tipi di media - che i contenuti - i messaggi che i media veicolano. La convergenza
degli ambiti tecnologico, economico, sociale e giuridico, dell’offerta di contenuti audio-visivi
con i servizi di telecomunicazioni (via cavo, via satellite, mobili), ha finito per modificare le
modalità tradizionali di fruizione.

Nel caso specifico della televisione, non si può più parlare di “focolare elettronico”, poiché i
luoghi della visione si sono moltiplicati e dispersi, non più limitati all’interno delle mura
domestiche. È subentrato un processo di specializzazione iniziato con l’avvento del
mercato di massa di riviste specializzate poi spostatosi nel broadcast con le televisioni via
cavo e continuato con i nuovi media come Internet e la radio via satellite. L’avvento della
convergenza multimediale insieme al moltiplicarsi dello spazio trasmissivo (grazie ad
innovazioni tecnologiche come la banda larga, la fibra ottica e la trasmissione digitale), ha
determinato la possibilità di fruire in modo congiunto di più servizi diversificati “on demand”
(film, eventi sportivi, news, serial televisivi).

A livello normativo, questo processo è culminato, in Italia, con il Testo Unico della
Radiotelevisione (D. Lgs. 31 luglio 2005, n. 177) comunemente detto “Codice della
Radiotelevisione”, emanato in base all’art. 16 della L. 3 maggio 2004, n. 112 (la c.d.
“Legge Gasparri”) che ha proceduto al riassetto del sistema radiotelevisivo. Gli obiettivi del
codice della radiotelevisione sono sostanzialmente tesi ad attuare un’unica finalità:
governare il processo di convergenza tra radiotelevisione e comunicazioni elettroniche, nel
tentativo di “traghettare” il medium televisivo dall’analogico al digitale. Particolarmente
interessante risulta essere il concetto di “SIC” (Sistema Integrato delle Comunicazioni): al
di là, infatti, dei contenuti politici della legge, considerata da molti come l’ennesimo
espediente del governo di centro-destra per aggirare i limiti anti-trust, il SIC rispecchia
l’evoluzione del sistema dei media che va verso una sempre più marcata ibridazione.

Molto minore è stato, invece, l’interesse nei confronti del fenomeno dell’ibridazione dei
generi, nonostante esso abbia rivoluzionato le logiche della televisione, fino ad alterare
completamente il concetto d’informazione in tv. «Fino a pochi anni fa parlare di
informazione televisiva implicava il riferimento diretto all’unico luogo informativo
riconosciuto: il telegiornale. Oggi – e non da oggi – non è più così» (G. Bettetini, P. Braga,
A. Fumagalli, “Le Logiche della Televisione”, Milano).

Un grimaldello chiamato "Sic" per forzare il tetto degli spot Repubblica 11 luglio
2003

«Macrogenere televisivo, comprendente tutti i programmi a finalità informativa, quali i


telegiornali, le rubriche di approfondimento, gli speciali, i rotocalchi, i documentari, le
inchieste, i dibattiti, i talk show» (A.Grasso, “Enciclopedia della Televisione”, Milano, 1996).

Possono rientrare, oggi, sotto la categoria infotainment i seguenti programmi: “Anno Zero”,
“Ballarò”, “Che tempo che fa”, “Cominciamo Bene”, “Domenica In”, “Insieme sul Due”,
“Italia allo Specchio”, “La Vita in Diretta”, “Mi Manda Raitre”, “Porta a Porta”, “Report”,
“Sabato & Domenica”, “Uno Mattina”, “Parla con me”, “Glob” (RAI); “Le Iene”, “Mattino
Cinque”, “Matrix”, “Maurizio Costanzo Show”, “Pomeriggio Cinque”, “Questa Domenica”,
“Striscia la notizia”, “Verissimo”, “Password” (Mediaset).

Il comune denominatore di questi programmi consiste nel combinare informazione ed


intrattenimento, quindi di svolgere attività informativa, di riferirsi cioè alla realtà extra-
televisiva, senza tuttavia essere registrati come testate giornalistiche. I magazine
informativi veri e propri sono quei programmi che mettono insieme notizie, collegamenti,
interviste, servizi di costume, cronaca, spettacolo, gossip. Spesso il conduttore non è un
giornalista e nel nostro continuum immaginario non possono che propendere in maniera
decisa verso il polo dell’intrattenimento. Dall’elenco precedente possiamo estrapolare un
insieme composto da Uno Mattina, La Vita in Diretta, Insieme sul Due, Italia allo Specchio,
Cominciamo Bene, Mattino Cinque, Pomeriggio Cinque, Questa Domenica, Sabato &
Domenica, Verissimo.

I talk show a contenuto informativo sono programmi sempre in bilico tra informazione e
intrattenimento e che possono propendere, a seconda dei casi, in misura maggiore per
l’uno o per l’altro, per questo motivo sono stati collocati al centro del continuum, oscillano,
infatti, da un polo all’altro; ad esempio, se al centro della discussione ci sono argomenti di
stretta attualità e se il conduttore è un giornalista, il talk-show assume una collocazione
peculiare che lo allontana dal mondo dell’intrattenimento per farlo entrare nell’ambito
dell’informazione. In questa categoria rientrano quindi Porta a Porta, Ballarò, Che Tempo
che fa, Domenica In (parte I), Matrix, Maurizio Costanzo Show, Anno Zero.

Nei programmi che rientrano nel servizio pubblico, vi sono due elementi distintivi: la
presenza nella maggior parte dei casi di giornalisti e l’aggancio con la realtà; si tratta di
quella che nei paesi anglosassoni viene chiamata “tool tv”, tv strumento appunto, in
quanto intende porsi al servizio del pubblico, in questo caso considerato più cittadino che
spettatore, per questo nella figura sono stati rappresentati più vicini al polo
dell’informazione Di questa categoria fanno parte Le Iene, Mi manda Raitre, Report,
Striscia la Notizia.
Tra i magazine informativi si distingue il programma La Vita in Diretta, presentato da un
giornalista professionista, Lamberto Sposini, che ha dei punti di contatto molto evidenti
con i talk-show a contenuto informativo a causa dei frequenti interventi di ospiti presenti in
studio e durante i collegamenti, i quali rilasciano interviste e commenti nel corso di tutto il
programma.

Gli “infotainers” – come, in modi diversi, Michele Cucuzza, Mentana, Fazio o Santoro -
sono dunque dei conduttori ibridi che attraversano la linea di confine tra giornalismo e
intrattenimento, due ambiti che si confondono e sovrappongono, dove, il più delle volte, è il
sensazionalismo a dettare legge.

http://en.wikipedia.org/wiki/Infotainment

In "A History of News", Mitchell Stephens fa risalire il sensazionalismo addirittura ai


“Roman Acta”, una sorta di quotidiani istituiti da Giulio Cesare per informare il pubblico su
eventi di particolare rilevanza. Se ne può trovare traccia anche sui libri dei secoli
Sedicesimo e Diciassettesimo, ma in questo caso era usato come un espediente per
insegnare lezioni morali.

Secondo Stephens, la controversia legata al sensazionalismo assume particolare


rilevanza “quando i giornalisti ricercano esclusivamente il violento o il miracoloso,
rappresentando solo una faccia grottesca del mondo, privando l’audience dell’opportunità
di esaminare e interpretare gli avvenimenti in modo più integrale, rispetto al contesto in cui
si svolgono”.

Il sensazionalismo ha finito per livellare tutte le fonti di informazione: la televisione si limita


a mostrare le scene dei crimini piuttosto che interrogarsi sui crimini stessi, mentre i
giornalisti della carta stampata finiscono sempre per parlare di ciò a cui non hanno
assistito. "Nessun atto di violenza va oltre la portata della sempre formidabile magia delle
parole” (Stephens).

Nelle news televisive, dove lo spazio per le parole è più limitato, dove le storie si misurano
in secondi, si finisce così per ridurre un qualsiasi evento in poche frasi ad effetto. Questo
tipo di spelling sensazionalistico è in fondo quello che usa la pubblicità per attirare
l’attenzione su determinati prodotti.

C’è addirittura chi sostiene che la pubblicità usi tecniche subliminali per trasmettere
messaggi all’inconscio. Essenzialmente, lo scopo di un messaggio subliminale sarebbe,
se inserito nei comunicati pubblicitari, di invogliare il consumatore ad acquistare uno
specifico prodotto. Oppure, attraverso la scrittura e la grafica in genere, o anche attraverso
il suono, potrebbe servire a propagandare pensieri ed ideologie di qualsiasi natura.

Vance Packard rese pubblica questa teoria nel 1957 col suo libro “I Persuasori Occulti”.
Poco dopo, James Vicary pubblicò i risultati di un suo studio in cui si affermava che gli
avventori di un cinema in cui venivano inseriti brevi messaggi subliminali nei fotogrammi
del film ("bevi Coca-Cola" e "mangia popcorn") aumentavano effettivamente i consumi dei
prodotti in questione.

http://it.wikipedia.org/wiki/Messaggio_subliminale
La pubblicità televisiva, oggi sempre più commistionata con la fiction e il cinema, può
essere considerata come una forma di infotainment perché veicola informazioni, pur se a
fini esclusivamente mercantili, in modo spettacolare, facendo ricorso a star televisive,
sportive e a registi cinematografici, girando perfino degli spot in serie come fossero episodi
di una serie tv o di una epopea cinematografica.

Fanno parte di questo nuovo genere gli spot girati da Gabriele Muccino per Wind, che
vedono come protagonisti Fiorello e Mike Bongiorno, o quelli girati da Daniele Luchetti per
il caffè Lavazza con Paolo Bonolis e Luca Laurenti.

[…] Tutto era cominciato due estati fa. Tutto era cominciato con Gaia, "la figlia stordita del
tenente Colombo". Tre ragazze, Gaia, Petra e Cristiana, cui è stata rubata un'auto,
decidono a loro volta di "prendere a prestito" uno yatch e avviare il periplo dell'Italia, da
Genova a Venezia. Inizia così una piccola odissea; mollati gli ormeggi, l'unico cordone che
le tiene ancora legate alla terraferma è il telefonino (che, di natura, è senza fili), insieme
messaggio e messaggero. Ma inizia anche una curiosa progressione narrativa. Quello
della pubblicità seriale è un fenomeno emerso di recente (dopo la fucilazione rimandata di
Massimo Lopez per Telecom è arrivato il Pendolino sul quale viaggiano lo "scroccone" e la
sua vittima, nonché la madre e la sorella del velista Soldini, raggiunto in mezzo al Pacifico
grazie al Satellitare, o il treno che ospita il concerto di Andrea Bocelli o il turista per caso
Patrizio Roversi che incontra Nike Revelli) ed è interessante perché i diversi episodi
permettono sia di costruire un percorso in crescendo, secondo moduli affini alla fiction
tradizionale, sia di reclamizzare non uno ma più prodotti […] (Aldo Grasso).

Mike Bongiorno e Fiorello ancora insieme per Infostrada

Wind: la brillante comicità di Aldo Giovanni e Giacomo ancora protagonista nel


nuovo spot Wind

Del paradiso non se ne può più!

Non più semplice testimonial, lo star system diventa attore protagonista, svelando la sua
vera funzione: confondere i confini tra pubblicità, sport, fiction, intrattenimento,
informazione, sensazionalismo, confini che nella trans-estetica del circo mediatico post-
moderno, a ben vedere, non esistono più.

“Ciò che stiamo vivendo è l'assorbimento di tutti i modi virtuali d'espressione in quello
della pubblicità. Tutte le forme culturali originali, tutti i linguaggi specifici sprofondano nel
modo d'espressione della pubblicità, poiché esso è senza profondità, istantaneo e
istantaneamente dimenticato. Trionfo della forma superficiale, minimo comun
denominatore di ogni significazione, grado zero del senso, trionfo dell'entropia su tutti i
tropi possibili. Forma più debole di energia del segno. Questa forma inarticolata,
istantanea, senza passato, senza avvenire, senza metamorfosi possibile, poiché è l'ultima
e ha potere su tutte le altre. Tutte le forme attuali d'attività tendono verso la pubblicità, e la
maggior parte di esse vi si esaurisce. Più generalmente, la forma pubblicitaria è quella
dove tutti i contenuti particolari si annullano nel momento stesso in cui possono
trascriversi gli uni negli altri…” (Jean Baudrillard, “Il Sogno della Merce” Lupetti, Roma,
1994).

“mass media can create an aura which makes the spectator seem to experience a non-
existent actuality” (Adorno, “The Jargon of Authenticity”)
Nel saggio “I Telegiornali: Istruzioni per l’Uso”, Ugo Volli e Omar Calabrese, due esperti
della teoria e tecnica della comunicazione di massa, analizzando le metamorfosi dei TG
nella storia d’Italia dai primi anni Cinquanta fino all’era della TV berlusconiana, nel capitolo
“Informazione e Spettacolo” scrivono: “La regia degli eventi, la costruzione dei colpi di
scena, il montaggio degli argomenti, la personalità e l’aspetto fisico degli interpreti,
l’impaginazione e la titolazione seduttiva, la costruzione della suspense, il lavoro che
continuamente l’apparato mette in opera per costruire un’illusione di realtà [..…] In
televisione anche le notizie esistono solo se fanno spettacolo e si sottopongono alle leggi
dello spettacolo - la prima delle quali è naturalmente che il pubblico ha sempre ragione e
non si deve mai annoiare”.

La realtà scompare nello spettacolo della “iper-realtà” - una realtà moltiplicata, eccessiva,
frenetica, grottesca – concetto formulato da Jean Baudrillard che considera il medium
informativo non come una finestra sul mondo ma come parte della realtà che descrive,
come realtà a sé stante, priva di referenti: invece di raccontare gli eventi che accadono
nella realtà finisce per creare una realtà alternativa.

Ad esempio, nel caso del processo a O.J.Simpson, nel 1994, tutto il polverone alzato dalle
cronache sensazionalistiche dei media ha avuto l’effetto di catalizzare l’attenzione globale
non sull’evento reale ma sulle immagini che venivano presentate di continuo, una iper-
realtà fatta di simulacri del vero.

“La commercializzazione indifferenziata di tutto si rivelerà essere stata, piuttosto,


un’estetizzazione indifferenziata di tutto – ovvero la sua spettacolarizzazione cosmopolita,
la sua trasformazione in immagini, la sua organizzazione semiologica […] gli ambiti
precedentemente divisi dell’economia, dell’arte, della politica e della sessualità, si
fonderanno gli uni negli altri e l’arte penetrerà tutte le sfere dell’esistenza […] la nostra
società ha dato vita così a una generale estetizzazione: tutte le forme culturali – comprese
quelle della contro-cultura – sono soggette a meccanismi di promozione, e tutte le
modalità [ad esse connesse] di rappresentazione o non-rappresentazione ne fanno parte”
(Jean Baudrillard, The Stanford Encyclopedia of Philosophy, Summer 2005 Edition).

Il risultato è una condizione di perenne confusione in cui non sono più possibili criteri di
valore, di giudizio, o di gusto, che fa sprofondare la funzione normativa in una palude di
indifferenza e inerzia.

http://www.tvnewsflash.com/

Sensationalism Wikipedia

fenomenologia del sensazionalismo blogosfere 18 ottobre 2007

16 anni ad Annamaria Franzoni: il circo mediatico è finito televisionando 27 aprile


2007

Delitto Mez, circo mediatico sul processo Padova News 16-01-2009

Una fiera mediatica. Perchè i media gonfiano certi argomenti? Corriere del Ticino
20-11-2007

Una iper-realtà gonfia di notizie ma priva di messaggi LSDI 10 gennaio 2008


Media circus Wikipedia

News media - Wikipedia

GIORNALISMO OPEN SOURCE 2.0

«Howard Beale è stato il primo uomo ad essere ucciso perché aveva un indice di ascolto
troppo basso».

Il commentatore televisivo di una grossa rete nazionale di Los Angeles, la UBS (appena
acquistata da un'altra società), stanco e sfiduciato dopo undici anni di presenza sui
teleschermi, viene licenziato con un preavviso di due settimane poiché l'indice di
gradimento della sua trasmissione è sceso troppo.

Tuttavia, prima di congedarsi e senza preavvertire colleghi e superiori, annuncia in diretta


il proprio suicidio, che avrà luogo dopo una settimana. Scoppia uno scandalo e viene
costretto a smentire il suo sensazionale annuncio il giorno dopo, durante una trasmissione
in cui rivela ai telespettatori, con un linguaggio piuttosto greve, il proprio licenziamento.

Una giovane e rampante responsabile dei programmi, che in passato ha diretto le


trasmissioni di cronaca, fiuta l'affarone: appoggiata dal proconsole dei nuovi padroni nella
UBS, mette su un rivoluzionario giornale-spettacolo trasformando il presentatore in un
ascoltatissimo "pazzo profeta dell'etere".

(“Quinto Potere” - tit. or. “Network” - Sidney Lumet, USA, 1976)

Network (film) - Wikipedia

Nella generale confusione di generi, di ambiti un tempo separati, di mondi rappresentati


(simulati), in cui trionfa il sensazionalismo della realtà fiction, della realtà spettacolo, a
farne le spese è soprattutto la deontologia professionale.

Nel giornalismo per deontologia professionale si intende un ordinamento normativo che


regola in modo vincolante l´attività giornalistica e che comprende il diritto e la morale,
ponendosi l’obiettivo di disciplinare la coscienza professionale del giornalista.

Si basa su due principi fondamentali: la responsabilità sociale e la veridicitá


dell’informazione. Inoltre, richiede al professionista un continuo aggiornamento e
autoperfezionanento nella prospettiva di informare sempre nella maniera migliore.

Stiamo parlando dell’ ”etica dell’informazione”. All’origine, la deontologia era una teoria
etica con grande peso utilitaristico, che stava cercando di razionalizzare un codice morale,
prendendo una spiegazione pratica come orientamento.

Jose Maria Guanter Santes, nel libro "L'Auto-controllo delle Informazioni" definisce l'etica:
"un insieme sistematico di norme minime che un determinato gruppo di professionisti
stabilisce e che riflette una concezione etica comune della maggioranza dei suoi membri.
Per essere efficace non può opporsi alle concezioni etiche individuali".

Stabilire se il giornalismo sia o no una professione (alcuni sostengono che si tratta di un


mestiere), specie da quando si è cominciato a far ricorso a molte persone estranee al
giornalismo e senza una qualifica specifica, per quanto riguarda la deontologia è
irrilevante: comunque, bisognerebbe attenersi ad un codice etico.

Il paradigma di ispirazione dell’etica contemporanea è Il concetto di etica kantiana,


secondo cui il rispetto per la legge deve prevalere su qualsiasi altra considerazione, come
la felicità o il benessere della comunità. La volontà umana è delimitata dal "dovere" o dalla
"legge". Kant nega la possibilità della metafisica come scienza, in quanto non conoscibile
oggettivamente, e distrugge la base su cui si fonda la felicità utilitaristica, come criterio
unificatore di ciò che è moralmente buono: non si può definire il bene come la
soddisfazione dei nostri desideri, poiché questi variano da persona a persona e dunque
non è possibile dare una definizione chiara ed inequivoca del bene. Perciò è necessaria
l’adozione di un "codice deontologico" che risulti universale.

Nell`ambito giornalistico, la deontologia professionale si consolida definitivamente dopo la


Seconda Guerra Mondiale. In seguito all’avvento delle dittature totalitarie, che
trasformarono i mezzi di comunicazione di massa come radio stampa e tv in potenti mezzi
di propaganda, diversi studi dimostrarono come ci stava allontanando dalla funzione
primitiva e primaria: informare. Nacque così il concetto di “diritto all’informazione”, il diritto
ad essere informati e a facilitare l´informazione che è stato incluso nella Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani.

Con l´instaurarsi delle democrazie liberali, la regolazione dell’attività giornalistica dal punto
di vista deontologico è diventata una questione di particolare rilevanza. Il famoso "Quarto
Potere" viene attribuito, nel Settecento illuministico, alla ”opinione pubblica” (public
opinion), o anche “sfera pubblica” (Öffentlichkeit), in quanto possibilità di esercitare una
funzione critica, specie nei confronti del potere in vigore. Si intendeva come potere di
controllo da parte di cittadini informati in modo imparziale dai mezzi di comunicazione,
divenuti imprescindibili per poter garantire la libertà e il controllo in democrazia.

Il codice deontologico applicato nell´ambito delle comunicazioni è, quindi, un fenomeno


moderno. Nel 1902, Joseph Pulitzer, preoccupato dal pericolo di un uso illiberale della
stampa creò la Scuola di Giornalismo presso la Columbia University di New York con lo
scopo di elevare la qualità del giornalismo e la dignità della professione, stabilire parametri
di performance, migliorare le relazioni con la società.

Nel 1942, il gestore della rivista Time, Henry Luce, decide di commissionare uno studio al
rettore dell’'Università di Chicago, il filosofo dell’educazione Robert Hutchins, che si
circonda di esperti in scienze sociali per indicare la funzione propria di una stampa libera e
responsabile nelle moderne democrazie. Dopo quattro anni di lavoro, nel 1947, la
Commissione Hutchins, chiamata anche “Commission on Freedom of the Press”, giunge
alla conclusione che la stampa gioca un ruolo fondamentale per la stabilità della società
moderna e dunque è necessaria una responsabilità sociale che deve essere imposta al
sistema dei mass media. Il documento descrive criticamente la situazione della stampa
negli Stati Uniti proponendo alcune soluzioni, tra cui l’intervento del governo.

In “The University of Utopia”, Hutchins scrive: "L’oggetto del sistema educativo preso nel
suo complesso non è di produrre manodopera per l’industria o insegnare ai giovani a
vivere. È di produrre cittadini responsabili”.

La relazione Hutchins ha portato a stabilire una sorta di dottrina, la teoria della


responsabilità sociale della stampa, una impostazione teorica che riflette l'enorme
influenza della stampa nell’orientamento dell’opinione pubblica a favore dei “padroni” dei
mezzi di comunicazione. Responsabilità dell’informazione significa anche attendibilità della
stessa, ma per garantire questa attendibilità è necessario l’intervento del governo e di una
specifica regolazione.

Nel 1978, l'UNESCO, consapevole della situazione di disparità del sistema informativo,
controllato dalle grandi corporations, affida a Sean McBride che, come Hutchins, si è
circondato di un certo numero di esperti del mondo della comunicazione, il compito di
stilare un nuovo rapporto con cui denunciare tutti i crimini di potere che violano l’etica e la
responsabilità sociale del giornalismo e definire i diritti e i doveri del giornalista.

Nella teoria della responsabilità sociale è implicita l’idea che i comunicatori, chiunque essi
siano, per poter veramente contribuire a stabilire un ordine stabile, devono servire la
causa dello sviluppo socio-culturale, fornendo alla popolazione uguali opportunità di
dialogo.

Il rapporto della Commissione MacBride - International Commission for the Study of


Communication Problems - reso pubblico nel 1980, notava come già all’epoca esisteva un
predominio monopolistico delle corporations che tendeva a favorire obiettivi di profitto
commerciale piuttosto che di sviluppo sociale e culturale. Per questo, proclamava che il
diritto alla comunicazione - incluso il diritto di espressione - deve essere riconosciuto e
difeso come inalienabile e indispensabile per la democrazia.

La libertà di espressione senza responsabilità, secondo il rapporto, è un modo per


distorcere la realtà, ma è anche inconcepibile un giornalismo senza libertà di espressione.
La relazione sancisce che non può esistere libertà senza responsabilità e invoca un
“giornalismo più vicino a fatti, processi o situazioni con il dovuto riguardo ai vari aspetti
della deontologia professionale".

Tra i doveri del giornalista, ci sono tre punti che si sovrappongono tra le due relazioni
(Hutchins-McBride): 1 - la responsabilità sociale dei professionisti, che comporta una serie
di obblighi per il pubblico; 2 - il rispetto del le leggi per evitare di violare i diritti dei cittadini;
3 - la necessità di assumersi la responsabilità del contratto con la società.

Entrambe le relazioni hanno segnato un punto di svolta per il lavoro dei giornalisti dal
punto di vista etico, cercando di imporre un nuovo modello nel mondo della comunicazione
internazionale. In seguito alla relazione McBride, sia i mezzi di informazione pubblici che
privati hanno iniziato ad assumersi una maggiore responsabilità coinvolgendo
professionisti della comunicazione nella prospettiva di fornire un servizio pubblico. E si è
cominciato a disciplinare maggiormente l'attività professionale.

Negli anni Ottanta si è raggiunto un periodo di relativa stabilità grazie alla consacrazione di
questi nuovi valori che hanno portato ad una revisione dei codici esistenti. Fino a giungere
negli anni Novanta, quando le dinamiche violente della globalizzazione, la minaccia del
terrorismo, il disgregarsi delle identità locali e nazionali, l’irrompere dei nuovi media come
Internet, la crescente specializzazione del lavoro, hanno portato ad una proliferazione di
codici deontologici e ad un processo di riforma dei codici che è tuttora in via di definizione.

In Italia, è in vigore la “Carta dei Doveri” del giornalista, un protocollo approvato l'8 luglio
1993 dal Consiglio Nazionale dell'Ordine dei giornalisti e dalla Federazione Nazionale
della Stampa, che sottolinea la responsabilità del giornalista, specificando che questi non
può sottostare ad interessi diversi: il giornalista è tenuto a rispettare direttive che
provengano solo dalle gerarchie interne alla testata, purché queste non contraddicano la
legge professionale, il contratto di lavoro giornalistico e la stessa Carta; inoltre, è tenuto ad
evitare le discriminazioni per razza, religione, sesso, condizioni fisiche o mentali e opinioni
politiche; sul fronte della privacy, deve rispettare il diritto alla riservatezza di ciascuno,
evitando la pubblicazione di informazioni private se queste non sono di evidente interesse
pubblico.

Riguardo le perversioni dell’infotainment, a causa della natura ibrida di tale genere e per il
suo passato relativamente recente, si evidenzia una totale mancanza di attenzione del
legislatore verso questo microcosmo mediatico, che risulta essere una sorta di zona
franca, priva di specifiche regolamentazioni.

Se, da una prospettiva mass-mediologica, anche i telegiornali, con il loro mutato modo di
fare informazione possono rientrare nel fenomeno dell’infotainment, da una prospettiva
giuridica tale estensione non è motivata, perché a tutti gli effetti sono registrati come
testate giornalistiche.

L'articolo 10 della legge 223/1990 ha esteso alle emittenti televisive e radiofoniche


l'obbligo di registrazione delle rispettive testate giornalistiche. La legge 223 ha distinto,
quindi, tra giornali televisivi e giornali radio da una parte e trasmissioni effettuate dalle reti
delle singole emittenti, che non fanno capo a testate registrate. Solo sui primi grava
l'obbligatorietà della registrazione.

In questo modo, il problema della responsabilità sociale dell’infotainment, dal punto di vista
etico-giuridico, non si pone neanche.

http://en.wikipedia.org/wiki/Hutchins_Commission

MacBride Commission Unesco

Looking at the MacBride Report 25 Years Later communicationforsocialchange

Diritto all'informazione - Wikipedia

Quarto potere Wikipedia

Testo unico della radiotelevisione

Decreto legislativo 31.07.2005 n° 177 , G.U. 07.09.2005

http://it.wikipedia.org/wiki/Normativa_della_stampa_e_dell%27editoria

Carta dei doveri del giornalista - Wikipedia

L’infotainment: il diritto che rincorre la contaminazione dei generi televisivi.

LA FUSIONE RECENTE DI CIRCO MEDIATICO, CETI POLITICI ED APPARATI


IDEOLOGICI UNIVERSITARI : UN COMMENTO”POLITICAMENTE SCORRETTO”
Arianna Editrice, 10-10-2008
In un mondo in cui anche l'agonia di una persona malata diventa spettacolo, un'emittente
televisiva incarica lo spregiudicato reporter Roddy di filmare l'agonia di Katherine
Mortenhoe, una scrittrice alla quale un medico ha diagnosticato un male incurabile.

Per assolvere l'incarico, il giornalista accetta di farsi trapiantare nell'occhio una protesi
contenente una minuscola telecamera e, ignorando che sono proprio le cure del medico la
causa della malattia della donna, raggiunge lo sperduto paese dove Katherine, non
sostenendo più la curiosità dei media, ha trovato rifugio.

Tra i due nasce una relazione sentimentale e quando Roddy scopre la verità sul medico
rifiuta di continuare ad essere strumento del network e si acceca interrompendo le riprese
in diretta.

«La Mort en Direct» di Bertrand Tavernier (Francia/G.B./Gemania, 1980) è una amara


riflessione sulla natura perversa dell’informazione-spettacolo, in particolare sulla invasività
del mezzo televisivo che pur di attirare l’attenzione del pubblico entra prepotentemente
nelle case ed invade quella che fino a poco tempo prima era l'inviolabilità delle mura
domestiche.

Si tratta di una meta-narrazione perché coinvolge anche lo stesso mezzo cinematografico:


il voyeurismo del reporter sullo schermo si confonde con quello dello spettatore in platea.

I panorami di Glasgow (splendidamente fotografati da Pierre William Glenn), cornice della


tragica fuga dei due protagonisti, ne amplificano la solitudine e restituiscono visivamente il
senso tragico di una malattia morale alla quale gli uomini sembrano ormai abbandonati.

La Mort en Direct

La dirigente tv Katy Courbet è alla caccia di una nuova idea che catalizzi l’attenzione dei
telespettatori, sempre più affamati di emozioni forti. Le viene così il colpo di genio: portare
sul piccolo schermo la roulette russa e sei concorrenti: cinque vinceranno 5 milioni di
dollari e uno perderà tutto, vita compresa.

Katy, assalita dalla febbre dello share, lotta con determinazione per difendere il format,
forzare le leggi e le interpretazioni della Costituzione, convincere gli inserzionisti
pubblicitari e vincere le resistenze dei dirigenti del network prima di riuscire a mandare in
onda lo show.

(“Live! - Ascolti record al primo colpo”, Bill Guttentag, USA, 2008)

La produttrice televisiva Kareen Webber ha costruito la sua fortunata carriera


trasformando gli eventi di tutti i giorni in straordinarie prime TV. Ora, il famoso reality show
che vede un gruppo di ragazzi comuni chiusi dentro una casa, “XCU”, sta perdendo share
e rischia di trasformarsi in un flop.

Il compito di Kareen è quello di portare all’estremo la situazione all’interno della casa. Ma


neanche lei sa quanto saranno estreme le situazioni che verranno a verificarsi…

(“Xtreme Close-Up”, Sean S. Cunningham, USA, 2001)


Cynthia Topping, direttrice del canale "True Tv", inventa un nuovo programma che spera
possa rialzare gli indici di ascolto da tempo in calo. Il programma consiste nel seguire e
riprendere, 24 ore su 24, la vita di una persona qualsiasi. Il fortunato è Ed Pekurney,
commesso trentenne in un videonoleggio di San Francisco.

Il reality show "EdTV" diventa il programma più visto degli Stati Uniti. Milioni di persone
seguono costantemente la vita di Ed, che diventa una celebrità. Ma questa celebrità ben
presto gli si ritorce contro, facendo diventare la sua vita un inferno.

(“EdTV”, Ron Howard, USA, 1999)

EdTV - Wikipedia

Sei concorrenti partecipano ad un reality show estremo in cui, provvisti di un’arma e


seguiti da un operatore, devono cercare di uccidersi a vicenda: all’ultimo sopravvissuto
andrà un milione di dollari.

“Sono incinta e per l’avvenire di mio figlio sono pronta a tutto” dice la campionessa in
carica, pronta ad uccidere anche l’ex fidanzato, artista bisex e malato.

Dawn, la campionessa in carica, è in attesa di un figlio ormai quasi sul punto di nascere.
La giovane, aggressiva e sguaiata, spaventa per la sua ferocia che le ha permesso di
ottenere otto mesi di incontrastata superiorità con ben dieci vittime al suo attivo.

Per lei è l’ultima serie prima di essere libera, ma la roulette le tira un brutto scherzo e
incrocia il suo cammino di omicida con il suo grande amore dei tempi del liceo, Jeff, artista
malato di cancro allo stadio terminale.

Il cerchio si chiude intorno agli ex amanti che si affrontano davanti ad una platea
cinematografica, presa incautamente in ostaggio.

(“The Contenders Series 7”, Daniel Minahan, USA, 2000)

Il reality show "Roulette Russa", un programma della BBC trasmesso nell’ottobre del 2003
da Channel 4, ha avuto un grande successo (quasi tre milioni di spettatori).

Il protagonista dello show, Derren Brown, un mago illusionista, è diventato una sorta di
mito televisivo in Inghilterra grazie ad altri programmi bizzarri come "Mind Control", nel
corso del reality ha chiesto ad uno spettatore di prendere un vero revolver a sei colpi
caricato con un solo proiettile; poi, si è puntato la pistola alla tempia e ha premuto il
grilletto varie volte fino ad arrivare alla camera che doveva contenere il proiettile; a quel
punto, ha puntato la pistola verso un bersaglio e ha sparato il colpo.

“Non c’è trucco, non c’è inganno”, ha dichiarato subito dopo la BBC, sottolineando anche
che Brown si era assunto la responsabilità legale di ogni rischio.

Channel 4, per evitare polveroni, ha trasmesso numerosi per avvertire il pubblico di non
provare a imitare Brown. La polizia temeva un possibile “effetto copycat”.

http://www.derrenbrown.co.uk/news/roulette
Truman Burbank, un ragazzo nella media, sposato con una sua ex compagna di scuola,
ha un lavoro sicuro e una vita tutto sommato noiosa.

Sogna spesso di lasciare la città, in cui è vissuto da quando è nato, per fare una vacanza
dall'altra parte del mondo. Ma una insana paura del mare dovuta ad un incidente durante
l'infanzia, durante il quale suo padre perse la vita, lo tiene incollato alla terraferma e al suo
paese (situato su un'isola).

Finché un giorno, alcune strane coincidenze ed eventi inspiegabili, ad esempio un riflettore


che cade dal cielo, lo spingono a pensare di essere vissuto in un mondo fittizio. Con varie
astuzie riesce ad averne la conferma: lui è al centro di un reality show e tutte le persone
che fanno parte della sua vita non sono che attori. La sua intera vita è di dominio pubblico
e le persone più care gli sono state strappate via dalla sceneggiatura, e non dal fato.

Truman decide di ribellarsi e architetta un piano per sfuggire al proprio “creatore”.

“The Truman Show” (Peter Weir, USA, 1998) è una lucida e amara rappresentazione,
tristemente profetica, del potere incontrollato della televisione e del notevole impatto che
da lì a breve avrebbero avuto i reality show, sempre più sovrapponibili alle soap opera,
della crescente invadenza del mezzo televisivo, nella sfera intima degli individui, poiché
sempre più ormai a fare spettacolo sono le vicende private di persone qualunque gettate
nell’arena mediatica e date in pasto al pubblico.

Il film di Weir non condanna solo il mezzo televisivo e i suoi manovratori, ma anche il
pubblico, che per anni segue ipnotizzato in tv le vicende di Truman, fa il tifo per lui durante
la sua fuga, ma in realtà solo perché vuole uno spettacolo più appassionante, mentre per
30 anni, ormai assuefatto allo spettacolo, non si è mai indignato per ciò che è stato fatto al
giovane, a sua insaputa.

Dietro l'apparenza di una commedia vivace e originale, il racconto presenta l'intreccio di


numerosi e complessi temi culturali ed elementi antropologici: l'essere umano nasce libero
ma poi è fatto prigioniero da una società che lo sfrutta e lo inganna; per questo è sempre
alla costante ricerca di libertà e di verità, che potrà conquistare solo prendendo
consapevolezza della sua condizione (risveglio, illuminazione) e superando le proprie
paure (come farà Truman nel film, quando supererà la paura per l'acqua e sfiderà
l'oceano).

http://it.wikipedia.org/wiki/The_Truman_Show

Il regista di “Live!”, Guttentag, osserva che il tema della morte come attrazione sportiva
non è nulla di nuovo. “Ci sono dei precedenti storici a cui fa riferimento il film - sostiene il
regista - le folle assistevano mentre la ghigliottina tagliava le teste della nobiltà in Francia,
mentre il Colosseo era pieno di gente che voleva vedere i leoni divorare i cristiani. Questa
fascinazione fa parte del film, perché una percentuale rilevante di persone pagherebbero
per vedere delle esecuzioni in televisione. La pellicola riflette una realtà che esiste
veramente là fuori”.

“Series 7 è una rivolta romantica e una black comedy critica sul meccanismo della
notorietà a comando – dice il regista Minaham – è il limite massimo di una civiltà che
vuole diventare protagonista dei media, per il gusto di riconoscersi”. “È come se tutti –
aggiunge la protagonista Brook Smith – girassimo con un cameraman alle spalle e i nastri
girati in supermarket, banche, metrò, ospedali, se mostrati, fanno impennare l’audience.
Ma a un certo punto è come la lotta dei gladiatori, nulla basterà più, ci vorrà la morte in
diretta”.

Queste parole riecheggiano quelle del teorico francese Andrè Bazin che nel saggio
“Ontologia dell’Immagine Fotografica” dice che l’uomo, guidato dal suo naturale impulso
psicologico a salvarsi dalla morte, cerca di ricrearsi un doppio nel cinema, garantendosi
così l’immortalità. Lo sviluppo tecnologico ha permesso di soddisfare e attuare questa
esigenza dell’uomo (prima con la fotografia e poi con il cinema): scampare alla morte
spirituale, legata alla memoria.

Ma l’uomo, che vuole immortalare, rendere autonoma, la vita, giunge, paradossalmente,


ad immortalare anche la morte (che è parte della vita stessa).

È morta Jade, star dei reality inglesi La Stampa 22 marzo 2009

http://en.wikipedia.org/wiki/Reality_television

“Rec: zombi di Spagna a misura di mass media”, mymovies, 30 agosto 2007

«Correte. Mio padre sta uccidendo mia madre». Il bambino biondo tiene gli occhi blu fissi
nel vuoto, lo sguardo allucinato. La mamma gli toglie la cornetta del telefono dalle mani e
rassicura la polizia all'altro capo del filo: non è vero, non accade nulla di terribile nel cuore
della notte, suo figlio è sonnambulo. I poliziotti vengono comunque a controllare. Quando
arrivano, tutto appare tranquillo. Nessuna traccia di violenza. Il bambino è già di nuovo nel
suo letto. Ha urlato ancora un paio di volte di terrore nel sonno, poi si è chetato.Quel
bambino sono io.

Un bambino, notte dopo notte, sogna la fine del mondo. Trenta anni più tardi, un terribile
sospetto scuote una città del Nord Italia: i bambini di una scuola materna accusano gli
adulti di azioni orribili. Ben presto, propagato da giornali e televisioni come una pestilenza
del nuovo millennio, il contagio della paura si allarga all'intero Paese. Tutta l'Italia si sente
minacciata dal Male. In molti cominciano a sussurrare il nome del Diavolo.

Il romanzo di Antonio Scurati, “Il Bambino che sognava la Fine del Mondo” (Bompiani),
segue passo passo uno di quei fatti di cronaca che scatenano la psicosi collettiva,
fagocitando lo spazio nei mass media, fino ad alterare la visione della realtà.

«Questa ossessione del male che ci perseguita, la spettacolarizzazione dell’orrore che


invade i mass media è, a mio parere, una sorta di regressione collettiva alle paure
dell’infanzia. Questa specie di epidemia che si sta diffondendo nel mondo occidentale e
colpisce soprattutto la mia generazione si manifesta, come negli incubi dei bambini, con la
difficoltà a distinguere tra ciò che è reale e ciò che non lo è».

Per rappresentare il “pavor nocturnus”, il terrore senza nome che può suggestionare i
sonni infantili, Scurati racconta, parallelamente alle vicende del professore via via più
invischiato nelle torbide vicende bergamasche, la storia di un bambino che, pur vivendo in
una famiglia unita e affettuosa e in un ambiente sereno, di notte diventa sonnambulo e
fugge dal fuoco distruttore o da altri incresciosi scenari che minacciano di travolgere lui e
la sua famiglia.
«Il ricordo infantile del terrore suscitato dall’ombra mostruosa di un male in agguato è
letteralmente autobiografico, ma nello stesso tempo gli assegno un valore metaforico,
perché questo morboso crogiolarsi nei fatti di cronaca nera che sta dilagando, questa
malsana curiosità di appropriarsi dei dettagli più raccapriccianti, mi sembra l’espressione
di un’irrazionalità primitiva, che si abbandona alla paura senza verificare quanto ci sia di
reale in queste minacce incombenti. La paura è un fantasma che mangia l’anima e,
soprattutto quando esplodono crimini odiosi come quelli sui bambini, l’opinione pubblica
perde la testa».

Una grande responsabilità, in questo smarrimento collettivo, è attribuita nel romanzo


all’influenza mediatica, in particolare della TV. «Indubbiamente la televisione è un
potentissimo strumento di cancellazione dei confini tra ciò che è reale e ciò che è fittizio»
dice Scurati, «a volte è difficile distinguere tra fiction e talk show, pensiamo a quelle
ricostruzioni dettagliate, addirittura con plastici e modellini, dei fatti di cronaca più
raccapriccianti. Se ci si rendesse conto fino in fondo che si tratta di un fatto vero, che
coinvolge persone reali, verrebbe da distogliere lo sguardo. Invece no, ci si intrufola con
indiscrezione per sapere tutto e poi parlarne con gli amici».

Come scrisse T.S. Eliot, "il genere umano non può sopportare troppa realtà". E la
televisione è iper-realtà senza tregua, che ci insegue sin nelle nostre notti insonni, una
riproduzione continua del mondo che ormai ha preso il posto del mondo stesso.

Se la tv è strumento di confusione, la letteratura, invece, dovrebbe indurre una presa di


coscienza: «La scrittura per me si pone come istanza non ideologica ma etica, nel senso
che si contrappone alla corruzione del proprio tempo. Parlando nel romanzo di
un’epidemia del Male non voglio dire che il nostro sia il tempo più malvagio, ma che è
incapace di raccontare il Bene, e di conseguenza ripiega sul Male. Prendiamo, ad
esempio, tante figure pubbliche di cui vengono a galla indegne mancanze che dovrebbero
suscitare reazioni di rigetto e invece continuano a circolare impunemente, perché non
esiste più un’idea condivisa di ciò che è male. Non esiste davvero più».

«Vi racconto l’orrore e le paure del nostro mondo», bambinicoraggiosi, 18 marzo


2009

Informazione e pregiudizi della cronaca nera criticamente 13 agosto 2007

Negli anni 1970 fu sviluppato il concetto di «panico morale» per spiegare come alcuni
problemi sociali siano iper-costruiti e generino paure esagerate.

I panici morali sono stati definiti come problemi socialmente costruiti caratterizzati da una
reazione sproporzionata all’effettivo pericolo, sia nella rappresentazione mediatica sia
nella discussione politica. Altre due caratteristiche sono state citate come tipiche dei panici
morali. In primo luogo, problemi sociali che esistono da decenni sono ricostruiti nelle
narrative mediatiche e politiche come «nuovi» (o come oggetto di una presunta e
drammatica crescita recente). In secondo luogo, la loro incidenza è esagerata da
statistiche folkloriche che, benché non confermate dagli studi accademici, sono ripetute da
un mezzo di comunicazione all’altro e possono ispirare misure politiche (Stan Cohen, “Folk
Devils and Moral Panics”, Basil Blackwell, Oxford 1972).

Il concetto di panico morale identifica delle “ondate emotive nelle quali un episodio o un
gruppo di persone viene definito come minaccia per i valori di una società; i mass media
ne presentano la natura in modo stereotipico, commentatori, politici e altre autorità erigono
barricate morali e si pronunciano in diagnosi e rimedi finche l’episodio scompare o ritorna
ad occupare la posizione precedentemente ricoperta nelle preoccupazioni collettive”
(Maneri, 2001: 14)

Secondo Philip Jenkins (un eminente studioso «costruzionista»), «la reazione di panico
non avviene a causa di una valutazione razionale della portata di una particolare
minaccia». Piuttosto, è «il risultato di timori non ben definiti che finiscono per trovare un
centro drammatico e semplificato in un particolare incidente o stereotipo, che quindi offre
un simbolo visibile per la discussione e il dibattito» (Philip Jenkins, “Pedophiles and
Priests. Anatomy of a Contemporary Crisis”, Oxford University Press, New York - Oxford
1996).

Jenkins sottolinea il ruolo nella creazione e gestione dei panici morali di «imprenditori
morali» che hanno interesse a perpetuare specifici timori. Tuttavia, mette in anche in
guardia contro il ritenere necessariamente «che programmi sinistri o segreti si nascondano
dietro questi processi». La costruzione sociale dei problemi è un processo troppo
complicato per essere attribuito interamente all’iniziativa di gruppi o lobby identificabili
come tali, quantunque il loro ruolo non vada sottovalutato.

I pericoli della musica rock, l’abuso dei bambini in generale e specificamente l’abuso da
parte di satanisti e di «preti pedofili», la presenza di hooligan tra i tifosi inglesi di calcio, i
serial killer, e molti altri problemi sono stati studiati come problemi socialmente costruiti e/o
panici morali. I panici morali hanno ai loro inizi condizioni obiettive e pericoli reali. Nessuno
sosterrebbe seriamente che i serial killer, i preti (e i non preti) pedofili, i padri (e le madri)
che commettono abusi non esistono, e l’Europa ha visto la sua parte di tifosi di calcio
violenti inglesi (e non inglesi).

Il satanismo contemporaneo – forse la categoria a proposito della quale si è parlato più


spesso di panici morali – è stato talora decostruito come un problema sociale interamente
inventato. Tuttavia, anche se non si sono trovate prove di una grande rete segreta di
satanisti impegnati su scala mondiale a cibarsi ritualmente di bambini, già alcuni anni fa
episodi in Scandinavia, in Italia e altrove mostravano che piccoli gruppi di reali (e talora
violenti) satanisti esistevano davvero.

I panici morali, tuttavia, si sviluppano quando i fenomeni sono presentati come nuovi
(mentre sono esistiti per decenni o secoli, eventualmente sotto altre forme e nomi), le
statistiche sono grossolanamente esagerate, e misure politiche drastiche sono invocate
sulla base di statistiche folkloriche.

Le «sette» e i «culti» sono spesso stati studiati come obiettivi tipici dei panici morali. Dice
Jenkins: «Le sette svolgono un’utile funzione integrativa offrendo un nemico comune, uno
straniero pericoloso contro cui la maggioranza si può unire e riaffermare i suoi valori e
credenze condivise. A seconda dell’ambiente legale e culturale di una data società, la
tensione tra le sette e la comunità maggioritaria può risolversi in persecuzione attiva o può
prendere la forma di ostracismo e creazione di stereotipi negativi».

Dopo l’11 settembre 2001 si è diffuso un altro panico morale: la pericolosa semplificazione
che vede in ogni musulmano un «fondamentalista» e in ogni fondamentalista un terrorista.
Pressoché ovunque le minoranze religiose diventano, più che un agente sociale (e meno
ancora una risorsa), un problema sociale e la materia di un panico morale.
Nessuno nega il reale pericolo del terrorismo islamico, che tuttavia non è solo un problema
legato all’Islam, o delle sette colpevoli di attività criminal, come nel caso degli orrori del
Tempio Solare. I panici morali partono da una base nella realtà, ma si amplificano
attraverso esagerazioni e statistiche folkloriche che tendono a generalizzare uno o più
incidenti particolari. Nel caso, ad esempio, degli stupri commessi da romeni, sebbene in
realtà siano solo il %, il sensazionalismo dei media ha l’effetto di far percepire all’opinione
pubblica l’intera etnia romena come responsabile di questi crimini creando un pericoloso
clima di odio razziale.

Un altro esempio di panico morale alimentato dal sensazionalismo mediatico è quello delle
Bestie di Satana. I media hanno cominciato a puntare i riflettori su quella che poi si è
rivelata essere una banda di giovani balordi, come ne esistono in diversi paesi del mondo,
snocciolando statistiche assolutamente inattendibili, parlando di diecimila, centomila,
cinquecentomila satanisti, quando in Italia i gruppi satanisti organizzati accertati, con
indirizzi, sedi, gerarchie, pubblicazioni, contano meno di duecento aderenti, mentre le
bande di balordi del satanismo «fai da te» radunano da duemila a cinquemila persone.

Secondo lo schema post-11 settembre – «tutti i musulmani sono terroristi» – si è dato per
scontato che «tutti i satanisti commettono omicidi» (quando la percentuale di satanisti
responsabili di omicidi, anche nei gruppi «fai da te», che sono i più pericolosi, negli Stati
Uniti è intorno all’uno per mille). Da qui, l’escalation tipica dei panici morali ha portato ad
affermare che «tutte le sette commettono crimini» e, occasionalmente, che «tutte le sette
sono sataniche, o simili a quelle sataniche», senza quasi mai fermarsi a cercare di definire
che cosa sia una setta e che cosa la distingua da una religione.

Stanley Cohen, autore del seminale “Folk Devils and Moral Panics” (1973), dice che il
panico morale si ha quando “una condizione, un episodio, una persona o un gruppo di
persone emergono per essere definiti come minaccia ai valori e interessi della società".
Coloro che decidono quando è il momento di cominciare a diffondere il panico sono
chiamati dagli studiosi gli “imprenditori morali”, mentre coloro che vengono visti come
minacce all’ordine sociale sono chiamati "folk devils" (diavoli folkloristici).

In “Policing the Crisis: Mugging, the State and Law and Order” (1978), Stuart Hall ha
studiato la reazione all’importazione del fenomeno americano chiamato “mugging” in
Inghilterra. Secondo Hall, l’ “equazione del tasso crescente di crimine” svolge una funzione
ideologica in relazione al controllo sociale. Le statistiche criminali sono spesso manipolate
per scopi politici ed economici. L’iniezione di panici morali, come quello per il mugging,
serve ad instillare nel pubblico un senso di insicurezza che viene sfruttato dagli
imprenditori morali per ottenere il consenso tramite la promessa di speciali misure anti-
crimine (in Italia ad esempio la destra ha sfruttato a suo vantaggio il panico morale creato
ai danni degli immigrati, in particolar modo dei “diavoli” romeni, promettendo un giro di vite
contro i clandestini).

I media giocano dunque un ruolo chiave in quella che Cohen chiama “la produzione
sociale di notizie”. Caratteristica di questa produzione sociale di panici morali è, tra le altre
cose, la volatilità: il panico tende a scomparire tanto velocemente quanto è apparso non
appena i media spostano l’attenzione su altri target, ma è sempre in agguato, pronto ad
essere richiamato o sostituito da nuove minacce.

Più in generale, la tecnica dei folk devils e del panico morale rientra in quella che è
chiamata la “cultura della paura”.
Il termine si riferisce alla percezione prevalente di paura e ansietà trasmessa dal discorso
pubblico e alla sua capacità di condizionare il modo in cui le persone interagiscono le une
con le altre, sia come individui che come soggetti democratici.

La tesi di fondo è che la paura porta alla violenza e la violenza alla paura.

Per molti, tra cui il linguista Noam Chomsky, il sociologo Barry Glassner, politici come Tony
Benn, filmmakers come Adam Curtis e Michael Moore, la cultura della paura è creata
deliberatamente, artificiosamente, per mantenere la popolazione in condizioni di
sudditanza psicologica verso il potere, quindi come strategia di controllo sociale
(allarmismo), mediante la manipolazione del linguaggio e delle notizie, in modo da indurre
certi comportamenti, giustificare azioni o politiche governative (interne o esterne), deviare
l’attenzione del pubblico.

La scrittrice Jennie Bristow sostiene che la cultura della paura emersa in seguito
all’attentato dell’11 settembre e ai successivi attacchi chimici con l’antrace non si fondava
su reali paure ma su paure fabbricate dai politici e riflesse del tutto acriticamente dal
sistema dei media. Le paure generate, secondo la Bristow, sebbene irrazionali, hanno
permesso di far emergere un rinnovato senso del patriottismo e giustificare azioni di
guerra anche in luoghi che non avevano niente a che fare con gli attacchi terroristici[3].

Per Zbigniew Brzezinski, ex consulente alla Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, il
termine “Guerra al Terrore” è stato creato deliberatamente per generare una cultura della
paura atta a “oscurare la ragione, intensificare le emozioni e rendere più facile ai politici
demagogici mobilitare l’opinione pubblica a sostegno di determinate politiche".

Lo scrittore Victor Klemperer ha descritto nel libro del 1947 “LTI - Lingua Tertii Imperii: The
language of the Third Reich: A Philologist's notebook” come il linguaggio della propaganda
nazista fosse improntato a costruire una cultura della paura su cui si reggeva un rigido
controllo sociale.

La versione grottesca di questo sistema si ritrova in “1984” di Orwell che descrive una
forma di governo distopica retta da un Grande Fratello che usa un linguaggio inventato
(“newspeak”) per controllare la cittadinanza.

Secondo Frank Furedi, professore di sociologia alla University of Kent in Inghilterra, che
ha fondato il Revolutionary Communist Party of Great Britain, autore di “Culture of Fear:
Risk-taking and the Morality of Low Expectations” (1997) e “Politics of Fear: Beyond Left
and Right” (2005), la cultura della paura è una sensibilità che emerge spontaneamente da
ogni angolo della società contemporanea. La sorgente del fenomeno, secondo Furedi, va
ricercata in ciò che chiama “il fallimento dell’immaginazione storica”, sintomo
dell’esaurimento dei sistemi politici che hanno caratterizzato il Ventesimo Secolo.

Nella visione di Furedi, vi è un senso universale di timore che preesiste e rafforza la


cultura della paura veicolata dai media che si limitano a sfruttare questa sensibilità
piegandola a fini politici. Alla produzione culturale della paura partecipano anche le voci
più liberali e anti-establishment che cercano consenso agitando vari spettri come ad
esempio la catastrofe ecologica, anche se più comunemente è l’establishment a trarne i
maggiori vantaggi.

http://www.cesnur.org/2004/mi_varese4.htm
Moral panic Wikipedia

panico morale

http://www.sociologia.unimib.it/wcms/file/materiali/2472.pdf

«Bestie di Satana» e bestialità mediatiche: come si alimentano i panici morali


CESNUR 2004

Culture of fear Wikipedia

War on Terrorism - Wikipedia

Newspeak

L’(AN)ESTETIZZAZIONE DELLA VIOLENZA

Un sito internet è diventato in breve tempo un cult grazie ad una spregiudicata "mostra di
atrocità", reali o virtuali è difficile dirlo. Un "segno dei tempi", una alternativa allo
sciacallaggio mass-mediatico messo in atto dalla "società dello spettacolo".

Fatto sta che le abominevoli atrocità esposte giornalmente sul sito, frutto per lo più di
sapienti fotomontaggi, ma anche nude e crude "oscenità" (il gioco è proprio quello di
rendere labili i confini tra vero e falso), hanno consentito al "pure evil" di rotten.com di
sbaragliare la numerosa e agguerrita concorrenza che usa la rete per pubblicare le
immagini più bizzarre ed "estreme".

Ciò che contraddistingue lo stile "rotten" è una buona dose di humour e sarcasmo, al di là
di ogni limite del buon gusto, rivolto proprio contro chi usa quotidianamente immagini
raccapriccianti di morte e sterminio per terrorizzare gli spettatori e nello stesso tempo
inchiodarli davanti al video per fargli il lavaggio del cervello.

È un modo per cercare di rendere grottesca e perfino ridicola la "mostra di atrocità" a cui
tutti siamo, consciamente e inconsciamente, sottoposti, e che contribuisce a narcotizzare
la reattività sociale, a sedare gli impulsi dionisiaci della massa, immobilizzata in poltrona a
"godersi lo spettacolo".

http://www.rotten.com/

Con estetizzazione della violenza, in campo artistico, televisivo e cinematografico, si


intende una “messa in scena” della violenza più o meno stilizzata.

Secondo l’esperta Margaret Bruder, docente di cinema all’Università dell'Indiana, i film che
seguono questo «registro stilistico eccessivo» sono ricchi di «immagini, giochi visivi, e
segni» che fanno riferimento a un intero apparato di convenzioni di genere, simboli
culturali e concetti chiaramente riconoscibili dagli spettatori (“Aestheticizing Violence, or
How To Do Things with Style”).

Secondo Joel Black, professore di letteratura dell’Università della Georgia, l’omicidio è tra
le azioni umane quella che più evoca l'esperienza estetica del sublime. «Se l'omicidio può
essere una forma d'arte, allora l'omicida è una sorta di artista la cui arte si manifesta quale
performance e la cui specificità consiste non nel creare, ma nel distruggere» (Joel Black,
“The Aesthetics of Murder”, Johns Hopkins University Press, 1991)

Donald Cammel, lo scrittore che ha creato il personaggio di Hannibal Lecter, un ex medico


dedito al cannibalismo, interpretato sul grande schermo da Anthony Hopkins, «considera
la violenza proprio come un’artista considera la pittura». Lecter è circondato da un’aura
magnetica che lo rende affascinante, attraente, erotico, e, insieme, spaventoso (Steven
Jay Schneider, “Killing in Style: the Aestheticization of Violence in Donald Cammell's White
of the Eye”, Institute of Film & Television Studies).

La commistione tra mostruosità e intelligenza, tra orrore e morbosità, tra eros e thanatos,
è una scelta estetica ben precisa che pesca nella tradizione della tragedia romantica, volta
a celebrare la morte come esaltazione della vita, come momento di estasi sublime.

Nei film “Il Silenzio degli Innocenti” (1991) e “Hannibal” (2001), i rispettivi registi, Jonathan
Demme e Ridley Scott, usano intenzionalmente un codice espressivo che mira a
sollecitare questo sentimento romantico di eccitazione per il tragico proprio nel momento
in cui Hannibal sta per uccidere (e mangiare) la propria vittima.

Si è parlato molto di estetizzazione della violenza per il film ”Kill Bill” di Quentin Tarantino.
Secondo Xavier Morales è un esempio originale, “un territorio che lascia senza fiato, in cui
arte e violenza si fondono in un’indimenticabile esperienza estetica». Secondo Morales,
«Tarantino riesce a fare esattamente ciò che Alex De Large, in “Arancia Meccanica” di
Stanley Kubrick, sta solo cercando di realizzare: ovvero, presenta la violenza come una
forma d’arte espressiva [...] essa è talmente fisicamente gratificante, così impressionante
visivamente ed eseguita con una tale meticolosità da sollecitare in profondità il nostro
istinto e le nostre reazioni emotive, minando e indebolendo perfino qualunque altra
possibile valutazione razionale. Tarantino riesce a trasformare un oltraggio alla morale in
pura bellezza estetica; [...] come tutte le forme d’arte, anche la violenza serve uno scopo
comunicativo che prescinde dalla sua valenza estetica».

Quando la protagonista, la Sposa (Uma Thurman) «si fa largo con maestria facendo
letteralmente a pezzi (con la sua spada da samurai) gli 88 folli, suoi antagonisti, è
evidente che essi rappresentano una sorta di tela su cui ella mette in scena la propria
vendetta: se per un artista è tipico esprimersi con il pennello e i colori, per lei è naturale
esprimersi con la spada e il sangue» (Xavier Morales, “Kill Bill: Beauty and violence”).

La critica rispetto all’estetizzazione della violenza cinematografica si divide in due fronti


contrapposti: da una parte, quelli che, come Morales, considerano l’esperienza estetica in
qualche modo catartica, quindi terapeutica, in grado di fornire la possibilità di
«un’accettabile sfogo di impulsi anti-sociali»; dall’altra, quelli che la ritengono un
espediente per far leva sulle paure e la morbosità degli spettatori, che finisce col
desensibilizzare verso la brutalità e aumentare le predisposizioni all’aggressività.

I primi sostengono che le scene cruente e scioccanti del grande schermo “non sono
violenza reale, e non dovrebbero mai essere confuse con essa”, che “i film violenti sono
rappresentazione, intrattenimento, spettacolo, una metafora drammatica, o una catarsi
necessaria, simile a quella provocata dal teatro elisabettiano» o, risalendo ancora più
indietro, da quello greco. Che «si tratta di pura fantasia, di una pura sollecitazione di
sensazioni, che si basa su un proprio preciso codice, su alcune specifiche leggi estetiche,
e una particolare storia».
La Bruder propone, saggiamente, una distinzione tra la violenza in qualche modo
estetizzata, quindi trasfigurata, e l’uso indiscriminato, spesso gratuito, di scene
sanguinarie e cruente come quelle che abbondano nei film di guerra e d’azione. “Per
violenza estetizzata”, dice, “non si può intendere un semplice uso eccessivo della
violenza”. Per esempio, in fillm d’azione come “Die Harder” ci sono scene molto violente,
che «non rientrano nella violenza estetizzata perché non seguono quel preciso codice
stilistico» (un codice che viola le normali regole di montaggio e di regia improntate al
realismo). Si ricorre spesso, per esempio, ad un «montaggio veloce e azzardato […] a
inquadrature improbabili ed eccessive», o al ralenti per enfatizzare l’impatto di un proiettile
o lo zampillio del sangue (un esempio sono i film di John Woo). Gli spettatori traggono
piacere estetico dal fatto che questi espedienti espressivi sono chiaramente riconoscibili
come elementi stilistici spettacolari (Steven Jay Schneider, “New Hollywood Violence
(Inside Popular Film)” , Manchester University Press, 2004).

Il dibattito si può far risalire ai tempi di Platone e Aristotele. Il primo proponeva di mettere
al bando i poeti, in quanto la loro capacità di creare descrizioni esteticamente piacevoli dei
comportamenti immorali avrebbe potuto corrompere la mente dei giovani. Secondo
Platone, soprattutto la rappresentazione poetica della tragedia, non mediata dal pensiero
filosofico, poteva rappresentare un pericolo per lo spirito e per la comunità, poiché in
grado di provocare e alimentare i disturbi psichici, o un generale stato patologico. Essa
infatti induce uno stato di sogno, ovvero una condizione in cui la capacità di critica è
assente e nella quale ci si perde annegando in uno stato di dolore, afflizione, rabbia e
risentimento (Charles Griswold, “Plato on Rhetoric and Poetry”, Stanford Encyclopedia of
Philosophy, 2003).

Al contrario, Aristotele sosteneva che il continuo ricorso alla musica, al teatro e alla
tragedia poteva servire come occasione agli individui per liberarsi delle proprie emozioni
negative. Alla fine della “Politica”, egli fa riferimento alla catarsi, ovvero al potere
terapeutico dell’arte, facendo l’esempio di un brano musicale che susciti paura o
compassione: coloro che lo ascoltano possono essere “posseduti” da queste emozioni
negative; tuttavia, in seguito, queste persone tornano al proprio stato normale,
sperimentando perfino un senso di piacevole sollievo, proprio come se fossero state
sottoposte a cure specifiche e a trattamenti purificanti. Allo stesso modo, la musica può
anche dare occasione di sperimentare una gioia semplice e pura (Teddy Brunius,
“Catharsis”, Dictionary of the History of Ideas).

Tragedia - Wikipedia

Romanticismo - Wikipedia

Estetizzazione della violenza - Wikipedia

The Ecstasy of Hyperrealism

HOSTEL

“Arancia Meccanica”, il film capolavoro del 1971, scritto, diretto e prodotto da Stanley
Kubrick, tratto dal romanzo omonimo di Anthony Burgess, è un esempio magistrale di
meta-estetizzazione della violenza, perché è un film che mette in scena la violenza in
modo altamente stilizzato e allo stesso tempo propone una profonda riflessione su di essa.
L’impianto narrativo, inserito sullo sfondo di un’Inghilterra futuribile (circa il 1995 come
poteva essere immaginato nel 1965), segue la vita di Alex, il leader di una gang di
adolescenti (baby-gang diremmo oggi, ndr). Alex è appassionato di musica classica e
nutre un amore viscerale per le sinfonie di Ludwig van Beethoven. È anche un amante del
linguaggio, del quale fa un uso creativo e originale, mescolando schegge di lingue slave e
orientali allo slang di strada, in un guazzabuglio che ha quasi del poetico. Alex e i suoi tre
“drughi”, cioè Pete, Georgie e Bamba, si divertono ad affogare la solitudine delle notti
metropolitane in flussi sempre più massicci di “ultraviolenza”: ogni sera ripetono il “gioco
della sopraffazione”, un vero e proprio rituale, a far le spese del quale sono,
indiscriminatamente, ragazze, uomini, vecchiette, barboni o nuclei familiari.

Nessuno può dirsi al sicuro, quando i quattro sono per strada. Ma la vita ha in serbo
diverse sorprese per Alex. Dopo il tradimento dei suoi stessi sodali, finisce in prigione ed
entra in contatto con un mondo ancora peggiore di quello che ha imparato a conoscere
per strada. Alex accetta così di sottoporsi al “Trattamento di Redenzione”, una innovativa
metodologia psicoterapeutica per la riabilitazione dei criminali, una esperienza che
cambierà per sempre il suo futuro…

Secondo Alexander Choen, l’ “ultraviolenza” (nel senso di violenza oltre sé stessa) del
giovane protagonista «rappresenta il punto di rottura stesso di una cultura […] I membri
della gang perseguono una violenza futile e decontestualizzata quale mero intrattenimento
e quale fuga dal vuoto della distopia della società a cui appartengono».

Choen afferma che nell’ultraviolenza si riflette “la violenza della moderna tecnologia” - tra
cui anche il cinema stesso - che distorce, amplifica la percezione della violenza fino al
punto di renderla un “innocuo passatempo”.

La scena dell’uccisione della donna nella sua stessa casa (oggi diremmo della “rapina in
villa”, ndr) è, secondo Choen, «la scena di una morte estetizzata»: l’ambiente è pieno di
opere d’arte che esprimono una forte sessualità ma anche un senso di sottomissione.
Essa, rappresenta la «lotta tra l’arte colta che ha estetizzato la violenza e il sesso quale
forma d’arte autonoma, e l’indiscutibile e perfetta supremazia post-moderna
dell’immagine» (Alexander J. Cohen, “Clockwork Orange and the Aestheticization of
Violence”).

Nel saggio del 1986 “A Clockwork Orange Resucked”, Burgess chiarisce cosa voleva
intendere con quel misterioso titolo (tradotto come “arancia meccanica”): un clockwork
orange è una creatura che può solo fare il bene o il male», ovvero, un organismo vivente,
come un’arancia, ridotto ad un giocattolo a molla, pronto ad essere caricato da «Dio, dal
Diavolo o dallo Stato onnipotente» per far scattare la propria violenza proprio come un
congegno ad orologeria (clockwork).

"Il titolo sarebbe adatto ad un racconto sull'applicazione delle leggi di Ivan Pavlov, ovvero
meccaniche, ad un organismo che, come un frutto, era capace di esprimere colore e
dolcezza", scrive Burgess nel saggio “Clockwork Oranges”, alludendo alla “cura Ludovico”
che condiziona artificiosamente le reazioni di Alex ai sentimenti del male, tanto da
impedirgli l'esercizio del suo libero arbitrio.

Il personaggio di Alex è intelligente e sa esprimersi in modo appropriato, ama la musica


classica (soprattutto Ludwig Van Beethoven) ed è più colto - sicuramente - della media dei
quindicenni. Solo, si diletta nel delinquere e nel commettere atti di violenza sessuale con
una sconcertante "innocenza".

“Alex è veramente malvagio”, scrive Burgess, “a un livello forse inconcepibile, ma la sua


cattiveria non è il risultato di un condizionamento teorico o sociale, è una sua impresa
personale in cui si è imbarcato in piena lucidità”. Di qui l’inevitabile distinguo tra Alex e
qualsiasi esponente di un’organizzazione politica e/o criminale tramandataci dalla storia.
L’ultraviolenza di Alex non è guidata da nessuna ideologia, da nessuno scopo, se non
quello puro e semplice del gusto della sopraffazione. La violenza vera è quella logica,
totale, assoluta, esercitata da chi comanda per soddisfare la propria sete di potere. Alex
vive in un mondo fascista, i cui governanti non si fanno scrupolo di ricorrere ai suoi servigi
per i propri scopi.

La “cura Ludovico” a cui Alex accetta di sottoporsi è una forma di terapia dell'aversione, in
cui al paziente viene somministrato un farmaco che induce nausea estrema mentre per
due settimane è costretto a guardare film particolarmente violenti, apologetici della
violenza, come una pellicola nazista che contiene - fra l'altro – la Nona di Beethoven tanto
amata da Alex: egli supplica i ricercatori di far cessare la musica, ma non viene esaudito.
Al termine del trattamento, Alex non può neppure rappresentarsi con la fantasia gli atti
violenti, senza essere colto da irrefrenabile devastante nausea (come effetto collaterale, la
medesima reazione lo affligge anche se ascolta la Nona).

Alex comprende di non provare più alcun piacere per l' "ultraviolenza" e, ormai
“normalizzato”, comincia a desiderare una compagna, dalla quale poter avere un figlio.

Arancia Meccanica - Wikipedia

Rapina da arancia meccanica Famiglia aggredita in casa La Stampa 17/4/2009

Scene kubrickiane nella villa di Posillipo notiziarioitaliano 17-04-2009

Un film del 1978 distribuito dalla TROMA ai primi degli anni 80, dopo essere stato bandito
da diversi paesi a causa della violenza estrema presente in tutta la pellicola, narra di una
compagnia di spettacolo, guidata dal dottor Sardu, che offre ad un pubblico dal palato
piuttosto ricercato, esibizioni di violenza pura e torture senza limiti. Naturalmente il
pubblico ritiene che si tratti di finzione, ma la realtà è ben diversa.

«Snuff film depict the killing of a human being - a human sacrifice (without the aid of
special effects or other trickery) perpetuated for the medium of film and circulated amongst
a jaded few for the purpose of entertainment » (David Kerekes e David Slater, “Killing for
Culture: Death Film from Mondo to Snuff”)

L’estetizzazione o presunta tale della violenza raggiunge il culmine estremo nei film che si
rifanno al genere cosiddetto “snuff”: video amatoriali realizzati sotto compenso in cui
vengono mostrate torture realmente messe in pratica che culminano con la morte della
vittima.

L'espressione è stata usata per la prima volta nel film del 1976 “Slaughter”, poi
ridenominato “Snuff”, di Michael e Roberta Findlay. Gli autori del film fecero circolare la
voce che la scena finale del film, in cui una donna veniva torturata e uccisa, fosse una
ripresa di fatti reali, addirittura organizzando alla prima visione finte manifestazioni contro il
loro stesso film. La diffusione della notizia diede un notevole impulso al successo
commerciale del film e contribuì a creare la consapevolezza dell'esistenza di un potenziale
mercato, pur sommerso ed illegale, per questo genere di produzioni.

Il termine snuff è sempre stato fonte di controversia. Esistono innumerevoli casi di morte in
diretta che sono stati associati al genere, tra i più noti, il suicidio di Budd Dwyer o
l'omicidio di Emilio Nunez, tutti filmati di pubblico dominio. Non esistono filmati pubblici
definibili snuff; lo stesso dicasi per alcuni serial killer i quali hanno dichiarato di aver filmato
i propri omicidi, (Armin Meiwes, Charles Ng, Jeffrey Dahmer) non a scopo di lucro, ma per
trarre ulteriore gratificazione futura dalle loro gesta.

Quello che fa di un filmato di un'uccisione uno snuff è che le vittime verrebbero uccise solo
e proprio per fare la ripresa e non per altri motivi. Nello snuff non si ha alcuna
estetizzazione della violenza bensì una bestialità oscena, nuda e cruda, senza
motivazioni, tesa a sollecitare un godimento sado-masochistico del tutto emotivo, orrore
allo stato puro. Anche nel caso di falsi snuff, la messa in scena tenderà a far sembrare le
riprese il più possibile realistiche e ugualmente insensate.

L’importante, tanto per lo snuff vero e proprio quanto per le sue copie, è che lo spettatore
sia convinto di stare assistendo alla ripresa di una morte in diretta.

Una delle più massicce indagini sul tema fu effettuata nel 1994 dai giornalisti David
Kerekes e David Slater senza alcun ritrovamento concreto. A seguito delle ricerche venne
pubblicato il libro “Killing for culture: Death Film from Mondo to Snuff” che documenta le
innumerevoli produzioni cinematografiche – documentari, thriller, horror, fino agli splatter
più truculenti - che si sono ispirate agli snuff mettendo in scena torture mortali.

Il caso più clamoroso risale al 1985, quando uscì in Giappone la serie “Guinea Pig”, una
serie di cortometraggi horror estremi composta da pellicole a sé stanti senza alcun filo
conduttore, tra cui “Flowers of Flesh and Blood” (“Za ginipiggu 2: Chiniku no hana”) di
Hideshi Hino, un film senza trama, senza titoli di apertura, ritraente un uomo vestito come
un grottesco samurai e una donna sedata, legata a un letto, che successivamente viene
mutilata e smembrata. Il tutto girato su una vecchia pellicola graffiata, dall'aspetto vissuto,
con effetti speciali visivi e sonori di prim'ordine, per farlo sembrare vero all'occhio più
inesperto.

Nel 1988, il ventisettenne Tsutomo Miyazaki comincia una serie di efferati omicidi che
culmineranno un anno dopo e gli meriteranno il titolo di “The Vampire Killer”: uccide 4
ragazzine fra i 4 e i 7 anni replicando alcune scene della sua sterminata collezione di
video e fumetti. I poliziotti trovarono più di 6000 videocassette a casa del folle. Un omicidio
dei quattro replicava alcuni momenti di “Flower of Flesh and Blood”. Tsutomo, dopo attento
esame, venne reputato immaturo, incapace di comprendere la differenza fra il bene e il
male, addirittura insicuro sui veri confini fra vita e morte.

Nel 1991, il regista del primo film della serie, Satoru Ogura, per diletto personale decide di
fare una compilazione del peggio della serie, contenente le scene più hard, intitolata
“Slaughter Special”, iniziando a distribuirne copie tra amici e collezionisti, innescando così
un meccanismo a macchia d'olio che fece arrivare la raccolta fino agli Stati Uniti nelle mani
di Chas Balun, un attore di cinema horror ed esperto di effetti speciali, il quale, entusiasta
della visione, cominciò a distribuire autonomamente il video. Nel 1997, una copia giunse al
noto attore Charlie Sheen, il quale, inorridito dalla visione e credendo che si trattasse di
filmati reali, si affrettò a contattare immediatamente l'MPAA che a sua volta passò il video
all'FBI, che era già al corrente di tutto. Il boato creato dal divo americano si concluse così
in una bolla di sapone.

Il regista Hideshi Hino, dichiarò però di aver ricevuto nel 1985 un pacco anonimo da un
fan, contenente una bobina 8mm, 54 foto e una lettera di 19 pagine contenenti commenti
ad un crimine passato realmente commesso e filmato con lo scopo di farlo circolare tra
una ristretta cerchia di adepti con certe perversioni. Dopo la visione, il regista non esitò a
denunciare il tutto alle autorità. Se è vero, a meno che il regista non sia stato raggirato a
sua volta, si tratterebbe di un vero snuff.

Gli Stati Uniti non furono gli unici a cascare nella trappola: nel 1992, la Svezia dovette
ricorrere al parere di un coroner e di altri esperti per decidere se continuare o meno
un'indagine su Guinea Pig. in Gran Bretagna, Christopher Berthoud finì nei guai in seguito
a una ispezione doganale che scoprì una videocassetta con Flower of Flesh and Blood: il
giovane venne arrestato per detenzione di video snuff e, nonostante nel corso del
processo un gruppo di esperti giudicò il filmato come un falso snuff, giudicato colpevole e
condannato a pagare una multa di 600 sterline invece della prigione.

Nel 2003, su uno dei tanti siti di filmati online (tra i quali lo scomparso Ogrish.com), fece la
sua comparsa un misterioso video ritraente una donna bionda sulla trentina, seduta su
quella che sembra una sedia a rotelle, che viene improvvisamente colpita da un colpo di
pistola alla fronte; dopo lo sparo, una nuca femminile compare nello schermo, e così
finisce. Pochi mesi dopo, si scoprì che la donna bionda non era altri che Carla Solaro,
attrice erotica italiana, nelle vesti di Michelle, protagonista del film “Snuff killer - La Morte in
Diretta” del regista Bruno Mattei: il filmato era stato estrapolato dal trailer promozionale,
prima della sua distribuzione ufficiale.

Guinea Pig (serie) - Wikipedia

(…) la totalità divina è legata alla trasgressione della legge che fonda l’ordine degli esseri
frammentari. Gli esseri frammentari che sono gli uomini si sforzano di perseverare nella
frammentarietà. Ma la morte, o almeno la contemplazione di essa, li riconduce
all’esperienza della totalità (…).

George Bataille, “L’Érotisme” (tr. it. a cura di Andrea Dell’Orto, ES, Milano 1991, p.82).

L’essere nella sua interezza è accessibile all’uomo solo nella trasgressione dei suoi limiti,
nell’eccessivo piacere e dolore, oppure nella rappresentazione drammatica di quegli
eccessi, cioè nella letteratura, nel sacrificio cruento, nelle immagini dotate del potere di
sconvolgere: nel concetto di erotismo tragico questi stati emozionali così intensi trovano la
loro unificazione.

L’ultima opera di Bataille, “Le Lacrime di Eros” (“Les Larmes d’Eros”, tr. it. a cura di Alfredo
Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1995) è un tentativo, mai portato a termine, di
realizzare una storia universale tramite le immagini più cariche di erotismo tragico, dai
graffiti preistorici passando per le pitture greche e romane, i medievali, i fiamminghi, Goya,
i manieristi, fino ai surrealisti ed alla fotografia: alla fine di quest’opera, commentando dei
clichés fotografici, donatigli da Borel ai tempi dell’analisi, che rappresentano un uomo
torturato a morte (il celebre suppliziato cinese sottoposto alla pena detta dei cento pezzi),
Bataille afferma:
“Questa è secondo me l’inevitabile conclusione di una storia dell’erotismo (..…) l’istante in
cui evidentemente gli opposti sembrano legati, in cui l’orrore religioso, dato, come
sapevamo, nel sacrificio, si lega all’abisso dell’erotismo, agli ultimi singulti che l’erotismo
illumina”.

Il sacrificio è per Bataille caratterizzato dalla morte, la quale – quasi heideggerianamente –


non è mai la mia morte, è sempre quella altrui. E con la morte si torna ad essere una
goccia nell’acqua, si ritorna all’immanenza, riconfluendo nell’insieme magmatico in cui
tutto è tutto.

Sicchè, il sacrificio, la violenza, la morte, l’erotismo, la congiunzione di Eros e Thanatos, è


la porta che reintroduce nell’immanenza.

L’erotismo è il momento in cui l’essere discontinuo muore per far vivere un altro essere
discontinuo: non è un caso che in francese “orgasmo” si dica “petite morte”, cioè “piccola
morte”. Nell’atto erotico si smarrisce il principio di individuazione: tanto l’erotismo quanto il
sacrificio implicano la morte.

In definitiva, il sacrificio è un rifluire nell’Uno-Tutto: ma nella consapevolezza che, in


un’ottica del paradosso, si tratta di un riflusso impossibile e al tempo stesso necessario.

http://it.wikipedia.org/wiki/Film_snuff

Pedofilia sadica

Video in rete di bambini torturati

Pedofilia e torture on line

Torture Porn La gioia del sangue che schizza

Quei bimbi uccisi e torturati nuovo orrore in Colombia... trovate le ossa di venticinque
vittime torna l'incubo delle sette sataniche... Fabio, Chiara e i diari dell'orrore "Voglio
nutrirmi col tuo corpo"... Busto Arsizio due supertestimoni raccontano i riti della setta
"Dovevano bere il sangue per diventare Bestie di Satana"... L'agghiacciante confessione
"Mentre la uccidevamo la suora pregava per noi"... Nigeria, scontri a Yelwa centinaia di
morti... Ancora decine di cadaveri da identificare tra le 192 vittime viaggio tra i corpi
senza nome... Strage in chiesa a Monrovia "1000 morti nell'assedio"... Strage per errore:
ai tradizionali spari per festeggiare, un elicottero USA ha risposto col fuoco... Iraq, strage
al matrimonio oltre 40 morti molti bambini... Guardia forestale fa una strage uccide
moglie, suocera e medico... Genova, giovane donna sgozzata... Camper travolge
pasticceria due morti e quattro feriti... Ancona, tir piomba su un camper muore donna,
gravi due bambini... Incidente sulla A14, giovane mamma deceduta sul colpo i piccoli in
rianimazione... Donna carbonizzata in auto... Tenta di uccidere la moglie "Sei posseduta
dal demonio"... Bagdad strage di reclute kamikaze fa 35 vittime... Inondazioni in India
centinaia di morti... Sangue sulle strade fra i morti una bimba di un anno... Ucciso a colpi
di machete... India incendio in una scuola oltre cento bimbi morti... USA uccisi e
decapitati tre bambini di Baltimora un poliziotto: "Mai vista una scena così in tutta la mia
vita"...
Il 16 settembre 2004, un'indagine sulla tv italiana condotta da 100 esperti, tra medici,
psicologi e psicopedagogisti, dell'istituto di ricerca Eta Meta Research, ha documentato
come il piccolo schermo sia dominato da contenuti violenti: addirittura ogni 4 minuti il
telespettatore viene costretto alla visione di di immagini e scene di manifesta o subliminale
violenza: in media, su 120 ore di trasmissioni in onda quotidianamente sulle reti nazionali,
si assiste ad un uccisione ogni 35 minuti e ad un ferimento ogni 18 minuti. Si è inoltre
sottoposti ad esplosioni (una ogni 20 minuti), alla visione di armi (ne compare una ogni 7
minuti), ad una manifestazione violenta ogni 11 minuti, ad una scena di battaglia ogni 15
minuti e ad una minaccia ogni 9. A questo si aggiungono le varie forme di violenza verbale
(presenti con una percentuale di uno ogni 5 minuti) con urla (33%), insulti (28%), e risse
verbali (21%).

Questa tv fa male: immagini violente, urla, toni ansiogeni provocano stress, insonnia,
addirittura attacchi di "angina pectoris" (attacco cardiaco). A rischio bambini (39%),
cardiopatici (34%), anziani (21%). I più pericolosi sono risultati, per il 45% degli esperti, i
reality show: gare, sfide, privazioni, come quelli trasmessi dall' "Isola dei Famosi", esaltano
tensione e aggressività. Seguono i TG (29%), e i talk show (26%) in cui vincono
prevaricazioni, risse e insulti.

“Assistere alla violenza in televisione può causare una ridotta considerazione del dolore e
della sofferenza altrui, una minore preoccupazione per la violenza nella società e una
maggiore disponibilità a tollerarla” (Gabrio Forti, “La Televisione del Crimine Atti del
Convegno La Rappresentazione Televisiva del Crimine”, Vita e Pensiero Edizioni, 2005).

In modo simile, i videogame violenti producono indirettamente una desensibilizzazione e,


sul lungo periodo, una diminuita capacità di empatia.

"La televisione è la sorgente della più grande quantità di immagini e messaggi condivisi
della storia... La televisione coltiva fin dall’infanzia le predisposizioni e le preferenze che
prima venivano acquisite da altre fonti primarie... I pattern ripetitivi dei messaggi e delle
immagini prodotte in massa dalla televisione formano il principale flusso di un ambiente
simbolico comune (che diventa coscienza collettiva)… La televisione è un medium di
socializzazione che produce ruoli e comportamenti standardizzati. La sua funzione è, in
una parola, l’acculturazione".

Secondo la “teoria della coltivazione”, o dell’ “incubazione culturale” - una teoria degli
effetti che studia le conseguenze della televisione sulla popolazione, sviluppata negli anni
‘70 dal professor George Gerbner, decano della Scuola di comunicazione Annenberg
presso l'Università della Pennsylvania, che tra gli anni '60 e '70 svolse vari studi e
esperimenti - la televisione non ha effetti specifici ed immediati sugli spettatori ma produce
un effetto cumulativo che porta lo spettatore a vivere in un mondo che somiglia a quello
mostrato dal teleschermo.

La tesi fondamentale della teoria attribuisce al mezzo televisivo la capacità di fornire allo
spettatore, dall’infanzia all’età adulta (per questo si parla di coltivazione), una percezione
distorta della realtà, una unificazione (omologazione) che diventa visione del mondo
comune e condivisa: gli spettatori vivono in un mondo televisivo che scambiano per quello
reale.

Con la massiccia presenza in tutto il mondo di un palinsesto televisivo globalizzato, la


teoria della coltivazione indica la televisione come uno strumento di omogeneizzazione
culturale globale, in cui i messaggi televisivi formano un sistema coerente che crea la
corrente principale del nostro modo di pensare ("mainstream of culture").

http://en.wikipedia.org/wiki/Cultivation_theory

Secondo la “teoria della disibinizione” di Leonard Berkowitz, l’aggressività viene regolata e


repressa naturalmente. Una eccessiva esposizione ad un immaginario violento, fruito
tramite il cinema o la televisione, può però indebolire la naturale capacità inibitoria,
portando al rilascio di aggressività nel momento in cui la violenza viene percepita come
accettabile (Berkowitz L., “Advances in Experimental Social Psychology”, Vol. 10 & 19,
New York, Academic Press, 1977; 1986).

Il professor Bruce Bartholow, dell’Università del Missouri, interessato al campo della


desensibilizzazione emozionale, ha pubblicato uno studio sul Journal of Experimental
Social Psychology in cui dimostra che la violenza simulata nei videogiochi ha un effetto
"anestetizzante" nei confronti della percezione di violenza reale vista in fotografia o inflitta
ad un avversario virtuale.

L’intrattenimento violento virtuale (“violent entertainment”) produce l’ "anestetizzazione" di


ogni sensazione: ci abituiamo a tutto perché tutto è in qualche modo privo di senso. La
stessa violenza - a forza di essere esibita e manifestata - non viene neutralizzata, ma si
trasforma in una cosa tra le tante: uno dei fenomeni più diffusi nell'ambito di ciò che si
suole chiamare "trash", è l'esibizione di abbondanti schizzi di sangue - ovvero di una
violenza degradata - e, nel genere cosiddetto splatter, vengono addirittura mostrate tutte le
viscere. In tal modo ci si abitua alla violenza e la si comincia a considerare come normale.

Molti di coloro che producono questo tipo esperienza estetica, attribuiscono alle loro opere
una funzione critica ed affermano che queste ultime servono a mostrare la spietatezza
della società. In realtà l'esibizione della violenza ci porta ad accettare il mondo così com'è.

La televisione ci fa illudere che le situazioni da essa mostrate non ci riguardino mai.


Paradossalmente, tale anestetizzazione ci abitua a delle esperienze a cui non abbiamo
mai partecipato. In questo modo tutto diventa comico, turpe e vergognoso senza che ne
riceviamo alcun danno: la continua e onnipervasiva visibilità fa sì che ci si possa sempre
considerare spettatori.

Violent video games alter brain's response to violence New Scientist 12 dicembre
2005

Splatter - Wikipedia

Giulio Ferroni “Che cos'è il trash?” Enciclopedia Multimediale delle Scienze


Filosofiche 26 12 1997

Cannibali: ascesa e caduta della generazione pulp 24sette 22-06-2006

http://it.wikipedia.org/wiki/Pulp_(genere)

THE HORROR PICTURE SHOW La Nuvola 17 maggio 2006

Youth violence puts the spotlight on mass media CNN 26 marzo 1998
Violence in the Mass Media Kirsten Ostherr, Assistant Professor, Department of
English, Rice University 18 gennaio 2005

La studentessa di filosofia Kathleen viene assalita una sera da una bellissima donna
nerovestita. Kathleen è reduce da una lezione sui lager nazisti e i germi del nichilismo
sono dentro di lei. Sta di fatto che la donna la morde sul collo, lasciandole due piccole
ferite.

Ben presto Kathleen scopre di star male: sente dei malesseri, non riesce più a studiare, ha
un'incomprensibile voglia di sangue e si ritrova a battere le strade di New York, alla ricerca
di vittime. Comincia per lei una vita fatta di violenza (dedita al vampirismo) e alla continua
ricerca del sangue (come per i tossicodipendenti la ricerca della "roba"). Emblematica la
scena in cui la Taylor si inietta del sangue con una siringa.

Dopo essere stata "educata" a vivere stando in astinenza (da un Christopher Walken in
gran forma), ritorna in un certo senso alla sua vita normale, tanto che si laurea e organizza
una grande festa che fa da preludio allo sconvolgente finale.

(“The Addiction”, Abel Ferrara, USA, 1995)

Abel Ferrara ha detto del film: "È una tragedia morale in un contesto vampiresco. Non ho
mai pensato a The Addiction come a un film di vampiri. Mi sono piuttosto riferito alla
dipendenza che tutti noi condividiamo, alla fascinazione che proviamo nei confronti del
male e della violenza e che sembra scorrerci nelle vene".

Sono state compiute numerose ricerche sugli effetti della rappresentazione della violenza,
che sono state a loro volta raggruppate e confrontate in rassegne e studi comparativi. Le
ricerche hanno messo in evidenza numerosi effetti negativi derivanti dall'assistere a
spettacoli violenti, fra cui i principali appaiono: - aumentata accettazione della violenza
come mezzo appropriato per la risoluzione dei conflitti; - desensibilizzazione ai danni-
sofferenze sperimentate dalle vittime della violenza; - aumento della propensione al
comportamento aggressivo; - degradazione della rappresentazione della realtà sociale
(percepita come minacciosa, pericolosa, in cui la violenza è continuamente presente).

Le ricerche sperimentali si sono volte in particolare a studiare l’aspetto più critico, cioè
l’induzione ad un aumentato comportamento aggressivo. In quest’ambito hanno quasi
sistematicamente indicato che la violenza televisiva produce effetti a breve termine sulle
tendenze aggressive degli spettatori. Solo pochi esperimenti hanno dato indicazioni
opposte o hanno mostrato risultati incerti.

Il ricorso a ricerche longitudinali ha cercato di documentare gli effetti anche a lungo


termine. I risultati conseguiti da Eron, i più noti e rilevanti, anche perché concernenti un
arco temporale di 10 anni, sono stati confermati da altre ricerche e sono accettati da una
larga parte di studiosi, ma sono stati messi in discussione da altri

Berkowitz e Eron sono forse i più eminenti tra quelli che sostengono che i dati mostrano
chiaramente la dannosità su più piani dell’assistere a scene di violenza.

Research on the Effects of Media Violence


Albert Bandura, fondatore dell’indirrizzo di studi “social learning” (apprendimento sociale),
secondo cui gli esseri umani apprendono mediante osservazione e imitazione del
comportamento altrui, nel 1961 condusse l’esperimento noto come “Bobo Doll Experiment”
per indagare i processi dell’apprendimento sociale del comportamento aggressivo nei
bambini piccoli.

I partecipanti furono 72 bambini e bambine dell'asilo della Stanford University con un età
compresa tra i 37 e i 69 mesi, a cui si aggiunsero 24 bambini come gruppo di controllo.
Metà dei bimbi partecipanti furono esposti, separatamente, alla visione di un adulto che
agiva comportamenti aggressivi nei confronti del Bobo doll, un pupazzo gonfiabile, mentre
l’altra metà assistette ad agìti non aggressivi nei confronti dello stesso pupazzo.

Alla fine della fase di esposizione, lasciati da soli, i bambini esposti alla condizione
aggressiva esibirono comportamenti aggressivi fortemente imitativi di quelli osservati
nell’adulto. Inoltre risultò chiaramente come i bambini maschi fossero più inclini a
comportamenti aggressivi fisici rispetto alle femmine che anche quando sono aggressive
lo sono più che altro verbalmente e questo riflette la natura del genere.

L’esperimento fu ripetuto nel 1963 sottoponendo i bambini alla visione via video e i risultati
mostrarono una influenza minore rispetto all’osservazione diretta. In un'altra versione
dell’esperimento, nel 1965, Bandura notò che se i bambini assistevano dopo le scene di
violenza anche ad un rimprovero o ad una punizione per quegli atti tendevano ad essere
meno propensi ad imitarli.

Il ché significa che esiste una dipendenza reciproca tra educazione e condizionamenti.

Social Learning Theory (Bandura)

Secondo Rowell Huesmann, "" (Huesmann, L.R, and Laramie D Taylor, "The Role of
Media Violence in Violent Behavior", Annual Review of Public Health, 2006). Le teorie a
riguardo sono molteplici. C’è chi ritiene che esista una predisposizione genetica, chi
chiama in causa la psicologia evoluzionaria.

Per gli “apocalittici”, l’esposizione prolungata a contenuti violenti, sul lungo termine porta
all’acquisizione e all’elaborazione di tratti aggressivi, di schemi di interpretazione
aggressivi, di visioni aggressive del mondo e del comportamento sociale,
desensibilizzando gli individui agli stimoli violenti (Anderson, C.A., Berkowitz, L.,
Donnerstein, E., Huesmann, L.R., Johnson, J.D., Linz, D., Malamuth, N.M., & Wartella, E.,
“The influence of media violence on youth”, 2003).

Sebbene organizzazioni come l’American Academy of Pediatrics e l’American


Psychological Association dichiarino che migliaia di studi (3500 secondo l’AAP) hanno
confermato il collegamento esistente tra esposizione a violenza mediata e comportamenti
aggressivi, gli “integrati” rispondono che le prove portate da queste ricerche sono
inconsistenti e che non è possibile dimostrare un collegamento diretto con comportamenti
criminali.

Secondo la teoria di McQuail (2002), la violenza presentata dai media, specie dalla
televisione, è codificata dalla mappa cognitiva dello spettatore e mantenuta in seguito alla
visione in forma di idee, pensieri e comportamenti aggressivi (Wartella, E., Olivarez, A. &
Jennings, N. (2002). "Children and Television Violence in the United States", in Denis
McQuail (ed.), McQuail’s Reader in Mass Communication Theory, Sage: London).

Una ricerca condotta Boyatzis, Matillo and Nesbit (1995, in Gunter and McAleer, 1997) per
investigare le reazioni dei bambini alla visione della popolare serie Power Rangers ha
mostrato come gli stili di gioco dei bambini in seguito alla visione di un episodio della serie
diventassero più aggressivi (Gunter, B. & McAleer, J., “Children and Television”,
Routledge: London, 1997) cercando di riprodurre certe scene a cui avevano assistito.

Uno studio recente ha mostrato come la televisione non solo può essere dannosa per lo
sviluppo mentale e comportamentale del bambino ma può causare anche disturbi di
iperattività e deficit di attenzione e a fenomeni come la pubertà precoce.

Troppe ore trascorse davanti alla tv possono avere serie ripercussioni anche di carattere
fisico oltreche psichico, con gravi conseguenze permanenti a carico del sistema nervoso e
neuroendocrino.

Per quanto riguarda la condizione di iperattività associata a carenza di attenzione, a cui è


stato dato il nome di “sindrome ADHD”, una diagnosi molto discussa e criticata sulla base
della quale vengono somministrati, ora anche in Italia, psicofarmaci ai bambini, secondo le
stime ufficiali (contestate dalla campagna Giù le Mani dai Bambini”, sostenuta dalla Rai e
dal quotidiano nazionale La Stampa), in Italia, l’ADHD colpirebbe fino a 8 bambini su 100
in età scolare, con il conseguente mercato di psicofarmaci che in base alle ricette di
quattro regioni (Veneto, Liguria, Toscana e Piemonte) sarebbero prescritti all’1,7 per mille
dei giovanissimi, in particolare nella fascia d’età tra i 14 e i 18 anni.

Attenti alla tv: i rischi per i più piccoli terranuova 20 arzo 2009

La televisione e la famiglia Larry e Susan Kaseman luglio-agosto 1993

Karl Popper in "Cattiva Maestra Televisione", analizzando i contenuti dei programmi e gli
effetti sugli spettatori televisivi, giunge alla conclusione che il piccolo schermo sia
diventato ormai un potere incontrollato, capace di immettere nella società ingenti dosi di
violenza.

La televisione cambia radicalmente l'ambiente e dall'ambiente così brutalmente modificato


i bambini traggono i modelli da evitare. Risultato: stiamo facendo crescere tanti piccoli
criminali. È necessario interrompere questo meccanismo che tende inesorabilmente a
peggiorare per una sua legge interna, quella dell'audience, che Popper formulava più
famigliarmente come legge dell' « aggiunta di spezie » che servono a far mangiare cibi
senza sapore che altrimenti nessuno vorrebbe.

La televisione raggiunge una grande quantità di bambini, più di quelli che neppure la più
affascinante maestra d'asilo riesce a vedere nell'arco di una vita. Conta più dell'asilo e
della scuola materna; si trova a fare il mestiere della maestra, ma non lo sa. Per questo è
una cattiva maestra.

I produttori di tv, fanno business, cercano l'audience, lavorano per primeggiare nello show,
vogliono più pubblicità, hanno come fine l'intrattenimento delle masse, e invece hanno
messo su un gigantesco asilo d'infanzia, più importante, influente, seducente di tutti gli
asili e le scuole del mondo.
Il filosofo austriaco si pone il problema di cosa fare, proponendo una patente per fare
televisione, così come per i medici esistono, nei Paesi civili, organismi attraverso cui essi
si auto-controllano. Altrimenti si avranno giovani sempre più disumanizzati, violenti ed
indifferenti.

«Nella televisione il vedere prevale sul parlare, nel senso che la voce in campo, o di un
parlante, è secondaria, sta in funzione dell' immagine, commenta l'immagine. Ne
consegue che il telespettatore è più un animale vedente che non un animale simbolico.
Per lui le cose raffigurate in immagini contano e pesano più delle cose dette in parole. E
questo è un radicale rovesciamento di direzione, perché mentre la capacità simbolica
distanzia l'homo sapiens dall' animale, il vedere lo riavvicina alle sua capacità ancestrali,
al genere di cui l homo sapiens è specie»

In “Homo Videns”, Giovanni Sartori si avvicina molto alle posizioni di Popper: i bambini
guardano la televisione per ore e ore, prima di imparare a leggere e a scrivere. Data l'alta
quantità di violenza che appare sugli schermi televisivi, i bambini vi si abituano e diventano
da adulti più violenti, ma quello che il bambino assorbe è non solo violenza ma anche un
"inprint", uno stampo formativo tutto centrato sul vedere.

«Certo è che la televisione, a differenza degli strumenti di comunicazione che l'hanno


preceduta (fino alla radio), distrugge più sapere e più capire di quanto trasmetta». Perché,
insiste Sartori, «il prevalere del visibile sull'intelligibile porta a un vedere senza capire»

Il bambino multimedializzato di domani avrà un io disintegrato, disfatto in personalità


multiple e quindi nevrotico. I genitori dovrebbero correre ai ripari ma, purtroppo, non
costituiscono più una struttura di autorità: sono anch'essi ex video-bambini.

"Mentre la realtà si complica e le complessità aumentano vertiginosamente, le menti si


semplicizzano e noi stiamo allevando un video-bambino che non cresce, un adulto che si
configura per tutta la vita come un ritornante bambino. E questo è il malpasso, il malissimo
passo, nel quale ci stiamo attorcigliando".

I bambini da soli di fronte alla televisione non sono ancora capaci di distinguere la realtà
dalla finzione. "Sono allontanati non solo dalla curiosità di ascoltare fiabe, raccontate dai
genitori e qualche volta dai nonni, ma anche”, come sostiene Pietro Boccia in
“Comunicazione e Mass Media” (Zanichelli), “dalla possibilità di abituarsi ad una sana e
corretta lettura".

Se i direttori dei palinsesti ed i consiglieri delle reti televisive ritengono di poter continuare
a trasmettere programmi ad alto tasso di violenza ed a basso contenuto pedagogico ed
informativo, con la scusa di dare alla gente quello che vuole, essi dimenticano che
dovrebbero mettere da parte la logica dell'audience e far valere i principi della democrazia.
Infatti, in democrazia tutti dovrebbero avere uguali possibilità di sviluppo della propria
unicità e diversità. La cattiva televisione rischia invece di provocare uno scadimento
collettivo delle coscienze critiche di un paese: vale in questo caso il detto “il sonno della
ragione genera mostri”.

http://en.wikipedia.org/wiki/Bobo_doll_experiment

LA TELEVISIONE E LA VIOLENZA
La violenza in TV

CHILDREN AND MEDIA VIOLENCE

Youth violence puts the spotlight on mass media CNN 26 marzo 1998

MEDIA, VIOLENCE, YOUTH, AND SOCIETY worldandi luglio 1994

LA TELEVISIONE COME INQUINAMENTO MENTALE Fili d’Aquilone gennaio-marzo


2007

TV VIOLENTA IN DIRETTA SULLA CNN Repubblica 03 agosto 1993

Violent TV, games pack a powerful public health threat University of


Michigan 27 novembre 2007

Video Games Desensitize to Real Violence psychcentral 28 luglio 2006

Media influence - Wikipedia

Media Violence - Wikipedia

SARTORI Quant' e' cieco l' "homo videns" Corriere 24 ottobre 1997

Nell’articolo “The aestheticization of suffering on television” (2006), Lilie Chouliaraki


analizza alcuni fotogrammi di una scena di guerra per mostrare le “strategie di mediazione
televisiva”, che trasformano in notizia “la forte tensione e l’intensa sofferenza umana insite
in un combattimento aereo”. Secondo la Chouliaraki, il bombardamento di Baghdad
durante la guerra in Iraq del 2003 è stato filmato in campo lungo e con una forte
connotazione narrativa per far leva su un’ “estetica dell’orrore” e sulla “bellezza
inquietante” della scena, che si traduce a livello subliminale in un messaggio a favore della
guerra stessa.

Il 13 novembre 2001, il New York Times pubblica tre fotografie realizzate da Tyler Hicks
vicino a Kabul, qualcosa di simile a uno snuff movie costituito da foto.

Il triste destino di un soldato talebano è raffigurato da tre scatti in sequenza, le tre


fotografie potrebbero benissimo essere tre frame di un video che si conclude con la morte
di quest‘ultimo. Nella prima immagine, ironicamente, non possiamo capire chiaramente se
il soldato sia sostenuto o spinto dagli altri che lo circondano; il volto del soldato rimane
sempre impassibile nella seconda fotografia, ma il punto di vista di Hicks ed il modo in cui
viene tirata la camicia dell’uomo fanno presagire quello che la terza immagine ci rivela
nella sua oscenità.

Il momento è proprio quello dell’uccisione e l’obiettivo del fotografo non si opacizza di


alcuna pietà, il grandangolo sembra voglia mostrare più ancora di quanto il corpo inerme
possa già lasciarci intendere: le braccia allargate, il viso rivolto all’indietro verso coloro che
lo stanno uccidendo, dalla parte opposta rispetto al fotografo, le nude gambe ricoperte di
sangue, i piedi avvolti in pesanti stracci a sottolineare l’impossibilità di fuga.
Vedere le cose-che-stanno-accadendo ci dà la sensazione di leggere il mondo come un
libro aperto. La coincidenza del fatto e della sua immagine induce a confondere la mappa
con il territorio; l’inerenza del vero all‘oggetto identifica l‘immagine con ciò che essa
rappresenta, che perde qualsiasi trascendenza, esaurendosi in se stessa. Sarebbe questa
l’allucinazione-limite di quella che Debray definisce come “era visiva”: confondere vedere e
sapere (Regis Debray, "Vita e Morte dell’Immagine. Una Storia dello Sguardo in
Occidente", Il Castoro, Milano 1999).

(…) La fotografia d’arte demoltiplica l’opera unica, ma la buona istantanea del fotoreporter
è a sua volta unica. Se ha disincantato l’immagine manuale, l’apparecchio fotografico ha
reincarnato l’evento tramite il “documento sensazionale”. Il meraviglioso, macchinico è lo
scoop: non più il non-visto bensì il “mai visto”, l’istante che non si rivedrà due volte (…) (R.
Debray, op. cit.). Ma a fotografie come quella di Hicks, probabilmente, ci si può assuefare
per la continua riproposizione da parte dei media di immagini che non riescono a superare
l’oscenità del loro contenuto, fino al limite paradossale del loro trasformarsi in immagini
“già viste”.

Queste costituiscono oggi la fonte dei nostri discorsi sulla realtà della guerra, questa
quantità di parole è resa necessaria per sopperire alla mancanza simbolica e alla loro
intercambiabilità: cessato il mutismo dell’immagine si moltiplicano i discorsi della
comunicazione. Dall'idolo all'idolo, sarebbe allora questa la carriera dell'immagine in
Occidente, avendo l' "arte" fatto da intermezzo tra due idolatrie. La prima, per eccesso di
trascendenza; la seconda, la nostra, per difetto.

(…) In regime di idolo, l'immagine, declinazione del prototipo divino aveva troppo di "on":
era come schiacciata dal sacro che incombeva su di essa o la attraversava. In regime di
visivo, di "off", l'immagine non ne ha più a sufficienza: essa procede alla propria
consacrazione (…) (R. Debray, op. cit.).

Sacra è l'immagine che rimanda a qualcosa che non è se stessa, qualcosa che sta al di là
di ciò che i nostri occhi semplicemente possono "vedere", o sopportare di vedere, sacra é
quindi quell'immagine che supera la stessa sfera del visibile per protendersi verso la
dimensione dell'invisibile, poiché lo sguardo non sta semplicemente nella retina. La
desacralizzazione dell'immagine, il fatto sovrapposto all'immagine la priva della sua insita
parte di segretezza: scopre un velo sotto al quale non rimane neppure il vuoto della morte
come alterità.

Il visibile si sostituisce allo stesso fatto, esso diventa l'evento, l'attualità; ci si allontana
progressivamente dall'invisibile, ciò che non si dà a vedere. Si arriva al punto di poter
confondere il non mostrato con l'assenza stessa. Dall'immagine, che necessita in quanto
tale di un'alterità a cui alludere, si passa così al puro visivo: esibendo l'oscenità della
morte se ne annulla la trascendenza.

L'immagine nasce nella morte, proprio di questo essa si nutre sin dalla sua infanzia,
incarnandosi in forme differenti, lo si legge nella parola stessa ed in tutte quelle ad essa
legate. Immagine deriva da “imago”: la maschera funeraria, tratta dal calco in cera che
veniva fatto ai cadaveri, custodita inizialmente dal magistrato che la conservava durante la
cerimonia funebre e la teneva poi in casa. Essa veniva in seguito affidata ad amici e
parenti o addirittura acquistata dagli ammiratori del defunto (Goethe possedeva quella di
Schiller, Liszt quella di Beethoven e Gide quella di Leopardi).
Simulacrum è prima di tutto spettro. Figura è fantasma, come anche la parola Idolo deriva
da Eidolon, il fantasma dei morti, anch'esso spettro. Rovesciando però le parti, come
Bachelard affermava ne "La Terre et les Rêveries du Repos", la morte è prima di tutto
immagine e resta immagine. L'invisibile si può rivelare così nella maschera che lo
rappresenta, ciò che ci sfugge si può cogliere, per esempio, nell'istante di arresto catturato
dallo scatto fotografico.

Regis Debray arriverà a definire la storia dello sguardo, in Occidente, come appendice di
quella della morte. Come l’immagine pittorica, così pure anche quella fotografica si
confronta con la morte molto presto.

Roland Barthes, individuando nella fotografia tre differenti pratiche - fare, subire e
guardare - definisce "operator" il fotografo, "spectator" colui che subisce la fotografia e
nomina il referente "spectrum". L’oggetto fotografato è ciò che è in grado di richiamare il
fantasma, ciò che evoca “il ritorno dei morti”. Estendendo a qualsiasi immagine fotografica
questo concetto, Barthes giunge ad affermare che la morte sia l’intenzione della fotografia;
trasformarsi in sola immagine, raggiungere quella condizione dove la distanza fra oggetto
e soggetto si assottiglia sempre di più senza mai però annullarsi, esporre l’immobilità di un
viso, sono la morte stessa (R. Barthes, "La Camera Chiara. Nota sulla Fotografia",
Einaudi, Torino, 2003).

Immagini nella Morte

"Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione" (Guy
Debord, “La Società dello Spettacolo)

Secondo Walter Benjamin, la produzione di massa tipica della modernità ha distrutto i


tradizionali modi di esperienza.

La distruzione dell’ “aura” – dell’originalità, della autenticità, della unicità dell’opera d’arte -
attraverso la riproduzione tecnica di massa “distrugge i tradizionali modi di esperienza
tramite shock”, creando lo spazio per nuove forme di esperienza.

Benjamin descrive questo processo come la trasformazione dell’ “Erfahrung”, l’esperienza


integrata, tipica dell’arte antica, che si sedimenta nel tempo e si deposita nel ricordo, nell’
“Erlebnis”, ossia la riduzione dell’esperienza ad una serie di immagini e di pensieri solo
parzialmente registrati e destinati ad essere dimenticati, incapace di integrare il sé e il
mondo.

L’esperienza tipica della modernità (che poi è la postmodernità), come ad esempio andare
in giro per una metropoli ed essere sottoposti ad un bombardamento di messaggi di ogni
tipo: è la frammentazione e la disintegrazione dell’esperienza stessa.

L’Erlebnis secondo Benjamin è in particolare la forma del tardo-capitalismo, l’esperienza


che media le relazioni umane attraverso lo scambio di beni materiali, le merci, ed è
caratterizzata da astoricità, ripetizione, conformismo.

Prendendo in esame nuove forme artistiche come la fotografia e i cinema, Benjamin


afferma che nella riproduzione fotografica di un’opera viene a mancare un elemento
fondamentale : “l’hic et nunc dell’opera d’arte, la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo
in cui si trova”.
Il declino, il ”venir meno” dell’aura (Verfall der Aura) determinato dall’avvento dei mezzi di
riproduzione tecnica delle opere, è il sintomo, secondo Benjamin , di un più vasto
mutamento ”nei modi e nei generi della percezione sensoriale”.

Fine dell’aura significa fine di quell’intreccio tra lontananza, irripetibilità e durata che
caratterizzava il nostro rapporto con le opere d’arte tradizionali, e avvento di una fruizione
dell’arte basata sull’osservazione fugace e ripetibile di riproduzioni.

Originariamente, le opere d’arte erano parte inscindibile di un contesto rituale, prima


magico e poi religioso (i sacrifici, i riti di passaggio, la celebrazione delle divinità, i riti
misterici); la loro autorità e autenticità, la loro aura, era determinata proprio da questa
appartenenza al mondo del culto, alla sacralità del rito. In forme secolarizzate,
l’atteggiamento rituale e culturale nei confronti dell’arte è poi trapassato nelle forme
profane del culto della bellezza, che nasce nel Rinascimento e dura fino alle ultime derive
del Romanticismo (la tragedia, la poesia, l’arte figurativa). L’avvento della riproducibilità
tecnica e la sua diffusione mediante la fotografia segnano per la prima volta la possibilità
di emancipare l’arte rispetto all’ambito del rituale: venendo meno i valori dell’unicità e
dell’autenticità, consegnando le opere d’arte ad una fruizione e creazione di massa, una
nuova valenza politica si sostituisce al valore cultuale (Kultwert), mentre progressivamente
aumenta il valore espositivo (Ausstellungswert), ovvero la trasformazione dell’arte in
merce.

Nella fotografia però la dissoluzione del valore cultuale in favore del valore di esponibilità
non è ancora completa, in quanto l’aura mantiene una sua ultima forma di sopravvivenza
nel ”volto dell’uomo”. Non è un caso che le prime fotografie siano state soprattutto dei
ritratti, miranti a fissare e a tramandare nel tempo l’identità e lo sguardo dei soggetti
fotografati: “Nell’espressione fuggevole di un volto umano, dalla prime fotografie, emana
per l’ultima volta l’aura. È questo che ne costituisce la malinconica e incomparabile
bellezza”. Il profondo legame tra l’immagine fotografica e l’unicità del soggetto
rappresentato nell’hic et nunc del suo essere rappresentato, e quindi il legame tra
immagine, temporalità e morte – viene meno con il cinema (e con la televisione).

La rappresentazione cinematografica, a differenza di quella teatrale, è fatta di mediazione,


differimento, scomposizione: le azioni che ci si presentano nella loro sequenzialità sono
girate in momenti diversi, ciò che vediamo è il risultato di una serie di scelte legate
all’inquadratura e al montaggio. A differenza del pittore – che è come un mago nel
mantenere la distanza tra sé e ciò che è oggetto della rappresentazione e nel conferire
un’autorità auratica alla rappresentazione stessa - l’operatore cinematografico è come un
chirurgo: penetra nelle immagini, le frammenta, le scompone, ne ridefinisce la sequenza,
finendo per eliminarne l’aura.

Benjamin sottolinea come il cinema, a differenza della pittura, non consenta un


atteggiamento puramente contemplativo, fatto di esaltazione e rapimento. Quella del
cinema non è una fruizione fatta di raccoglimento ma una fruizione “distratta” in cui lo
spettatore non si perde nell’opera, ma si mantiene in un atteggiamento nel quale piacere e
giudizio critico coesistono senza limitarsi a vicenda. Il cinema, in altre parole, si allontana
dal naturalismo e dall’illusionismo teatrale e consente di conservare la “distanza” e lo
“straniamento” che erano al centro, negli stessi anni, della riflessione sul teatro di Brecht.

La capacità di ridefinire il rapporto tra l’arte e le masse aperta dal cinema, dunque, risiede
per Benjamin nella possibilità di una fruizione collettiva nella quale la critica non è
soffocata da una forma di devozione cultuale nei confronti dell’immagine. Avendo perso
con l'aura il suo carattere di sacralità, ovverosia il suo aspetto cultuale, l'arte del '900, per
Benjamin, si pone l'obiettivo di cambiare direttamente la vita quotidiana delle persone,
influenzando il loro comportamento: l'arte cioè assume un ruolo in senso lato politico.

In conclusione, riconducendo la riflessione sull’arte a una finalità prettamente politica,


Benjamin risponde infatti all’estetizzazione della politica e della guerra proposte dal
fascismo, e condivise da futuristi come Martinetti, sostenendo la necessità di una
“politicizzazione dell’arte” proprio a partire dal potenziale rivoluzionario e democratico del
cinema.

Purtroppo, le cose sono andate in modo ben diverso: il passaggio dell’arte dalla sfera del
sacro e del rito a quella della politica e della comunicazione di massa non ha affatto
favorito una rivoluzione democratica ma ha finito per conferire nuove forme di potere nelle
mani dei tecnocrati capitalisti che controllano l’industria culturale.

Dall’estetizzazione della politica si è passati all’(an)estetizzazione della violenza, mentre


della politicizzazione dell’arte resta solo il ricordo sempre più annebbiato dei grandiosi
esperimenti fallimentari condotti dalle avanguardie del Novecento.

In definitiva, la desacralizzazione dell’arte ha permesso s’ all’arte di penetrare in tutti gli


ambiti culturali (politici, sociali, economici, scientifici), come predicavano le avanguardie,
ma ciò non si è tradotto in una liberazione bensì in una nuova forma di oppressione, una
dittatura delle immagini senza aura che domina incontrastata la “società dello spettacolo”.

L’esperienza mediata (Erlebnis) ha fagocitato quella reale (Erfahrung) impossessandosi


delle menti e delle anime della massa, ridotta a poltiglia cerebrale da un continuo elettro-
shock visivo, una porno-tortura psichica infinita, un’iper-straniamento, il delitto perfetto .

Straniamento - Wikipedia

WALTER BENJAMIN L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

LA SOCIETA’ DELLO SPETTACOLO

LA PRIVAZIONE DEL SENSO

L’immagine è finzione. Un'immagine è sempre l'immagine di qualcosa che somiglia a


qualcosa. Tutte le immagini sono rappresentazioni, simboli, simulacri.

Le apparenze ingannano. Ciò che appare non corrisponde mai a ciò che è. L’apparire
delle forme delle cose non corrisponde mai all’essenza, alla “cosa in sé”.

La realtà che percepiamo non è la vera realtà ma è quella che ci restituiscono i nostri
sensi, è il nostro “senso della realtà”: una realtà mediata, virtuale, illusoria, ricoperta dal
velo di Maya.

La “realtà reale”, la natura ultima della realtà, è troppo complessa, articolata, troppo
dinamica, mutevole, per essere colta dai sensi. È una realtà soprasensibile, indescrivibile
a parole, inconoscibile mediante i sensi e la “ragione pura”.
Per questo motivo è fondamentale coinvolgere nel processo conoscitivo le facoltà critiche
della “ragione pratica”, attivare l’intuizione, il “sesto senso”, trascendere l’illusoria realtà
materiale e concorrere alla costruzione del senso della realtà.

Trasformando la realtà virtuale percepita dai nostri sensi in una realtà spettacolo che
ottunde i sensi e ingabbia lo spettatore, limitando le sue capacità di elaborazione e
interazione, i mass media minano, distorcono, manipolano, continuamente e
sistematicamente, il processo di costruzione collettiva della realtà.

La perenne ricerca di sensazioni forti come lo sgomento, la paura, l’orrore, presentate in


maniera del tutto acritica, è volta catturare violentemente l’attenzione dello spettatore e a
mantenerlo in una condizione di sospensione delle facoltà critiche (“estasi della
comunicazione”) per poi procedere al bombardamento di messaggi pubblicitari, che
equivale ad un “lavaggio del cervello”, e alla creazione di un pubblico zombie, privato della
capacità di discernere il bene dal male, il bello dal brutto, il vero dal falso.

Il sensazionalismo si sostituisce al sensualismo, restituendoci un’immagine della realtà


completamente artificiale, priva di contenuto, una forma pura, del tutto priva di senso.
Un’immagine senza immaginazione. Un’estetica della sparizione.

What we call reality is just a state of mind Guardian 20 marzo 2009

“Il mitologema è un materiale mitico che viene continuamente rivisitato, rimodellato e


plasmato, come un fiume di immagini senza fine” (K. Kerenyi, “Prolegomeni allo studio
scientifico della mitologia”, trad. it. A. Brelich, Boringhieri, Torino, 1983).

I mass media si sono sostituiti a quella che un tempo era la “funzione trascendente” del
mito. Le narrazioni mitiche servivano a mettere in contatto gli individui con i significati più
profondi della vita umana, come la nascita e la morte, il senso del destino, del trascorrere
inesorabile del tempo, del cambiamento personale verso la propria realizzazione o la
sconfitta di sé.

Tutta la mitologia umana antica insegna a cogliere i significati simbolici più profondi delle
cose. I racconti mitologici, se ci impressionano, lo fanno perché ci mostrano modi di vita
che sono al centro del nostro essere, ovvero reazioni alla vita, in cui riconosciamo i tratti
più profondi dell'umanità.

Attraverso i suoi aspetti meravigliosi, fantastici, drammatici, tragici, tragicomici, il mito


aveva la funzione di aiutare a costruire il senso della realtà, della vita e della morte, il
significato profondo dell’esistenza.

Il grande antropologo Levi-Strauss paragonava il linguaggio del mito a quello della musica
in quanto si pone al di là delle coordinate temporali. In esso vedeva degli elementi (mitemi)
che ritornano sempre uguali, come se fossero dei ritornelli musicali.

Quindi il mito si pone fuori dalla storia, perché contiene elementi ricorrenti, che tornano
sempre uguali a sé stessi come in un ritornello, ma anche dentro la storia, come racconto
ispirato ad eventi realmente accaduti.

Wagner, che per gran parte della sua opera si ispirò a temi mitici, pensava che la struttura
dei miti si svelasse per mezzo di una partitura. Sia il mito che le partiture costituiscono dei
linguaggi che trascendono, ciascuno a suo modo, il piano del linguaggio articolato, pur
richiedendo una dimensione temporale per manifestarsi.

“Come la musica ha anche un aspetto pieno di significato, il quale soddisfa nello stesso
modo in cui una totalità piena di significato può soddisfare, cosí succede per ogni
mitologema autentico. Se tale significato si traduce cosí difficilmente nel linguaggio della
scienza, è appunto perché esso non può venir espresso completamente se non in forma
mitologica” (K. Kerenyi).

Solo al linguaggio poetico del mito, alla sua capacità di guardare dietro l’apparenza delle
forme, di trascendere la logica, il razionalismo, l’empirismo, il materialismo, è dato di poter
descrivere il carattere più intimo dei fenomeni, di svelare l’essenza noumenica della realtà.

L’attività mitopoietica deve essere rivolta a questo, alla creazione di miti, di narrazioni, che
contribuiscano a rafforzare la costruzione di un più profondo senso della realtà e
all’instaurazione di valori simbolici condivisi (la “morale della favola”).

Language Of Music Really Is Universal, Study Finds ScienceDaily 20 marzo 2009

Il mito viene continuamente, e sempre, riplasmato attraverso la rielaborazione


dell’immaginazione artistica. Ha sempre qualcosa da dire, qualcosa che possa essere
aggiunto al corpus originario in relazione al contesto storico.

“Quali che siano i suoi procedimenti", scriveva il filosofo e semiologo francese Roland
Barthes nel suo “Miti d’Oggi”, “è certo che la mitologia partecipa a un fare del mondo:
tenendo per fermo che l'uomo della società borghese è ad ogni momento immerso in una
falsa natura, essa tenta di ritrovare, sotto le forme innocenti della più ingenua vita di
relazione, l’alienazione profonda che tali forme hanno il compito di far passare; la sua
operazione rivelatrice è dunque un atto politico: fondata su un’idea responsabile del
linguaggio essa postula con ciò stesso la libertà. (...) Questo dobbiamo cercare nel mito:
una riconciliazione del reale e degli uomini, della descrizione e della spiegazione,
dell'oggetto e del sapere”.

Barthes ripeteva spesso che il semiologo è colui che quando va in giro per la strada, dove
gli altri vedono fatti ed eventi, intuisce significato e conoscenza, che mentre in Occidente
va rivelata, nell’Oriente è implicita in tutti i piccoli atti del quotidiano. Umberto Eco ha
scritto che "egli ci ha insegnato l’avventura di un uomo di fronte a un testo, non ci ha
offerto modelli schematici da applicare, bensì un esempio vivente di come incantarci di
fronte alla vitalità e al mistero, della semiosi in atto".

Eccolo, per esempio, smascherare gli abusi retorici di certo reportage che nel tentativo di
illustrare un fatto neutralizza quel tipico straniamento estetico del reale che è appunto
innescato dal procedimento fotografico. E ciò proprio per un eccesso d'intenzionalità e di
controllo tecnico del mezzo da parte del fotografo: «La maggior parte delle fotografie qui
raccolte al fine di sconvolgerci - scrive Barthes a proposito di una mostra alla galleria
d'Orsay - non ci fanno alcun effetto, appunto perché il fotografo si è sostituito troppo
generosamente a noi nella formazione del suo soggetto: quasi sempre ha supercostruito
l'orrore che ci presenta, aggiungendo al fatto, per contrasti o accostamenti, il linguaggio
intenzionale dell'orrore (...). Ora nessuna di queste fotografie, troppo abili, riesce a
toccarci. È che di fronte ad esse ci troviamo ogni volta defraudati della nostra facoltà di
giudizio: si è fremuto per noi, riflettuto per noi, giudicato per noi (...). È dunque logico che
le sole fotografie-choc della mostra (il cui principio rimane molto lodevole) siano per
l'appunto le fotografie di agenzia, in cui il fatto ripreso esplode nella sua ostinazione, nella
sua letteralità, nell'evidenza stessa della sua ottusa natura».

La critica “semiomitica” di Barthes aveva colto un tipico aspetto della mentalità razionale e
tecnocratica dell’uomo moderno, che, in nome della precisione, dell’esattezza, dello
scientismo, arriva a mutilare quel senso del meraviglioso che è proprio della mentalità
mito-artistica.

Come dice lo stesso Barthes, noi continuiamo a subire «l’opprimente divorzio della
conoscenza e della mitologia».

La mitopoiesi operata dai mass media, in particolare dalla televisione, si pone


completamente al di fuori del tempo della storia, ponendosi nell’eterno presente della
telepresenza (c’è sempre, non scompare mai). I miti teletrasmessi sono falsi miti, forme
mitiche prive di contenuto, prive di logos, perché slegate da ogni contesto, da ogni
discorso. Narrazioni disarticolate, del tutto immorali, pensate solo per il consumo e non per
l’uso.

Mentre il racconto mitico autentico è un modo per renderci familiare il mondo terribile di cui
facciamo parte, quindi per toglierci l’angoscia del vivere, per affrontare l’orrore nei
confronti di una realtà che altrimenti sarebbe intollerabile, il racconto inautentico dei mass
media ci consegna in balia di questo orrore senza fornire spiegazioni, senza alcuna
riflessione, senza alcuna funzione trascendente, rendendoci spettatori impartecipi di un
reality show autopoietico, immanente e permanente, che risucchia la ragione critica,
annulla le personalità e desensibilizza l’individuo, compromettendo le sue facoltà di libero
arbitrio.

[…] Umberto Eco sostiene che la mitopoiesi è tipica della società di massa: miti intorno ai
quali si concretizzano le credenze e le aspirazioni esistenziali e politiche. La mitopoiesi
nasce dal basso ma è informata dall'alto, da "persuasori occulti", politici e non, esperti
sciacalli degli umori collettivi.

Eco sa bene che i simulacri, gli idola della cultura pop, hanno la capacità di entrare nella
mente e nei comportamenti delle persone, di produrre segni duraturi nella cultura e nella
politica. In questo senso considera "Superman modello di eterodirezione", cioè, in parole
meno tecnicistiche, di persuasione delle masse.

I miti culturali e politici persuadono le masse a livello emotivo e non razionale, modulando
l'immaginario inconscio. Agire sui segni e sulle immagini è agire sui pensieri, sulle
credenze politiche. La cultura e la politica si riducono ad un insieme di immagini
persuasive: valori e passioni sono alla mercè dei segni […].

“Il Superuomo di Massa” (in “Il Nome Multiplo di Umberto Eco”)

Il principale agente della privazione di senso è oggi la televisione. Lo è direttamente,


attraverso l’ascolto considerevole di cui gode, lo è anche per via dei comportamenti che
induce nella politica, nell’economia, nel tempo libero.

L’ascolto è considerevole poiché non esige nessun altro sforzo che quello di sedersi
davanti al televisore, di guardare, di ascoltare.
Mai nella storia, era esistito un mezzo d’informazione o di cultura così facilmente adatto
per il consumo. Questa facilità, ovviamente è significativa in quanto insorge in opposizione
alla morale elementare la quale assicura che nulla si dovrebbe ottenere senza sforzo.

Oramai, ad ogni ora e senza la minima fatica, il telespettatore ottiene notizie, distrazioni,
documentari. Gli basta mettersi in situazione di passività e lasciarsi penetrare da ciò che
vede. Tutto gli è dato sotto forma d’una parata d’immagini parlanti che sfilano tanto nel suo
spazio mentale quanto davanti agli occhi per il motivo che spazio visuale e spazio mentale
sono costantemente legati. Si può già ragionevolmente inferire che questo legame non
può risultare neutro e che la compenetrazione della sfilata, giorno dopo giorno, attraverso
gli occhi porta alla pigrizia di poter formare, ciascuno per sé rappresentazioni mentali
personali, dunque di senso.

Le immagini televisive sono d’altronde il più delle volte immagini stereotipate in qualsiasi
campo. Di conseguenza invitano a formarsi un sistema di rappresentazione a loro stessa
somiglianza. Ne deriva uno spossamento dell’originalità a vantaggio d’una specie
d’immaginario consensuale composto di tutti gli identici elementi formattati dalla visione
delle stesse trasmissioni.

Era considerato di buon gusto trovare eccessivo questo tipo di analisi ma il direttore di TF1
(la prima rete televisiva francese) li ha recentemente fatti apparire moderati assicurando
che il suo ruolo era di “fabbricare cervelli disponibili” e dunque principalmente spalancati
alle seduzioni della pubblicità.

Tanto vale sapere che la privazione di senso è cinicamente pianificata: ciò evita di doverlo
dimostrare e dà modo d’interrogarsi su una perdita che, al di là del senso, ha a che fare
con la vitalità. Sembra piuttosto normale che il funzionamento del pensiero sia
compromesso da una sfilata d’immagini insignificanti che si sostituisce al suo movimento
naturale, ma l’effetto debilitante di tale sostituzione va parecchio oltre.

Forse in altri tempi si sarebbe parlato solo di tempo perduto a proposito di tempo passato
davanti allo schermo della televisione, ma quando il tempo perduto diventa un’abitudine
quotidiana, cambia ovviamente natura. I Francesi, dicono le statistiche, passano in media
quattro ore al giorno davanti al televisore, cioè un buon quarto della loro vita da svegli.
Regalare una parte così consistente all’irrilevanza non può avvenire senza danni per il
senso, poiché l’attività mentale da cui dipende è sostituita da una successione d’immagini,
il che è una cura d’irrealtà e di conformismo.

Questa irrealtà è invadente perché non si limita allo spettacolo guardato nell’intimità: essa
plasma a poco a poco tutto l’ambiente perché deve assomigliare alle immagini se vuole
convincere (quando si tratta del mondo politico), se vuol piacere (quando si tratta di
prodotti e di oggetti), se vuol sedurre (quando si tratta di relazioni). Tutto ciò agisce per
contaminazione, poiché l’invito che ci viene spedito dalle immagini rientra nel campo della
fascinazione e non della riflessione. Questo procedimento corrisponde a quello del
consumo laddove l’imballaggio conta assai più del contenuto e quest’ultimo può rimanere
identico e suscitare un desiderio nuovo a patto che cambi apparenza.

In questo gioco delle immagini, l’apparenza è la principale mercanzia: fa in modo che si


compri il nulla, ma fa anche aderire al nulla lo spettacolo politico oppure fa amare il nulla
delle posture sentimentali o erotiche.
La felicità è un’immagine e lo stesso avvenire ne è un’altra. La realtà è ormai in sovrappiù.
Essa si oblia nello stesso sguardo che portiamo su di essa poiché lo sguardo preleva su di
essa una somiglianza che a noi è sufficiente.

Il corpo è trattato allo stesso modo, però dall’interno, poiché è il suo interno che per prima
cosa funge da spazio allo spettacolo, a dir vero meno da spazio che da canale e
addirittura da sfioratore. Le immagini vi ci colano senza essere assimilate. Sono
indifferenti a chi le riceve: penetrano e passano. Conta soltanto il loro movimento e che
quest’ultimo sia passante. Il loro senso non è che una direzione, una progressione, che
cancella man mano ciò che fa progredire nel corpo trattato come un semplice tubo di
ricezione e di scarico. E questo tubo ha per orifizio il cervello: un cervello reso infatti
disponibile grazie al movimento e che non trattiene nulla tranne i messaggi nei quali i
pubblicitari condensano un po’ di senso.

Questo senso è, beninteso, servile: non mira a rischiarare e meno ancora a nutrire il
pensiero, ha solo lo scopo di fare consumare questo o quello, esso stesso altro non è che
un prodotto inserito in un imballaggio denominato “spot” o “flash”. Ma il senso dei
telegiornali o delle trasmissioni politiche non è meno servile di quello della pubblicità la
quale serve loro da modello. Tranne rarissime eccezioni, non si tratta d’informare bensì di
far consumare una visione consensuale dell’attualità o di tale personaggio, tale partito, tale
avvenimento. Il procedimento del consumo guida tutti i discorsi, modella l’educazione e la
cultura.

Questa situazione s’avvera rovinosa poiché il consumatore non è considerato come un


cittadino responsabile delle sue scelte, neppure come un compratore in grado di
ragionare: si cerca soltanto di sviluppare in lui una servilità che disarma la sua coscienza e
la sua resistenza davanti ad un prodotto o un individuo che porta la maschera di
un’immagine seducente.

In realtà, l’installazione della servilità è cominciata quando lo spettacolo, invece di


sollecitare la partecipazione dello spettatore, lo ha ridotto alla passività. Uno spettatore
passivo è un tubo senza filtro, che non riflette e non digerisce e ciò lo rende capace
d’assorbire a getto continuo. Questo spettatore in grado d’ingollare senza ritegno è il
prototipo del consumatore perfetto, colui che, secondo ignobili manifesti posti a bella
mostra in questi giorni, ubbidirebbe al dovere d’acquisto.

Va da sé che non si può trattare il vostro corpo come un semplice organo d’assorbimento
buono solo a ingozzarsi d’immagini senza essere disprezzato. Questo corpo sfruttato sia
nella sua esistenza corporale sia nella sua esistenza psichica non è più che una sorta di
buco organico innestato su di voi per parassitare il vivente e trasformarlo in consumatore
servile di ciò che gli si fa trangugiare. Il consumatore, in un certo senso, si prostituisce al
consumo…

C’è di peggio in questa situazione, basti accorgersi che la privazione di senso legata al
consumo passivo porta ad un ingozzamento tramite il vuoto e colloca questo medesimo
vuoto (questo nulla) nella collettività degli spettatori.

L’invenzione geniale del sistema mediatico consiste nel riempirci con l’apparenza, in altre
parole di occuparci col nulla. Ne consegue uno strano successo se si pensa che nel corso
della storia tutte le collettività trovavano il loro senso nella condivisione di pensieri
sufficientemente forti da far sì che ogni individuo si unisse al corpo sociale (o mistico) col
sentimento di realizzarsi dentro di esso.

Il miglior esempio è fornito dalle religioni, che avevano la preoccupazione di procurare ai


loro fedeli una vita spirituale sorretta da riti soddisfacenti per il loro appetito di senso. I
regimi totalitari hanno imposto delle ideologie che avrebbero dovuto funzionare alla
maniera delle religioni esaltando la condivisione di un pensiero comune. Il loro timore che
l’esercizio del pensiero conduca alla contestazione ha velocemente irrigidito l’ideologia
nello stereotipo e l’illusione debilitante.

La strana apoteosi della società mediatica è data dal produrre pensiero unico senza nulla
offrire da pensare. Ciò è possibile grazie all’occupazione dello spazio mentale con un
défilé che mima il movimento del pensiero. Creare una condivisione dando da dividere
solo il vuoto è forse l’operazione più redditizia del regno dell’economia. E che non smette
di perfezionarsi poiché ora si sradicano le sfumature in favore delle opinioni binarie, quelle
che accettano solamente il sì o il no.

La più grande costante nel comportamento umano è la tendenza al servilismo. In ogni


epoca, la maggioranza è stata oppressa da una minoranza, e ha potuto esserlo solo con
l’unanime consenso. Certo, vi sono state insurrezioni, sommosse, rivolte ed anche
rivoluzioni, eppure l’oppressione è sempre stata ristabilita. E generalmente dalla violenza
stessa dei liberatori il cui contropotere riprendeva i mezzi del potere: istituzioni, esercito,
polizia, tutto ciò che simboleggiava appunto, le cose da abbattere per sovvertire l’ordine
sociale.

Tuttavia, divenuta mediatica, la nostra società autorizza a sognare un potere che, senza
nulla smarrire della sua natura oppressiva, decide di rinunziare alla violenza giacché non è
più indispensabile alla dominazione. Infatti, non è più necessario opprimere con la forza
per sottomettere dato che è sufficiente occupare gli occhi per tenere la testa e, con essa, il
luogo dell’eventuale contestazione.

I nuclei di potere dei vecchi regimi s’impegnavano a proibire, censurare, controllare senza
riuscire a reprimere il luogo del pensiero che avrebbe sempre potuto essere in grado di
remare contro di loro. Il potere attuale può occupare questo luogo del pensiero senza
avvalersi della minima costrizione: gli è sufficiente lasciar agire la privazione di senso.
Così, privato di senso, l’uomo scivola del tutto naturalmente nell’accettazione servile.

I mezzi di resistenza sono tributari del fatto che, per resistere, bisogna aver la
consapevolezza di essere oppressi o vittime, e che è difficile sviluppare questa coscienza
quando, ad essere oppressori di noi medesimi siamo nientemeno che noi medesimi. Al di
fuori di noi stessi non c’è nessun altro per servire da agente alla privazione di senso:
questa posizione rende difficile la presa di coscienza dell’ampiezza dei danni.

Talvolta, ci si lamenterà del tempo troppo a lungo passato davanti allo schermo televisivo,
talvolta si beffeggerà la stupidaggine di un programma pur avendola sopportata, o ci si
vanterà di smanettare col telecomando per un consapevole zapping, ma tutte queste
recriminazioni non vanno molto più in là e soprattutto non prendono in considerazione il
vero problema, cioè l’occupazione opprimente attraverso il flusso delle immagini. Ma il
peggio è che un buon programma occupa lo stesso spazio mentale di uno pessimo…
La società degli spettatori è anch’essa a due velocità, e si vede bene che la concorrenza
tra le reti e la preoccupazione dell’Audimat (che rileva gli indici d’ascolto televisivi) non
vanno nel senso della qualità. L’unica preoccupazione è di sedurre il più possibile affinché
un Audimat favorevole valorizzi al massimo il minuto di pubblicità. Questo ideale esige che
il telespettatore sia trattato non da utente, ma da cliente, mira a renderlo docile ai
messaggi pubblicitari o altri. È lo scopo che si propone apertamente la rete più popolare, e
ciò significa che il suo pubblico, ossia circa la metà dei telespettatori francesi, sarà
manipolata a seconda dei suoi interessi allorché questi saranno convinti di distrarsi o di
informarsi.

Questo raggiro che passa attraverso un falso, serve a creare un ascolto per venderlo
subito agli inserzionisti. Il pubblico è una mandria e se ne contano i capi per sapere quale
ne è la quantità al fine di venderla ai maneggioni della pubblicità. Monsieur Patrick Le Lay,
presidente di TF1, si è espresso su questo problema con un cinismo che ha il merito di
mettere finalmente le cose in chiaro: “[…] il mestiere di TF1 è di aiutare Coca-Cola, per
esempio, a vendere il suo prodotto. Tuttavia, affinché un messaggio pubblicitario sia
percepito, bisogna che il cervello del telespettatore sia disponibile. Le nostre trasmissioni
debbono per vocazione rendere il cervello disponibile: cioè divertirlo, rilassarlo per
prepararlo tra i due messaggi. Ciò che vendiamo a Coca-Cola, è tempo di cervello umano
disponibile…”

Monsieur Le Lay non precisa che cosa sia “un cervello umano disponibile” tanto questo
stato deve sembragli evidentemente scontato, così come dà per evidentemente scontata
la capacità della televisione a produrlo. Questa certezza è un modo implicito per ricordarci
che la televisione è appunto il mezzo più rapido e più efficace per svuotare il cervello
affinché egli riceva un messaggio come se lo pensasse.

Per inciso, Monsieur Le Lay indica più avanti una ragione di questa efficacia: “La
televisione è una attività senza memoria”. In altre parole, la disponibilità non trae nessuna
lezione da ciò che registra per un attimo e di conseguenza rimane non logorabile.

L’ironia – ma nei confronti di chi? – vorrebbe che qui ci ricordassimo che al momento della
privatizzazione di TF1 nel 1987, Monsieur Bouygues (il maggior azionista di TF1) parlò del
meglio del culturale per vincere la concorrenza e appropriarsi della rete. Questo culturale
si è trasformato in arte di rendere il cervello umano disponibile, arte che fin qui nessun
regime totalitario aveva saputo praticare con tale successo.

Questa riuscita maschera la sua efficacia dietro un commercio che sembra riguardare
soltanto i prodotti di consumo, perché non sarebbe probabilmente produttivo per Monsieur
Le Lay spiegare che la sua rete ha per vocazione di rendere il nostro cervello disponibile –
per esempio – alle idee di Monsieur Sarkozy. Soprattutto non si deve preavvertire la
mandria umana del compratore al quale si sta per cederlo se si vuole poterlo consegnare
in blocco e senza problemi.

Si sarà capito che la disponibilità con la quale opera Monsieur Le Lay, con un
pragmatismo ammirato da tutti gli imprenditori, non è che una metamorfosi del vecchio
servilismo. La società del consumo ha bisogno di questo servilismo per farci credere che
le nostre scelte sono dovute solo a una informazione libera, oggettiva e disinteressata.

LA PRIVAZIONE DI SENSO di Bernard Noël Traduzione di Viviane Ciampi


"Niente può essere più grande della seduzione stessa, neanche l’ordine che distrugge”.

Jean Baudrillard, uno dei più illuminati critici del postmodernismo, descrive la seduzione
delle immagini come l’irrompere improvviso di una reversibilità nell’ordine delle cose che fa
collassare il discorso (logos) nei suoi stessi segni senza più alcuna traccia di significato.

Il trionfo post-semiotico della seduzione è una apocalisse della cultura che coincide con la
fine della storia (e del mito).

Nella società postmoderna, la rappresentazione, in cui vi è ancora un legame con la


realtà, è sostituita dalla simulazione, da immagini e segni del tutto slegati da ogni contesto
- figure senza sfondo - che diventa la forma organizzatrice del sistema sociale
sostituendosi al ruolo svolto dalla produzione nell’era moderna.

Il termine simulazione designa i modi culturali di rappresentazione che simulano la realtà,


come nella televisione, nel ciberspazio dei computer e nella realtà virtuale, i codici, i
modelli e i segni della simulazione sono le forme organizzatrici di un nuovo ordine sociale:
le identità sono costruite tramite l’appropriazione di immagini e codici mentre i modelli
determinano come gli individui si percepiscono e si relazionano ad altre persone.

Questo universo postmoderno è un universo di iper-realtà in cui l’intrattenimento,


l’informazione e le tecnologie comunicative forniscono esperienze più intense e
coinvolgenti delle scene banali della vita di tutti i giorni, così come forniscono dei codici e
dei modelli che strutturano la vita quotidiana. Il reame dell’iper-reale (p. es. le simulazioni
mediatiche della realtà, Disneyland e i parchi dei divertimenti, i centri commerciali e altre
escursioni in mondi ideali) è più reale del reale, e attraverso di esso i modelli, le immagini
e i codici controllano il pensiero e il comportamento.

L’ “iper-realtà” è costituita da simulazioni in cui predominano le immagini e le attività dei


segni che proliferano nel villaggio globale producendo incessantemente altri segni: la
produzione di segni sostituisce la produzione di beni, mentre la tecnologia sostituisce il
capitale.

Le soggettività sono frammentate e perdute, e si profila un nuovo terreno di esperienze


che, per Baudrillard, rende le precedenti teorie sociali e politiche obsolete e irrilevanti.

Delineando le vicissitudini del soggetto nella società presente, Baudrillard dichiarò che i
soggetti contemporanei non sono più afflitti da patologie moderne come l’isteria o la
paranoia. Piuttosto, essi vivono in uno ”stato di terrore che è caratteristico dello
schizofrenico, una promiscuità oscena di tutte le cose che lo assilla e lo penetra senza
incontrare nessuna resistenza e nessuna aura, neppure quella del suo stesso corpo. A
discapito di se stesso, lo schizofrenico è aperto a qualsiasi esperienza e vive nella più
totale confusione”. Per Baudrillard, l’ “estasi della comunicazione” significa che il soggetto
è vicino alle immagini istantanee e all’informazione, in un mondo sovraesposto e
trasparente. In questa situazione, il soggetto “diventa un mero schermo, una semplice
superficie che assorbe e riassorbe le reti influenti”. In altre parole, un individuo nel mondo
postmoderno diventa semplicemente un’entità influenzata dai media, dall’esperienza
tecnologica e dall’iperreale.

In "Strategie Fatali" (1983), Baudrillard espone un pensiero critico “patafisico” fondato


sull’idea del trionfo dell’oggetto sul soggetto a causa della proliferazione oscena di
immagini irreali che esercitano una sorta di fascinazione su un’umanità resa ormai
incapace di interpretare e comprendere alcunché.

Gli oggetti espandono il proprio segno-valore rendendosi osceni, eccessivamente


disponibili ed accessibili allo sguardo, e generando “anomia” - apatia ed inerzia - nel
soggetto contemporaneo, totalmente posseduto dall’oggetto.

Le “strategie fatali”, le tecniche di seduzione, condotte dall’oggetto, che comanda e


domina il soggetto, hanno la meglio sulle “strategie banali”, ovvero l’illusione di superiorità,
di autonomia e di controllo dell’oggetto da parte del soggetto.

In "L’Evidenza del Male" (1993), Baudrillard sostiene che il dominio dell’arte si è ormai
diffuso e disperso in tutte le sfere dell’esistenza, perdendo in tal modo la propria
specificità. Nella società postmoderna, ipermediatica e consumatrice, ogni elemento è
convertito in immagine, segno, spettacolo, in oggetto “transestetico” che seduce e
indebolisce la funzione trascendente dell’arte perché elimina le differenze di ruolo tra
autore e fruitore ed i confini tra cultura alta e bassa.

Ne "Il Crimine Perfetto" Baudrillard spiega come la negazione di una realtà trascendente,
nell’attuale società ipermediatica, costituisca un “delitto perfetto” che implica la distruzione
del reale e la virtualizzazione tecnologica del sociale. Tali considerazioni furono sviluppate
nel suo successivo saggio, "Lo Scambio Impossibile" del 1999. Lo scambio impossibile nel
pensiero di Baudrillard corrisponde all’irrealizzabile interazione tra la teoria e la realtà, il
soggetto e l’oggetto, che impedisce di carpire le certezze e di ricercare la verità del
mondo, rendendo la filosofia come non-disciplina, poiché priva di un fondamento
costituitivo epistemologico.

La coscienza drogata e mesmerizzata (alcune tra le metafore di Baudrillard), satura dei


media, è in uno stato tale di adorazione dell’immagine che il concetto del significato stesso
(che dipende da limiti stabili, strutture fisse, consenso condiviso) si dissolve. In questa
allarmante e nuova situazione postmoderna, il referente, ciò che sta oltre e al di fuori,
assieme a ciò che sta in profondità, che costituisce l’essenza e la realtà, sparisce,
causando la dissoluzione anche di ogni potenziale opposizione. Le distinzioni tra gruppi
sociali e ideologie implodono anch’esse e le concrete relazioni sociali faccia a faccia
regrediscono nella misura in cui gli individui scompaiono nei mondi della simulazione – i
media, i computer e la stessa realtà virtuale.

Nella misura in cui le simulazioni proliferano, esse finiscono col riferirsi solo a se stesse:
una fiera di specchi che riflettono immagini proiettate da altri specchi sulla televisione
onnipresente, sullo schermo del computer e su quello della coscienza, che a sua volta
rinvia l’immagine al magazzino da dove proveniva, magazzino pieno di altre immagini,
anch’esse prodotte da specchi simulatori. Imprigionate nell’universo delle simulazioni, le
masse sono “immerse in un bagno mediatico” privo di messaggi o di significati, un’era di
massa dove le classi scompaiono e la politica è morta, come lo sono i grandi sogni di
disalienazione, liberazione e rivoluzione.

Baudrillard ritiene che, da questo punto in poi, le masse cerchino un’immagine e non un
significato. Esse implodono in una “maggioranza silente”, che rappresenta “la fine del
sociale”.

http://www.wikiartpedia.org/index.php?title=Baudrillard_Jean
The simulacrum is never what hides the truth - it is truth that hides the fact that there is
none. The simulacrum is true (Ecclesiastes)

Mentre la rappresentazione si basa sul principio, sull’assioma fondamentale, di una


corrispondenza tra il segno e la realtà, la simulazione nega radicalmente qualsiasi valore
del segno che diventa reversione e sentenza di morte di ogni referente. Mentre la
rappresentazione tenta di assorbire la simulazione interpretandola come falsa
rappresentazione, la simulazione sviluppa l’intero edificio della rappresentazione come un
simulacro.

Si ha così una transizione dai segni che dissimulano qualcosa ai segni che dissimulano il
nulla. Da una teologia della verità segreta (che comprende ancora la nozione di ideologia)
all’era del simulacro e della simulazione, in cui non c’è più un Dio da riconoscere, non c’è
più un Giudizio Finale che separi il falso dal vero, il reale dalla sua resurrezione artificiale,
perché tutto è già morto e risorto in anticipo.

Quando il reale non è più ciò che era, la nostalgia assume il suo pieno significato. C’è una
pletora di miti sull’origine e sui segni della realtà, una pletora di verità, di oggettività
secondaria, di autenticità. La scalata del vero, dell’esperienza vissuta, la resurrezione del
figurativo, dove l’oggetto e la sostanza sono scomparsi.

La produzione panica del reale e del referenziale è parallela e più grande del panico della
produzione materiale: la simulazione appare come strategia del neoreale e dell’iperreale,
una doppia strategia di deterrenza.

L’impossibilità di riscoprire un livello assoluto di realtà è nello stesso ordine


dell’impossibilità di mettere in scena l’illusione. Non è più possibile alcuna illusione perché
non c’è più nessuna realtà.

L’isteria caratteristica dei nostri tempi risiede nella produzione e riproduzione del reale.
Dovunque, l’iperrealismo della simulazione è tradotto dalla rassomiglianza allucinatoria del
reale con sé stesso.

È a questa ideologia dell’esperienza vissuta – l’esumazione del reale nella sua


fondamentale e radicale banalità – che l’esperimento della tv verità americana ha tentato
di rivolgersi nel 1971: sette mesi di riprese ininterrotte, trecento ore di trasmissione non-
stop, senza alcunché di scritto o una sceneggiatura; l’odissea di una famiglia (la famiglia
Loud), con i suoi drammi, le sue gioie, gli eventi inaspettati, in breve, un crudo documento
storico, la più grande performance televisiva, comparabile, sulla scala della nostra vita
quotidiana, allo spezzone dell’atterraggio sulla Luna.

Le cose però si sono complicate durante le riprese: è scoppiata una crisi e la famiglia si è
separata. Da qui, una controversia insolubile: è stata colpa della TV? Che cosa sarebbe
successo se non ci fosse stata la presenza delle telecamere?

I produttori dissero trionfalmente: “Hanno vissuto come se la TV non ci fosse”. Una


formula paradossale, assurda, né vera né falsa. È proprio questo paradosso, questa
utopia, che ha affascinato i 20 milioni di spettatori, più che il piacere perverso di violare la
privacy di qualcuno. Nell’esperienza della TV verità non è tanto in questione la segretezza
o la perversione, quanto piuttosto una sorta di brivido del reale, un’estetica dell’iperreale,
un brivido di esattezza vertiginosa e fasulla, un brivido di simultanea distanza e
magnificazione della distorsione di scala, di una eccessiva trasparenza.

Il piacere dell’eccesso di significato, quando la barra del segno cade al di sotto della
consueta linea di galleggiamento del significato: il non-significante è esaltato dall’angolo
della telecamera. Uno vede ciò che il reale non è mai stato (come se fosse lì), senza la
distanza che fornisce lo spazio per la prospettiva e la profondità della visione (ma più reale
della natura).

Il piacere della simulazione microscopica che consente al reale di passare nell’iperreale


(come nel caso della pornografia, che affascina più a livello metafisico che non sessuale).

Inoltre, la famiglia Loud era già iperreale nel momento in cui è stata scelta: una tipica,
ideale, famiglia americana californiana, con una casa con tre garage, cinque bambini, una
casalinga decorativa, classe medio-superiore. In questa perfezione statistica vi era già una
condanna a morte. L’eroina ideale dell’American way of life, è stata scelta, come nei
sacrifici antichi, per essere glorificata e morire tra le fiamme del medium, moderno fatum,
mentre le lenti della camera come un laser perforano la realtà vissuta per metterla a
morte. “La famiglia Louds ha semplicemente accettato di consegnarsi nelle mani della
televisione e di essere uccisa da essa”, dirà il regista. Un rito sacrificale, uno spettacolo
sacrificale, offerto a 20 milioni di americani. Il dramma liturgico di una società di massa.

“TV verità”. Un termine formidabile nella sua ambiguità: si riferisce alla verità della famiglia
o alla verità della TV? In effetti, è la TV a costituire la verità dei Loud, è la TV che è vera, è
la TV che rende vero. La verità non corrisponde più alla riflessione su uno specchio della
realtà, alla prospettiva del sistema panottico dello sguardo, ma alla verità della
manipolazione del testo che sonda e interroga, del laser che tocca e perfora, delle
computer cards che ricordano sequenze preferite, del codice genetico che controlla le
combinazioni, delle cellule che informano l’universo sensorio. È a questa verità che la
Loud family è stata assoggettata dal medium televisivo, ad una sentenza di morte.

L’occhio della TV non è più la sorgente di uno sguardo assoluto, l’ideale del controllo non
è più quello della trasparenza, che presuppone ancora uno spazio oggettivo (come nel
Rinascimento) e l’onnipotenza dello sguardo dispotico. Rimane ancora, se non un sistema
di sconfinamento, un sistema di mappatura. Più sottilmente, ma sempre eternamente,
giocando con l’opposizione tra vedere ed essere veduti, perfino con un punto focale
panottico cieco.

“Non sei più tu che guardi la TV, è la TV che guarda te”.

Il passaggio dal meccanismo panottico di sorveglianza (“Sorvegliare e Punire” di Michel


Focault) ad un sistema di deterrenza, in cui la distinzione tra passivo e attivo è abolita.
Non c’è più alcun imperativo di sottomissione al modello, o allo sguardo. "Tu sei il
modello!”.

Questo è lo spartiacque della socialità iperreale, in cui la realtà si confonde con il modello
di realtà, come in una operazione statistica, come nella operazione Loud. È l’ultimo stadio
delle relazioni sociali, non più oppresse dalla persuasione (come nell’era classica della
propaganda, dell’ideologia, della pubblicità), ma dalla deterrenza: "Tu sei informazione, tu
sei il sociale, tu sei l’evento, tu sei coinvolto, tu sei il mondo”.
Diventa impossibile individuare una qualche istanza nel modello, di potere, dello sguardo,
del medium stesso, perché si è già sempre dall’altra parte. Non c’è più soggetto, non c’è
più punto focale, né centro né periferia: c’è una pura flessione o inflessione circolare. Non
più violenza o sorveglianza: solo “informazione”, virulenza segreta, reazione a catena,
lenta implosione, simulacri di spazi in cui l’effetto del reale torna in gioco totalmente
decontestualizzato.

Stiamo assistendo alla fine dello spazio prospettivo e panottico (che rimane una ipotesi
morale connessa con tutte le classiche analisi sull’ “oggettiva” essenza del potere) e alla
definitiva abolizione dello spettacolare. La televisione, come nel caso della famiglia Loud,
non è più un medium spettacolare. Non siamo più nella società dello spettacolo di cui
hanno parlato i situazionisti, né in quel tipo di alienazione e repressione che implicava. Il
medium stesso non è più identificabile: la confusione tra medium e messaggio, tra medium
e massaggio (Mcluhan) è la vera grande formula di questa era. Non esiste più un medium
nel senso letterale: è diventato intangibile, diffuso, diffratto nel reale, non si può neanche
più dire che il medium sia alterato dalla realtà. Il mediascape ha inglobato sia il mezzo che
il messaggio che il massaggio.

Una tale amalgamante, virale, endemica, cronica, allarmante presenza del medium, senza
la possibilità di isolarne gli effetti - spettralizzato, come quelle sculture laser nello spazio
vuoto dell’evento filtrato dal medium - dissoluzione della TV nella vita, dissoluzione della
vita in TV - indiscernibile soluzione chimica: siamo tutti parte della famiglia Loud,
condannati non all’invasione, alla pressione, alla violenza e al ricatto dal media e dai
modelli, ma alla loro induzione, alla loro infiltrazione, alla loro violenza illeggibile.

Non è una malattia o una infezione virale. È come sei i media fossero, in una orbita
esterna, una specie di codice genetico che dirige la mutazione del reale nell’iperreale,
come se un altro codice micromolecolare controlli il passaggio da una sfera
rappresentativa di significato ad una genetica di segnali programmati.

È una questione che interessa il mondo tradizionale della causalità: il modo prospettico,
determinista, attivo, critico, il modo analitico, la distinzione tra causa ed effetto, tra attivo e
passivo, tra soggetto e oggetto, tra mezzo e fine. Secondo questo modo analitico di
concepire i media si direbbe che la TV ci osserva, che ci aliena, che ci informa, agendo
attivamente dall’esterno, secondo una prospettiva informazionale rispetto all’orizzonte del
reale e del significato come punto di dissolvenza.

Se invece si concepisce la TV come DNA l’effetto è quello di dissolvere i poli opposti della
determinazione, secondo una contrazione e ritrazione nucleare del vecchio schema polare
che ha sempre mantenuto una distanza minima tra causa ed effetto, tra soggetto e
oggetto, che è precisamente la distanza del significato; il gap, la differenza, il più piccolo
gap possibile, irriducibile alla pena del riassorbimento in un processo aleatorio e
indeterminato, dove nessun discorso può più contare, perché è esso stesso un ordine
determinato.

È questo gap che scompare nel processo della codificazione genetica, in cui
l’indeterminazione non è più una questione di casualità molecolare ma dell’abolizione,
pura e semplice, della relazione. Nel processo del controllo molecolare, che va dal nucleo
del DNA alla sostanza che informa, non c’è più l’attraversamento di un effetto, di
un’energia, di una determinazione, di un messaggio.
"Ordine, segnale, impulso, messaggio": tutto ciò tenta di rendere la cosa inintellegibile, ma
per analogia, ritrascrivendo in termini di iscrizione, di un vettore, di decodifica, una
dimensione di cui non conosciamo nulla – neanche una dimensione perfino, o forse è la
quarta (che secondo la relatività Einsteiniana è caratterizzata dall’assorbimento dei poli
distinti di spazio e tempo). Infatti, l’intero processo può essere compreso solo nella sua
forma negativa: niente separa più un polo dall’altro, l’inizio dalla fine; c’è una sorta di
contrazione di un polo sull’altro, una fantastica telescopia, un collasso dei due tradizionali
poli l’uno sull’altro: implosione – un assorbimento del modo radiante della causalità, del
modo differenziale della determinazione, con la sua carica positiva e negativa – una
implosione del significato. Da qui comincia la simulazione.

In ogni dominio – politico, biologico, psicologico, mediatico – in cui la distinzione tra questi
due poli non può più essere mantenuta, si entra nel regno della simulazione e di
conseguenza nel regno della assoluta manipolazione – non nella passività ma nella
differenziazione dell’attivo e del passivo. Il DNA realizza questa riduzione aleatoria a livello
della materia vivente. La televisione, come nel caso dei Loud, raggiunge questo limite
indefinito, la TV vis-à-vis, in cui i soggetti diventano non meno attivi o passivi di una
sostanza vivente rispetto al suo codice molecolare. Una singola nebulosa i cui elementi
più semplici sono indecifrabili, come la verità.

Jean Baudrillard - Simulacra and Simulations - I. The Precession of Simulacra

An American Family - Wikipedia

L' Astuta Invenzione della Tv Verita'

L’aura della comunicazione, dell’evento comunicativo, unico e irripetibile, è il Logos: il


discorso, la conversazione, la relazione, l’incontro, lo scambio simbolico. È solo dal Logos
che può emergere la dimensione psichica e morale dell'uomo, la sua coscienza, in tutta la
sua complessità e straordinarietà.

Il linguaggio per sua natura è simbolico, polisemico, ambiguo. Per dare senso ad una
comunicazione è necessaria la magia rituale del Logos.

La comunicazione non è una semplice trasmissione di informazione ma un agire, un


processo in divenire, un flusso di coscienza che segue percorsi imprevedibili e che può
essere incanalato solo dal discorso verso la fonte della verità, in quel non-luogo che è il Sé
misterioso o fondo dell’anima in cui risiede l’ “immaginale”.

"…non è esagerato dire che il mito costituisce il passaggio segreto attraverso il quale le
inesauribili energie del cosmo penetrano nelle forme della cultura dell'Uomo... Il viaggio
dell'eroe mitologico può avvenire anche materialmente ma quest'aspetto è irrilevante. In
realtà il viaggio è fondamentalmente un evento interiore, un viaggio verso profondità in cui
oscure resistenze vengono vinte e resuscitano poteri a lungo dimenticati per essere messi
a disposizione della trasfigurazione del mondo... Il periglioso viaggio non ha per scopo la
conquista ma la riconquista, non la scoperta ma la riscoperta. L'eroe è il simbolo di
quell'immagine divina creativa e redentrice che è nascosta dentro ognuno di noi e che
aspetta solo di essere trovata e riportata in vita" (J. Campbell, "L'eroe dai mille volti",
Guanda, Parma 1958).
Nella conversazione, l'ascoltatore è attivo e partecipa alla narrazione. La conversazione si
può considerare come una narrazione a più voci, una narrazione collettiva (connettiva) e
quindi, come tutte le narrazioni, un tentativo “di dare un senso al mondo e a sé nel
mondo”.

Solo mediante l'ascolto e la "partecipazione intuitiva" ("Einfühlung") - con cui far rivivere la
forza plasmatrice dei simboli mitici, capaci di donare all'uomo quella saggezza, quell'
"ampliamento di coscienza", proveniente dalle sue esperienze originarie, che da sempre lo
accompagnano (il rapporto con la vita e la morte, con l'amore e l' odio, lo smarrimento e il
ritrovamento ecc.) - ci si può avvicinare all'unità originaria, "archetipica”, di natura e
cultura.

L’alienazione linguistica prodotta dal monologo infinito dei mass media, dal discorso senza
Logos, dal diluvio dell’informazione spazzatura, dal sensazionalismo senza senso
dell’informazione spettacolo, dall’anestetizzazione della violenza, è un crimine contro
l’umanità perché uccide la vitalità della comunicazione, uccide la magia dell’evento
comunicativo, la possibilità di dare forma rituale al senso della realtà, di bere alla fonte
della conoscenza. Uccide il Logos.

La coscienza, individuale e collettiva, prigioniera del brainframe, costretta nel mediascape,


torturata dai folk devils, sottoposta alla cura Ludovico, intrappolata in un incubo artificiale
senza fine, chiede di essere liberata, di essere scatenata, di poter fluire, al di fuori degli
argini e delle dighe che la comprimono e la inquinano, nell’impetuoso vortice del Logos,
vuole portare a galla la verità dal profondo degli abissi che la occultano.

"Il lavaggio del cervello, come si pratica oggi, è una tecnica ibrida, che trae la sua efficacia
in parte dall'uso sistematico della violenza, in parte dall'accorta manipolazione psicologica.
Rappresenta la tradizione di 1984 che sta per mutarsi nella tradizione del Mondo Nuovo"
(Aldous Huxley, "Ritorno al Mondo Nuovo", 1958)

Il video è diventato il linguaggio collettivo primario del nostro immaginario post-moderno,


una vera e propria "fabbrica mitopoietica".

La narrazione video, in tutte le sue forme multimediali, ha oggi sostituito quella funzione
che un tempo apparteneva al mito, nelle sue forme rituali, orali, scritte, teatrali, musicali.

“Le ideologie facevano parte della storia, mentre il dominio dell'imagologia inizia là dove la
storia finisce" (Kundera)

La "videopoiesi", ovvero la produzione-creazione di simulacri, come predetto da Jean


Baudrillard, ha assorbito il mondo reale sostituendosi ad esso. L’Homo Sapiens è stato
trasformato in Homo Videns.

Mario Costa, autore di svariati lavori sui media, afferma riguardo all’immagine sintetica che
essa ”non penetra più nel soggetto ma ne resta fuori e vive come un'epifanìa-ritratta-in-
sé”. La “simbiosi immagine/immaginario è rotta per sempre”.

”Le immagini numeriche si presentano nella forma dell’essere-ritratto-in-sè. Qui le


immagini ostentano un loro essere in carne ed ossa, una loro presenza indipendente dal
soggetto e dall’oggetto… La nuova immagine non è più una mimesi, una
rappresentazione, un’impressione, un derivato, una traccia, non rimanda più ad un altro-
da-sè cui riferirsi o da cui ricevere senso, ma si presenta come una nuova entità in sé
oggettiva”.

“Il reale e l’immaginario - grazie ai procedimenti simulativi - sono ormai confusi nella
medesima totalità operativa, il fascino estetico essendo ovunque: è la percezione
subliminale, una specie di sesto senso, del trucco, del montaggio, della sceneggiatura,
della sovraesposizione della realtà (..…) Così l’arte è ovunque, poiché l’artificio è al centro
della realtà” (“L’iperrealismo della simulazione”, in “Lo scambio simbolico e la morte”)

Secondo Baudrillard, l’assassinio della realtà, “l’evento più importante della storia
moderna”, la sparizione del reale nel regno iperreale dell’informazione spettacolo, delle
simulazioni, delle immagini senza referenti, l’instaurarsi del regno della pura apparenza,
suggerisce, in maniera nitzscheana, una possibile via alla dissimulazione: abbandonare la
vana pretesa di verità e realtà.

Nel mondo “perfetto” delle immagini simulacro, in cui l’illusione regna sovrana, in cui
niente ha più senso, dove “niente è vero, tutto è permesso”, tanto vale godere della totale
libertà di pensiero e di espressione, tanto vale giocare con i segni (e con i sogni), dare
pieno sfogo alla immaginazione, aspirare alla piena realizzazione del Sé, dare vita al
Superuomo e far resuscitare l’ "illusione vitale".

"Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!" ("Crepuscolo degli Idoli")

“La reversibilità, la sfida, la seduzione sono indistruttibili”.

Simulacrum

http://en.wikipedia.org/wiki/Hyperreality

LA MOSTRA DELLE ATROCITA’

HOMMAGE A JEAN BEAUDRILLARD

GUERRA E CINEMA

GUERRA E DISINFORMAZIONE

LA PENULTIMA VERITA’

THE ABU GHRAIB SHOW

BODY WORLDS

LA GUERRA DEI MONDI

EFFETTO COPYCAT

EFFETTO WERTHER

LA VIOLENZA E IL SACRO
TELE-DIPENDENZA

VIDEO-DIPENDENZA

THE ADDICTION 2

FUNNY GAMES 2

LA GUERRA DEI MONDI 10

STORIA DEL DELITTO PERFETTO

PORNOCULTURA

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