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Victor Davis Hanson - Volume Primo. L'Arte Occidentale Della Guerra.

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Victor Davis Hanson.
L'arte occidentale della guerra
Garzanti 2001 (287 pagine)

Introduzione di John Keegan


In questa collana Prima edizione: giugno 2001
Traduzione dall'inglese di Davide Panzieri
Titolo originale dell'opera The Western Way of War
1989 by Victor Davis Hanson Introduzione 1989 by John Keegan
ISBN 88-11-67676-2
Garzanti Libri s. p.a., 2001 Printed in Italy
www. garzantilibri. it
Questo libro avvincente, molto originale ed estremamente importante. Prima di
cercare di spiegarne il
perch - pur non essendo necessario sottolinearne il fascino e l'importanza al
lettore, esperto o profano, che si
appresta a leggerlo - vorrei raccontare come ho guadagnato il privilegio di
scrivere quest'introduzione. Alcuni
anni fa Victor Hanson, l'autore che allora non conoscevo di persona e che a
tutt'oggi conosco solo per
corrispondenza, mi invi il manoscritto della sua tesi di dottorato, che recava
il titolo Warfare and Agriculture
in Classical Greece. Come tanti autori affermati, anch'io ricevo spesso
manoscritti non richiesti, che il pi delle
volte mi creano qualche imbarazzo: non si ha il tempo di leggerli n il coraggio
di dire apertamente agli autori -
le poche volte che li si legge - che i loro testi non hanno catturato la nostra
attenzione.
Ma il testo di Victor Hanson era diverso; in primo luogo, sollevava una domanda
realmente interessante:
quali erano le vere dimensioni della devastazione di messi, vigneti e frutteti
di cui parlano tanto spesso gli
storici antichi nei resoconti delle guerre tra cittstato? La domanda era
interessante perch il danno pi
grave che una citt poteva infliggere all'avversario, oltre a sterminarne i
cittadinisoldati sul campo di
battaglia, era devastarne l'agricoltura. In secondo luogo, Hanson proponeva una
risposta convincente alla
domanda, non solo perch uno storico dell'et classica con una solida
competenza nella bibliografia
specifica, ma anche perch conosce nel migliore dei modi, concretamente, il suo
argomento: nato in una famiglia
di viticoltori californiani, ha coltivato e potato la vite e raccolto l'uva.
Perci, e giustamente, non era affatto convinto che le guerre tra cittstato
avessero l'obiettivo di mettere
in ginocchio e impoverire gli sconfitti. Sapeva infatti che la vite una specie
di erbaccia che cresce tanto meglio
quanto pi brutalmente viene tagliata, e tenendo presente questo dato si prese
la briga di verificare che gli
ulivi - alberi forti, secchi, resistenti al fuoco - non si prestino a un rapido
disboscamento, giungendo quindi
alla conclusione che di norma la devastazione doveva avere effetti piuttosto
limitati. Lo stato sconfitto,
anche se perdeva probabilmente il raccolto di grano e quindi viveva un inverno
difficile, non avrebbe perso il
suo capitale agricolo - vigneti e uliveti - perch la vite ricresce in una sola
stagione, e i vincitori, per ragioni sia
economiche sia militari, non avevano il tempo necessario per distruggere gli
uliveti.
Anche se avesse abbandonato a quel punto lo studio sui caratteri della guerra
nell'et classica, Victor Hanson
meriterebbe comunque l'appellativo di studioso creativo. Ma non si fermato a
questo, perch l'obiettivo
principale di una guerra nell'et classica non era la devastazione, ma la
battaglia. Hanson lo ha riconosciuto,
provando per una giusta insoddisfazione di fronte all'analisi proposta dagli
storici moderni sulla natura della
battaglia nell'antichit. I loro resoconti, infatti, se da un lato sono ricchi
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di dati archeologici e iconografici (le armi
trovate durante gli scavi, l'atteggiamento dei guerrieri cos come lo propongono
le decorazioni sui vasi), dall'altro
sembrano restii a combinare manufatti e testimonianze (quelle degli stessi
storici antichi a proposito di battaglie
cui avevano assistito o in cui avevano
combattuto) in modo tale da descrivere una vera battaglia e, ci che pi conta,
spiegare a che cosa servisse.
Alcuni studiosi si sono rivelati pi che restii: numerosi colleghi di Hanson
hanno espresso apertamente la
loro ostilit al risultato finale del suo studio sulla natura della battaglia
di fanteria nella Grecia classica.
Hanno reagito alle sue pagine sostenendo che la tesi non rispettava le
ricostruzioni ortodosse e accettate della
guerra in Grecia, contraddiceva le teorie dei grandi studiosi dell'antichit,
non si accontentava di percorrere
il territorio sicuro dell'archeologia, dell'iconografia e dell'esegesi dei testi
e attingeva a concetti e idee da cui
l'erudizione classica tradizionale rifuggiva. Affermarono infine che la
pubblicazione del manoscritto non
poteva che nuocere alla sua reputazione professionale, con effetti perniciosi
forse permanenti, considerata la
giovane et - anche accademica - dell'autore.
Uno scrittore non altrettanto dotato di fantasia si sarebbe scoraggiato, ma per
fortuna Hanson, lasciandosi
guidare dall'immaginazione, si rese conto che alla base della battaglia di
fanteria nella Grecia classica stava il
valore del coraggio personale e, ignorando risolutamente gli avvertimenti dei
timorosi classicisti che procedono
col paraocchi, decise, nonostante tutto, di pubblicare il suo studio. Non mi
stato necessario convincere
Elisabeth Sifton, autrice oltrech editrice, dopo averla pregata di leggere il
manoscritto, che si trattava di
un'opera di prima qualit. Presentiamo il libro al pubblico dei lettori e degli
specialisti, affinch possano
giungere a conclusioni simili circa il suo valore.
Il libro di Victor Hanson mi piaciuto soprattutto per due ragioni. In primo
luogo, scritto con grandissima
immaginazione. Ci non significa che il quadro da lui tracciato della guerra
greca sia immaginario: al contrario,
si basa su un accurato esame delle testimonianze scritte, iconografiche e
archeologiche. Il suo sguardo, per, si
concentra in questo caso pi sull'aspetto umano della guerra, come nel libro
precedente, muovendo dalla sua
esperienza pratica di viticoltore, si era soffermato sui suoi aspetti materiali.
Cos, se pure ha giudicato
importante raccontarci nei dettagli la forma e la costruzione dell'armatura
greca, non ritiene affatto che forma e
costruzione esauriscano l'argomento. L'armatura non era un oggetto a s stante,
bens un'appendice del corpo
umano, soggetta alle limitazioni di peso e ingombro che un corpo umano pu
reggere, da calcolare non solo in
base alla forma fisica vera e propria ma anche alla capacit di resistenza e di
sopportazione. Quando si calcola il
peso dello scudo di un oplite, per esempio, bisogna tenere presente sia
l'intensit dello sforzo muscolare che
l'uomo doveva fare per reggerlo, sia per quanto tempo era in grado di sostenere
tale sforzo. In questo modo si
pu calcolare la durata degli scontri tra le falangi di opliti che compaiono
tanto spesso nelle storie di Tucidide
e di Senofonte. Introducendo la dimensione tempo nei resoconti degli storici
antichi, si riesce anche a calcolare
la velocit di movimento delle falangi, le distanze che coprivano durante le
manovre e tutti gli altri fattori che
trasformano una fonte antica da documento letterario in testo scientifico.
La seconda ragione per cui mi piaciuto questo libro che non si limita a
definire e a calibrare le azioni di
una guerra greca, ma si spinge molto oltre, tentando di dimostrare che questa
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era di natura diversa dalle guerre
che l'avevano preceduta: diversa non solamente quanto a tecnica, ma anche a
ethos, un ethos che pervadeva la
vita, la cultura e la politica. Hanson suggerisce - e secondo me in modo del
tutto convincente - che i greci
delle cittstato furono i primi uomini sulla terra a impegnarsi tra loro, in
quanto uguali, a combattere il nemico
spalla contro spalla senza temere le ferite e a non cedere il terreno su cui
combattevano finch il nemico non
fosse in rotta o essi stessi non fossero morti durante il combattimento.
In breve, i greci del v secolo inventarono non soltanto l'idea centrale della
politica occidentale - il potere in
uno stato nelle mani della maggioranza, attraverso il voto - ma anche
l'elemento centrale della guerra
occidentale, la battaglia decisiva. I greci delle cittstato sostituirono alle
imboscate, alle scaramucce, agli
scontri rituali e ai duelli tra singoli eroi (il tipo di guerra che li aveva
preceduti e che M. I. Finley ha analizzato
in modo tanto brillante in The World of Odysseus, un libro accanto al quale va a
collocarsi a mio giudizio lo
studio di Hanson) il tutto per tutto della battaglia campale.
Democrazia e battaglia campale erano, ovviamente, due facce della stessa
medaglia. Da tempo stata
riconosciuta la connessione tra democrazia e principio della milizia; non
occorre grande intuito per capire che
coloro che votano a favore della guerra si impegnano a combatterla in prima
persona. Ci che non era stato
capito, fino a quando Hanson non lo ha rivelato, che i militi greci votavano
anche per un nuovo genere di
guerra che doveva avere lo stesso esito del processo democratico: un risultato
inequivocabile e immediato.
Democrazia e battaglia campale, come naturale, si differenziano per qualit:
la prima non violenta, mentre la
seconda inevitabilmente, e anzi di necessit, brutale e distruttiva. Ma la
logica della seconda insita nella
prima. Un uomo la cui esistenza radicata in quella della sua citt, della sua
fattoria e della sua famiglia non pu
impegnarsi in una campagna senza limiti, al contrario di chi non ha
responsabilit n propriet. Meglio correre il
rischio di morire domani, con la possibilit per di ritornare vittoriosi a casa
il giorno dopo, piuttosto che
l'incertezza interminabile, rovinosa e dissanguante della guerriglia. Un uomo
libero - questa la tesi centrale di
Hanson - ha ipotecato la propria vita per la sua libert e dev'essere pronto a
rischiarla sul campo di battaglia se
vuole estinguere quell'ipoteca.
Proprio la disponibilit a morire sul campo di battaglia confer alla vita
politica dei greci liberi il suo carattere
eroico. La tesi conclusiva (e sconfortante) di Hanson che il mondo moderno
conserva tanto l'idea della
democrazia quanto della battaglia decisiva ma, mentre non ha fatto progressi
sulla prima, ha snaturato in
maniera enorme la seconda. Per i greci la battaglia era uno scontro breve e
diretto tra entit politiche che aveva
lo scopo di salvare le famiglie e le propriet da un coinvolgimento distruttivo
in un processo decisionale brutale.
Il mondo moderno, che ha cercato in tutti i modi di dare un esito ancor pi
immediato e un risultato ancor pi
conclusivo alla battaglia frontale - applicando alla guerra la ricchezza e
l'ingegno dell'uomo anzich
impegnarne il coraggio e la forza muscolare -ha ottenuto l'effetto
diametralmente opposto: si esige oggi
dall'uomo molto di pi di quanto sia mai stato chiesto ai greci, e la minaccia
la devastazione totale. La guerra
di tipo occidentale, che i greci concepivano come una prova del fuoco, ha
portato i loro discendenti nell'abisso
dell'olocausto. La meditazione brillante e commovente di Victor Hanson sui passi
fatali lungo questa strada
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pu contribuire, speriamo, ad allontanarci da quella voragine.
L'ARTE OCCIDENTALE DELLA GUERRA
Per William Frank Hanson Justice Pauline Davis Hanson
Prefazione
Attraverso lo studio degli scontri di fanteria durante l'et classica in Grecia
mi sono proposto di ricostruire
l'ambiente di quell'esperienza bellica e le sofferenze e le difficolt
eccezionali sopportate dai combattenti.
Spero tuttavia di offrire al lettore qualcosa di pi di una descrizione dei
colpi dati e subiti. mia convinzione,
infatti, che il modo dei greci di dar battaglia totale abbia lasciato un'eredit
ormai gravosa al mondo occidentale:
l'idea che qualunque battaglia che non assuma i connotati di un confronto testa
a testa, solidamente fondato
tra nemici che rifuggano atteggiamenti estremi, o dovrebbe essere sgradita. Il
tipo di guerra praticato dai
greci ha fatto maturare in noi un'avversione per il terrorista - guerrigliero o
soldato irregolare che dir si voglia
- che decide di combattere in modo diverso e non disposto a morire sul campo
di battaglia per uccidere il suo
nemico. Non proviamo simpatia per l'estremista religioso o politico, per il
fanatico suicida che preferisce
perire anzich passare attraverso la prova del fuoco dal combattimento diretto.
Negli ultimi
duemilacinquecento anni abbiamo fatto nostro il modello greco della battaglia
campale al punto da non esserci
quasi accorti che in realt la guerra occidentale non si rifatta a quel
modello per molto tempo e da non averne
rilevato la scomparsa nelle guerre pi recenti del XX secolo.
Non esiste ormai esercito nordamericano o europeo che possa combattere la
battaglia di tipo greco per
comune consenso a meno che, per ironia, non scoppi una guerra al nostro
interno. Ci potrebbe verificarsi
solamente nel caso in cui avvenissero sollevazioni sociali e politiche
gigantesche in Europa occidentale o in
America settentrionale, o una collisione frontale tra Europa dell'Ovest ed
Europa dell'Est, ogni anno meno
probabile, soprattutto per la minaccia delle armi nucleari; per non parlare
dell'arsenale biologico e chimico,
meno pubblicizzato ma ancor pi letale. In Medio Oriente la natura peculiare
della guerra intermittente cui si
assiste in questo secolo rivela una realt affatto diversa dal modello classico.
E dunque assolutamente
improbabile che le divisioni scelte di fanteria d'Europa e d'America, con tutta
la loro dispendiosa potenza di
fuoco, si mettano in marcia come i greci in vista di un confronto decisivo. Con
chi potrebbero scontrarsi
oggi? Chi avremmo di fronte dall'altra parte del campo di battaglia?
Un fenomeno che durante i quarantanni passati, un periodo di relativa calma in
Occidente, ha conosciuto
larghissima diffusione sia fra i veterani sia - in modo pi inquietante - tra i
profani l'esperienza indiretta della
guerra. Negli ultimi tempi sono usciti in Inghilterra e in Francia numerosi
studi seri, ben scritti e
accuratamente illustrati, sulle guerre combattute da greci e romani, che hanno
appagato l'entusiasmo generale
per la storia militare. Ho cercato di rendere questo libro accessibile e
interessante per quello stesso pubblico
di massa; il retaggio del modo greco di combattere non ha forse influenzato
milioni di esistenze in Occidente
anche nel nostro secolo? La nostra cultura da pi o meno per scontato che i
governi non debbano spiegare
agli uomini e alle donne, al pari degli antenati greci, che il solo modo per
sconfiggere un nemico di scovarlo e
impegnare battaglia per chiudere tutta la questione nel modo pi rapido e
diretto possibile; e cos si sono
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lanciati nella suprema assurdit della guerra, la battaglia campale.
Sono necessarie alcune precisazioni per gli storici dell'et classica che
potrebbero restare delusi dalla scelta
del materiale: non mi sono giovato, per esempio, delle informazioni sulla
percentuale delle perdite, sul
problema della sepoltura, sull'approvvigionamento e cosi via; n ho tracciato un
quadro della situazione
tattica (e a fortion strategica) sul campo di battaglia. Questi argomenti sono
dibattuti a fondo negli articoli di
riviste erudite e in particolare nei recenti volumi che Kendrick Pritchett ha
dedicato alla guerra in Grecia. Ho
voluto invece concentrarmi sul fante della falange proprio mentre combatteva, e
ho inteso presentare qualche
breve riflessione e non un resoconto esauriente a proposito di ci che vedevano
e facevano i soldati della
Grecia classica durante quei pochi minuti di aspro scontro. La mia speranza per
di riuscire a ridestare un
certo interesse per il mondo da tempo dimenticato del combattente greco. Per
troppo tempo stato visto
solamente come cittadino, soldato, marciatore e recluta, e non come guerriero,
uccisore e vittima. Le mie citazioni dalla letteratura e dai vasi decorati sono
pi rappresentative che esaurienti, e ne ho ignorato molte altre
sia in nome della concisione sia, a essere sincero, per timore di annoiare il
lettore con una complicazione di
fonti che probabilmente non consulter mai. Spero nondimeno di aver presentato
in modo imparziale le
testimonianze selezionate e che le ulteriori informazioni raccolte da altri
studiosi avvalorino le mie conclusioni
generali circa il carattere della battaglia oplite. Non certo questa la sede
per discutere le maggiori controversie
sulla guerra greca, la natura del combattimento omerico, la riforma oplite, la
battaglia di Leuttra, tuttavia
devo confessare che i recenti tentativi di dimostrare in qualche modo la
generale fluidit della falange o di
mettere l'accento sulle scaramucce individuali invece che sulla pugna collettiva
non hanno alcun senso: non
mi pare che quest'idea si fondi su una lettura corretta delle antiche
testimonianze.
La battaglia tra opliti coincide con la stessa ascesa della cittstato, e ho
perci cercato di attingere dal
periodo 650-338 a. C. la maggior parte delle testimonianze. Tuttavia buona parte
di queste, sia letterarie sia
pittoriche, sono frammentarie e devono essere talora integrate con informazioni
provenienti dal periodo
ellenistico successivo e occasionalmente dal periodo romano. Ritengo che alcuni
punti, per esempio il panico
nella formazione a colonna o le ferite riportate in battaglia, siano pi chiari
se presentati in un contesto pi
ampio.
necessario spiegare anche la struttura e l'organizzazione di questo saggio.
Il volume diviso in cinque
parti. La prima, I greci e la guerra moderna (capitoli 1-5), affronta la
tradizionale mancanza di interesse degli
studiosi per la realt concreta della battaglia in Grecia, suggerendo che non ci
si pu limitare a studiare tattica e
strategia se si vuole capire perch il modo di combattere dei greci ha avuto una
simile influenza in Occidente.
Questa parte contiene due capitoli di carattere generale: un resoconto storico
dell'evoluzione della guerra tra
le societ agrarie delle cittstato e un'analisi delle fonti d'informazione
sulla battaglia nell'antica Grecia, che
spero dia al lettore un'idea generale degli autori e delle opere contemporanee,
citati sempre tra parentesi. La
seconda parte L'ordalia dell'oplite (capitoli 6-8) descrive le fatiche fisiche e
psicologiche che ogni individuo
affrontava prima ancora che si fosse scatenata la battaglia. Nella terza parte,
Il trionfo della volont (capitoli 9-
11), ho discusso la presenza del condottiero a fianco dei suoi uomini, gli
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stretti rapporti familiari e parentali
tra i soldati greci nella formazione di battaglia e l'uso e l'abuso di alcol:
temi utili a spiegare perch negli attimi
che precedevano l'attacco gli uomini decidevano di norma di combattere e non di
fuggire. Questa parte
contiene materiale comparativo di periodi molto successivi, non soltanto per
dimostrare l'universalit
dell'esperienza della battaglia, ma anche per provare le affinit dei posteriori
scontri di fanteria in Occidente
con il modello greco. La quarta parte, Battaglia! (capitoli 12-16), segue la
successione degli eventi, dal
momento in cui gli uomini della falange cominciavano a muoversi fino a quando
gli sconfitti venivano rimossi
dal campo di battaglia. Da questo momento ho drasticamente ristretto il campo
d'osservazione, per cercare di
discutere dal punto di vista del soldato la meccanica dello scontro con la
lancia e lo scudo, in modo da spiegare
il processo mediante cui una falange costruiva la sconfitta della falange
avversaria. Spero che il lettore trovi
avvincente la narrazione e che al contempo gli studiosi si trovino di fronte a
nuovi interrogativi che mettano in
discussione le vecchie ipotesi. Nella conclusione (Dopo la battaglia, capitoli
17-19) si fa presente che
l'esperienza della battaglia non finiva per i greci con la fine dei
combattimenti: i feriti morivano a giorni,
settimane e perfino mesi di distanza, e la carneficina di corpi straziati e di
armi rimaste sul teatro dello scontro
imprimeva nella mente di coloro che vi avevano assistito, soldati e civili,
un'immagine che li perseguitava per
anni. Nel breve epilogo ho ripreso gli interrogativi pi generali sollevati nei
primi due capitoli, cercando di
collegare i dettagli pittoreschi della battaglia nella Grecia antica ai problemi
del conflitto nella nostra societ.
Negli ultimi vent'anni si fatto strada, almeno negli Stati Uniti, un modo
piuttosto casuale di scrivere i nomi
greci, che nondimeno ha funzionato egregiamente. In questo volume alcuni nomi di
persona e di luogo, non
universalmente conosciuti, sono traslitterati direttamente dal greco (per
esempio Karneios o Amyklai). I nomi
propri pi conosciuti sono trascritti nella forma pi nota onde evitare inutili
confusioni (per esempio Cipro,
Corinto o Socrate). Spero che questo non sistema che funziona e fa affidamento
sul buon senso non venga
immediatamente definito arbitrario e sostituito perci con un metodo complesso.
Poich mi auguro che questo volume venga letto anche da chi non frequenta
l'universit, non ho scritto
alcuna parola greca in caratteri greci e in generale ho evitato anche di
riportarne la forma traslitterata, anche se
in alcuni casi ci si dimostrato impossibile. I riferimenti alle fonti
primarie della letteratura classica citate tra
parentesi nel testo seguono di norma l'ordine dei capitoli e dei paragrafi
trovato nella serie di testi greci e latini
di Oxford. Non ho scritto note a pie di pagina e i riferimenti a fonti
secondarie nelle lingue moderne sono
ridotti di proposito al minimo indispensabile (compaiono nel testo soltanto il
cognome dell'autore e la pagina
del libro cui si fa riferimento). Le decorazioni dei vasi sono elencate in base
al nome dell'autore e al numero
della tavola nel volume in cui se ne pu trovare la riproduzione (non ho citato
queste immagini, come
sarebbe opportuno fare, riportando le abbreviazioni e i numeri standard elencati
da Beazley o da altri cataloghi
importanti. Ho preferito per due ragioni il riferimento ai libri: per la loro
accessibilit al grande pubblico e per
la qualit delle riproduzioni).
Dal momento che la battaglia nella Grecia antica, diversamente dalla strategia
e dalla tattica, non stata
analizzata molto spesso dagli studiosi dell'et classica, mi sono basato quasi
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esclusivamente sulle testimonianze
antiche, come rivelano i riferimenti. Ci non significa per che abbia
collezionato di persona tutte queste
citazioni. Pur avendo passato in rassegna quasi tutti i maggiori testi letterari
e storici greci, molte cose mi
sarebbero sfuggite se non fossi stato di continuo avvertito della presenza di
brani che presentano un'attinenza con
i temi scelti grazie al lavoro di altri studiosi. La bibliografia sulla guerra
nell'antichit sterminata, come
dimostra la selezione di testi citati nel volume, ma in questa sede doveroso
richiamare l'attenzione su due
opere uniche: l"enciclopedia in quattro volumi sulla guerra greca di Kendrick
Pritchett e l'accurato resoconto
di J. K. Anderson sulla tattica di battaglia in Grecia nel IV secolo a. C. Non
esagerato affermare che non avrei
assolutamente potuto scrivere questo libro senza il lavoro di entrambi questi
autori. ovvio che The Face of Battle
di John Keegan ha costituito tanto il modello quanto la fonte d'ispirazione per
la mia analisi della battaglia
greca, su cui cominciai a riflettere circa dieci anni or sono quando lessi per
la prima volta, senza peraltro
apprezzarlo appieno, questo studio decisamente originale, pervaso da tanta
vivacit da modificare definitivamente
l'idea stessa di ci che deve essere la storia militare.
Per finire, devo ringraziare quei pochi classicisti che mi hanno scritto o fatto
visita a Selma, California, nei
quattro anni dopo che ebbi terminato la graduate school e mi misi a lavorare
come agricoltore. Il professor
Leslie Threatte dell'University of California a Berkeley, John Lynch
dell'University of California a Santa Cruz
(che stato il primo a farmi conoscere l'antichit classica con un ciclo di
insoliti corsi di greco e latino, circa
quindici anni or sono) e Michael Jameson, che stato il mio thesis adviser alla
Stanford University, mi hanno
insegnato gran parte di ci che so dei greci. Se non fosse stato per i
professori Steven Oberhelman, Josiah
Ober e Deborah Kazazis (che sono stati miei colleghi all'American School of
Classical Studies di Atene), avrei
forse perso ogni interesse per l'erudizione classica. Ancora una volta Edwin
Spofford e ancor di pi Mark
Edwards, del Classics Department a Stanford, mi hanno evitato ripetutamente
grossolani errori sia nella
ricerca che nell'insegnamento, dandomi suggerimenti particolarmente ben fondati.
Sia il professor Edwards sia
il dottor Lawrence Woodlock di Stanford (classicista, avvocato e amico di
vecchia data) hanno letto tutto il
manoscritto e con le loro critiche hanno contribuito a migliorarlo in misura
decisiva. Tre laureati in lingue
classiche alla California State University di Fresno - Nancy Thompson (oggi alla
Stanford University), Susan
Kirby e Megan Bushman -hanno vagliato la prima stesura del manoscritto e mi
hanno altres fornito valide
indicazioni sul mondo antico e sul mondo moderno. Jennifer Heyne ha battuto a
macchina il testo e ha curato
varie stesure, spesso confuse; ringrazio lei e il preside del Department of
Foreign Languages, California State
University di Fresno, il quale le ha permesso di dedicarsi con tanta diligenza a
questo volume. Elisabeth Sifton,
editor del mio libro, con il suo incrollabile entusiasmo mi ha dato la fiducia
necessaria per continuare a
riflettere e a scrivere. Mio fratello Alfred e mio cugino Rees si sono assunti
buona parte delle mie
responsabilit nel ranch della nostra famiglia in un momento davvero disperato,
deprimente e ormai
dimenticato per l'agricoltura americana, permettendomi cos di continuare la
ricerca per il libro. Nel corso
degli ultimi due anni mia moglie Cara ha dato il suo contributo alla fattoria,
ma facendo al contempo molto di
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pi: ha letto la stesura finale del testo e si presa cura dei nostri tre figli
piccoli, Pauline, William e Susannah,
che sono stati per tanto tempo senza il loro papa. Dedico il libro ai miei
genitori per tutto ci che hanno fatto.
Maggio 1987, Selma, California
Victor Davis Hanson

parte PRIMA I greci e la guerra moderna


1. Oggetti comuni e gente comune
Una volta al club mi ha parlato della congiura di Catilina, e allora ho smesso
di dargli retta per pensare a Tom Thumb.
Samuel Johnson
Pi di cinque anni fa, in una breve monografia, Warfare and Agriculture in
Classical Greece, ho scritto che il
modo preferito di dare l'avvio alla battaglia di fanteria tra le cittstato
della Grecia classica, ovvero la
devastazione delle colture, era un paradosso vero e proprio. Quasi tutte le
fonti letterarie antiche sottolineano
che gli stessi greci erano convinti che la devastazione di campi di grano,
frutteti e vigneti fosse un fatto grave, e
solitamente si presume che la guerra in Grecia si fondasse sulla premessa che i
belligeranti cercavano di
impedire ulteriori attacchi degli invasori alla terra coltivata, affrontandosi
in una battaglia decisiva di fanteria
nelle pianure al fine di preservare i mezzi di sussistenza dei difensori. Ma a
un esame pi attento sono emerse
dalla letteratura, dall'archeologia e dall'epigrafia greche un buon numero di
indicazioni contraddittorie che
sembravano puntare in realt nella direzione opposta: la sola difficolt di
distruggere alberi, vigneti e campi di
grano rendeva in sostanza improbabile una distruzione su larga scala. Anzi, il
lavoro agricolo riprendeva subito
dopo la partenza degli invasori e perfino nel corso della loro occupazione,
quando si potrebbe immaginare che
la distruzione delle fattorie, la devastazione dei campi di grano e lo
sradicamento di frutteti e vigneti
rendessero impossibile quest'impresa per un'intera generazione. Per esempio, a
dispetto delle lamentele dei
contadini attici, di cui ci parla Aristofane nelle sue commedie, per le perdite
causate dalle incursioni spartane,
in altri passi delle stesse commedie (rappresentate per la prima volta durante
la guerra del Peloponneso)
abbondano i riferimenti sia ai prodotti agricoli sia alla possibilit di
muoversi liberamente per la campagna.
Anche Tucidide, lo storico noto per la sua tetraggine che ha scritto il
resoconto pi dettagliato sulle devastazioni compiute da Sparta durante le fasi
archidamica (431-421) e deceleica (413-404) della guerra del
Peloponneso, ritiene che sul lungo periodo le perdite reali per l'agricoltura
ateniese non siano state pesanti. Ma
allora perch gli uomini si mettevano in marcia per combattere il nemico quando
arrivava sulle terre coltivate?
Non credo che la ragione effettiva della battaglia tra fanterie pesanti del
periodo classico fosse quella di
prevenire una catastrofe agricola; c' piuttosto motivo di credere che sia nata
come provocazione o reazione alla
semplice minaccia di attacco ai campi. La sola vista dei devastatori nemici che
attraversavano liberamente le
terre degli invasi era considerata di per s una violazione tanto dell'intimit
individuale quanto dell'orgoglio
municipale. Di solito si reputava necessario reagire con rapidit; i contadini,
pesantemente armati e chiusi nelle
loro corazze, marciavano fino a una piccola piana - che in tempo di pace era
normalmente il loro luogo di
lavoro - dove uno scontro breve ma brutale poteva dare due esiti: qualche
concessione all'esercito nemico
oppure, per gli invasori sconfitti, un'umiliante ritirata forzata. La vittoria
finale cos come la intendiamo noi e
l'asservimento dei vinti non erano giudicate opzioni possibili dalle due parti.
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Le battaglie tra opliti erano
scontri tra piccoli proprietari terrieri che cercavano di comune accordo di
limitare la guerra (e quindi il
massacro) a un'unica, breve occasione, sia pure spaventosa.
Per ironia della sorte, la maggior parte delle cittstato (con la rilevante
eccezione di Atene verso la fine del V
secolo a. C.) non dubit mai dell'efficacia delle devastazioni compiute dal
nemico sulle terre coltivate, che
continuavano prima e dopo queste battaglie ritualizzate e combattute secondo
determinate norme, anche se si
pu essere certi che il pericolo peggiore per qualunque fantecontadino era una
morte dolorosa sul campo di
battaglia e non una lenta agonia per fame provocata dalla perdita della sua
terra. Il modo di combattere dei
greci dev'essere considerato un'idea, una percezione che si era fatta strada
nella mente dei piccoli contadini: la
loro terra avita doveva a tutti i costi restare inviolata - aporthets - e non
doveva essere calpestata da altri che da
loro stessi; tutti i cittadini della plis erano pronti a combattere per
difenderne l'integrit non appena si aveva
notizia del pericolo. Al volgere del V secolo a. C, dopo duecento anni di guerra
combattuta tra opliti, Atene e
altre comunit impararono che poteva essere pi vantaggioso asserragliarsi
dentro le mura della citt e rischiare
che il nemico devastasse le terre coltivate; a quel punto che fu messo in
discussione e rischi di scomparire il
rituale formalizzato della battaglia campale tra opliti. La rapida evoluzione
delle milizie ausiliarie e dell'arte
dell'assedio nel IV secolo accompagn queste idee nuove e fece s che da allora
in poi la battaglia si trasformasse
da episodio ben circoscritto in un'operazione pi sistematica, e fosse
combattuta non pi in un'area limitata, ma
si espandesse nel territorio, dando al vincitore un'opportunit nuova di imporre
non gi un'umiliazione
benevola bens, in molti casi, la resa incondizionata e l'assoggettamento degli
sconfitti. In breve, perse valore la
nozione stessa del vincolo irrevocabile tra battaglia di fanteria e agricoltura.
Nel mio precedente saggio ho sostenuto che la devastazione agricola doveva
essere considerata
principalmente sul piano economico: sollevazioni civiche durante i periodi che
seguivano alle guerre opliti,
anche lunghe, non andrebbero attribuite alle perdite inflitte in tempo di guerra
all'agricoltura, giacch le
campagne subivano in realt danni assai lievi. Capisco tuttavia che esistessero
anche implicazioni di carattere
militare che riguardavano la natura stessa della battaglia. I fanti si mettevano
in marcia non per difendere i
propri mezzi di sussistenza e neppure le case avite, ma piuttosto per un'idea:
Videa che nessun nemico poteva
marciare tranquillamente per le pianure greche o, come ha scritto Temistocle,
che nessun uomo divenga
inferiore o ceda il passo a un altro (El. VH 2.28).
Debbo confessare che le idee iniziali che sfociarono in quel primo saggio non
nascevano solo da un'attenta
lettura dei testi letterari e storici greci, da qualche passeggiata nella
campagna attica o da un esame delle
collezioni epigrafiche, anche se ho detto che tali fonti confermano a grandi
linee la mia tesi. stato invece
l'interesse concreto nato dalle difficolt e dagli insuccessi nei tentativi di
sradicare alberi da frutta e vigneti in una
piccola fattoria della San Joaquin Valley in California a suggerire che tali
problemi non potevano che risultare
ingigantiti (come al tempo di mio nonno, nelle fattorie in cui non c'erano
trattori e seghe a nastro) l dove il
processo non era un compito occasionale e fastidioso per una frazione
trascurabile della popolazione bens una
preoccupazione reale nella mente di ciascun cittadino della plis classica. Mi
ha inoltre colpito l'eccessiva
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sensibilit e l'irrazionalit dei miei attuali vicini (e di me stesso) di fronte
alla minima incursione sulle loro terre da
parte delle truppe dei giovani cacciatori che vengono dalla citt o dei
cavalieri della domenica, che invadono i
campi a loro piacimento. Pur certi che pompe elettriche, capanni, condotti per
l'irrigazione e frutteti fossero
stati distrutti o perlomeno manomessi dagli invasori, quando andavamo a
verificare non trovavamo altro che
qualche foro di pallottola o gli escrementi dei cavalli su un sentiero.
ovvio che non credo si debba immaginare la societ greca classica congelata
nel tempo e nello spazio, come un
modello culturale conservato nel corso dei millenni per un'elite ristretta. Gli
umanisti delle nostre universit che
risalgono al V secolo a. C. per trovare sollievo nella magnificenza della
letteratura, dell'arte e della filosofia greche
si fanno troppo spesso un'immagine di una societ che non mai esistita.
Parlano di scrittori, artisti, filosofi e
altri uomini di genio, ma non in relazione alla grande maggioranza del popolo
greco, con le sue insignificanti
preoccupazioni, e quel che peggio li isolano dal paesaggio concreto in cui
erano immersi. Nelle loro mani gli
studi classici si sono sempre pi rarefatti, isolati da coloro che sicuramente,
oggi pi che mai, avrebbero bisogno di
quella guida: tutti i cittadini seri e lavoratori della nostra plis. Troppi
storici, come pu verificare chiunque
frequenti i simposi delle societ erudite, si sono in qualche modo convinti che
l'Atene classica era una comunit
affine alle loro universit, un'idea non solo palesemente sbagliata, ma anche
rischiosa: questa posizione ha in
pratica fatto s che poche risorse siano state investite per questo loro
interesse limitato, il che a sua volta stende
un altro velo sopra i greci e li allontana di un'altra generazione dal resto di
noi. Ne un buon esempio il relativo
disinteresse degli storici dell'et classica per l'agricoltura nella Grecia
antica. Quasi l'8O per cento dei cittadini
delle cittstato antiche era occupato in agricoltura, e i problemi
dell'approvvigionamento alimentare
dominavano pressoch ogni dibattito economico o politico. Ciononostante, fino a
non molti anni fa erano stati
dedicati all'argomento non pi di una mezza dozzina di studi. Per ironia, gli
storici moderni hanno mostrato un
interesse molto pi vivo per il pastoralismo, una visione artificiale e
distaccata della campagna, creata da
qualche antico in cerca di evasione che al pari dei suoi moderni ammiratori era
spesso del tutto estraneo alle
preoccupazioni della societ contemporanea.
N ci sono di maggior aiuto gli scienziati sociali che prendono in esame il
ruolo del lavoro, della schiavit, delle
donne, della famiglia e dei rapporti di parentela con l'obiettivo di trovare
qualche struttura della societ classica
che avvalori le loro convinzioni sulla realt politica contemporanea: questi
studiosi hanno infatti,
immancabilmente, qualche priorit politica.
Sono convinto invece che la Grecia classica ci offra ancora la migliore
spiegazione, forse l'unica spiegazione
di tipo intellettuale, di come sono stati affrontati e risolti i problemi
pratici dell'esistenza quotidiana nella
societ occidentale. Se concentriamo la nostra attenzione sulle attivit terrene
e comuni - per esempio le
tecniche agricole o quelle belliche nell'antichit - scopriamo che in un periodo
breve e ben documentato della
storia l'onest e la chiarezza di espressione in ogni tipo di indagine erano
d'importanza vitale per i pragmatici
greci del V secolo a. C, per individui come Socrate, Sofocle e Pericle che
facevano i tagliapietre, i soldati, i
contadini e gli uomini d'affari. Il processo inevitabilmente circolare: i
problemi contemporanei d'importanza
vitale, che all'inizio ci sono parsi tanto semplici, diventano immancabilmente
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complessi quando scopriamo in
che modo sorprendente i greci li vivevano in concreto, e ci a sua volta ci
porta ad apprezzare ancor pi la
versatilit e la novit dell'eredit greca.
Ma ovviamente si portati a vedere la Grecia antica che si vuole vedere: per
esempio, se gli strateghi militari
contemporanei mostrano la pericolosa tendenza a considerare soltanto di
secondaria importanza l'esperienza (e
perci i tormenti) dei soldati in battaglia, tanto a livello tattico sul campo
quanto nella visione globale dello
stratega nucleare, immagino che la storia greca possa fornire la griglia
intellettuale a sostegno di questa posizione:
strategia e tattica in senso astratto sono dopotutto i termini greci che
indicano l'arte di comandare e di schierare le
truppe. I responsabili della Somme, di Schweinfurt, del Vietnam e di altre
sciagure hanno attinto all'esperienza
dei loro antichi colleghi, gli studiosi di tattica a tavolino del IV secolo a.
C. o il pedante ellenistico, ma non al
mondo di Eschilo e di Socrate, che conoscevano il campo di battaglia per aver
militato come comuni opliti nella
falange ateniese. L'esempio della Grecia classica indica che c'era, c' e sempre
dev'esserci un nesso tra gli
adolescenti, gli sbarbatelli che uccidono e coloro che comandano o noi che li
ignoriamo.
L'unico prerequisito di qualunque studio sulla Grecia classica la necessit di
prendere in considerazione
ci che appare comune, oltre a ci che straordinario, se si vuole capire e
quindi assimilare le lezioni pi
profonde di quegli uomini eminentemente pratici. Inoltre, sebbene l'universit
sia oggi l'ultima isola in America
in cui ci si pu impadronire degli strumenti filologici necessari per studiare
l'antica Grecia, di certo
l'universit non ci ha insegnato, non ci insegner n pu insegnarci a
utilizzare le conoscenze acquisite, un
compito individuale sgradito a tanti studiosi dell'et classica. Ma le
ricompense, per chi si rivolge alla Grecia
classica per studiare la realt comune, sono generose, perch le risposte finali
sono sempre di natura morale e
sono con molta maggior probabilit applicabili e comprensibili pressoch a tutti
noi.
2. Un modo occidentale di fare guerra
Perci, se anche il meglio male, resisti e fa del tuo meglio, mio giovane;
resisti e combatti e guarda il tuo ammazzato e beccati
la pallottola nel cervello.
Alfred Edward Housman
Una guerra crudele e gloriosa diventata crudele e sordida.
Winston Churchill
Potenza di fuoco e pesante armamento difensivo - non la sola capacit, bens il
desiderio di infliggere un
colpo fatale per poi resistere risolutamente, senza ritirarsi, a qualunque
controffensiva - hanno sempre
costituito il marchio di fabbrica degli eserciti occidentali. Clausewitz pensava
che l'obiettivo reale di ogni
conflitto fosse acquisibile con un colpo di maglio: la distruzione totale
delle forze armate nemiche sul
campo. Ritroviamo anche qui il genio di Napoleone, il quale cap, come ammise
Jomini, che il primo mezzo
per ottenere grandi risultati era di concentrarsi soprattutto sulla distruzione
dell'esercito nemico, con la
certezza che gli stati o le province cadono da soli quando non possiedono pi
una forza organizzata che li
difende (Earle, p. 88). Proprio questo desiderio occidentale di un'unica,
grandiosa collisione di fanteria, di un
brutale massacro con armi bianche tra uomini liberi sul campo di battaglia, ha
sbigottito e atterrito i nostri
avversari del mondo non occidentale per pi di duemilacinquecento anni: Tra gli
elleni esiste l'uso della
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guerra. Ma per la loro stupidaggine e inettitudine la conducono nella maniera
pi balorda, rimarcava nel
490 Mardonio. Secondo Erodoto, Mardonio era il nipote di Dario e comandante
dell'armata di Serse alla
vigilia della grande invasione persiana in Europa. Si dichiarano la guerra, e
poi si scelgono il terreno migliore
e pi in pianura per scendervi a combattere; sicch, anche vincendo, ne
riportano gravi conseguenze; per
non dire dei vinti, che restano distrutti. Mentre dovrebbero, gente di una
stessa lingua, risolvere le contese
trattando con messi e con araldi, e con ogni mezzo prima di ricorrere alle armi
(7.9.2). Il resoconto di
Erodoto rivela in quest'uomo meraviglia, o forse paura, rispetto al modo di
combattere dei greci e al loro
desiderio di infliggere danni, quali che ne fossero i costi. Vuole forse
suggerire come Mardonio ben sapesse che
quegli uomini occidentali, con i loro quadrati ben ordinati, l'armamento
studiato con cura e le loro
esercitazioni, erano in realt piuttosto irrazionali e quindi alquanto
pericolosi. Tutti i vari contingenti del
grande esercito persiano, il cui aspetto e fragore apparivano tanto minacciosi,
in battaglia si comportavano in
modo assai diverso e prevedibile. Secondo quanto dice Erodoto, i persiani erano
vittime della tendenza pi
pericolosa in guerra: il desiderio di uccidere senza per sacrificarsi.
Gli americani, a dispetto di una tradizione rivoluzionaria di attacchi a
sorpresa e di imboscate tese da gruppi
eterogenei di pionieriguerriglieri, sono le ultime vittime di quest'eredit
classica; nelle guerre recenti le forze
armate americane hanno sacrificato sul campo di battaglia la mobilit, la
manovra, e se vogliamo la grazia, alla
possibilit dell'assalto diretto e totale e dell'attacco frontale contro il
grosso della forza del nemico,
all'opportunit di abbatterlo con un sol colpo, alla speranza di riportare una
vittoria militare decisiva sul campo di
battaglia. Quando scoppia la guerra -ragionavano gli strateghi della fanteria
americana nel XX secolo - una sola
dev'essere la domanda posta a un comandante a proposito di una battaglia: non
quale fianco ha attaccato, n
in che modo ha utilizzato le riserve o come ha protetto i suoi fianchi, bens se
ha combattuto (Weigley, p. 6).
Al pari dei greci dell'et classica, che non utilizzavano riserve, attacchi sui
fianchi e retroguardie, gli strateghi
americani hanno attribuito un'importanza maggiore all'applicazione immediata
della forza contro il nemico che
non alle arti della manovra e dell'accerchiamento. Abbiamo perlomeno dichiarato
che la vittoria si acquisisce
soltanto grazie a un attacco frontale che dura fino a quando una delle due parti
crolla. Manovrare non basta per
ottenere le vittorie, dicevano gli americani. La battaglia il teatro della
violenza pi estrema in guerra.
Poich il solo atto prescritto che pu dare la vittoria, dobbiamo essere
pronti a vincere a qualunque costo,
anche a prezzo del sangue. Tutti i preparativi in guerra devono tendere alla
vittoria in battaglia (Weigley, p. 7).
Tuttavia, l'ultima generazione, al pari di Mardonio nella storia di Erodoto, ha
preso a criticare, quando non
a ridicolizzare, questo modello di guerra, quest'eredit della battaglia -
frontale e concentrata in un unico
episodio -trasmessaci dai greci. La fanteria pesante, la tattica dell'assalto
diretto, la stessa potenza di fuoco degli
eserciti americani ed europei, che un tempo catturavano l'immaginazione del
pubblico in quanto apparivano
eroiche, si sono rivelate penosamente inefficienti nei conflitti postcoloniali
e nelle sommosse terroristiche
successive alla seconda guerra mondiale, quando gli occidentali si sono
impantanati nelle giungle e nei terreni
montuosi dell'Africa, dell'America Latina e dell'Asia sudorientale. Gli eserciti
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continentali tradizionali delle
democrazie occidentali non avrebbero dovuto essere spediti laggi per ragioni
sia politiche sia strategiche (la
guerra sbagliata nel posto sbagliato al momento sbagliato). Invece, i
guerriglieri e le forze irregolari male
organizzate, i neoterroristi che sono stati per secoli disprezzati dai governi
occidentali e identificati con i poveri
male equipaggiati e senza terra, oggi attirano la nostra attenzione, suscitano
paura e talvolta ammirazione, non
tanto per motivi politici e neppure per il loro valore in battaglia, quanto
grazie al loro inspiegabile successo
nel tendere imboscate e nel sottrarsi all'attacco diretto: non cercano di
ingaggiare battaglia, bens di evitare lo
scontro di fanteria. Proprio l'incapacit di imporre all'esercito nordvietnamita
un conflitto di tipo occidentale
fin per paralizzare l'enorme esercito degli Stati Uniti, costringendolo a
ritirarsi dal teatro della guerra:
Quando fin la terribile battaglia di Dak To, sulla cima della collina 875,
annunciammo che erano stati uccisi quarantamila
dei loro; era stato un vero e proprio massacro, e anche se avevamo avuto forti
perdite si era trattato chiaramente di
un'altra vittoria americana. Ma quando si giunse sulla cima della collina, il
numero di NVA trovati fu di quattro. Quattro.
Naturalmente ne erano morti di pi, centinaia, ma i cadaveri rivoltati, contati,
fotografati e sepolti erano quattro. Dove,
colonnello? E come, e perch? Spettrale. Tutto lass era spettrale, e lo sarebbe
stato anche se non ci fosse stata la guerra.
Ti trovavi in un luogo di cui non facevi parte, in cui le cose erano visioni che
bisognava pagare, un luogo dove non si
scherzava col mistero, ma ti ammazzavano non appena l'avevi violato. (Herr, p.
95)
Fu cos che Mao Zedong, Ho Chi Minh e Fidel Castro divennero i beniamini dei
mass media, i personaggi
che perfino i tradizionalisti pi intransigenti potevano ammirare bench a
malincuore. Il successo militare
confer loro anche credibilit politica, come combattenti per la libert che
tendono tranquilli l'imboscata alla
falange goffa e ignara degli occidentali, una massa rumorosa e simile a un
dinosauro che giunge troppo tardi e
inutilmente dispiega un'immensa potenza di fuoco contro un nemico che si gi
defilato. I nostri eroi
ottocenteschi, Wellington, Grant e Sherman, sono ormai avvolti nella nebbia, e
forse abbiamo anche cessato di
ammirare la valorosa e sanguinaria carica di Cortes e della sua piccola banda,
uomini che al pari dei Diecimila
di Senofonte prima di loro si erano fatti strada, grazie alla disciplina della
formazione, alla corazza e all'armamento superiore, attraverso una massa
brulicante di aztechi, guadagnandosi in tal modo una salvezza eroica:
Il numero dei nemici era doppio di quello dei cristiani; e sembrava quello un
conflitto che dovesse decidersi dal numero
e dalla forza bruta, piuttosto che dalla maggiore abilit. Ma non fu cos.
L'armatura invulnerabile degli spagnoli, le loro
spade di tempra impareggiabile, e la loro destrezza nell'adoprarle, dettero loro
vantaggi che superavano di gran lunga gli
incerti della forza fisica e del numero. Dopo aver fatto tutto quanto il
coraggio della disperazione pu far fare agli uomini,
la resistenza cominci a farsi sentire sempre pi debole da parte degli aztechi.
(Prescott, II, pp. 65-66)
ancora necessario studiare le origini della battaglia occidentale, se non
altro per quel brivido di curiosit
che proviamo, per il fascino morboso che emana da quel terribile cozzo di uomini
che, attaccando in massa
come i loro predecessori opliti, non si limitano ad azioni di disturbo contro il
nemico ma preferiscono
battersi per la vittoria nel modo pi rozzo, se non - come disse Mardonio -
insensato: la battaglia in cui
hanno il nemico a portata di braccio, per uccidere o essere uccisi. Tirteo, il
poeta lirico del VII secolo che
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scrisse per gli spartani nella seconda guerra di Messenia, del campo di
battaglia greco not solamente che
non un uomo valoroso in guerra chi non regge alla vista della strage, del
sangue (9.10.11). Si riferiva a
individui che non erano certamente dei codardi ma neppure degli estremisti,
bens dilettanti coraggiosi che
avevano trovato un modo di affrontare il nemico senza esitare. Quale che sia il
futuro della battaglia di fanteria
nell'era nucleare, questa brama interiore di una decisione netta, a dispetto
della carneficina, non svanir; non
pu svanire perch, come hanno scoperto i greci, dimora nell'oscuro dell'animo
di tutti noi. Tuttavia,
essenziale rammentare che il suo imperativo morale di porre fine in fretta e
con efficienza allo scontro, non
soltanto di mostrare coraggio e risolutezza.
Questo modo occidentale di portare l'attacco ha avuto un successo tale che ci
siamo in sostanza preclusi la
possibilit stessa che si ripresenti nel corso della nostra esistenza. Ci siamo
per cos dire ritirati dagli affari,
poich qualunque avversario potenziale ha ormai ben presente l'assurdit di uno
scontro aperto e deliberato su
un campo di battaglia cos come lo si intende in Occidente, contro la potenza di
fuoco e la disciplina della
fanteria occidentale. Ma per nostra disgrazia perdura l'eredit dello stile di
battaglia greco, un narcotico cui
non sappiamo rinunciare.
L'accorto generale spartano Brasida del V secolo a. C, durante una marcia
forzata attraverso la frontiera
ostile della Macedonia, difese per la prima volta nella storia europea questa
scelta della battaglia aperta, che si
porta appresso il disprezzo per le tattiche diversive. Racconta Tucidide che
cos Brasida si rivolgeva ai soldati,
con accenti infuocati, ricordando loro:
Costoro invece posseggono di spaventoso per gli inesperti solo l'aspettativa
dell'assalto, che sono spaventosi per la massa
d'uomini che presentano allo sguardo e irresistibili per l'altezza delle grida,
mentre quel vano agitare di armi ha un aspetto
minaccioso. Per chi resiste a queste impressioni, invece, costoro non sono in
battaglia altrettanto spaventosi, che non
essendoci nel loro esercito un posto assegnato a ciascuno, non hanno vergogna,
se incalzati, ad abbandonare la
posizione; inoltre il fuggire e l'assalire, che portano loro un'ugual fama di
valore, rendono impossibile distinguere il
coraggio, poich il loro modo arbitrario di combattere potrebbe facilmente
offrire a ciascuno un pretesto per salvarsi
decorosamente. E considerano pi sicuro del venire alle mani lo spaventarvi
senza correre rischi, che altrimenti
avrebbero gi usato con noi quell'altro metodo invece di quello attuale. Vedete
dunque chiaramente che tutto quello che
di pericoloso deriva da loro, in realt poco, uno spauracchio solo per la
vista e per l'udito. (4.126.5-6)
Non forse presente in tutti noi una certa ripugnanza per la tattica del
colpisci e fugg, per scaramucce e
imboscate? Non si cela in noi la sensazione, sia pure illogica e non ponderata,
che uno scontro diretto tra
uomini che, come dice Brasida, tengono duro sia in qualche modo un'opportunit
pi onesta e
certamente pi nobile per mostrare il vero carattere di un uomo e provarlo di
fronte ai suoi simili? Proprio
per questo la speranza di una battaglia di tipo greco non abbandonava mai il
crociato, la figura che pi di ogni
altra nella storia europea era innamorata dell'armamento classico e ardeva dal
desiderio di uccidere da
distanza ravvicinata. Durante la battaglia di Arsuz (1191)
i turchi non ressero per un solo momento alla carica dei temuti cavalieri
dell'Occidente. Il passaggio improvviso
dell'armata crociata da una difesa passiva a un'offensiva vigorosa giunse loro
cosi inaspettato che ruppero le file e
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fuggirono con vergognosa prontezza... segu una terribile carneficina di
infedeli. L'impeto dei crociati si abbatt su fanti e
cavalieri, riducendoli a una massa compatta che non poteva sfuggire facilmente,
cosicch i cavalieri si presero una
sanguinosa vendetta della lunga prova di sopportazione che era iniziata allo
spuntar del giorno. Prima che i musulmani
potessero sparpagliarsi e disperdersi nelle retrovie, furono falciati a
migliaia. (Oman, II, p. 315)
Come spiegare altrimenti la carneficina provocata da coloro che adottarono
questo modo assurdo di
combattere sulla Somme, a Verdun o a Omaha Beach? Per i greci, che molto tempo
prima avevano sviluppato
questa concezione della battaglia, se non ci si affrontava in una pugna leale
- vale dire in uno scontro tra
due falangi compatte alla luce del giorno - non si poteva parlare di
combattimento vero e proprio, anche se
risultava decisivo. La strada che indichi quella dei banditi e dei ladri -
fu l'aspro commento di Alessandro
Magno quando gli fu suggerito di attaccare i persiani di notte - il cui unico
fine l'inganno. Non posso
permettere che sempre la mia fama sia oscurata dall'assenza di Dario, dal
terreno angusto, dagli inganni della
notte. Sono risoluto ad attaccare apertamente e alla luce del giorno. Preferisco
rammaricarmi della sorte
avversa anzich provar vergogna per la mia vittoria (Curtius, Alexander, IV, p.
13). I greci del passato, ha
scritto lo storico greco Polibio, non avevano nessun desiderio di vincere con
trucchi e inganni, poich
solamente la battaglia corpo a corpo dava un esito chiaro (13.3.2-3). Era dunque
una follia che Filippo v di
Macedonia evitasse la battaglia campale, non entrasse in guerra per usare
l'espressione di Polibio,
decidendo invece di attaccare le citt della Tessaglia. Fino ad allora tutti gli
altri condottieri bench avessero
combattuto continuamente fra di loro in campo aperto, non avevano quasi mai
distrutto o danneggiato
gravemente le citt (18.3.7). Il romanticismo e la gloria nascono in parte
anche da un conflitto contro forze
nettamente preponderanti. Dai Trecento delle Termopi ai Diecimila di Senofonte
in Asia Minore, dalla
guarnigione romana di frontiera ai crociati fino alle truppe coloniali europee,
i comandanti occidentali,
sebbene numericamente inferiori, non si sono mai sgomentati di fronte alla
possibilit di riportare una vittoria
clamorosa mediante l'uso di armi e di tattiche superiori grazie alla coesione
tra i loro uomini.
Questa subordinazione voluta allo scontro faccia a faccia, a breve distanza,
spiega un altro oggetto di disprezzo
universale nella letteratura greca: coloro che combattono a distanza, il
peltasta dotato di armamento leggero, il
lanciatore di giavellotto, il fromboliere e soprattutto l'arciere.
(Eur., HF 157-163; Esch., Pers. 226-280, 725, 813, 1601-1603). Tutti costoro
potevano uccidere la fanteria
buona assolutamente per caso e senza correre grossi rischi. Peggio ancora,
agli occhi dei greci, erano spesso
individui che provenivano dagli strati inferiori della societ, che non potevano
permettersi un'armatura, oppure
reclute semiellenizzate provenienti da paesi stranieri come Creta e la Tracia,
che non avevano il fegato di
affrontare il cozzo delle lance n alcun desiderio di comportarsi lealmente.
Quando fu chiesto agli spartani
superstiti di Pilo come e perch si fossero inspiegabilmente arresi nel corso di
quella battaglia disastrosa della
guerra del Peloponneso, consegnandosi vivi ai disprezzati soldati con armamento
leggero e agli arcieri del
generale ateniese Demostene, uno dei prigionieri replic seccamente a propria
difesa che le frecce sarebbero
state una gran cosa se avessero saputo distinguere i coraggiosi dai vili (Tuc,
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4.40.2). Evidentemente la morte
indiscriminata e inattesa comminata da guerrieri lontani non era accettabile fin
dall'alba dell'era degli opliti,
come dimostra l'Illiade: Se ti provassi in duello a faccia a faccia con
l'armi, cos Diomede sfida Paride, l'arco e
le molte frecce non ti darebbero aiuto (11.386-387). Possiamo senz'altro
credere al geografo Strabone, vissuto
nel I secolo d. C, quando afferma di aver visto un'antica colonna scolpita
risalente a molti secoli addietro che
proibiva l'uso di qualsivoglia proiettile nella guerra della piana del Lelanto
combattuta nel VIII secolo a. C.
(10.448). Anche Plutarco, in un aneddoto di data incerta, ci rammenta che per
uno spartano morente a causa di
un colpo di freccia Non mi curo di morire, ma per le mani d'arciere effeminato,
quando non mostrai ancora
atto di valore {Mor. 234 E 46; cfr. Erod., 9.72.2). Persino nel cupo Tucidide
risuona una nota di pathos
quando descrive il fato di una falange di cinquecento tra i migliori opliti
ateniesi, che durante i primi anni della
guerra del Peloponneso si impantanarono malamente tra le selvagge regioni
montuose dell'Etolia, finendo per
essere massacrati dai giavellotti e dalle frecce delle forze irregolari
costituite dagli abitanti della regione e armate
alla leggera. Non esisteva una sola falange nemica che mettesse alla prova le
lance e le file compatte degli
ateniesi. Tucidide conclude tristemente affermando che uomini tutti di uguale
et perirono, i migliori che
Atene perdesse in questa guerra (3.98.4). Un altro ateniese del V secolo,
Eschilo, scrisse a proposito della
fanteria greca morta in una lontana battaglia combattuta in Oriente: tornano
urne rase all'orlo di cenere in
cambio di uomini (Ag. 434-436).
Il modo di combattere dei greci, come tanta parte della loro arte e
letteratura, era un vero e proprio
paradosso, un tentativo deliberato di sfruttare, modulare e quindi esasperare se
non consacrare la selvaggia
brama di violenza attraverso l'ordine inflessibile e la disciplina della
falange. L'avvicinarsi di una colonna greca
destava particolare sconvolgimento nei persiani, che avevano una concezione
opposta: le loro orde disordinate,
simili a una folla minacciosa, non erano portate per il massacro metodico. A
Maratona credettero che una
follia distruttiva avesse contagiato le file greche quando le videro
avvicinarsi di corsa nelle loro pesanti
armature, e senza dubbio, quando quegli opliti greci - inferiori per numero - si
avventarono contro di loro, i
persiani compresero perlomeno che quegli uomini non veneravano solamente il dio
Apollo, ma anche il feroce
e irragionevole Dioniso.
Il desiderio occidentale di un terrificante cozzo d'armi emerse all'inizio del
VII secolo a. C. in Grecia. Per la
prima volta nella storia europea i fanti pesantemente armati e lenti nei
movimenti si raggrupparono in
formazione e di comune accordo ingaggiarono battaglia, per riportare in poche
ore la vittoria decisiva o patire la
disfatta, nella quale si videro ginocchia piegate nella polvere, lance infrante
dai primi urti. Questo spiega che
cosa passasse per la mente del generale spartano Agesilao, vissuto nel IV secolo
a. C, quando permise
intenzionalmente ai suoi nemici di congiungersi, cos da poterli combattere
tutti insieme in un'unica battaglia
campale, quale che fosse il loro numero: Decise quindi che il miglior partito
fosse di lasciare che quella
congiunzione si effettuasse, se volessero battersi, condurre la battaglia in
maniera aperta e regolare (Sen.,
Hell. 6.5.16; Ages. 2.6). Non fa meraviglia che Antioco, al ritorno dalla
Persia, concludesse che pur avendo
trovato molti fanti per le sue falangi, di uomini che potessero combattere
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contro i greci, nonostante
accurate ricerche [...] non era riuscito a vederne (Sen., Hell. 7.1.38).
Viceversa, circa due secoli dopo Filippo
V decise di combattere su un terreno accidentato, evitando cos la battaglia
campale ma guadagnandosi un
discredito perenne presso i greci (Polib., 18.3.3).
L'assoluta semplicit del combattimento greco, spogliato di ogni retorica e
romanticismo, non stata capita da
noi, gli eredi occidentali: per troppo tempo non abbiamo inserito quest'eredit
austera della battaglia greca tra
i doni - e i fardelli - del nostro retaggio classico, e si tratta di una
dimenticanza sorprendente se pensiamo che le
nostre convinzioni sul modo di condurre la battaglia, perfino nelle condizioni
orribili della guerra
contemporanea, per il resto non sono molto cambiate rispetto a quelle praticate
dai nostri antenati greci. Furono
loro i primi, per quanto sappiamo, a relegare in un ruolo secondario la
cavalleria, cancellando in tal modo per un
migliaio d'anni l'idea che il campo di battaglia fosse una propriet riservata
ai cavalieri aristocratici. Non che
nutrissero alcuna simpatia per i poveri senza terra, abili soltanto nell'attacco
a distanza: anche costoro dovevano
restare lontani dalla pugna. La classe degli opliti dell'et classica greca
prefer invece ignorare l'arco e il
giavellotto, optando per la lancia e per la massiccia corazza di bronzo, nel
desiderio di eliminare
completamente la distanza critica che altrove separava tradizionalmente i
contendenti in battaglia. Furono essi
soli a farci conoscere un tipo nuovo di attacco frontale, in cui guerrieri di
condizioni simili cercavano di
guardarsi negli occhi da vicino mentre uccidevano e morivano. Nondimeno,
esibirono il minimo possibile di
retorica della battaglia. Il generale piumato, lo stratega a tavolino, il
veterano pluridecorato erano in pratica
sconosciuti, lasciati all'immaginazione dei loro successori ellenisti e romani.
La battaglia era considerata una
sfera esclusiva degli individui che conoscevano effettivamente la carneficina
del colpo di lancia e di spada, e costoro non avevano alcun desiderio di
trasformarla in qualcos'altro, limitandosi ad accettare il massacro
inevitabile e necessario. Non sorprende che il poeta Pindaro abbia definito quel
tipo di guerra dolce per colui
che non la conosce, ma paurosa per colui che l'ha vissuta (Fg. 120.5).

3. Nessuna strategia o tattica


Non intendo parlare di logistica e strategia, e ben poco di tattica in senso
formale [...] Il mio scopo [] di spiegare con la massima
precisione che cosa era (ed ) la guerra con armi bianche, con proiettili
singoli e multipli, e indicare come e perch gli uomini che
hanno dovuto (e devono) affrontare tali armi controllano la propria paura,
sopportano le ferite e vanno incontro alla morte.
John Keegan, The Face of Battle
Ordinare un esercito una piccola parte dell'arte di capitano.
Senofonte, La Memorabilia
L'esperienza della fanteria occidentale ha le sue origini nella Grecia classica,
una tradizione militare di
duemilacinquecento anni a partire dalle battaglie di Maratona e Delio o da
quella singolare, terribile collisione
frontale tra tebani e spartani nel 394 a Coronea - dissimile da ogni altra nel
nostro tempo, scrisse Senofonte,
testimone di quell'avvenimento - quando per la prima volta in Occidente gli
uomini si radunarono in
formazione compatta per caricare, uccidere e poi morire. Ai pochi studenti che
talvolta mi domandano della
guerra nell'antica Grecia, degli opliti e delle falangi, delle Termopi e di
Leuttra, di Agesilao e di Epaminonda, di
solito suggerisco di leggere per prima cosa i resoconti antichi di quelle
battaglie, anche se brevi e inadeguati
rispetto ai nostri standard di precisione e imparzialit. Gli studenti che
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ritornano per saperne di pi non apprezzano il suggerimento di imparare le
lingue classiche, di rileggere quei passi in latino e in greco. Ma non si tratta
da parte mia di un consiglio perverso per aumentare le iscrizioni ai corsi
classici della nostra universit statale
(ricordo due soli studenti che hanno maturato un interesse tale da iscriversi al
corso introduttivo di greco o
latino il trimestre seguente), n lo faccio perch penso che non si possa
imparare nulla dalle ricerche svolte negli
ultimi duemila anni dagli studiosi dell'et classica: dopo tutto, le res
militares sono state uno dei temi preferiti
di studio di un gruppo di europei dell'Ottocento tutt'altro che privi di
talento. Questo suggerimento nasce
piuttosto dalla peculiarit della mia esperienza personale, dalla convinzione
che il poco che ho imparato sulla
guerra dovuto all'interesse per la battaglia e il combattimento, a spese della
strategia e della tattica. Per esempio,
da bambino leggevo fino all'ultima parola i giornali popolari ed economici di
mio padre sulla guerra aerea nei
cieli del Giappone e imparavo a memoria tutti i particolari del bombardiere
B-29 contenuti nella sua singolare
collezione di storie dell'aviazione. Oggi per ricordo ben poco di quei volumi,
e quasi tutto mi sembra poco
importante o isolato da un contesto plausibile, cosicch in realt non ho
nessuna idea di ci che avvenne negli
ultimi mesi del 1945 nei cieli del Giappone. Ricordo invece bene le storie dei
combattimenti - mai dei progetti
strategici di bombardamento o delle analisi dei danni inflitti - che mio padre
raccontava a mio fratello e a me,
di solito la sera tardi, dopo aver aperto una bottiglia di buon bourbon o di
scotch. Per noi la guerra non era
dunque una descrizione asettica di strategie e tattiche, bens una lezione su
che cos'era una battaglia, sugli
uomini che studiavano mappe, carte e rapporti e su quelli che combattevano,
bombardavano e saltavano in aria.
Parlare d'altro che di questi uomini avrebbe significato mettere in gioco la
nostra stessa moralit. In quelle serate
si raccontavano storie solo nel senso di descrizioni dei comportamenti
adottati dagli uomini, ma erano molto
pi che storie. Imparavamo che gli uomini agiscono in modo inaspettato quando
cercano di uccidersi a
vicenda; cos mio padre ci parlava di quelli che se la facevano addosso nella
divisa, che si coprivano l'inguine
con l'elmetto e finivano per essere feriti alla testa - se si pu chiamare
ferita la perdita del viso e della
mascella. Ci raccontava anche dell'odore di carne bruciata che saliva da tremila
metri pi in basso, dei
bombardieri colpiti che non si schiantavano mentre prendevano il volo e neppure
andavano in pezzi, ma
semplicemente scomparivano, tanto erano carichi di carburante e bombe
incendiarie.
Occorre dire a sua difesa che mio padre non faceva che seguire una tradizione
di famiglia, visto che suo
padre gli aveva parlato della natura della battaglia descrivendo la propria
esperienza di guerra, sperduto tra le
Ardenne nel 1918: la mitragliatrice Lewis che alla fine gli si era fusa tra le
mani, stanca di abbattere adolescenti
tedeschi; il cibo avvelenato dal gas, che gli aveva lentamente corroso gli
intestini, trasformando non solo il suo
corpo ma anche il suo atteggiamento verso il mondo, sicch quando era tornato
aveva trasformato i suoi quaranta
acri di terra da semplice fattoria in un rifugio da coloro che lo circondavano.
Ricordo mio nonno come un
uomo di oltre settantanni che andava in giro per le terre della fattoria in
groppa a un asino, una vera stranezza
a confronto con i giovani vicini, agricoltori di professione che vivevano il
boom della fine degli anni Sessanta e
consideravano lui, non certo s stessi, un tipo bizzarro. Lo stesso si pu dire
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per i tanti cugini, zii e amici cos
fortunati da ritornare dalla guerra, sia pure segnati e incapaci di fare altro
che potare qualche vite d'inverno,
come mio cugino Beldon, che una febbre tropicale aveva colpito al cervello, e
tuttavia molto pi fortunato del
fratello Holt, morto a Omaha Beach per una ferita alla testa.
Grazie alle frammentarie descrizioni fatte da questi americani (e,
contrariamente a quanto possono pensare gli
europei, molte famiglie del mio paese hanno una tradizione di battaglia), nella
mia mente si formato un quadro
coerente della guerra oltremare fin da quando ero molto giovane. Dopo aver
imparato le lingue classiche, mi
misi a cercare descrizioni simili negli autori antichi che parlavano della
guerra in Grecia, per esempio
Tucidide e Senofonte, loro stessi veterani delle battaglie di fanteria,
aspettandomi particolari analoghi, storie di
soldati sotto il fuoco del nemico che potessero essere paragonate a quelle di
cui avevo ascoltato i racconti.
Ma nei loro resoconti bellici mancano i particolari relativi all'azione sul
campo dal momento in cui i contendenti
ingaggiavano battaglia; la loro attenzione invece presa dalla campagna in
generale, dalle cittstato che
formavano l'alleanza, dal numero di combattenti delle due parti, dal discorso
del generale prima della battaglia.
Parimenti, gli studiosi moderni hanno preferito dedicarsi alla tattica, alla
logistica, allo spiegamento delle truppe,
alle esercitazioni e alla struttura gerarchica. Naturalmente gli scrittori della
Grecia antica preparavano i loro
resoconti per un pubblico di veterani, opliti come loro che conoscevano fin
troppo bene il macello che seguiva
allo scontro tra uomini in corazza, ma non del tutto esatto affermare che
dimenticarono per questo di riferire con
dovizia di particolari le ferite e le morti perch ci avrebbe annoiato i
lettori che conoscevano quella realt; in
effetti Erodoto, Tucidide e Senofonte ci narrano molte cose sugli uomini in
battaglia, anche se trascurano i
dettagli relativi a ciascuna. Numerose osservazioni incidentali, per esempio
quella di Senofonte sugli spartani che
bevono prima della battaglia di Leuttra, o il singolare interesse di Tucidide,
nello scontro di Mantinea, per la
tendenza generale degli opliti a spostarsi verso destra, hanno un effetto
cumulativo. Gli aneddoti ci danno un'idea
alquanto precisa di come avvenivano la pugna, l'uccisione e la morte. Possiamo
trovare notizie equivalenti in
tutta la letteratura greca (e sui vasi decorati). La battaglia era insomma
considerata dai greci l'essenza del conflitto
umano.
necessario chiedersi che cosa si trovavano di fronte gli opliti nella falange,
perch essi costituiscono la chiave
per comprendere la natura della guerra nell'antica Grecia. Dato il carattere
peculiare della societ greca
classica, il termine che meglio descrive il conflitto tra cittstato
battaglia e non guerra. Gli storici
dell'et classica, che hanno studiato a lungo filologia all'universit ma hanno
scarsi contatti e poca affinit
con i veterani della battaglia di fanteria, hanno trascurato questo dato,
fraintendendo lo spirito e, ci che pi
conta, la lezione che ci trasmette la storia militare della Grecia classica, di
cui abbiamo sempre pensato di aver
perfettamente compreso la natura.
Grazie alle ricerche svolte negli ultimi due secoli, abbiamo appreso molti
particolari sull'armamento
dell'oplite greco nell'et classica, sul suo addestramento, su come era
schierato in battaglia e sui limiti da un
punto di vista strategico con cui il suo generale doveva fare i conti. Per
esempio, gli studiosi tedeschi del secolo
scorso, Kchly, R" stow (1852), Droysen (1888), e in questo secolo Delbrck
(1920) e soprattutto, qualche
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anno pi tardi, Kromayer e Veith (1928), attingendo alla propria esperienza
pratica nell'esercito tedesco - alla
loro Kriegskunst - oltre che a una profonda conoscenza dei classici, intesero lo
studio moderno della teoria e
della pratica militari nell'antichit come il complemento naturale di un
interesse pi generale per la storia
diplomatica e politica della cittstato greca. Tuttavia i loro Handbcher,
esempi dell'erudiziene ottocentesca
al suo punto pi alto ma anche pi basso, considerano il conflitto da un punto
di vista strategico, topografico,
logistico e tattico: in sostanza, in modo assurdo e amorale. Il loro punto di
vista prende le distanze dalla realt,
come se fossero sospesi in una mongolfiera, al di sopra del massacro che avviene
sul campo, con un
atteggiamento distaccato, se non disinteressato rispetto al destino degli
individui disperati che stanno laggi.
Hans Delbrck, per esempio, ha ritenuto opportuno iniziare un voluminoso studio
sulla storia dell'arte
della guerra dalla questione del numero di uomini presenti in ciascuna
battaglia:
Per quanto le fonti lo permettono, uno studio storicomilitare deve cominciare
dalla forza degli eserciti, che assume
importanza decisiva non soltanto in termini relativi, per cui la massa pi
numerosa vince o controbilanciata dal coraggio o
dalla capacit di comando della forza pi debole, ma anche in termini assoluti.
Da parte di Delbrck non si tratta solo di un errore, ma di una posizione
fuorviante: un errore in quanto nel
mondo della falange classica l'esercito era privo di qualsivoglia riserva, di
coordinazione tra reparti speciali o di
integrazione con la cavalleria, ed era anzi alla merc delle voci, della
superstizione, delle informazioni sbagliate
e del panico in misura sconosciuta sui medesimi campi di battaglia, cosicch le
forze relative delle parti non
erano tanto importanti, come chiariscono i resoconti storici della battaglia in
Grecia. Inoltre Delbrck sbaglia
perch il numero di combattenti di solito non ricostruibile con la precisione
che sarebbe necessaria per il suo
ragionamento; data la natura delle fonti, si possono solo avanzare congetture,
spesso in base ad analogie e a
paragoni erronei con la realt moderna. Infine, il fatto che Delbrck affronti
questo problema nel primo
paragrafo della sua voluminosa enciclopedia fuorviante in quanto suggerisce
che il comportamento concreto
degli opliti greci e l'atmosfera peculiare della falange siano d'importanza
secondaria, e infatti non ne parla
affatto. Per questi specialisti di fine Ottocento che hanno conosciuto i
confronti limitati dell'epoca e che
ricordavano le guerre "frammentarie" del secolo precedente - ha scritto Yvon
Garlan - la guerra era incorporea
e irreale, non meno gratuita di un giuoco d'azzardo, uno sfogo per l'energia di
un gruppo sociale che non ne
era profondamente toccato, oppure un'attivit superflua (Garlan, p. 19).
In seguito alcuni studiosi inglesi - per esempio Tarn (1930), Griffit (1935) e
Greenhalgh (1973) - hanno
cercato di comprendere la guerra nella Grecia classica o nei suoi aspetti topici
o in quelli cronologici, di
ricostruire le origini e l'evoluzione della battaglia sulla base di tipi o ere
specifici. Neppure costoro per si sono
liberati completamente della passata ossessione per la dislocazione delle truppe
in battaglia, l'addestramento, le
armi e la tattica. I primi tre volumi del saggio di Kendrick Pritchett, The
Greek State at War (1971-1979),
rappresentano invece un drastico mutamento di rotta: per la prima volta stata
attribuita alla guerra greca la sua
funzione peculiare di istituzione sociale, di attivit comune e integrale per i
greci, al pari dell'agricoltura o della
religione: come afferma Garlan, la guerra antica ha una realt, un modo
d'essere, una pratica e un tipo di
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condotta che coprono l'intera societ (p. 21). Anche se Pritchett nel
presentare il suo materiale non pretende di
abbracciare tutti gli aspetti della guerra, la gamma dei suoi interessi
davvero rimarchevole.
In tutti questi saggi recenti sulla guerra nell'antica Grecia non si constata
per un cambiamento sostanziale
nel metodo di indagine, in ci che John Keegan ha definito l'angolo visuale.
La battaglia tra opliti
osservata dal punto di vista privilegiato del generale o dello stato o della
comunit nel complesso, come va pi
di moda oggi. Ma con la pubblicazione di The Face of Battle (1976) di Keegan il
modo in cui il combattimento
concretamente vissuto sul campo di battaglia diventato un legittimo argomento
di studio per gli storici
classici. Le ricerche sulla storia europea medievale o moderna hanno di solito
scarsa influenza sulla ricerca
relativa al mondo antico: dopo tutto, lo studio del mondo classico pu vantarsi
del suo isolamento pressoch
totale dalle tendenze storiografiche di altre discipline. Il fatto che una
ricerca sulle battaglie in et medievale e
moderna che ha avuto larga circolazione come
quella di Keegan abbia richiamato l'attenzione sulla figura dimenticata del
fante nella Grecia antica e sulla sua
esperienza all'interno della falange attesta la peculiarit e l'originalit del
suo metodo: un metodo che per ironia
avrebbe forse funzionato ancor meglio nello studio della scelta peculiare dei
greci di scontrarsi in un solo cozzo
decisivo, nella battaglia anzich in una guerra segnata da pi
combattimenti. Quando alcuni storici hanno
cominciato ad applicare il metodo e i principi di Keegan alle vicende militari
dell'antica Grecia, l'indagine
laboriosa e spesso arida condotta per pi di un secolo sulla guerra greca si
finalmente tradotta in un esercizio
pi eccitante, volto a ricostruire la realt della battaglia per coloro che la
combattevano e morivano. Nell'ultimo
decennio numerosi articoli e libri hanno ignorato la strategia e perfino le
considerazioni tattiche nel tentativo di
cogliere la natura reale dell'esperienza dell'uomo in battaglia, come se
finalmente la si considerasse la chiave
giusta per risolvere lo strano enigma della guerra e della societ in Grecia.
Non sorprende che sia stato lo stesso Pritchett a raccogliere per primo simili
testimonianze in un quarto
volume su The Greek State at War (The Pitched Battle, 1985), nel quale ha
fornito un resoconto accurato - sulla
base di un attento esame del vocabolario dei primi poeti e storici greci -
dell'azione nel momento in cui gli opliti
si scontravano. Dato che esiste quest'ottima ed erudita analisi, non ho ritenuto
di dover ricostruire in modo
analogo l'intera azione sul campo di battaglia, dall'impatto iniziale tra le
falangi fino al crollo finale e alla rotta
successiva. Ho cercato invece di ricostruire Vambiente in cui si svolgeva la
battaglia, l'atmosfera entro cui
l'individuo cercava di uccidere e di non farsi ammazzare, la successione degli
eventi vista dall'interno della
falange. Per ogni fase dello scontro mi sono chiesto che cosa fosse e come
dovesse essere.
Se questo breve saggio contiene un tema guida, confesso che si tratta del
tormento della battaglia oplite. Non
molti tipi di scontri di fanteria in Occidente hanno richiesto lo stesso grado
di coraggio e di sangue freddo, di
fronte all'angoscia mentale e fisica, di questa forma originale di combattimento
in cui gli opliti armati e corazzati
avanzavano in formazione compatta senza possibilit di scampo. Il campo di
battaglia greco era il teatro di un
terrore disperato, di un'atroce carneficina, ma era un incubo breve che l'oplite
poteva e doveva sopportare solo
una volta durante l'estate, non era una guerra monotona e interminabile di
trincea come nella prima guerra
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mondiale o nelle giungle del Vietnam. Un uomo poteva gettare tutto il suo
coraggio in un unico scoppio di
attivit frenetica; per una o due ore superava i limiti della propria resistenza
fisica e psicologica.
Occorre sempre ricordare che il desiderio dei greci di pervenire a questo
confronto brutale era volto a limitare
la guerra e lo spirito morale, e non a enfatizzare l'intrinseca nobilt del
guerriero. Ma in definitiva forse
sufficiente conoscere il fragore, la polvere, le ferite, il modo in cui si
moriva, la confusione e il panico di una
battaglia antica, se poi non si comprende perch quegli uomini si mettevano in
marcia? Non credo che i greci
dell'era oplite combattessero perch costretti o per paura di una punizione. La
loro disponibilit ad andare in
guerra non trova spiegazione in un addestramento o in un armamento superiori: n
quei fanti erano ubriachi
al punto di perdere la ragione, ansiosi di saccheggiare e depredare o timorati
di Dio e della patria. No, andavano
in battaglia per gli uomini che avevano a fianco, davanti e dietro, per il
fratello, il cugino, il padre e il figlio:
mossi dal rispetto, talvolta dalla paura, per individui di condizione simile,
essi crearono un codice d'onore e
conferirono al massacro una certa dignit (se non piacere). Socrate, veterano
della battaglia oplite, ricord a
quanti ascoltavano il suo ultimo discorso che quando un uomo aveva preso posto
nella falange della sua citt,
doveva rimanere e affrontare il pericolo, senza [calcolare la] morte o altri
mali pi che il disonore (PI, Ap. 16
D).
III
4. L'oplite e la sua falange: la guerra in una societ agricola
In effetti per un lungo periodo la pace stata intesa in senso negativo,
semplicemente come l'assenza della guerra.
Yvon Garlan
A un certo punto tra la fine del VIII secolo a. C. e l'inizio del VII, i fanti
greci presero gradualmente ad armarsi
con una corazza, uno scudo rotondo e una lancia, decidendo in tal modo di
avvicinarsi al nemico per colpirlo
frontalmente invece di lanciare frecce e aste da lontano, avanzando e
ritirandosi come le maree dei guerrieri
indigeni che gli europei incontrarono in Africa e in Sud America nel secolo
scorso. Era finita anche l'era dei soldati
a cavallo dell'et arcaica greca (1200-800), che scendevano a terra per lanciare
l'asta, giacch la guerra non era pi
un duello personale tra ricchi cavalieri. Il braccio sinistro di questo nuovo
guerriero reggeva uno scudo rotondo
di legno del diametro di circa un metro, Yhoplon, di concezione tanto
radicalmente diversa dal suo antenato in
cuoio che proprio da esso prese nome il nuovo fante, Yoplite. Questi, con
l'aiuto di una cinghia in cui passava
l'avambraccio e di una presa per la mano, riusciva a sopportare il grosso peso
di quello strano scudo, parando i
colpi di lancia con il solo braccio sinistro e a volte appoggiandone il bordo
superiore sulla spalla sinistra per
risparmiare le forze. In questo modo riusciva a proteggersi il fianco sinistro e
al contempo, se la formazione veniva mantenuta, a offrire una certa protezione
al fianco destro dell'uomo che gli stava a sinistra nella fila. Tuttavia,
nonostante l'enorme peso e le dimensioni dello scudo, alto pi della met di un
uomo, la forma rotonda non
poteva fornire una protezione adeguata a tutto il corpo, diversamente dal tipo
rettangolare adottato in seguito dai
legionari romani, o dallo scudo integrale dei guerrieri greci del passato;
l'oplite non aveva molte possibilit di
salvarsi da attacchi di tipo tradizionale portati frontalmente o alle spalle. Il
suo scudo non offriva alcun
vantaggio materiale rispetto a quelli precedenti nelle singole scaramucce o nei
duelli individuali. E, ci che pi
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conta, non era facile gettarselo dietro le spalle, come si era fatto con gli
scudi precedenti, per proteggersi quando
ci si voltava e si fuggiva, anche se questo non era un serio inconveniente,
poich i nuovi combattenti non
avevano altra intenzione che di tener duro e farsi strada in mezzo al nemico.
In realt non sappiamo se l'uso di questo nuovo armamento abbia determinato un
cambiamento radicale
della tattica o viceversa. chiaro per che si ottenne un successo migliore nel
parare i colpi e replicare con la
lancia grazie alTincolonnamento degli uomini, di solito in formazioni di otto
file, nelle quali essi trovavano
protezione accostando i loro scudi di fronte, sui fianchi e di dietro, se si
aveva cura di controbilanciare la
naturale tendenza a spostarsi verso destra dovuta al fatto che ciascuno tendeva
a riparare il proprio fianco
destro scoperto con lo scudo del vicino. Sebbene questa formazione comportasse
una perdita della potenza di
fuoco globale, in quanto ogni fila successiva alle prime tre era in realt
esclusa dall'azione iniziale (le lance di
coloro che si trovavano al centro e dietro non potevano colpire direttamente il
nemico), i greci pensavano che
il maggior peso e la densit della formazione fornissero una forza
stabilizzatrice decisiva, a livello sia fisico sia
psicologico, ai pochi che dovevano reggere il primo, terribile urto con il
nemico.
Alla collisione iniziale seguiva la spinta o othisms non appena le linee
retrostanti si infilavano negli spazi vuoti
tra gli scudi e spingevano incessantemente coloro che stavano loro davanti. Di
recente alcuni storici hanno
ridicolizzato quest'immagine di una spinta di massa, ma un'accurata rassegna
delle descrizioni antiche della guerra
greca non lascia adito a dubbi sul fatto che era proprio in tal modo che si
svolgeva una battaglia tra opliti, che
ben presto degenerava in una gigantesca gara a chi esercitava la pressione pi
forte, giacch gli uomini usavano
lo scudo, le mani e il corpo nel tentativo disperato di aprirsi un varco.
Senofonte, testimone oculare dell'ultimo
periodo della battaglia combattuta esclusivamente tra opliti, osserva che tutti
i soldati su cui si nutriva qualche
dubbio stavano al centro della falange, circondati davanti e dietro dai
combattenti pi validi, acciocch siano e
guidati da quelli, e spinti da questi altri (Sen., Mem. 3.1.9). Il punto
cruciale, ramment ai suoi uomini l'abile
generale spartano Brasida, consisteva nel mantenere sempre la formazione,
serrare le file e non perdere la
protezione e la coesione fornite dall'accostamento degli scudi. Tucidide rileva
parimenti che durante la durissima
ritirata che segu alla catastrofe di Olpe nel Peloponneso, nel 426, erano
sopravvissuti solo i soldati di Mantinea,
che non avevano rotto le file una sola volta e anzi avevano serrato la
formazione per impedire che qualche nemico
si aprisse un varco tra gli scudi (Tuc, 3.108.3; Diod., 15.85.6).
Data la natura delle fonti di cui disponiamo, non conosciamo n potremo
conoscere la reale successione
degli eventi sociali e politici che al volgere dell'et arcaica greca port a
questo tipo di armamento e alla
successiva tattica della battaglia oplite. Ma sicuramente all'inizio del VII
secolo a. C. la cosiddetta riforma oplite
- ci sia consentita quest'espressione solenne - attir un numero crescente di
contadini, i quali non
sopportavano l'idea che a chiunque fosse lecito calpestare i loro piccoli
appezzamenti di terra (un contadino
oplite di solito possedeva fuori dalle mura cittadine terre che si estendevano
per 5-10 acri; un acro equivale a
poco pi di 4000 mq). ragionevole pensare che la solidariet e, ci che pi
conta, il successo della loro
esperienza bellica nella falange - una formazione che al pari delle colonne
napoleoniche incoraggiava i legami di
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cameratismo, se non il fervore rivoluzionario - riflettessero una fiducia
crescente nella loro nuova funzione nel
governo della cittstato greca, in quanto proprietari e produttori di cibo. Al
termine del VII secolo a. C. la
sicurezza di buona parte della societ greca dipendeva dalle armi e dalla
corazza che tutti quei proprietari terrieri
tenevano appese sopra il focolare e dal coraggio che mostravano in battaglia di
fronte a un esercito di invasione
accampato sulle terre di qualcuno di loro.
Fintanto che quei combattenti che non avevano pari, quegli uomini
formidabilmente armati chiusi in corazze
di bronzo mantenevano il posto assegnato loro nelle file della falange, erano in
pratica inattaccabili dalla fanteria
mobile pi leggera e dalla cavalleria pesante, posto che il terreno fosse piano
e privo di ostacoli. Dal momento
che la grande pianura della Beozia era appunto tale, il leggendario generale
tebano del Vi secolo Epaminonda
defin quel territorio tutto piano e aperto all'orchestra (Plut., Mor. 193 E
18). Per prima cosa la falange (e, ci
ricorda Aristotele, in guerra l'attraversamento dei fossati, sia pure molto
piccoli, dismembra la formazione,
Poi. 1303) doveva perci trovare il campo di battaglia adatto e solo
successivamente scovare il nemico. Aveva
ragione Polibio, quando paragon la legione romana alla falange greca, elencando
tra i vantaggi dei greci il
fatto che non possibile opporsi in alcun modo a un attacco frontale della
falange, finch essa conservi la forza
che le caratteristica (18.30.11). Per vincere, soprattutto quando aumentava
la profondit e si riduceva il
fronte della formazione, era necessario che i fianchi invulnerabili fossero
protetti dalla cavalleria, dalle forze non
inquadrate e soprattutto dal terreno accidentato. Neppure gli arcieri e
frombolieri nemici meglio addestrati
costituivano una seria minaccia se gli opliti restavano su un terreno piatto e
riuscivano ad avvicinarsi loro
rapidamente. Quando i fanti coprivano gli ultimi cento metri di terra di nessuno
ed entravano nel raggio
d'azione delle frecce e di altre antiche armi da lancio, che potevano colpirli
alle braccia, alle gambe, al volto e al
collo e a distanza pi breve penetrare nella corazza, la finestra di
vulnerabilit non durava pi di un minuto.
Gli attacchi con armi da lancio non fermavano affatto lo slancio di questi
uomini pesantemente corazzati, anzi,
con ogni probabilit scatenavano la loro furia e garantivano un cozzo furioso a
lance spianate. In breve, per
circa tre secoli (650-350) nessun esercito straniero, per quanto numericamente
superiore, resistette alla carica
della falange greca, come dimostrano chiaramente le battaglie di Maratona (490)
e di Platea (479): un numero
relativamente esiguo di greci condotti con abilit e bene armati non incontr
grandi difficolt ad aprirsi un varco
tra le orde dei nemici non altrettanto armati n compatti che provenivano
dall'Oriente.
Anche l'eccezionale integrazione tra servizio civile e militare all'interno
della cittstato contribuisce a
spiegare il successo greco. In molti casi gli uomini prendevano posto nella
falange a fianco di amici di vecchia
data o di familiari e combattevano non solo per la salvezza della comunit e
della propria terra, ma anche per il
rispetto di coloro che stavano loro davanti, di fianco e dietro. I piccoli
proprietari terrieri e gli artigiani, con la
loro corazza sulle spalle, potevano essere richiamati in servizio ogni estate
dopo che avevano compiuto
diciott'anni e fino ai sessanta. Durante il V e il IV secolo nel mondo greco
scoppiarono guerre pi o meno ogni
uno o due anni, cosicch c'erano buone probabilit che un uomo dovesse lasciare
la fattoria, prendere le armi e
combattere in una serie di scontri, restando ferito o morendo in battaglia in un
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giorno d'estate. Il servizio
militare si riduceva raramente a un pattugliamento in tempo di pace o alle
esercitazioni, e perci quasi nessun
autore della letteratura greca del V secolo parla del periodo trascorso come
oplite, mentre racconta invece le
singole battaglie cui aveva partecipato. Nell'et classica greca era impossibile
concepire un'organizzazione di
reduci che non fosse quella dei veterani delle guerre straniere (come per
esempio l'American Legion).
In quel mondo in cui il conflitto era ininterrotto, combattere nelle file della
falange esigeva sommo coraggio,
condizioni fisiche eccellenti e resistenza, ma non un addestramento particolare
o abilit nel maneggiare le armi.
La lancia e lo scudo, anche quando erano usati all'unisono con altri in una
colonna affollata, erano comunque
molto pi facili da maneggiare dell'arco o della frombola e persino del
giavellotto. Inoltre, come osserv
giustamente Senofonte, non ci si doveva preoccupare affatto che il colpo non
giunga a segno per scarsa
abilit in uno scontro di massa (Cyr. 2.1.16; 2.3.9-11). Pi o meno nello stesso
periodo, Platone riconobbe che
un addestramento particolare non serviva a molto, salvo che per la ritirata o
l'inseguimento, i soli momenti in cui
gli uomini avevano spazio per manovrare e far valere il loro valore con le armi
nei duelli o nelle scaramucce
individuali (Res. Lach. 181 E-83 D). In una celebre orazione funebre dopo il
secondo anno della guerra del
Peloponneso, Pericle mosse rimproveri veementi al sistema spartano per
l'attenzione eccessiva (e inutile) che
prestava all'addestramento degli opliti (Tuc, 2.39.1), e parimenti sembra che
Aristotele pensasse che gli
spartani erano gli unici soldati in Grecia che ritenevano necessario esercitarsi
per la battaglia (Poi. 1338 b27).
Platone, nell'utopia della Repubblica, reagiva forse a quel dilettantismo
panellenico lamentando che un uomo
che aveva appena preso lo scudo ben difficilmente poteva diventare un abile
guerriero quello stesso giorno (374
ss.). Ma in un certo senso era esattamente cos, e questo spiegherebbe perch
talvolta leggiamo di casi estremi
nella storia greca in cui alcuni uomini combatterono nella falange senza nessun
effettivo addestramento. Quei
soldati non erano propriamente opliti, nondimeno erano armati di una corazza
pesante ed erano schierati
per combattere come fanti, sebbene non avessero esperienza n idea alcuna della
battaglia oplite (Tuc, 6.72.4;
Sen., Hell. 4.4.10; Diod., 12.68.5; 15.13.2; 14.43.2-3; Poi., Strat. 3.8).
Durante l'invasione ateniese della citt
ionica di Mileto nel 413, per esempio, gli ateniesi si portarono dietro
cinquecento soldati irregolari di Argo armati alla leggera, cui venne data la
corazza e l'ordine di combattere come opliti (Tuc, 8.25.6). Inoltre, i
piccoli agricoltori indipendenti che combattevano come opliti avevano poco tempo
e scarso desiderio di
esercitarsi in continuazione, e cos stato per secoli da allora. Per andavano
in battaglia pieni di coraggio, se
non di controllata temerariet, e avevano uno spirito di cameratismo che
coinvolgeva chi faceva parte della stessa
classe e ambiente. In ci reputo, scriveva il tattico latino del IV secolo d.
C. Vegezio, non siasi potuto mai
dubitare esser pi idonea alle armi la gente rozza (1.3). In sostanza costoro
erano opliti naturali, soldati
formidabili che si battevano sul proprio terreno, le terre agricole della
Grecia, gli uomini a cui si rifer senza
dubbio Pericle nella celebre orazione funebre quando afferm che preferivano
difendersi e soffrire piuttosto
che salvarsi cedendo (Tuc, 2.42.4).
Nel corso del VII e VI secolo e fino al V, in Grecia un esercito di invasione
composto da opliti offriva
l'opportunit della battaglia campale non appena si fosse inoltrato nei
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territori pianeggianti del nemico; il fatto
stesso che occupasse le preziose terre coltivate era una sfida a combattere. Gli
attacchi alle mura di una
comunit nemica raramente avevano successo, forse perch l'arte dell'assedio era
costosa e le sue tecniche -
l'ariete, l'artiglieria, le protezioni mobili - erano sconosciute oppure non
erano ben comprese. Solamente alla
fine del V secolo e con maggior frequenza nel periodo ellenistico si hanno casi
sporadici di assedi vincenti.
Neppure i combattimenti notturni erano frequenti: a volte bastava attaccare
quando era calata l'oscurit per
ottenere un buon esito, ma pi spesso l'attacco notturno finiva per causare il
caos, movimenti convulsi e
disordine tra le file (Om., II. 2.387). La confusione che si creava tra i
soldati chiusi in formazione serrata
senza poter vedere nulla rendeva rischiosa la battaglia e meno onorevole
l'eventuale vittoria agli occhi dei
comandanti degli opliti (Tuc, 7.43-44; 7.80.3). Quando un esercito d'invasione
aveva attraversato il confine,
di solito i difensori si precipitavano fuori dalle citt cinte di mura per
contrastare l'occupazione delle loro terre
coltivate, oppure si sottomettevano ai termini dettati dagli invasori affinch
sgombrassero quanto prima dalle
loro propriet.
singolare come, durante l'invasione e l'occupazione, solitamente brevi, i
difensori non prendessero in
considerazione l'eventualit che l'esercito nemico costituisse una reale
minaccia ai loro mezzi di sussistenza,
in quanto poteva danneggiare gravemente frutteti, vigneti e campi di grano con
il fuoco e con l'ascia: dopo
tutto la distruzione sistematica di alberi e vigneti con utensili a mano un
processo che richiede molto tempo ed
complicato dalle sortite del nemico e dall'esigenza di trovare cibo. Il tronco
di un ulivo pu raggiungere
dimensioni notevoli, da tre a sei metri e anche pi. Dato che questo legno
particolarmente duro, a
quell'epoca era pressoch impossibile distruggere sistematicamente gli uliveti
con utensili a mano, e sradicare
gli alberi era ovviamente un'impresa folle: cosa ardua perfino con i moderni
bulldozer. Le viti potevano essere abbattute con l'ascia, ma con gli antichi
metodi di coltura poteva esserci una pianta ogni metro quadro;
l'immagine di soldati armati alla leggera che tagliano per ore e ore una vigna
nemica fa pensare al mondo della
dura fatica contadina pi che al campo di battaglia.
Il grano e l'orzo possono essere dati alle fiamme, ma solo durante un breve
periodo subito prima del
raccolto, il che imporrebbe all'invasore di penetrare nel territorio nemico
proprio in quel momento. Inoltre,
numerose difficolt riducevano tale possibilit: se l'invasore avesse tardato a
radunare le truppe, sarebbe giunto
sulle terre nemiche quando il grano era ancora verde, e quindi non avrebbe
potuto usarlo per integrare le
proprie razioni e ancor meno dargli fuoco; se l'invasione fosse avvenuta pi
tardi, a fine giugno o a luglio, il
raccolto poteva essere gi avvenuto e la popolazione resistere all'occupazione,
sapendo che il raccolto era
ormai al sicuro dietro robuste mura. Occorreva insomma invadere il territorio
nemico proprio all'inizio del
raccolto, bruciare l'orzo e il grano, privare il nemico dei risultati di un
intero anno di lavoro e di investimenti, utilizzare le derrate per nutrire le
cause stesse della loro distruzione. Ma resta un'ultima ironia: l'esercito
degli opliti invasori, essi stessi contadini, aveva le proprie responsabilit in
patria, e il tempo che impiegava
nella distruzione del grano del nemico veniva sottratto al lavoro necessario nei
loro campi, proprio nel
momento in cui era pi prezioso. In breve, la devastazione delle colture era un
processo tutt'altro che semplice,
e anche quando si verificava di solito non aveva ripercussioni durature.
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L'agitazione psicologica che colpiva l'influente classe dei proprietari
fondiari opliti all'interno delle mura
cittadine, allorch vedevano il nemico aggirarsi sui campi aviti, era di solito
sufficiente a spingere la
cittadinanza al combattimento o, meglio ancora, a indurla a rinunciare. In quel
singolare rituale di azzardo
agricolo alcune citt, spesso quelle strettamente legate al mare, potevano
convincere i propri abitanti a
sopportare un'invasione nemica senza rischiare in battaglia, ma soltanto
quando erano guidate da uomini
dotati di intuito e audacia: uomini come Pericle ad Atene, che riusc alla fine
a convincere tutti salvo gli opliti a
sopportare la presenza di stranieri sul suolo attico. Quando ci accadeva, le
citt non subivano danni agricoli
duraturi a causa delle incursioni nemiche, conservavano la propria libert e la
Joro fanteria restava incolume,
anche se forse non nell'orgoglio. strano che poche cittstato capissero, o
meglio volessero capire, quali
vantaggi poteva offrire quest'insolita inattivit all'interno delle mura. Un
simile sangue freddo era ben raro
nell'et dell'oplite classico, perch la maggior parte dei greci era persuasa
che la vendetta, nella forma
tradizionale della battaglia campale, fosse il modo pi onorevole e vantaggioso
di lavare l'insulto fatto alla loro
sovranit. La tradizione, il dovere, perfino la volont inducevano alla
collisione ritualizzata e frontale, a
incrociare le lance del nemico per concludere l'intera faccenda in fretta e con
efficienza.
Questo paradosso della guerra greca - il fatto che la minaccia di una tattica
relativamente inefficace quale la distruzione del raccolto riuscisse a indurre
gli uomini al combattimento - contribuisce a spiegare la frequenza
delle battaglie campali tra opliti, per mutuo accordo, in tutto il mondo greco.
Ma, se la battaglia era tanto
presente tra le piccole cittstato della Grecia classica, come poteva la
struttura sociale resistere anno dopo anno
alle morti e alle distruzioni e all'apparente enorme spreco del tempo e del
lavoro collettivi in nome della difesa?
La risposta va cercata ancora una volta nella semplicit della tattica e della
strategia adottate dalla falange, un
modo di combattere che non richiedeva massicci addestramenti in tempo di pace n
una spesa pubblica per le
armi e il vettovagliamento. Ancor pi importante il fatto che fino al volgere
del V secolo non ci fu bisogno di
finanziare campagne prolungate, durante le quali gli uomini marciavano per mesi
e mesi combattendo una
battaglia dopo l'altra. Solitamente il nemi co si trovava molto vicino, al di l
di una catena montuosa, al
massimo a poche centinaia di chilometri di distanza. Non appena giungeva
l'invasore in primavera, tutta la
guerra, se questa la parola giusta, consisteva in genere in una sola ora di
aspro scontro tra opliti dilettanti
consenzienti e coraggiosi, non in una serie di combattimenti tra uccisori
prezzolati e addestrati. Le esigenze
della triade dell'agricoltura greca - l'ulivo, la vite e il grano -non
lasciavano pi di un mese o due a questi
piccoli agricoltori per combattere.
La lotta, inoltre, per la maggioranza dei combattenti non aveva un esito
fatale: l'annientamento di un
intero esercito era un evento raro nell'et classica, poich l'adozione quasi da
parte di tutti della panoplia - la
corazza di bronzo, lo scudo, l'elmo, i gambali, la lancia e la spada -garantiva
una protezione da attacchi
ripetuti (furono i greci del periodo ellenistico a registrare un numero
impressionante di morti negli scontri tra
enormi falangi di fanti poco protetti). Dopo che il cozzo tra le prime linee
degli opliti corazzati aveva deciso
il movimento della battaglia e una parte si era aperta un varco tra le file
dell'altra, la pugna degenerava in
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un'enorme gara a chi esercitava la pressione pi forte, poich ciascuna linea
cercava di consolidare e
accrescere ogni piccolo vantaggio finch l'intera formazione nemica veniva
abbattuta. Tuttavia, se gli sconfitti
riuscivano in qualche modo a conservare una coesione sufficiente, era possibile
una sorta di ritirata attiva. Un
gran numero di combattenti moriva solo quando si verificava un cedimento
improvviso, un crollo di nervi
collettivo, quando lo smembramento repentino della falange faceva s che i suoi
membri finissero col
calpestare in preda al panico i propri vicini e fuggissero, in piccoli gruppi o
peggio individualmente, per
salvarsi dai colpi di lancia alla schiena. Anche quando una delle due parti
veniva spazzata via di colpo dal
campo di battaglia le perdite restavano basse a paragone con quanto avviene
oggi, ben al di sotto del 20 per
cento della forza originaria: una percentuale tollerabile nella misura in cui
quello scontro decisivo segnava
tanto l'inizio quanto la fine della guerra. Ma una successione di scontri del
genere, come le missioni che
causarono perdite disastrose tra gli equipaggi dei bombardieri americani durante
la seconda guerra mondiale
in Europa, avrebbe dissanguato in breve tempo una piccola cittstato.
Erano rari anche gli inseguimenti prolungati; i vincitori, diversamente da
Napoleone, non miravano alla
distruzione completa dell'esercito nemico. In effetti l'inseguimento degli
opliti in fuga non era neppure
decisivo: in genere gli eserciti greci vittoriosi non vedevano perch non
potessero riproporre la formula
semplice del successo e ottenere una nuova vittoria, qualora il nemico si fosse
ripreso in pochi giorni e avesse a
torto ritentato la sorte. I generali greci, inoltre, si facevano propaganda
dichiarando di non provare nessun
piacere nel massacrare alle spalle dei greci come loro dopo che l'esito della
battaglia era gi stato deciso faccia
a faccia (per esempio Poi., Sirai. 1.16.3; 1.45.5; 2.3.5; Tuc, 5.73.3; Plut.,
Mor. 228 F 30). Quando gli fu riferito
il massacro dei corinzi a opera dei suoi spartani, Agesilao, il leggendario
veterano e re di Sparta del IV secolo, avrebbe osservato: Quale amarezza o
Grecia, dal momento che quelli che ora sono morti, se vivessero,
combattendo sarebbero capaci di sgominare i barbari tutti! (Sen., Ages. 7.6.).
Di solito entrambe le parti si
accontentavano di restituirsi i morti durante una tregua. I vincitori, eretto un
trofeo o un semplice monumento
sul campo di battaglia, tornavano in trionfo in patria, ansiosi di ricevere gli
elogi delle famiglie e degli amici.
Per pi di trecento anni la Grecia prosper grazie a questo sistema organizzato
di conflitto tra dilettanti, nel
quale lo spreco di risorse per la difesa, sotto forma di vite umane e di lavoro
e prodotti agricoli perduti, rimase
entro certi limiti. Purtroppo quasi nessun conflitto del VII e VI secolo
documentato: in quel periodo la
battaglia tra opliti conserv il carattere di contesa pura, statica e
immutabile tra uomini racchiusi in
pesantissime corazze, privi dell'appoggio di una cavalleria ausiliaria, di
lanciatori di giavellotto e arcieri, e fieri
degli stretti legami con la loro terra. Al termine del V secolo, quando le fonti
sugli opliti sono assai pi ricche,
si verificarono due avvenimenti che sconvolsero il fragile equilibrio proprio
delle battaglie tra le cittstato
greche e determinarono non solo alcuni cambiamenti radicali nel modo di
combattere, ma anche perdite
catastrofiche - diversamente che in passato - in tutte le cittstato greche: il
loro sistema di risolvere le dispute,
quanto mai logico e in un certo senso antieroico, si trasform infatti in un
incubo interminabile.
In primo luogo, le due grandi invasioni persiane all'inizio del V secolo
costrinsero i greci a battersi non pi tra
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loro secondo il rituale tradizionale, bens contro un esercito enorme di soldati
orientali, che usavano armamenti
e tattiche poco noti, contingenti speciali e soprattutto avevano obiettivi e
responsabilit diversi. Le battaglie di
Maratona e ancor pi di Platea durarono pi a lungo, richiesero un numero
maggiore di combattenti e
furono sicuramente pi violente degli scontri tra greci dei due secoli
precedenti. L'esito della battaglia di
fanteria divenne pi decisivo di prima. La molla che determinava la battaglia
campale non era pi la volont di
esercitare nuovamente il potere su un rivale vicino, l'occupazione di pochi acri
di un territorio di confine conteso
tra due cittstato, oppure la minaccia di abbattere qualche albero, ma piuttosto
la condizione ultima del mondo
di lingua greca. Si trattava adesso di dare battaglia a un nemico che poteva
disporre di corpi di cavalleria, di
frombolieri e arcieri e di una schiera di fanti armati in modo diverso; le
guerre persiane diventarono il banco
di prova per gli anni sanguinosi della guerra del Peloponneso, cos come, in un
contesto opposto, la guerra
civile spagnola lo fu per la seconda guerra mondiale. I greci avrebbero imparato
che la battaglia poteva essere
qualcosa di pi di una semplice lotta di spinte tra uomini in corazzati e che la
guerra non era solamente una
singola collisione di falangi.
Sparta e Atene, le due grandi potenze elleniche che emersero in posizione
dominante dal conflitto persiano
(per poi dividere in due campi armati il mondo greco cinquant'anni dopo) non
rappresentavano - forse
dovremmo dire purtroppo - le cittstato greche per cos dire normali, ed erano
pertanto immuni da quelle
connesse restrizioni normali che avevano tradizionalmente impedito che la
battaglia in Grecia si
trasformasse in un combattimento mortale volto ad annientarsi. Gli opliti
spartani, appoggiandosi su un'intera
classe di schiavi rurali privi di diritti, gli iloti che lavoravano le loro
terre, erano liberi di esercitarsi e di
condurre campagne militari senza alcun obbligo di lavorare i campi o di
ritornare dopo la battaglia per
raccogliere le messi. Non curando i campi, bens s stessi, gli spartani si
vantavano di aver ottenuto quei campi (Plut., Mor. 214 A 72). In altri termini,
la chiusa societ militarista di Sparta gener un esercito di
professionisti esenti dai pressanti doveri economici o da altri obblighi in
tempo di pace; erano liberi di
minacciare le terre di altri, di combattere se necessario per tutto l'anno,
grazie alla certezza che nel loro
spaventoso sistema discriminatorio erano gli schiavi a farsi carico dei loro
raccolti. Replicando alle lagnanze
degli alleati, che pensavano di aver fornito troppi uomini per un periodo troppo
lungo, il re e generale
spartano Agesilao chiese all'esercito radunato dell'alleanza di alzarsi in piedi
man mano che egli nominava le
diverse professioni: vasai, fabbri, falegnami, muratori e cos via. Alla fine
rimase seduta soltanto la piccola
minoranza di spartiati, i pochi che non avevano altra professione che la guerra.
Vedete dunque, esclam
ridendo Agesilao, quanti pi soldati mandiamo noi alla guerra che non fate voi
(Plut., Mor. 214 B 72).
Tuttavia neppure i loro avversari ateniesi erano costretti a fare ritorno nelle
campagne per riprendere a
lavorare la terra, n quel governo si preoccupava troppo di un rapido
esaurimento delle risorse, assorbite
costantemente dalle spese di guerra. Atene contava gi, nel v secolo, una
maggioranza di artigiani, mercanti e
piccoli uomini d'affari che non pensavano fosse loro interesse mettersi in
marcia e rischiare la vita come in
passato per difendere le terre coltivate di una minoranza di piccoli agricoltori
che lavoravano nella campagna
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circostante. Al di l dei richiami insistenti alla tradizione gloriosa della
battaglia campale, questi uomini di
Maratona delle commedie di Aristofane dovevano avere un'influenza sulla
politica estera del loro governo non
minore di quella che i loro pari americani delle campagne hanno al giorno
d'oggi. Fu pertanto in mare che
Atene trov i suoi iloti, in quanto dall'impero marittimo sul Mar Egeo
venivano coloro che fornivano la linfa
vitale delle merci e delle derrate importate e i tributi che facevano forte la
citt. Le massicce, lunghe mura che
arrivavano fino al porto del Pireo garantivano contro la minaccia della fanteria
spartana, mentre il commercio
marittimo vitale fluiva senza interruzioni verso Atene, grazie alla protezione
che la superiorit navale ateniese
forniva contro la flotta del Peloponneso. Alla fine del V secolo gli ateniesi,
nella speranza di diffondere
quest'idea poco ortodossa di rinunciare alla battaglia tra opliti nelle pianure,
invi in altre citt, come ad Argo e a
Patrasso, gruppi di esperti per patrocinare la costruzione di analoghi sistemi
difensivi (Plut., Ale. \52-J>).
Diminuirono di conseguenza le probabilit che un singolo, semplice scontro tra
le fanterie di Sparta e Atene
costituisse il fattore decisivo per l'esito di una guerra tra i due stati; in
tutta la Grecia fu in pratica accantonato il vecchio sistema di ammassarsi in
formazione per decidere il conflitto
sul campo di battaglia; adesso la guerra si trascinava per anni e anni, con una
quantit di scontri su terra e su
mare, in un vasto teatro di operazioni, coinvolgendo tanto i soldati quanto i
civili, fino a quando entrambe le
parti finivano per essere esauste, dopo aver sofferto le miserie incessanti
della battaglia che la civilt moderna
conosce tanto bene.
5. Fonti per la ricerca
Inoltre una storia realmente definitiva della guerra greca richiederebbe una
conoscenza di vari aspetti della vita greca. L'aspirante
investigatore dovrebbe conoscere il terreno su cui si svolta ogni battaglia,
avere una certa conoscenza di manufatti
archeologici eterogenei, studiare bene le fonti scritte e soprattutto avere
un'idea del quadro economico generale. Dovrebbe
anche riflettere sulla religione antica e conoscere le procedure e la strategia
militare e navale.
Kendrick Pritchett, introduzione a The Greek State at War
Apprendiamo dalla letteratura greca molte cose sul modo in cui i fanti della
cittstato combattevano e
morivano, e la letteratura greca inizia con due grandi poemi epici, l'Illiade e
l'Odissea, che la tradizione
attribuisce al poeta Omero. L'Iliade il pi importante dei due poemi per
quanto riguarda gli scopi che mi
sono prefisso, considerato che i suoi quindicimila esametri dattilici cantano
pi le battaglie della guerra: una
serie di orribili e violenti scontri tra greci e troiani nel decimo anno di
assedio a Troia. Apprendiamo da
Omero molte cose sull'atteggiamento iniziale dei greci nei riguardi della guerra
e della morte in battaglia, ma
quel che pi conta che il poeta, considerando la battaglia in sostanza uno
scontro tra individui, descrive
esplicitamente, unico caso nella letteratura greca, i colpi e le ferite che gli
uomini chiusi nella corazza infliggono e subiscono, senza curarsi della
formazione in cui combattono:
Il figlio di Telamone, gettandosi tra la folla,
lo colp da vicino sull'elmo guancia di bronzo,
si squarci l'elmo chiomato intorno alla punta dell'asta,
colpito dall'asta enorme e dalla mano gagliarda,
e dalla ferita gi per la faccia corse il cervello,
sanguigno... (II. 17.293-298)
Esistono per problemi di natura storica che inficiano il ricorso ai poemi
omerici in quanto fonte non equivoca
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su taluni aspetti della battaglia greca tra opliti, uno dei quali naturalmente
di tipo cronologico: l'autore dell'Iliade
pu aver composto il poema epico gi nella seconda met dell" VIII secolo, in un
periodo in cui le testimonianze
archeologiche indicano che la corazza dell'oplite (non per necessariamente la
tattica concomitante dell'attacco
in massa nella falange) faceva la sua prima comparsa nella Grecia continentale.
Molti storici affermano pertanto
che, sulla base delle descrizioni degli eroi omerici, non possiamo sapere con
certezza quali erano le armi e la
corazza del fante oplite. In secondo luogo, il modo in cui solitamente
combattevano gli epici guerrieri di Omero
non somiglia molto agli usi e alle abitudini successivi dei fanti della falange.
Troviamo in Omero alcune tracce
del mondo miceneo cos come ci noto attraverso le tavole del lineare B, di
circa cinque secoli precedente,
mescolate con i riferimenti pi frequenti alla cultura materiale dell'et
arcaica greca e alla Grecia di Omero, del
VIII secolo. Il quadro che ne risulta un amalgama o mosaico che copre
cinquecento anni, la cui esatta natura
a tutt'oggi poco chiara: possibile che non rifletta affatto una reale societ
storica. Occorre inoltre ricordare che
l'Iliade e l'Odissea sono poemi epici o eroici che non volevano essere un'esatta
ricostruzione storica della vita
contemporanea ai fatti riportati. Le descrizioni delle battaglie, anche quando
non seguono le convenzioni e le
formule della poesia orale, come tutti i generi epici debbono appassionare,
romanzare, e pertanto cantano un
mondo strano e remoto che non esiste pi:
...l'altro prese un masso,
il Tidide - splendido fatto! - che non porterebbero in due, quali son ora i
mortali; egli senza fatica lo roteava da solo. (II.
5.302-304).
Nondimeno, nel corso di tutta l'Iliade numerosi brani ci mostrano uomini che
combattono tutti insieme, in
questa o quella formazione compatta; non dovevano combattere e morire in modo
molto diverso dai loro
successori diverse generazioni dopo, pur non essendo armati e schierati proprio
come i guerrieri opliti.
Altre informazioni ci vengono dai frammenti a noi pervenuti della poesia lirica
greca, il nuovo genere
letterario dell'et arcaica del VII e VI secolo a. C. che segu alla poesia
epica di Omero e di Esiodo. La loro
utilizzazione come fonti d'informazione sulla battaglia greca presenta problemi
minori, considerato che questi
autori vissero generalmente nel periodo in cui fu introdotto l'armamento
dell'oplite e vennero sviluppate le
tattiche della falange all'interno della cittstato greca; furono testimoni
oculari della cosiddetta riforma oplite.
Per esempio, le poesie di Archiloco, Tirteo, Callino, Mimnermo e Alceo parlano
delle parti che componevano
la panoplia dell'oplite in et classica e si esprimono a volte con la voce di
chi ha combattuto nei ranghi compatti
della falange. Poich questa poesia, per la prima e forse unica volta nella
letteratura greca, si concentra sulla
personalit dell'autore e sulle circostanze particolari in cui stata
concepita, disponiamo di una visione
insolitamente viva e intensa della battaglia, diversamente da quanto abbiamo
trovato in precedenza nei poemi
omerici o in seguito nelle opere in prosa degli storici dell'et classica:
Resista ognuno ben piantato sulle gambe al suolo,
mordendosi le labbra con i denti,
nascondendo le cosce, gli stinchi, il petto e gli omeri
entro la pancia d'uno scudo immenso;
l'asta possente stringa nella destra e l'agiti,
muova tremendo sul capo il cimiero. (Tirteo, 8.21-26).
Il cameratismo della pugna a ranghi compatti, la paura della collisione degli
armati, il dolore per le ferite al
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collo e all'inguine privi di protezione e soprattutto il bisogno di restare
uniti senza indietreggiare di fronte al
nemico sono descritti con un realismo partecipe che non si riscontra in alcun
altro momento della letteratura
greca:
cosa cos agevole dilacerare il tergo
di chi fugge nel vivo della mischia!
Ma che sconcio un cadavere che giace nella polvere,
trafitto il dorso da una punta di lancia! (Tirteo, 8.17-20)
In questi componimenti poetici la battaglia intensa, viva, perch riflette il
fascino che sul poeta esercitano un
nuovo tipo di combattimento e un nuovo tipo di guerriero, che aspira alla
vittoria non da solo, bens con uno
sforzo concentrato insieme a uomini della sua classe e condizione. La forza di
queste poesie nasce in gran parte
dall'ambiente, soggetto a rapida trasformazione, in cui scrivevano i poeti,
molti dei quali fecero parte della prima
generazione di guerrieri opliti nel mondo di lingua greca. Va inoltre ricordato
che un numero relativamente
esiguo di testi poetici di quel periodo ci pervenuto intatto; la maggior parte
stata ricostruita grazie a citazioni
nelle opere in prosa giunte fino a noi, o se ne sono trovati frammenti su
brandelli di papiro. Data la mancanza di
continuit dei testi, e poich la maggior parte dei poeti visse molto prima del
V secolo, non abbiamo molte
informazioni concrete sulla vita degli autori. I frammenti sono troppo spesso
privi di qualunque punto di riferimento, quali una data precisa, una guerra
conosciuta, un incidente nella carriera di un poeta. Queste
limitazioni, com' ovvio, hanno inficiato l'uso dei poeti lirici quali Tirteo
come fonte per lo studio della
strategia e della tattica nell'antica Grecia e anche della "storia greca in
generale, ma assumono un valore
inestimabile se si vuole semplicemente avere un'idea della battaglia, capire in
che modo combatteva e moriva il
fante nella grande et dell'oplite.
Non disponiamo purtroppo di resoconti contemporanei in prosa sulla seconda met
del VII secolo e sul VI, il
periodo aureo degli opliti; la nostra conoscenza di quell'epoca deve
accontentarsi di ritrovamenti archeologici
meno probanti: le raffigurazioni sui vasi, le sculture in pietra e i pochi,
preziosi versi dei poeti lirici. Tuttavia, se
vogliamo capire che cos'era una battaglia nell'antica Grecia, necessario
soffermarsi proprio su quest'et della
battaglia pura tra opliti, nella quale le diversit di armamento da una
generazione all'altra cos come il tipo di
combattimento individuale erano minime. I soldati del V secolo, che tanto spazio
trovano nelle storie di Erodoto e
di Tucidide, impararono infatti a combattere proprio dall'era della battaglia
oplite. Non disponiamo per di un
vero e proprio resoconto su quei conflitti, cosicch lo scontro nella piana del
Lelanto, le battaglie di Isie (669),
Tegea (560), Sepea (494) e Dipea (471) e persino i conflitti successivi, a
Coronea (447), Enofita e Tanagra (457)
e quelli durante la prima guerra del Peloponneso, non sono molto pi di nomi che
ci riportano a un'epoca
remota.
Di conseguenza, quando i primi scrittori in prosa della storia europea
compaiono, alla fine del V secolo a. C,
e descrivono la guerra della cittstato greca nell'et classica e perci le
battaglie contemporanee tra opliti
raccolti in falangi, la grande era dei soldati protetti dalla testa ai piedi
dall'armatura in piastre (700-500 a. C.)
sta volgendo al termine. I soldati di fanteria, come i Diecimila di Senofonte,
avevano cominciato gradualmente
a equipaggiarsi in modo diverso, con una corazza pi leggera, spesso di
materiale non metallico. L'uso di
contingenti supplementari di fanti armati alla leggera, talvolta di lanciatori
di giavellotti, e di soldati
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specializzati nelle incursioni, insieme con l'utilizzazione indipendente della
cavalleria, modific la guerra e
paradossalmente, grazie a questi adattamenti, fece s che la battaglia tra
falangi proseguisse per altri cento anni,
nonostante la fanteria pesante non costituisse pi l'unica forza presente sul
campo di battaglia.
I tre grandi storici del V secolo e dell'inizio del IV, Erodoto, Tucidide e
Senofonte, sono i primi a fornirci un
preciso resoconto, dall'inizio alla fine, di una battaglia tra opliti, quando
cio due eserciti si raccolgono in
formazione per scontrarsi su un terreno pianeggiante, come accadde a Delio (424)
o a Mantinea (418). Ciascuno
di questi autori, pur considerandosi uno storico della guerra e della battaglia,
dava tuttavia per scontato che i
lettori conoscessero la pratica della battaglia, trattandosi in prevalenza di
uomini e per di pi veterani.
Troviamo qua e l, vero, qualche eccezione rilevante, come l'avvincente
descrizione della battaglia di
Mantinea, su cui Tucidide si sofferma per esser certo di comunicare al lettore
la confusione e il disordine a cui i
comandanti spartani si trovarono di fronte. qui che egli parla della tendenza,
sempre presente tra gli opliti nella falange, a ruotare leggermente verso
destra, in quanto ogni soldato cercava di proteggere il proprio fianco
destro non difeso dallo scudo. Ma in generale gli storici hanno messo l'accento
sulla storia politica, pensando
che un resoconto particolareggiato delle campagne o dei teatri di operazioni
(nel quadro di un progetto pi
generale) fosse una tecnica pi efficace per raccontare come cambiava il destino
delle cittstato greche che non
una descrizione meticolosa del vero e proprio scontro tra i singoli opliti. Di
conseguenza, quando si tratta di
riferire il cozzo tra gli armati, questi storici sono avari di particolari e
ricorrono a uno stile asciutto - ci che lo
stesso Tucidide defin la mancanza del favoloso (1.22.4) - che limita nella
maggior parte dei casi i brani sulla
battaglia a una rapida informazione su una carica, un duro scontro, la disfatta
inevitabile e infine lo scambio dei
morti.
Quasi tutti gli scritti letterari del V secolo consistono invece in drammi,
commedie, orazioni, testi filosofici.
La maggior parte degli scrittori greci conosceva in prima persona la battaglia;
come la generazione di scrittori
americani che fece l'esperienza della seconda guerra mondiale - Jones, Heller,
Manchester e Mailer - questi
veterani si rifacevano alla propria esperienza nel combattimento per chiarire o
ampliare le proprie riflessioni
sull'argomento che stavano discutendo. Come l'esperienza a bordo di un B-17 in
volo sopra l'Europa o gli scontri
nelle giungle delle isole del Pacifico sono cosa nota ai lettori grazie ai
romanzi del dopoguerra, cos nel corso di
un discorso o di un dialogo di Aristofane o di Platone che pure non riguardano
specificamente la guerra
sentiamo parlare sovente di quanto fosse ingombrante la corazza dell'opti te o
della necessit di serrare le file
durante lo scontro. Grazie ad Aristofane sappiamo che prima dell'inizio della
battaglia gli uomini potevano
letteralmente farsela addosso, e questo in una scena in cui si prefgge di
ridicolizzare, ma senza esagerazioni, il
mantello stravagante, e imbrattato, di un comandante pomposo (Pax 1115-1116).
Allo stesso modo, Platone si rifa
all'immagine della battaglia nel Lachete, quando afferma che i coraggiosi sono
coloro che restano al proprio
posto nella formazione e non fuggono all'avvicinarsi del nemico (190 E). Non
dovrebbe sorprenderci
l'epitaffio che Eschilo avrebbe lasciato per s alla sua morte in Sicilia. Non
fa parola delle settanta grandi
tragedie che erano state rappresentate nel teatro di Atene, ma ricorda la sua
presenza quale semplice oplite nella
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battaglia di Maratona:
Questo tumulo ricopre Eschilo d'Euforione, ateniese, morto a Gela produttrice di
messi; il suo chiaro valore
diranno, perch l'hanno veduto, il bosco di Maratona e il medo dai lunghi
capelli.
La battaglia oplite era una seconda natura per quasi tutti questi autori, che
menzionano l'uso dell'asta e
dello scudo, la vergogna della fuga, l'arte del maneggiare le armi, il terrore
di un cedimento improvviso
nella formazione, sempre in momenti inverosimili nel contesto di un'allegoria,
di una metafora, di una
semplice storia. Queste allusioni alla battaglia, che possono spuntare in
qualunque passo della letteratura
greca, non sono facilmente individuabili ricorrendo a indici alfabetici o
analitici, e tuttavia proprio
queste fonti forniscono gran parte dei dettagli pi utili relativi al
combattimento tra opliti.
Molti studiosi dell'et classica esitano a consultare gli autori greci
successivi del periodo romano, come per
esempio Diodoro, Pausania e Plutarco, che hanno scritto talvolta a pi di cinque
secoli di distanza dagli
avvenimenti di cui parlano; tuttavia, la maggior parte dei resoconti dei poeti
lirici sulla battaglia nella grande et
dell'oplite andata perduta, mentre gli storici del V secolo conobbero un tipo
di guerra per falangi modificato
e pertanto meno rappresentativo, che per gli studiosi sono propensi ad
accettare come una testimonianza
preziosa. Va detto anche, a difesa degli autori del periodo ellenistico e romano
meno dotati, che in alcuni casi
attingono a fonti contemporanee affidabili (e spesso perdute) sulla battaglia
oplite in tutte le epoche, e, ci che
pi importa, che il loro approccio biografico e l'interesse per il ruolo di un
certo individuo nella storia li porta a
registrare particolari personali che altrimenti non sarebbero stati messi per
iscritto. Se anche non sono altrettanto preziosi per lo studio tradizionale
della tattica e della strategia militare, a causa del loro approccio
aneddotico, idiosincratico e privo di sistematicit alla narrazione storica -
l'irritante omissione di battaglie o
trattati decisivi, la confusione o gli equivoci in fatto di cronologia e dei
cambiamenti importanti di governo -
questi autori nondimeno possono essere ancor pi preziosi proprio per le
informazioni parziali che scelgono di
presentare. Per esempio, mentre raro sentir parlare di individui che
combattono nelle battaglie tra opliti
nelle storie pi tradizionali (e pi affidabili) di Tucidide e di Senofonte,
cosicch non apprendiamo molto sulle
ferite provocate da spade e lance, sia in Diodoro sia in Plutarco il sangue
sgorga copioso: descrizioni
straordinarie delle ferite riportate in battaglia che possono avvicinarci molto
di pi alla carneficina che avveniva
sul campo. Si veda l'immagine del generale greco Filopemene che si trov
immobilizzato come da ceppi
quando un giavellotto gli trapassa d'un colpo entrambe le cosce (Plut., Phil.
6.47), Epaminonda morente a
Mantinea con un troncone di lancia che gli spunta dal petto (Diod., 15.87.1-6),
lo spartano sconosciuto che si
trascina lontano dal campo di battaglia, a quattro zampe, dopo essere stato
colpito ripetutamente alle gambe
e ai piedi (Plut., Mor. 241 F 15), Dionisio colpito ai genitali a Reggio (Diod.,
14.108.6).
Un ultimo genere di testimonianze letterarie costituito dal manuale o guida
militare, dai trattati sulla tattica
del tardo periodo ellenistico e di quello romano, come pure dagli strategemata,
in sostanza raccolte di vecchie
massime e di episodi tipici a proposito della battaglia. Queste opere di Eliano,
Arriano, Asclepiodoto,
Onasandro, Polieno e Frontino (tutte in greco tranne l'ultima) sono di solito
liquidate tanto dagli storici militari
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quanto dai classicisti come aridi esercizi di pedanteria: Esiste una raccolta
di stratagemmi, ha scritto F. E.
Adcock sulla guerra in Grecia e in Macedonia, compilata frettolosamente da
Polieno per illustrare l'ottusit
di Lucio Vero nella campagna contro i parti. acritica al pari del suo
parallelo romano, l'opera di Frontino,
ma nel peggiore dei casi si tratta del sedimento lasciato dalla marea della
guerra (Adcock). Questo
approccio acritico, tuttavia, permette talvolta di fornire, quasi
involontariamente, qualche dettaglio
interessante sul modo in cui i fanti reagivano a situazioni particolari. Pur non
prefiggendosi di parlare dei
soldati semplici, quegli autori spesso lo fanno loro malgrado; il filosofo
platonico Onasandro, del I secolo
d. C, consigliava al suo generale:
Grida, quando il comandante nemico lontano, che il generale nemico
caduto!, oppure il re o chiunque sia.
importante gridarlo a voce alta di modo che senta anche il nemico, giacch i
tuoi uomini, all'udire che stanno vincendo,
acquistano ardore e sono ancor pi bramosi di continuare a combattere, mentre il
nemico, ascoltando questa notizia
sconfortante, perde di colpo il suo coraggio, al punto che talvolta si da subito
alla fuga. (23.1)
Occorre ricordare a questo punto che ci pervenuto un capitolo intitolato
Sulla difesa dei luoghi fortificati
(parte di un'opera molto pi vasta sulle operazioni militari, che andata
perduta) di un certo Enea il Tattico,
oltre a sette opere minori di un suo contemporaneo assai pi noto, vissuto nel
IV secolo, Senofonte. Questi
trattati, scritti nel mondo caotico della prima met del IV secolo, considerano
la pratica militare da un punto di
vista molto particolare, e infatti appartengono a differenti generi letterari:
sono libelli politici, biografie,
manuali didattici, saggi su un singolo argomento o monografie. Grazie a queste
discussioni che spaziano
dall'equitazione alla caccia, dalla sicurezza municipale all'estrazione, dalle
fortificazioni alle sortite di
cavalleria, possiamo raccogliere un buon numero di informazioni circa i problemi
individuali di armamento e
di maneggio delle armi durante il combattimento.
Le scoperte archeologiche - gli scavi, gli studi topografici, lo studio delle
sculture e dei vasi dipinti - forniscono
il secondo tipo di fonti da cui ricavare informazioni sulla fanteria greca in
battaglia. La pratica invalsa presso i
greci, durante l'et arcaica, di portare come offerta votiva o offrire come
ringraziamento ai santuari panellenici
le armi e le corazze prese ai nemici - una consuetudine che si consolida in
concomitanza con l'affermarsi
dell'oplite - ha consentito che si sappiano molte cose sul modo in cui anche i
primi opliti greci erano armati e
protetti, e quel che pi conta sulle difficolt di portare in battaglia un
equipaggiamento siffatto. Le collezioni di
scudi, corazze, elmi, gambali, placche di protezione per le caviglie e le cosce,
spade, punte di lancia e puntali,
portate alla luce a Olimpia e altrove (Delfi, Argo, Italia meridionale, Atene),
non soltanto ci forniscono
informazioni sul peso e sulle dimensioni degli strumenti di guerra, ma rivelano
anche le peculiarit regionali e
perfino le modifiche individuali apportate alle armi. Esistono anche prove di
una tendenza graduale, riscontrabile
in un arco di circa duecentocinquant'anni, ad adottare un armamento pi leggero
e meno ingombrante, a
dimostrazione di una preferenza crescente dell'oplite per mobilit e capacit di
manovra maggiori. Ci si pu
fare un'idea precisa di quanto le testimonianze archeologiche arricchiscano lo
studio della battaglia greca
leggendo una piccola e trascurata nota a pie di pagina del classico Thucydides
and the History of His Age di G. B.
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Grundy. Nel magistrale capitolo dedicato alla guerra greca - un resoconto che si
basa quasi esclusivamente su
fonti letterarie, essendo stato scritto prima che fossero note e a maggior
ragione organizzate e pubblicate gran
parte delle scoperte archeologiche ed epigrafiche - l'autore rileva la scomodit
dell'armamento dell'oplite:
Ho provato a indossare un elmo greco trovato a Delfi e anche diversi elmi di
armature autentiche che risalgono a vari
periodi del medioevo. Il ferro dell'elmo greco era straordinariamente spesso e
direi che pesava circa il doppio
dell'elmo pi pesante del periodo medievale, perfino di quelli usati dai soldati
semplici spagnoli del XVI secolo, che
naturalmente erano fatti di un metallo di scarso pregio.
Gli scavi effettuati nei campi di battaglia, infine, possono contribuire alla
nostra conoscenza del
combattimento. Gli studi topografici che su essi si basano hanno per un valore
maggiore per le ricostruzioni
delle battaglie sotto l'aspetto tattico e strategico quando le descrizioni
letterarie sono frammentarie e debbono
essere integrate. stato possibile dedurre le dimensioni degli eserciti antichi
(che non dovevano eccedere la
capienza dei territori pianeggianti che ospitavano le battaglie), e talvolta
sono state scoperte tracce dei morti.
Sulla collina Kolonos delle Termopi, per esempio, sono state ritrovate punte di
frecce di tipo orientale non
lontano dal luogo in cui il re Leonida e i suoi spartani, secondo le descrizioni
di Erodoto e di Diodoro, opposero resistenza ai persiani nel 480. Nel cimitero
municipale di Atene sono stati trovati gli spartani morti e
seppelliti alla fine della guerra del Peloponneso, con le punte di lancia e di
freccia ancora conficcate nello
scheletro, intatto dopo duemilaquattrocento anni, a conferma di un episodio noto
in precedenza solo grazie a un
breve commento di Senofonte: Caddero allora Cherone e Tibraco, ambedue
polemarchi, l'olimpionico
Lacrate, e altri spartani che sono sepolti dinanzi alla porta di Atene nel
Ceramico (Sen., Hell. 2.4.33; cfr.
Van Hook). Parimenti, sotto il monumento del leone di Cheronea sono stati
portati alla luce 254 scheletri, una
scoperta che indicherebbe il luogo nel quale sarebbero periti i trecento tebani
del battaglione sacro nella
battaglia contro Filippo di Macedonia nel 338.
Gli uomini in battaglia, o in marcia verso la guerra, sono inoltre uno dei temi
preferiti della pittura in rosso e
nero su vaso e dei bassorilievi in pietra dei monumenti pubblici e privati.
Bench le scene fossero spesso di
carattere eroico - la terribile pugna sopra il corpo di Patroclo, o l'addio di
Ettore ad Andromaca - l'artista
raffigurava naturalmente i personaggi nelle tenute da battaglia del proprio
tempo, anche se talvolta ricorreva a
una nudit eroica che lascia facilmente identificare quei protagonisti. Sono
numerose le scene di scherma, di
lancio dell'asta, di opliti in armi o di fanti che incespicano nel tentativo di
schivare un colpo. Neppure in
questo caso le rappresentazioni contribuiscono molto a ricostruire le tattiche
antiche: diffcile dare una
rappresentazione iconografica convincente dell'azione concertata delle falangi,
sicch quell'azione in realt
non appare mai. Ma questi dipinti sono assai utili per ricostruire la
successione degli eventi nel
combattimento tra individui o piccoli gruppi, e danno un'idea di che cosa
fossero gli scontri individuali
all'ultimo sangue dopo che le due falangi avevano combattuto, trasformandosi in
un'unica, confusa massa
umana. A differenza delle narrazioni di Erodoto o di Tucidide, i dipinti si
concentrano ovviamente
sull'esperienza individuale della guerra, non su quella dello stato o della
comunit, e pertanto colgono i
dettagli anche pi minuti: la ferita sanguinante alla coscia del soldato
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colpito, gli spasmi finali di un oplite
calpestato e massacrato, gli ultimi istanti prima del fatale colpo di lancia. In
un certo senso questo interesse
per l'individuo in battaglia non si discosta molto dalla voce soggettiva dei
poeti lirici, e non sorprende dunque
che le migliori informazioni sulla battaglia greca provengano da questi due tipi
di fonti.
L'epigrafia costituisce infine la terza fonte delle nostre conoscenze sulla
storia militare greca; l'indagine
condotta negli ultimi decenni su centinaia di documenti pubblici scolpiti su
pietra e che riguardano la
struttura economica di Atene nel V secolo un buon esempio di una novit
rivoluzionaria nel campo degli
studi sull'amministrazione imperiale della citt. La documentazione a proposito
di affitti, aste pubbliche,
concessioni di titoli onorifici, inventari, contratti, leggi civili e penali
portata alla luce grazie agli scavi
americani nell'agor ateniese, ha fornito il materiale per una storia sociale ed
economica di Atene che non
si pu ricavare dalle testimonianze letterarie. Com'era prevedibile, per, gran
parte di questo materiale
epigrafico di natura pubblica e serve pi per conoscere l'arruolamento
nell'esercito, la struttura di
comando, i dati sulle perdite in battaglia che non particolari specifici
relativi al combattimento e alla morte
nella falange. Esistono alcune eccezioni: per esempio, le liste pubbliche delle
vittime generalmente
registravano i morti sulla base dell'appartenenza a determinati gruppi o clan, e
ci potrebbe indicare che i
membri della falange non erano un gruppo qualunque di cittadini ma venivano
invece allineati e organizzati
sulla base dei rapporti familiari e parentali, affinch tali legami pi forti si
estendessero al combattimento a
ranghi serrati sul campo di battaglia.

PARTE SECONDA Lordalia dell'oplite


6. Il fardello dell'oplite: armi e corazza
Non sapremo mai con certezza come andarono le cose a Maratona, ma possiamo star
certi che il solo valore non sarebbe bastato
per vincere, e forse neppure la combinazione di coraggio e di capacit tattiche
alquanto rudimentali che il tipo di guerra greca
dell'epoca consentiva. La superiorit dell'armamento greco dev'essere stata un
fattore importante in quello e in altri casi, e
talvolta fu forse decisiva.
Anthony Snodgrass
Gli storici dell'et classica che hanno catalogato le scoperte archeologiche di
armi e corazze greche, collezionato
i riferimenti nella letteratura greca e passato in rassegna i dipinti su
ceramica, rimangono colpiti dai grandiosi
risultati conseguiti dai greci, dalla loro abilit insuperata nella lavorazione
del metallo, dall'attenzione alla bellezza
nella forma e nei particolari, dalla protezione impareggiabile offerta dalla
panoplia in bronzo, che dava a chi la
indossava la certezza di essere superiore a tutti gli altri soldati dell'epoca.
L'eccellenza e la bellezza esteriore
dell'equipaggiamento militare erano per gli antichi motivo di naturale orgoglio.
Abbaglia, la sala grande, di
bronzo. Sfoggio, in tutta la casa, d'elmi lucenti, scriveva il poeta lirico
Alceo, che non nasconde la propria
ammirazione, un bianco di cimieri oscilla, onore di guerrieri. Dopo aver reso
omaggio ai vari componenti della
panoplia - i gambali, la corazza, lo scudo e la spada - Alceo conclude
semplicemente: Bisogna fare appello a
tutto questo, ora che siamo in ballo (Ale, 35). Eschilo, veterano della
battaglia di Maratona, pensava che il
successo della fanteria a Platea fosse una vittoria della lancia dorica (Pers.
817), e, non diversamente, Erodoto
era persuaso che le armi e la corazza dei greci fossero stati la chiave per
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vincere quella battaglia: Gravissimo
danno recava loro [ai persiani] l'indossare una veste priva di armatura:
lottavano contro opliti ed erano armati
alla leggera (9.62.4). Evidentemente, secondo questo autore, solo l'armatura
greca poteva essere considerata
una protezione efficace (cfr. 9.63.2 e 3.94.4). Erodoto fa dire al suo
Aristagora (un greco ionico che avrebbe
dovuto conoscere l'armamento del nemico nel vicino territorio persiano), in un
discorso agli ateniesi riuniti, che
la maniera di combattere [dei barbari] si riduce all'arco e a una lancia corta
[...] dunque facile sottometterli
(5.53.1; cfr. 7.211.2; Diod., 11.7.3). Al pari del soldato tedesco nel
1940-1941, l'oplite greco dell'et classica era
oltremodo sicuro della superiorit naturale delle proprie armi rispetto a quelle
di ogni altro popolo mediterraneo.
Gli storici antichi e quelli moderni, apprezzando questo insolito contributo
dei greci e magnificandone la
durata e la bellezza eccezionali, si sono mostrati alquanto restii ad analizzare
gli svantaggi delle armi e della
corazza dell'oplite, che pure erano numerosi. La panoplia, pesante, scomoda e
calda in modo insopportabile, era
particolarmente inadatta all'estate mediterranea; limitava i movimenti pi
semplici e rendeva sicuramente penosa
la vita agli uomini che dovevano indossarla. I calcoli moderni a proposito
dell'equipaggiamento oplite stimano
di solito un peso che varia tra i venticinque e i trentacinque chilogrammi per
la panoplia composta da gambali,
scudo, corazza, elmo, lancia e spada: un fardello incredibile per il fante
dell'antichit, il quale con ogni
probabilit non pesava pi di settanta chili (cfr. Donlan e Thompson 1976, p.
341). Quali che fossero i vantaggi
che questo armamento offriva nello scontro frontale, l'oplite greco ben sapeva
di non essere affatto invidiato dal
suo avversario equipaggiato alla leggera. Anche i miei studenti della California
State University di Fresno,
che hanno costruito copie in metallo e legno della corazza e delle armi antiche
dei greci e dei romani, trovano
difficolt a reggere il peso di scudo, gambali, spada, lancia, corazza, elmetto
e tunica, che pesano meno di
trentacinque chili. Dopo una mezz'ora di un duello simulato sotto il sole della
San Joaquin Valley sono stremati.
Prima di prendere dettagliatamente in esame i problemi creati dalla panoplia,
occorre sottolineare quattro
tendenze generali che evidenziano con buona chiarezza i disagi degli opliti
armati:
1. Una tendenza graduale ma costante, nel corso di duecentocinquant'anni
circa, a modificare e poi scartare
definitivamente alcuni elementi dell'armatura.
2. La comprensibile abitudine di attendere letteralmente gli ultimi istanti
prima del cozzo delle lance per
armarsi.
3. L'uso regolare di servitori personali per trasportare l'equipaggiamento.
4. L'impulso naturale a riporre non appena possibile la costosa armatura,
che di solito veniva acquistata
dall'individuo e non era fornita dallo stato.
Nell'arco di circa due secoli e mezzo si fece strada la tendenza a non aumentare
l'armamento difensivo, nel
tentativo di avvolgere tutto il corpo come poi fecero i cavalieri medievali, ma
invece ad alleggerire o a eliminare
alcuni elementi. Le prime a scomparire furono le protezioni alle caviglie, i
cosciali e i bracciali, comunque
pi adatti per il duello che non per il combattimento nella falange; nel VI
secolo a. C. sembrano gi eliminati.
L'introduzione della cosiddetta corsa con la corazza ai giochi olimpici del 520
e la carica decisiva dei greci a
Maratona (490) riflettono forse una mobilit nuova dovuta al ridimensionamento
della panoplia. Queste
attivit non sarebbero state possibili per i primi opliti, gi testimoniati nel
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VII secolo, i cui arti erano in pratica
racchiusi nel bronzo. A ogni modo, chiaro che gli opliti del V secolo non
usarono mai la protezione ausiliare
per le braccia, le cosce e le caviglie. Gli elmi, la corazza, i gambali
divennero meno rigidi, pi leggeri, e in alcuni
casi furono completamente eliminati, ulteriore indicazione della scomodit e del
peso del vecchio
equipaggiamento dei loro avi. A giudicare in base ai vasi dipinti della met del
V secolo a. C. e alle descrizioni
nella storia di Tucidide, alcuni fanti della falange si recavano in battaglia
senza i gambali, l'elmo corinzio o il
corsaletto. Spesso invece portavano il pilos ateniese, un semplice copricapo
conico, talvolta di bronzo ma pi
sovente di feltro, e una corazza di bronzo pi leggera che restava pi aderente
al torso, oppure un corsaletto
di lino che conteneva al massimo una leggera protezione metallica. Sappiamo
perfino che all'inizio del IV
secolo a. C. i soldati portavano talvolta il cosiddetto mezzo corsaletto, che
doveva probabilmente
proteggere solo il torace (Plut., Mor. 596 D). Forse al termine della guerra del
Peloponneso i soldati greci
sarebbero sembrati ai loro antenati opliti di duecentocinquant'anni prima
altrettanto male equipaggiati
dei loro avversari non greci armati alla leggera; non v' dubbio che il numero
spaventoso di morti in battaglia
nel periodo ellenistico rifletta la tendenza dei membri della falange ad
abbandonare l'armatura.
Inoltre non tutti gli opliti avevano necessariamente lo stesso equipaggiamento:
un fatto non sorprendente
se si considera che gli uomini dovevano portarsi il proprio armamento e in
realt non veniva fornito loro un
equipaggiamento standard. La maggior parte doveva avere qualche preferenza per
il modello che causava
minori disagi (e costava meno), sicch le armi venivano modificate (si legga:
alleggerite) a seconda delle
esigenze individuali. Se si eccettua il campo di manovre, improbabile che i
soldati che combattevano nella
falange avessero un aspetto uniforme, come invece suggeriscono le
rappresentazioni moderne. Se anche le
diversit al loro interno non erano tanto accentuate quanto quelle che si sono
viste tra i soldati americani di
fanteria in Vietnam, le figure sui vasi dimostrano che gli opliti, dello stesso
o di diversi eserciti, spesso
portavano elmi, corazze e armi diverse, e ci indicherebbe di nuovo che le
difficolt causate dalla panoplia
inducevano i singoli soldati che venivano a conoscenza dei vantaggi di certe
modifiche, o pensavano di poter
risparmiare sul denaro e sul peso riducendo lo spessore della protezione di
bronzo, ad apportarvi certi
cambiamenti (si vedano Anderson 1970, tav. 7; Ducrey, tav. 48; Snodgrass 1964,
tav. 15b). La corazza spesso
veniva completamente eliminata dagli opliti pi poveri, che probabilmente non
avevano n il denaro n la voglia di portarla; successivamente, nel IV secolo,
nell'esercito siracusano al comando del tiranno Dionisio
probabilmente soltanto gli ufficiali e la cavalleria avevano una protezione al
corpo (Diod., 14.43.2-3).
L'esercito di popolo di Trasibulo che rovesci i Trenta Tiranni di Atene
subito dopo la guerra del
Peloponneso era dotato di scudi di legno e di vimini (Sen., Hell. 2.4.25; cfr.
anche Tuc, 4.91). Si dice che il
giovane Senofonte, quando si trovava in Asia, si distinguesse tra tutti grazie
alle sue armi eccezionali (An.
3.2.7), anche se forse non quanto il ricchissimo Nicia, del quale si narra che
portasse uno scudo dorato e
color porpora e oro (Plut., Nic. 28; cfr. per esempio EX, VH 3.24; Sen., Mem.
3.10.9-14; Plut., Dione 28.3).
Si diceva invece, a onore di Agesilao, che al suo ritorno dall'Asia, all'inizio
del IV secolo, indossasse ancora
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l'uniforme regolamentare di Sparta, un fatto che indicherebbe che alcuni suoi
uomini in servizio laggi
avevano assunto in parte le abitudini dei persiani (Plut., Ages. 19.5). Alcuni
anni pi tardi, quando paminonda
fece il suo ingresso nel Peloponneso, corse voce che gli alleati ateniesi che lo
accompagnavano indossassero
un nuovo tipo di armamento, di cui peraltro non chiarita la natura (Plut.,
Mor. 193 F 20); si tratta forse di
una prova ulteriore di un cambiamento di rilievo nella panoplia. E in effetti
la storia secondo cui alcuni soldati,
dopo la caduta di Pellene nel 241, contrassegnarono le prigioniere che a essi
erano state assegnate facendo
indossare loro i propri elmi non ha senso se non supponiamo che il copricapo di
ciascun oplite fosse
facilmente distinguibile tanto da chi lo portava quanto dagli altri (Plut.,
Arai. 31.3). Sebbene gran parte delle
prove di modifiche individuali all'armamento risalga al IV secolo e ai
successivi, va ricordato che gi in passato,
nella celebre descrizione di Tucidide sui grandi preparativi per la sciagurata
spedizione ateniese in Sicilia
(415), l'autore aveva osservato incidentalmente che esisteva una certa rivalit
tra gli opliti che preparavano il
proprio equipaggiamento: un altro indizio del fatto che costoro, al di l della
manutenzione e della pulizia
regolari, introducevano forse alcune piccole modifiche nei loro strumenti di
offesa e di difesa. La nascita
dell'oplite e della sua falange, nella quale trovavano posto uno vicino
all'altro uomini di condizioni affini, non
significa che fossero armati sempre allo stesso modo e neppure che tutti i
componenti della colonna si
somigliassero. Come sempre accaduto, le condizioni concrete della battaglia
esigevano dagli uomini cose
molto diverse dall'esercitazione e dalla parata. Dobbiamo perci pensare che gli
opliti, nonostante la formazione compatta, non fossero poi tanto diversi dai
loro predecessori omerici, in quanto adattavano le proprie
armi alle preferenze individuali o alle condizioni della battaglia:
...i re stessi bench feriti, li misero in ordine, il Tidide e Odisseo e
l'Atride Agamennone; muovendo in mezzo a tutti
facevano il cambio dell'armi: i forti le forti vestirono, diedero le men buone
ai men buoni. (Om, II. 14.379-382)
Sembra inoltre che i fanti greci provassero una riluttanza particolare a
indossare la corazza, assicurarsi lo scudo
al braccio e calarsi l'elmo, operazioni che eseguivano solo subito prima dello
scontro: ci rivela la loro logica
avversione a portare le armi e chiudersi nell'armatura fino al momento in cui la
protezione che queste
offrivano assumeva maggior importanza del disagio che procuravano. Per esempio,
gli opliti rappresentati
nelle sculture e sui vasi di solito tengono l'elmo corinzio appena appoggiato,
come se fosse una visiera, e ci
indicherebbe che lo calavano sul volto solamente quando iniziavano la carica. In
alcuni casi i soldati sono stati
colti di sorpresa senza la corazza e le armi, anche se la battaglia era
imminente. Come i nostri fanti hanno la
tendenza naturale a scoprirsi il capo non appena possibile, cos l'antico oplite
correva volentieri il rischio di
venire sorpreso senza protezioni, pur di liberarsi il pi a lungo possibile dal
peso cospicuo e dal disagio che le
armi gli procuravano e pur di poter guardare e ascoltare senza impedimenti.
Subito prima dell'attacco agli
oligarchi di Atene (403) Trasibulo, cos ci racconta Senofonte, ordin ai suoi
uomini di posare gli scudi
mentre rivolgeva loro un'ultima esortazione (fieli. 2.4.12). In precedenza,
nella battaglia di Platea, pochi
attimi prima della carica il generale spartano Pausania aveva consigliato ai
soldati di rilassare i muscoli prima di
mettersi in moto (Plut., Arisi. 17.6). Era naturale posare a terra non appena
possibile lancia e scudo, visto che li
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Victor Davis Hanson - Volume Primo. L'Arte Occidentale Della Guerra.txt
si poteva raccogliere in pochi secondi; in altri casi per leggiamo anche che i
soldati non si limitavano a questo,
ma si levavano l'intera corazza, e forse non la indossavano affatto finch non
erano pi che sicuri che la carica
fosse imminente. Come spiegare altrimenti il singolare comportamento dei
cavalieri di Mantinea che si tolsero
le corazze durante un breve momento di calma nel corso della battaglia? (Sen.,
Hell. 15.22) Plutarco si mostra
sorpreso perch, dopo aver vinto la battaglia di Cinocefale nel 364, i tebani
non si slacciarono il corsaletto ma
anzi, volendo raggiungere il loro generale Pelopida caduto nella pugna, non
deposero la corazza (Pel. 33.2-
3). Anche se l'esercito ateniese si era schierato per sostenere il primo scontro
dopo essere sbarcato in Sicilia,
attendendo nella consueta formazione nella pianura di Siracusa, i siciliani
furono in qualche modo colti di
sorpresa e capirono improvvisamente che la battaglia era imminente. Tucidide
osserva che, prese le armi,
corsero subito incontro al nemico, suggerendo anche in tal caso che forse non
portavano la corazza, oltre agli
scudi, negli attimi che precedevano il combattimento (Tuc, 6.69.2). Quando
Polidamo, avventuriero del IV
secolo, si vant di condurre sempre i suoi mercenari con tutta l'armatura, era
evidentemente convinto che la
maggior parte degli altri soldati non avesse la medesima abitudine (Sen., Hell.
6.1.6.).
Anche quando gli uomini si erano finalmente schierati per la battaglia,
aspettando di lanciare la carica, e i
servitori incaricati di portare le armi si erano allontanati, ogni ritardo sia
pur minimo li induceva
istintivamente a posare lo scudo. Per esempio, i soldati di Cabria nel 378
ricevettero l'ordine di serrare i ranghi
e aspettare gli invasori della Beozia - che giungevano dal Peloponneso - invece
di caricare; posarono allora lo
scudo, appoggiandolo alle ginocchia, e al tempo stesso piantarono le lance per
terra: un'operazione
sicuramente abituale non appena se ne presentasse l'opportunit (Diod., 15.32.5;
cfr. Plut., Bum. 14.4-5; Sen.,
An. 1.5.13). Questa scena spesso raffigurata sui vasi dipinti, che mostrano
gli opliti in piedi e talvolta seduti
con lo scudo appoggiato alle gambe (Anderson 1970, tav. 6-7; Ducrey, tav. 84).
Prima della battaglia di
Leuttra, nel 371, i tebani furono rincuorati dal fatto che la statua di Atena
aveva alzato lo scudo: uno scudo
che a detta di Senofonte di solito era appoggiato alle ginocchia della dea
(Hell. 6.4.7).
Infine, un'altra indicazione del fatto che armi e corazza degli opliti venivano
portati soltanto durante il
combattimento la presenza accertata, in quasi tutte le battaglie greche, di
servitori personali sia per i soldati
regolari sia per gli ufficiali la cui funzione principale era di trasportare le
armi del padrone per consegnargliele
soltanto nell'imminenza della carica. Oltre all'equipaggiamento consueto per la
battaglia (corazza, gambali,
lancia, spada, elmo e scudo), occorreva provvedere anche al trasporto di
vettovaglie e attrezzature; probabile
pertanto che al seguito di ciascun soldato ci fosse pi di un attendente.
Testimonianze di questa costante
presenza di inservienti e attendenti personali - schiavi, servitori a contratto,
individui molto poveri - si
possono trovare in quasi tutti gli autori greci (Pritchett 1971-1985,1, pp.
49-51). Ma questi servitori non erano
solo generici coadiuvanti nel corso della campagna: esistono valide indicazioni
del fatto che non si limitavano a
portare le armi e la corazza degli opliti, ma le consegnavano loro soltanto
negli ultimi istanti prima della
battaglia. Anassibo, per esempio, che si trov in una situazione disperata
presso Antandro nel 389, dopo essersi
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rivolto ai propri soldati, si fece consegnare lo scudo dai servitori e subito
dopo fu ucciso insieme con gli
opliti rimasti presso di lui (Sen., Hell. 4.8.39). Quando il generale tebano
Pelopida comand ai fanti di
caricare i tessali a Cinocefale nel 364 - ci informa Plutarco - anche lui si un
loro e imbracci lo scudo; ci
suggerirebbe una volta di pi che in genere i combattenti affidavano le armi
agli aiutanti fino a quando non
aveva inizio la battaglia (Pel. 32.4). esattamente quanto emerge dagli
Acarnesi di Aristofane l dove Lamaco
ingiunge ripetutamente al servitore di raccogliere il suo scudo (1121-1125;
1135-1139). Lo stesso Senofonte,
nella foga della battaglia durante la marcia dei Diecimila nel 401, rest
isolato dal suo portatore di armi e quindi
senza scudo; e, indifeso, rischi di essere catturato finch non giunse
l'aiutante (An. 4.2.21-23; cfr. Plut., Tim.
27.2). Grazie a un manuale d'istruzioni successivo sappiamo che il portatore
dello scudo si occupava delle
armi del padrone letteralmente fino all'ultimo istante prima della carica,
quando finalmente gli veniva ordinato
di uscire dalle file della falange nel momento in cui i fanti raccoglievano le
lance: Preparate le armi! Escano
dalle file gli attendenti! Tacete e ponete attenzione agli ordini! Raccogliete
le armi! (Asclepiodoto, 12.11)
Che gli opliti non dovessero sempre sopportare il cospicuo peso della panoplia
fino ai momenti che
precedevano la carica dimostrato inoltre dagli accenni alle curiose custodie
che erano talvolta utilizzate per
trasportare le armi. Scudo e spada erano probabilmente riposti in custodie di
cuoio per maneggiarli pi
facilmente quando non erano usati; sappiamo anche di tripodi in legno la cui
funzione era solo quella di
tenere in piedi lo scudo poggiato al suolo (Ar., Ach. 51 A; 1120; 1128).
Quest'ultimo dato dimostra inoltre
che gli opliti erano orgogliosi delle proprie armi: difficile immaginare un
fante moderno che si prende tanta
cura delle armi dategli dal governo. Al pari dei moderni giocatori di golf, cui
i caddies consegnano la mazza
scelta solo prima di ciascun colpo, i fanti dell'antica Grecia prendevano i loro
pesanti, ingombranti attrezzi
del mestiere soltanto quando lo scontro era inevitabile. il peso
dell'equipaggiamento, pi di una qualche
nozione greca di uguaglianza tra i soldati, a spiegare perch tutti, a
prescindere dal rango, avevano
qualcuno al loro servizio.
Infine, troviamo in tutta la letteratura greca riferimenti continui al fatto che
gli opliti abbandonavano le armi
sul campo di battaglia; anche questo, a mio parere, dimostra la tendenza
universale della fanteria pesante greca
a disfarsi del peso e dell'ingombro di quelle armi non appena cominciava a
sembrare pericoloso tenerle. Va
tenuto presente che l'equipaggiamento veniva pagato dall'oplite di tasca
propria, che si trattava di un oggetto
che rappresentava l'onore familiare e al ritorno veniva appeso sopra il
focolare; in breve, non lo si buttava via
alla leggera se non c'erano buone ragioni. L'accusa di rhipsaspia, ovvero di
aver gettato via lo scudo,
associata alla vigliaccheria in battaglia. Si supponeva che gli accusati fossero
stati tra i primi ad abbandonare gli
amici, nel tentativo di salvare la pelle durante il cedimento generale della
falange; essi avevano cio messo in
pericolo la vita di coloro che avevano conservato le proprie armi e non potevano
o non volevano darsi
ignominiosamente alla fuga. Quest'accusa tanto frequente nella letteratura greca
non ricorre solamente nella
commedia o nell'oratoria ateniesi, e non sorprende trovare tale calunnia nelle
commedie di Aristofane o nei
discorsi di Lisia. Al contrario, di personaggi come Demostene e dei poeti
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Victor Davis Hanson - Volume Primo. L'Arte Occidentale Della Guerra.txt
Archiloco e Alceo si diceva che
avessero gettato via le armi durante la battaglia. Il fatto che di questa
condotta ignobile fossero accusati autori
tanto noti non in realt un'indicazione delle scarse doti guerresche degli
artisti greci, ma piuttosto una
dimostrazione dell'ampia diffusione di quella tendenza. Lo scudo! Uno dei sai
[barbari] se ne fa bello, adesso.
Era perfetto, si vantava il poeta lirico Archiloco. Presso un cespuglio (non
lo feci apposta) lo lasciai. Ma la vita
salvai. Lo scudo? Al diavolo! (7) Molte cose sono state dette sul nuovo
atteggiamento antieroico di Archiloco
proprio all'alba dell'et dell'oplite. La sua irriverenza indica forse una
suscettibilit particolare, un atteggiamento
difensivo di fronte alla perdita di quell'arma tanto protetta; ci troviamo di
fronte a una concezione della
panoplia ben diversa dal malcelato orgoglio di Alceo per lo splendore delle sue
armi (espresso nella sua
composizione 35). indubbio che il poeta si fosse disfatto di quel maledetto
peso solamente quando la sua vita
era in pericolo, come lui stesso afferma. Erodoto ci rammenta che in uno
scontro in cui vinsero gli ateniesi,
salv la vita con la fuga. Ma gli ateniesi presero le sue armi, che appesero al
tempio di Atena a Sigeo
(5.104.1); evidentemente l'amore per la sua panoplia di oplite era svanito
quando aveva lasciato la sala del
banchetto per calcare il campo di battaglia. Due secoli e mezzo pi tardi,
Aristofane canzonava Cleonimo che
si liberava dello scudo non appena possibile, in terra, in mare e in cielo
(Vesp. 22); gli scudi non erano
diventati pi leggeri rispetto all'epoca di Archiloco.
probabile che lo scudo fosse la prima arma a essere buttata, dal momento che
era assai facile liberarsene;
era ovviamente anche l'oggetto pi ingombrante della panoplia nonch il meno
costoso da sostituire (essendo il
solo fabbricato quasi tutto in legno). Ma talvolta l'oplite si disfaceva anche
dell'elmo, dei gambali, perfino della
corazza. A spiegare il particolare rilievo dato allo scudo nella letteratura
la considerazione, ovvia per i greci, che
solo la sua perdita aveva conseguenze su tutti i membri della formazione,
equipaggiati allo stesso modo, ed era
perci in un certo senso un crimine contro ogni cittadino presente nella
falange: Gli uomini portano l'elmo e la
corazza per le proprie esigenze, scrive Plutarco, e lo scudo si porta per uso
ancora di tutta l'ordinanza intera
(Mor. 241 F 16; cfr. anche 220 A; Poi., Strat. 3.9.4). Dopo la disfatta ateniese
sulle alture di Epipole nel corso
della spedizione in Sicilia del 413 Tucidide scrisse che le armi catturate
furono ancora di pi che in proporzione
ai morti, una scena che ricorda in modo sorprendente il moderno campo di
battaglia (7.45.2). Per farla breve,
per la maggioranza degli opliti (a differenza dei soldati armati alla leggera o
degli arcieri) che decidevano che
la fuga era preferibile a una morte gloriosa in battaglia, non c'era alcuna
possibilit, con il fardello delle armi e
della corazza sulle spalle, di sfuggire all'inseguimento della fanteria e della
cavalleria del vittorioso nemico. In
Grecia interagirono dunque sempre il desiderio di alleggerire l'equipaggiamento
dell'oplite, una certa riluttanza
a portare la panoplia, e perfino a indossarla se non negli ultimi istanti prima
della battaglia, e la tendenza a
gettarla via quando si profilava la necessit di fuggire.
Lo scudo
L'elemento pi importante dell'armamento difensivo dell'oplite era lo scudo, un
pezzo di legno rotondo e
concavo del diametro di circa un metro, le cui dimensioni precise dipendevano in
certa misura dalla lunghezza
e dalla forza di braccio di ciascun soldato. Non conosciamo con esattezza lo
spessore e il tipo di legno usato (e
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Victor Davis Hanson - Volume Primo. L'Arte Occidentale Della Guerra.txt
quindi il peso effettivo dello scudo) perch le parti in legno non si sono
conservate; il peso stato per valutato in
circa otto chilogrammi (Donlan e Thompson 1976, p. 341). Pur trattandosi di un
fardello considerevole per
l'oplite gi gravato dalla corazza, rispetto ai modelli precedenti in pelle di
bue dell'et arcaica greca lo scudo in
legno presentava il vantaggio di una protezione maggiore contro i colpi di
lancia o di spada e dava al guerriero
la possibilit di avvicinarsi molto di pi al nemico. probabile che in origine
solo il bordo esterno dello scudo
fosse coperto da una striscia di bronzo, che doveva proteggerlo da marciumi e
scheggiature, ma i riferimenti
letterari e le scoperte archeologiche risalenti al V secolo a. C. indicano che
gran parte della superficie esterna,
come nel caso del vecchio scudo omerico, era ricoperta da una sottile lamina di
bronzo, che spesso assumeva la
forma di uno stemma particolare. La lamina non accresceva molto la protezione e
neppure il peso dello scudo,
ma evidentemente conferiva a chi lo portava un'apparenza di ferocia quando
riluceva, abbagliando o addirittura
spaventando l'avversario.
Gli storici attribuiscono grande importanza all'imbracciatura e all'impugnatura
particolari dello scudo, il
porpax e Vantilabe, che per la prima volta distribuivano il peso lungo tutto il
braccio sinistro invece di
concentrarlo solo sulla mano e sul polso. Tali innovazioni permisero di tenere
per tutta la durata della battaglia
quest'oggetto altrimenti ingombrante. Tuttavia, ci si dimentica di solito che
l'impugnatura presentava per i
combattenti anche qualche serio inconveniente: il movimento del corpo ne
risentiva poich il braccio sinistro -
che in molti meno abile e pi debole - doveva restare rigido, tenuto davanti
al corpo all'altezza della cintola,
con il gomito piegato e l'avambraccio diritto e parallelo al terreno, la mano
serrata intorno all'impugnatura. Se
l'oplite si chinava o scivolava, l'orlo inferiore dello scudo sfregava per
terra, un evento tutt'altro che improbabile
dato che chi lo reggeva non superava il metro e settanta centimetri d'altezza.
Anche l'equilibrio ne risentiva e
rannicchiarsi o piegarsi non era cosa facile. Non era inoltre agevole maneggiare
lo scudo una volta cominciata la
battaglia: poich era necessario tutto il braccio per reggerne il peso notevole,
diventava assai difficile
correggere l'angolo di deflessione, e la forma dello scudo indicherebbe che in
realt doveva servire soprattutto
per spingere. Lo scudo non poteva essere utilizzato, quale che fosse l'angolo, a
protezione del fianco destro del
soldato, e sappiamo infatti di intere falangi prese alla sprovvista da un
attacco laterale sull'estrema destra, in cui
l'ultima fila di opliti non godeva di nessuna protezione sul fianco non difeso
dagli scudi (Sen., Hell. 4.2.22;
4.5.13).
Vale la pena prendere in esame alcuni dei numerosi riferimenti alla scomodit
dello scudo dell'oplite. O
Senofonte, non siamo alla pari noi due, lamentava Soterida, un dissidente tra i
Diecimila. Tu te ne vai a cavallo
mentre io mi sfianco terribilmente a portare lo scudo sulle spalle (Sen., An.
3.4.47-48). I primi, pochi coraggiosi
abitanti di Platea che decisero nel 429, durante la guerra del Peloponneso, di
sfuggire all'assedio spartano, si
lanciarono fuori soltanto con le armi offensive, seguiti a ridosso dagli altri
che portavano lo scudo con s.
Sapevano evidentemente di avere scarse probabilit di cavarsela se avessero
dovuto portarli entrambi (Tuc, 3.22
3); non si fa cenno alla corazza, ma anche il peso della lancia e dello scudo
doveva essere giudicato eccessivo.
Possiamo capire perch Discorso Giusto, personaggio delle Nuvole (987-999), una
commedia di Aristofane, osservava che ai suoi tempi i giovani riuscivano a
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tenere lo scudo solo all'altezza della coscia: in altre parole, quei giovani
rammolliti non erano in grado di soddisfare i vecchi requisiti secondo cui i
soldati avrebbero dovuto reggere lo
scudo in battaglia all'altezza del torace. L'aforisma spesso citato (e di data
incerta) della madre spartana che
esortava il figlio a far ritorno dalla battaglia con il suo scudo oppure sopra
di esso, rivela inoltre la difficolt
intrinseca di portarselo dietro: non mancava mai una certa tendenza naturale (e
repressa) a disfarsene, mentre le
sue dimensioni inusitate e la forma concava ne facevano un catafalco ideale per
il corpo dell'oplite ucciso (Plut,
Mor. 241 F 16). Non sorprende allora che gli spartani punissero i soldati
responsabili di qualche mancanza quando
erano in servizio costringendoli a rimanere in piedi con lo scudo in posizione
(Sen., Hell. 3.1.9): portare la
panoplia, anche senza i rigori della battaglia, era una punizione sufficiente.
In effetti, la fatica necessaria per portare l'equipaggiamento era tale che
quando gli opliti erano stanchi o perdevano la concentrazione, per prima cosa
lasciavano cadere istintivamente lo scudo. Il celebre scudo di
Aristomene, che Pausania affermava di aver visto centinaia di anni dopo a
Lebadea, sarebbe stato perduto dal
leggendario eroe durante le guerre messemene (Paus., 4.16.7). Due secoli dopo il
generale spartano Brasida,
mentre si preparava a sbarcare a Pilo per attaccare la guarnigione ateniese di
stanza, fu abbattuto dai colpi dei
nemici, e nel cadere al di l della fila dei remi il suo scudo scivol in mare
(Tuc, 4.12.1). Analogamente, il
generale tebano Epaminonda perse lo scudo quando venne ferito a Mantinea; mentre
veniva trascinato cosciente
fuori dalla mischia, domand se il suo servitore fosse riuscito a prendere anche
lo scudo (Diod., 15.86.5). Il
vento che soffiava sopra il passo di Creusi strapp numerosi scudi dalle braccia
degli opliti spartani che
stavano cercando di aprirsi un varco per superarlo (Sen., Hell. 5.4.18).
probabile che Epaminonda
pensasse proprio alla difficolt di non perdere lo scudo quando osserv che i
suoi tebani non avrebbero
potuto conservare il potere se non fossero stati in grado di mantenere la presa
sull'impugnatura (Plut., Mor. 193
E 18). Gli eroi come Brasida, Epaminonda e Aristomene, al pari degli spartani in
marcia e diversamente dai
poeti, perdevano lo scudo ma non lo gettavano via; quale che sia la verit,
sappiamo che il peso e la forma
ingombrante degli scudi ne facevano una preoccupazione perenne.
Gli studiosi che di recente hanno condotto alcuni esperimenti per riprodurre le
condizioni concrete in cui si
trovavano i soldati a Maratona hanno scoperto che i soggetti di tali esperimenti
incontravano notevoli
difficolt a tenere lo scudo all'altezza del torace:
importante rilevare che per coprire la distanza prescritta con lo scudo
all'altezza del torace stato necessario un
incremento medio del 28 per cento del dispendio energetico per ciascun soggetto
[...] L'esperimento ha dimostrato
inoltre che il peso e le dimensioni dello scudo erano i fattori critici. Lo
scudo dell'oplite, che doveva pesare circa otto
chilogrammi, poteva essere portato solo isometricamente, e il considerevole
dispendio di energia limita nettamente la
distanza per la quale i soldati sono in grado di sostenere un grande sforzo.
(Donlan e Thompson)
Nonostante l'impugnatura e l'imbracciatura, l'unico modo in cui gli antichi
fanti potevano sorreggere lo scudo
in battaglia per pi di qualche minuto era di appoggiarlo ogni tanto sulla
spalla sinistra, un fatto che si tende
troppo spesso a dimenticare. Ci era possibile grazie alla forma fortemente
concava: il soldato infatti poteva
nascondere il petto e gli omeri entro la pancia di uno scudo immenso (Tirteo,
8.24-25). Il bordo dello
scudo formava pi o meno un angolo di novanta gradi, creando una vera e propria
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coppa pi che una
superficie piatta. Anche se vero che questa particolare forma serviva a
deviare i colpi e forniva un'ulteriore
protezione all'avambraccio, il dato che pi conta che permetteva di scaricare
sulla spalla il notevole peso
dello scudo. Altri modelli di dimensioni inferiori e meno pesanti - per esempio
quelli macedoni, romani e
persiani - non erano cos accentuatamente concavi, forse perch non era
necessario far riposare il braccio.
Quando i due eserciti si scontravano, in genere si scatenava una gara di spinta,
e possiamo immaginare che
l'oplite appoggiasse naturalmente l'intero peso dello scudo sulla spalla
sinistra mentre faceva forza sugli uomini
che aveva davanti. Forse la vera rivoluzione nell'armamento fu la forma concava,
di concezione cos radicale,
pi che l'impugnatura e l'imbracciatura di cui si parla tanto: una forma che
permetteva a un individuo che
pesava poco (settanta chili) di reggere un'arma sproporzionatamente grande e gli
offriva la superficie ideale per
scaricare la propria forza sulle spalle di coloro che gli stavano davanti. Dopo
Omero, come ci aspetteremmo, lo
scudo del fante fu definito per la prima volta concavo (Tirteo, 11.24; 19.7;
Mimnermo, 13a). Tucidide osserva
che gli ateniesi fatti prigionieri in Sicilia furono costretti a riempire di
denaro quattro scudi rovesciati;
un'immagine che resta incomprensibile se non si tiene presente la forma
caratteristica dello scudo dell'oplite
(7.82.3). Leggiamo in Euripide che i guerrieri si sfregavano la barba con il
bordo dello scudo, altra indicazione
del fatto che esso veniva appoggiato sulla spalla proprio sotto la mascella
(Troade, 1196-1200). Uno scudo di
oplite argivo quasi completamente restaurato e conservato nei Musei Vaticani
conferma in effetti che un uomo
poteva appoggiarne il bordo interno sulla spalla sinistra (Connolly, p. 54).
Osserviamo spesso questa posizione
raffigurata sui vasi dipinti. I soldati paiono appoggiare lo scudo sulla spalla
sia quando sono fermi sia in
battaglia; di frequente, inoltre, l'oplite rannicchiato si protegge da un colpo
sferrato dall'alto tenendo lo scudo
orizzontale, con il bordo sulla spalla stretta sotto il mento (Ducrey, tav. 2,
62, 84, 85, 187; Chase, p. 74). Una
rappresentazione pi chiara quella offerta da un bassorilievo di una tomba
attica della fine del V secolo
(Anderson 1970, tav. 12), nel quale un oplite, che tiene probabilmente lo scudo
sulla spalla, ha entrambe le
mani occupate: con la destra sta stringendo la mano a qualcuno, con la sinistra
impugna la lancia. Questa
funzione importante del bordo dello scudo pu spiegarne inoltre la successiva
scomparsa nel corso del periodo
ellenistico, alla fine del IV secolo e poi nel III e nel II, quando i soldati di
fanteria appendevano lo scudo, ora
pi piccolo, al collo, in modo da poter impugnare con entrambe le mani la
sarissa o asta, molto pi lunga e pi
pesante. La cinghia che assicurava lo scudo al collo e il minor peso rendevano
superflua la spalla, e non
sorprende perci che in seguito Asclepiodoto, esperto di cose militari,
definisse la versione macedone non
molto concava (5.1).
Un'altra ragione per cui spesso gli storici trascurano i vantaggi offerti dal
bordo dello scudo che in genere
i dipinti sui vasi si soffermano sulla prima fila, il punto in cui si
verificavano i primi scambi di colpi e in cui il
pi delle volte lo scudo veniva allontanato dal torace per parare i colpi che
piombavano da ogni parte.
Quando si combatteva in questo modo non era possibile appoggiare lo scudo alla
spalla. Inoltre, l'azione che
si svolgeva all'interno delle prime file attirava l'interesse dell'artista ed
era rappresentabile molto pi
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facilmente delle file numerose di fanti anonimi che spingevano e premevano lo
scudo contro coloro che
stavano davanti.
Oltre al peso e alla forma ingombrante, lo scudo presentava anche un terzo
inconveniente, la relativa
sottigliezza, visto che non era pi spesso di duetre centimetri. Lo spessore,
come avviene per tutte le protezioni
da venticinque secoli a questa parte, era sacrificato alla superficie; poich lo
scudo aveva un diametro di un
metro, doveva essere sottile per mantenere entro certi limiti tollerabili il
peso globale. I greci sapevano che
queste difese, sebbene non assicurassero una protezione totale da tutti i colpi,
erano sufficienti - a differenza
degli scudi dei secoli passati - per sostenere gran parte dei colpi di lancia e
di spada, posto che si trattasse di
fendenti e affondi da una breve distanza, che non consentiva di imprimere loro
molta forza. Le storie sulle
armi trasmesse di padre in figlio (Plut., Mor. 241 F 17), su quelle appese sopra
il focolare avito (Ar., Ach. 57,
278), di scudi ritrovati a centinaia d'anni di distanza in mostra nei santuari
(Paus., 9.16.3; 2.21.4; 1.15.4; Diod.,
17.18; Arr., Anab. 1.11.7) sono probabilmente plausibili, in quanto la
maggioranza degli opliti non faceva parte
della prima linea e non doveva sottoporre il proprio armamento al primo,
spaventevole cozzo in cui la punta di
lancia picchiava frontalmente contro lo scudo, la corazza, l'elmo o i gambali.
D'altro canto, era probabile che sia
lo scudo sia la lancia dei pochi che reggevano l'urto del nemico nella prima
linea della falange si spezzassero ai
primi colpi. I dipinti sui vasi mostravano scudi spezzati e la letteratura ne
parla spesso. La prematura morte di
Brasida ad Anfipoli nel 422 sarebbe stata causata dal fatto che il suo scudo non
aveva retto all'urto di una
lancia. Secondo Plutarco, alla domanda su come era stato ferito, Brasida
rispose: Per tradimento del mio
scudo (Plut., Mor. 219 C; cfr. Sen., An. 4.1.18). Cogliamo un'immagine simile
nel terribile racconto di
Senofonte sulla battaglia di Coronea nel 394: dopo la collisione tra spartani e
tebani, il campo era disseminato
di scudi fracassati intorno ai corpi trucidati (Ages. 2.14). Nello Scudo di
Menandro, lo schiavo di Cleostrato,
Davo, trova lo scudo fracassato del padrone accanto al suo presunto cadavere
(75f). Infine, ci sono esempi di
interi eserciti equipaggiati ex novo dopo Ja battaglia e desiderosi di
sostituire l'armamento vecchio con uno
nuovo, forse un'indicazione del fatto che un certo numero di scudi - J'unica
componente dell'armamento
difensivo che non fosse interamente in bronzo - doveva essere andato in pezzi
durante il primo cozzo (Sen.,
Ages. 1.26; Poi., Strat. 3.8; Diod., 17.39.2).
L'elmo
Il copricapo preferito in tutta la Grecia durante la grande et della guerra
tra opliti (700-500 a. C.) fu il
cosiddetto elmo corinzio. A differenza degli elmetti utilizzati dai fanti degli
eserciti occidentali nel XX secolo,
l'elmo di bronzo dell'oplite copriva la testa e buona parte del collo e scendeva
sotto la nuca fino alla clavicola.
Nell'ultima e pi elegante versione di quest'elmo, le parti a protezione di
guance e naso sporgevano in avanti
tanto da sfiorarsi in corrispondenza del centro del viso, offrendo una difesa
agli occhi, al naso e anche alla bocca.
In teoria il bronzo massiccio forniva la difesa necessaria dai colpi di lancia
al viso e al capo e proteggeva la
mascella dai colpi laterali e frontali, ma indubbio che questo tipo di elmo
doveva essere assai scomodo e
ingombrante. Il suo difetto pi evidente era che impediva di vedere e di
sentire, poich non c'erano orifizi per le
orecchie. Non sorprenderebbe se la formazione e la tattica semplici della guerra
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per falangi - l'allineamento
compatto, la carica, la collisione e la pressione finale -fossero nate almeno in
parte dall'assenza di una comunicazione diretta tra i soldati e il loro
comandante; con un copricapo del genere erano fuori questione i singoli duelli,
le scaramucce e gli attacchi brevi e ripetuti, e l'isolamento creato dall'elmo
esigeva che ognuno si tenesse a
stretto contatto con i compagni.
Sebbene J'oplite con l'elmo calato non vedesse bene n sentisse, non si poneva
mai il problema di individuare il
nemico, n l'impossibilit pratica di vedere di lato rappresentava un pericolo
nella misura in cui era mantenuta la
compattezza della formazione. I suoni che si udivano nella falange erano perci
solitamente canti accompagnati
dal flauto (Tuc, 5.70.1; Plut., Lyc. 21; Sen., Cyr. 7.1) oppure grida (Sen., An.
1.8.18; 6.4.27; Hell. 2.431; Tuc,
7.44); gli ordini di avanzata o ritirata erano dati con squilli di corno (Tuc,
6.69.2; Sen., An. 4.4.22). L'ordine che
il generale tebano Epaminonda avrebbe dato durante la battaglia di Leuttra del
371, avanzate di un passo
(Poi., Strat. 2.3.4), sempre che sia vero, nella foga della mischia non dovette
essere udito da molti, a meno che
non portassero il cosiddetto elmo beota che lasciava scoperta tutta la faccia.
Se l'elmo corinzio limitava le comunicazioni tra i soldati ed esigeva perci che
ordini e movimenti tattici fossero
semplici, la limitatezza del campo visivo imponeva che si combattesse alla luce
del giorno. Gli attacchi notturni
erano comprensibilmente rari e quando venivano portati provocavano enorme
confusione; la polvere sollevata
da migliaia di soldati che marciavano o si trascinavano sotto il peso delle armi
rendeva gi abbastanza
complicato combattere di giorno. Anche la paura o il panico che sovente
travolgevano le file della faJange prima
della battaglia possono essere attribuiti all'orribile senso di isolamento
determinato dall'elmo corinzio, perch chi
lo indossava era calato in un proprio mondo, isolato dagli uomini che lo
attorniavano, e la sua percezione
della lotta era dovuta principalmente al senso del tatto o, per essere pi
precisi, alla pressione di coloro che gli
stavano dietro, di fianco e davanti. Come poteva il combattente avere una
nozione chiara dello scontro che
avveniva intorno a lui se non tramite queste pressioni esercitate tutt'intorno?
Le condizioni della battaglia non
facevano che aggravare la mancanza di percezioni. Il copricapo non aderiva mai
in modo perfetto al cranio,
cosicch anche i colpi di striscio potevano spostare l'elmo, non solo verso
l'alto o verso il basso ma anche di lato,
coprendo a volte completamente il campo visivo.
Oltre a causare una perdita di percezione complessiva, l'elmo era scomodo in
quanto gravava sul collo (il suo
peso era di due chili e pi) e per il calore che produceva intorno agli occhi,
alla bocca, al naso e alle orecchie.
Ricordiamo che le campagne militari erano limitate quasi esclusivamente ai mesi
estivi, quando la temperatura in
Grecia supera normalmente i 33 gradi centigradi; difficile immaginare un
copricapo pi soffocante per chi gi
aveva la barba e portava i capelli lunghi (si veda per esempio Erod., 1.82.7-8;
Plut., Nic. 19). Il segno distintivo
del militarismo erano i capelli lunghi e non, come avviene oggi, una rasatura
cortissima, come dimostrano
chiaramente le consuetudini in questo campo attestate a Sparta per tutte le
epoche (Ar., Av., 1281; Vesp. 476;
Lys. 1072; Plut., Pboc. 10.1; Lyc. 22.1). Apparentemente tale preferenza non era
ragionevole, dal momento che
barba e capelli lunghi offrivano una presa agli avversari sul campo di battaglia
e non potevano che rendere pi
scomodo e soffocante l'elmo. Forse questo il motivo per cui sui vasi dipinti
sono talvolta raffigurati opliti che
si lisciano accuratamente i capelli, schiacciandoli energicamente sul cranio
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prima di infilare l'elmo, quasi che in
questo modo potessero renderlo pi sopportabile (Ducrey, p. 222).
Il terzo inconveniente, oltre alla percezione ridotta e al disagio generale,
era l'assenza letale di reticelle
interne o di qualche altro sistema in grado di ammortizzare la violenza di un
colpo diretto al capo, a parte gli
stessi capelli. Sebbene la presenza di fori regolari lungo il perimetro degli
elmi giunti fino a noi suggerisca che
all'interno della superficie di bronzo doveva essere cucita un'imbottitura di
feltro o di cuoio, essa non creava
un cuscinetto d'aria tra le pareti di metallo e il cranio e non poteva assorbire
completamente la violenza dei
colpi. assai probabile che l'imbottitura avesse lo scopo principale di
proteggere la testa e il viso del soldato
dallo sfregamento e dal calore del bronzo (Lazenby, tav. 4); allora
comprensibile che si legga sovente di
soldati morti a seguito di un colpo alla testa. La maggior parte degli elmi
corinzi che si sono conservati reca
delle fenditure, ammaccata o ribattuta (per esempio Weiss, pp. 195 ss.), un
dato che indica come il soldato
fosse spesso vittima di serie contusioni, anche quando il bronzo resisteva al
colpo (Ar., Ach. 1180). Sotto un
colpo violento il metallo poteva attraversare l'imbottitura che copriva la testa
e fracassare il cranio, e magari
conficcarsi insieme con il cuoio e le ossa dentro il cervello.
La maggior parte degli elmi del periodo arcaico e della prima et classica era
ornata di un pennacchio di
crini di cavallo, a volte attaccato direttamente all'elmo, altre ancora dotato
di uno speciale supporto in bronzo
posto in cima, che doveva far sembrare pi alto e formidabile il piccolo oplite;
perlomeno ci che dovette
pensare il figlioletto di Ettore quando vide la cresta ondeggiante del padre
(Om., 11. 6.469). Anche Diceopoli
turbato da quella vista negli Acarnesi di Aristofane (567, 586), e l'invio di
Tirteo a muover tremendo sul
capo il cimiero (8.26) mirava a suscitare la medesima impressione.
A un livello pi concreto, le creste potevano attutire i colpi calati dall'alto
in basso al centro dell'elmo (si veda
Snodgrass 1967, tav. 23) o parare le frecce che piovevano sopra la falange.
Nell'Iliade Lieo colp il cimiero
dell'elmo chiomato, ma presso l'elsa la spada si ruppe (16.438-439). Nel 333
Alessandro Magno scamp a un
assalto del persiano Spitridate sul fiume Granico grazie alla cresta del suo
elmo: l'ascia di guerra del persiano
fendette il cimiero, divise in due il pennacchio e manc poco che spaccasse
l'elmo, ma Alessandro se la cav
con un taglio sulla testa (Plut., Alex. 16). Chiunque abbia avuto occasione di
infilarsi un copricapo moderno
parimenti dotato di qualche tipo di ornamento voluminoso - un cappello da
cerimonia o una maschera di
Halloween - comprender facilmente come la cresta rendesse ancor pi ingombrante
l'elmo, soprattutto
quando si trattava di infilarlo o toglierlo. Quand'anche avesse fatto sembrare
l'oplite pi alto e perci pi
temibile agli occhi del nemico (per esempio Polib., 6.32.13), la cresta riduceva
tuttavia ulteriormente la
possibilit di veder arrivare frecce e altri proiettili e perfino un colpo di
lancia sferrato tra gli scudi. I dipinti sui
vasi ci mostrano talvolta opliti afferrati per la cresta, che presentava perci
lo stesso inconveniente della barba o
dei capelli lunghi (Ahlberg, tav. 6, 10, 11). Infine, arduo pensare che la
cresta restasse davvero intatta nel
mezzo della pugna e nella pressione; se vogliamo credere ad Aristofane, per
esempio, la chioma dell'elmo di
Lamaco si stacc quando inciamp mentre saltava un fosso (Ach. 1182). Non
sorprende pertanto che in molti
casi le creste siano assenti nei dipinti su vaso e che gli elmi ritrovati
possano non recarne traccia; in molti casi,
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forse, si sceglieva di non metterle.
L'elmo corinzio ornato di cresta della grande et dell'oplite esigeva da chi lo
portava un pedaggio fisico.
Non fa meraviglia che tanto nelle sculture quanto sui vasi appaia quasi sempre
appoggiato lasciando scoperta
in parte la fronte; ed probabile che non fosse calato sul viso fino agli
ultimi istanti prima dell'attacco
(Snodgrass 1967, tav. 42). E pi che comprensibile che appaia sostituito nel V
secolo da un semplice cappello
conico o da altri copricapi che lasciavano scoperta la faccia. In conclusione,
l'elmo corinzio, lo scudo e come si
vedr anche la corazza erano troppo scomodi per essere indossati se non per
l'attacco finale, un'ulteriore prova
del fatto che l'equipaggiamento del soldato greco, al pari della tattica stessa
di guerra, doveva servire solo per
poche ore di battaglia ogni estate.
I gambali
Non era possibile proteggere in modo adeguato la parte inferiore delle gambe
spostando lo scudo verso il
basso, e perci polpaccio e stinco, vulnerabili, erano protetti o con una sorta
di grembiale attaccato all'orlo
inferiore dello scudo o pi comunemente con i gambali, sottili lamine di bronzo
che partivano dalla rotula e
arrivavano alla caviglia. A differenza delle protezioni corte e piuttosto tozze
del periodo miceneo, il gambale pi
elegante dell'oplite classico era spesso privo di fibbie di metallo o lacci di
cuoio, e i due bordi del gambale si
toccavano dietro il muscolo del polpaccio. I fori regolari che si osservano sui
modelli rimasti non sarebbero asole
per i lacci di cuoio che dovevano tenere fermo il bronzo, ma piuttosto, come nel
caso dell'elmo, un'indicazione
della presenza di un'imbottitura interna di feltro o cuoio che veniva cucita sul
bronzo e proteggeva la gamba sia
dal calore, sia dallo sfregamento del metallo, aumentando forse anche la
protezione. Gli storici moderni sono
convinti che tali asole metalliche nei gambali dell'oplite non servissero
affatto per tenerli fermi: i gambali venivano
richiusi e rimanevano al loro posto grazie alla sola adattabilit del bronzo,
che li rendeva comodi e aderenti. I
vantaggi dei gambali erano di offrire ai soldati di fanteria una certa
protezione dai proiettili che, lanciati verso
l'alto, assumevano una traiettoria in grado di farli penetrare nella falange e
ferire la tibia vulnerabile di qualche
oplite, non protetta da un muscolo. Com' ovvio, i gambali fornivano anche agli
uomini delle primissime file
una certa difesa contro i colpi di spada e di lancia sferrati in basso. Al
contrario delle altre parti componenti
l'armamento difensivo dell'oplite, inoltre, i sottili gambali non aumentavano in
misura eccessiva il peso, ma per
ironia erano forse il pezzo che creava i maggiori inconvenienti: al pari degli
scomodissimi gambali dei fanti della
prima guerra mondiale, quelli degli opliti procuravano irritazioni quando
costoro correvano o semplicemente camminavano, e peggio ancora - per quanto
aderissero perfettamente e fossero malleabili - non restavano facilmente
al loro posto sulla gamba senza l'aiuto di stringhe, e perci i fori nel bronzo
servivano forse non solo per
l'imbottitura interna, ma anche per lacci di cuoio o metallo. Quando i soldati
erano in marcia o in battaglia, il
movimento incessante della gamba e le eventuali deformazioni provocate dai colpi
di lancia e di spada potevano
nuocere all'aderenza del gambale e costringere perci l'oplite a riallacciarlo
in continuazione: un'impresa non
proprio agevole con una trentina di chili di metallo sulla testa e sul torace.
Possiamo capire perch Polibio
sottolineava l'importanza di assicurarsi che i gambali aderissero bene (11.9.4).
Nel periodo romano il loro uso tra
i fanti scompare quasi del tutto; i modelli di cui si ha notizia sono sempre
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dotati di lacci, a dimostrazione del
fatto che quelli adattabili dei greci non funzionavano alla perfezione.
La corazza
Durante i primi duecento anni di guerra tra opliti la corazza era normalmente
costituita dal semplice
corsaletto a campana tutto di lamine di bronzo per il torace e la schiena unite
all'altezza delle spalle. La
corazza seguiva la curva del fianco formando un bordo, quello appunto che
contribuiva alla caratteristica
sagoma a campana e che doveva agevolare il movimento delle anche durante la
marcia o la corsa, oltre a
offrire una certa protezione dai colpi sferrati dall'alto in basso contro la
parte inferiore dell'addome. Ma se si
voleva che il soldato conservasse almeno un minimo di mobilit, l'inguine e il
collo dovevano rimanere
entrambi privi di protezione (Sen., Eq. 12.2 ss.). singolare che questo tipo
di armatura, che copriva tanto
il torso quanto la schiena, non sia caduto in disuso in Grecia fino all'inizio
del V secolo, quando fecero la
loro comparsa i modelli pi leggeri in bronzo e anche in cuoio e tessuto,
nonostante che non si dovessero
temere attacchi alle spalle. Ma anche allora i fanti consideravano necessaria
una certa protezione al corpo, e
l'ipotesi che alcuni opliti alla fine del V secolo non avessero la corazza (si
veda per esempio Lazenby, p. 32)
probabilmente erronea. E invece sorprendente che gli opliti, per pi
generazioni, continuassero a sopportare il
corsaletto in piastre, un tipo di corazza che doveva stancare chi lo portava in
pochi minuti, dati il peso
notevole e la rigidit.
Possiamo farci un'idea di quanto fosse scomoda la corazza grazie ai frequenti
riferimenti, in tutta la
letteratura greca, all'importanza che fosse ben aderente, alla difficolt di
movimento che causava e alla
necessit di farsi aiutare per indossarla. interessante notare che le
citazioni risalgono per lo pi al V e IV
secolo, quando il corsaletto a campana venne sostituito da modelli pi leggeri;
tuttavia anche queste versioni
pi leggere e perfezionate dovevano essere un bel fastidio. Il venditore di
corazze di una commedia di
Aristofane, Pace, fa una promessa impossibile a Trigeo: il suo prodotto gli
calzer alla perfezione, poich
egli sa che la corazza, per essere davvero preziosa, deve rispettare
scrupolosamente le indicazioni date da chi
la indosser (1225). La corazza, osserva Senofonte nel trattato d'ippica, va
fabbricata in modo che si
adatti al corpo, aggiungendo che se troppo larga pesa in misura intollerabile
sulle spalle e se troppo
stretta imprigiona pi che difendere (Eq. 12.2; cfr. anche Mem. 3.10.915). A
ogni modo Senofonte si
preoccupa per la mancanza di mobilit provocata dal corsaletto; tra le qualit
di una corazza, dichiara,
fondamentale che non impedisca di sedersi n di piegarsi. Per lanciare un
giavellotto con la destra, aggiunge,
necessario che una parte della corazza sia eliminata (12.3-7). Nella letteratura
e sui vasi dipinti un altro soldato o
un servitore devono tenere l'elmo o allacciare le cinghie; i gambali di solito
sono gi al loro posto, e questo
suggerisce - nonostante ci che pensava Senofonte - che una volta infilata la
corazza diventava problematico
chinarsi (Anderson 1970, tav. 5; Ora., 11. 3.330-338; 11.17-44;
16.13M44;19.369-391).
La difficolt provocata dal corsaletto nasceva naturalmente soprattutto dal
peso del bronzo. Sebbene le
corazze di bronzo trovate nei santuari panellenici della Grecia e nei siti
archeologici scavati in Italia siano di
solito corrose o danneggiate (e ricordiamo come la loro et sia in media di
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duemilacinquecento anni), cosa che
rende impossibile un calcolo preciso del loro peso originale, ci sembrano
ragionevoli i calcoli secondo cui il
corsaletto a campana del VII, del VI e dell'inizio del V secolo pesava tra i
quindici e i venti chilogrammi (si veda
per esempio Donlan e Thompson 1976, p. 341). Anche durante il periodo
ellenistico, nel quale il peso della
corazza fu generalmente ridotto, si ha talvolta notizia di modelli pi pesanti.
Plutarco riferisce che Demetrio
di Macedonia (Demetr 21) indossava una corazza del peso di venti chili, e che
uno dei suoi ufficiali di fanteria
sembra portasse una panoplia che pesava cinquanta chili, il doppio degli altri
soldati. Diodoro osserva che la
corazza di Agatocle, il famigerato tiranno di Siracusa, era tanto pesante che
nessun oplite era in grado di
sollevarla (19.3.2). Non c' dubbio che molti riferimenti generici alla
scomodit dell'armamento dell'oplite
debbano riguardare pi specificamente la corazza, che dopo tutto costituiva da
sola almeno met del peso totale
della panoplia. Per esempio, l'armamento difensivo medievale, che ricorda da
vicino l'elmo e la corazza
dell'oplite, pesava tra i trenta e i trentacinque chili, senza contare le armi
offensive (Wise, p. 48). Anche per un
periodo molto successivo, a proposito del quale sappiamo che la corazza era
assai pi leggera del massiccio
corsaletto indossato dalla prima generazione di opliti, abbiamo notizia di
lamentele e difficolt; i macedoni
guidati da Filippo V, una volta perduta la coesione delle loro falangi, furono
facile preda dei romani condotti
da Flaminino poich per il combattimento individuale il loro armamento era
troppo greve e ingombrante
(Plut., Flam. 8.3-4). Analogamente, Lucullo fece presenti ai suoi soldati gli
inconvenienti della pesante corazza
del nemico: maggior pena spogliarli - disse scherzando solo a met - che
superarli (Plut., Mor. 203 A 2).
Una volta, narra Plutarco, il generale greco Filopemene smont da cavallo e
procedette a piedi, ma il peso e
l'ingombro della sua armatura (che doveva essere pi pesante di quelle
normalmente usate nel periodo
ellenistico, e dunque forse non troppo diversa dal famigerato corsaletto a
campana di circa quattro secoli
precedente) rallentarono la sua marcia e quasi gli fecero fare una brutta fine
(Phil. 6.3-4). Lo stesso Senofonte
aveva vissuto un'esperienza analoga alcuni secoli prima, durante la ritirata dei
Diecimila, quando smont da
cavallo per far uscire dalle file Soteride: riusc infatti a stento a farsi
strada, a causa del peso del corsaletto di
piastre (An. 3.4.48). probabile che Aristofane abbia sfruttato questa generale
impopolarit della corazza
metallica tra gli ateniesi del V secolo nella commedia Pace, l dove Trigeo
suggerisce che il corsaletto >u servire
altrettanto bene come vaso da notte (1224).
Per quanto il peso della corazza costituisse gi una difficolt, un problema pi
serio era la mancanza di
ventilazione, dato che le piastre di metallo, compatte e senza aperture, non
proteggevano n dal caldo n dal
freddo. D'estate la traspirazione inzuppava gli abiti che l'oplite portava sotto
la corazza: il bronzo rilucente che
poteva abbagliare il nemico sul campo di battaglia agiva anche come una sorta di
collettore solare che rendeva
rovente la superficie. Il cuoio, il feltro o la tela di lino indossati sotto
l'elmo, i gambali e la corazza, per attutire la
violenza dei colpi e offrire un minimo di protezione dalla temperatura e dallo
sfregamento del bronzo sulla
pelle, potevano perfino accrescere il disagio generale; il sudore che colava sul
petto e sulla schiena inzuppava
in fretta queste vesti. Si legge infatti spesso di opliti giunti sull'orlo del
collasso a causa della disidratazione o
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presi dal delirio a seguito di un colpo di calore: un fenomeno indubbiamente
probabile per i soldati in corazza
di un paese nel quale primavera ed estate sono tanto calde. Tucidide, per
esempio, afferma che dopo una serie
di attacchi a Pilo sia gli attaccanti ateniesi sia i difensori spartani erano
tormentati dalla sete e dal sole
(4.35.4). E forse fu proprio la fatica di combattere con la corazza sotto la
calura estiva che nel 480, alle
Termopi, strapp allo spartano Dieneche la celebre replica: quando i persiani
affermarono minacciosi che
avrebbero scagliato tante frecce da oscurare il sole, egli rispose
tranquillamente: Ebbene, avremo da
combattere all'ombra (Erod., 7.226.1-2). La difficolt di portare la corazza
durante i mesi estivi probabilmente
spiega perch l'ultima ritirata ateniese da Siracusa nel 413 si tramut
rapidamente in una rotta. Quando
finalmente gli opliti armati di tutto punto giunsero al fiume Assinaro, scrive
Tucidide, si affrettavano [...] per
il desiderio di bere (7.84.2). Il pericolo di un colpo di calore per gli uomini
chiusi nella corazza emerge
chiaramente anche dalle descrizioni di Tucidide poco prima della battaglia di
Siracusa: a un certo punto i
difensori siracusani incaricati di difendere le fortificazioni dagli attacchi
ateniesi abbassarono la guardia, e non
appena ebbero lasciato le postazioni per godere di un po'"d'ombra, gli ateniesi
fecero una sortita improvvisa
contro le mura prive di difesa (6.100.1). Anche Frontino menziona uno
stratagemma sicuramente molto
sfruttato dai comandanti antichi: il generale romano Metallo Pio schier i suoi
uomini all'ombra mentre il
nemico attendeva l'attacco sotto il sole, armato di tutto punto, e quando
cominci a risentire degli effetti della
temperatura crescente, Metullo guid i soldati alla vittoria (2.1.2,5).
Nella Repubblica Platone suggeriva agli opliti di prepararsi ai rigori delle
temperature estreme con continui
esercizi ginnici (3.404); sicuramente anche lui conosceva i rischi cui si
esponevano gli opliti chiusi nella corazza
sotto il sole estivo. Possiamo capire perfettamente perch la cosiddetta corsa
tra armati, a Olimpia, e le danze
rituali in armi non prevedevano quasi mai che si portasse la corazza: il peso e
la scomodit del corsaletto erano
tali che in realt non era possibile portarlo durante queste attivit con
l'intera panoplia, neppure per un
esercizio limitato (per esempio Paus., 5.8.10). Anche quando gli opliti erano
chiamati a combattere in
primavera, bufere e temporali rendevano loro difficile la vita. La temperatura
corporea dell'individuo sorpreso
con tutta la panoplia addosso diminuiva rapidamente, perch le vesti bagnate
diventavano spiacevolmente gelide
e si appiccicavano alla pelle. Gli spartani di Agesilao scoprirono, per esempio,
che l'equipaggiamento di guerra
era una misera protezione dal freddo dopo essersi trovati in mezzo a una
grandinata. Per salvare loro la vita
Agesilao ordin di accendere dei fuochi in modo che gli uomini potessero
massaggiarsi con olio caldo (Sen., Hell.
4.5.3).
Ancor pi critica era la condizione del terreno quando cominciava a piovere.
L'oplite era bagnato fradicio,
gravato di venticinquetrenta chili di armi e corazza, non riusciva quasi a
muoversi quando il terreno diventava
molle e fangoso. Gli esperimenti moderni per ricreare le difficolt in cui si
dibattevano uomini armati in quel
modo hanno dimostrato che un terreno sabbioso o semplicemente poco compatto -
per non parlare di quello
bagnato o fangoso - richiede un fabbisogno di ossigeno superiore del 20-25 per
cento (Donlan e Thompson
1979, p. 420). naturale pertanto che la minaccia di pioggia o grandine avesse
un effetto demoralizzante sugli
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opliti siciliani nella prima battaglia contro gli ateniesi nel 415, davanti a
Siracusa (Tuc, 6.70.1). A questo proposito,
Demostene osserv in un discorso - nel IV secolo -che lampi, tuoni e venti
impetuosi creavano una certa depressione tra i fanti (50.23). Ma l'esempio
migliore nella letteratura antica di ci che poteva succedere a un intero
esercito equipaggiato di pesanti corazze nel caso di maltempo l'immane
catastrofe avvenuta in Sicilia sul fiume
Crimeso nel 339, quando l'esercito invasore di Cartagine, in marcia nonostante
la tempesta, si trov alle prese
con ogni sorta di avversit nello scontro con i greci di Timoleone:
La caligine che si era raccolta intorno alle cime dei colli scese sul campo di
battaglia, mista a pioggia, vento e grandine. Gli
elleni ne furono investiti posteriormente, alle spalle, ma i barbari furono
flagellati sul volto e ne ebbero abbacinati gli occhi,
poich la pioggia era rinforzata dal vento, e contemporaneamente le nubi
scaricavano lampi uno di seguito all'altro. In
questa situazione molti erano i motivi che avvilivano i soldati, specialmente
quelli che non erano agguerriti; ma pi di tutto
pare che i cartaginesi furono danneggiati dai tuoni e dal fragore che causavano
la pioggia violenta e la grandine battendo
sulle armature: essi impedirono alla truppa di udire gli ordini dei comandanti.
Inoltre non avevano un armamento leggero,
bens, come ho detto, erano protetti da armature pesanti; quindi il fango li
impicciava, le pieghe delle tuniche si
inzuppavano d'acqua e li appesantivano, ostacolandoli nei movimenti durante la
lotta. Gli elleni li atterravano facilmente, e,
una volta caduti, essi non erano pi capaci di rialzarsi dal fango con le armi
indosso. (Plut., Tim. 28.1-3)
Il motivo per cui gli uomini sopportavano un simile disagio e tante sofferenze
chiusi in corazze di bronzo che
rendevano diffcile anche il minimo movimento era, com' naturale, la notevole
protezione offerta dal metallo
contro i colpi di lancia e di spada e la vera e propria pioggia di proiettili
che cadevano dal cielo: giavellotti,
frecce, pietre scagliate dai frombolieri. I corsaletti di lino che Pausania vide
in mostra ad Atene nel II secolo d. C.
erano a suo parere miseri surrogati della corazza di bronzo, l'unica che il pi
delle volte riusciva a respingere il
colpo di lancia (1.21.7). Ricordiamo ancora che nel 401 a Cunassa la corazza di
Ciro il Giovane resistette a un
colpo diretto di giavellotto, permettendogli di continuare il combattimento
(Plut., Artax. 9.3). Tuttavia, la
corazza non forniva a chi la portava una protezione completa da ogni attacco (a
differenza dall'eccezionale
corsaletto di piastre d'oro, indossato dal persiano Masistio a Platea nel 479,
che respinse tutti i colpi di lancia dei
greci, anche quando quel guerriero si ritrov per terra; Erod., 9.22.2; Plut.,
Arist. 14.5). Incontriamo spesso,
inoltre, sia nella letteratura greca sia sui vasi dipinti, poveri opliti uccisi
da colpi che penetrano direttamente nel
corpo (per esempio Diod., 19.109.2-3; Sen.,An. 4.1.18-19). Non ci sorprende
perci che Eschilo, nei Sette contro
Tebe (278), scrivesse di spoglie nemiche strappate a furore di lancia. In
questi casi le vittime erano solitamente
esposte al tiro diretto dei frombolieri o degli arcieri da una distanza molto
breve; pi spesso il colpo iniziale di
lancia andava a segno grazie all'impeto dell'oplite in corsa:
Rapido volge in fuga aspre falangi di nemici,
pronto trattiene l'onda della lotta.
Questi perde la vita cadendo in prima fila,
glorifica la patria, il padre, il popolo,
tutto trafitto prima di morire il petto. (Tirteo, 9.21-26)
Erano tuttavia casi sporadici a paragone dei colpi ripetuti di spada e di lancia
sferrati dagli opliti fermi nella
mischia confusa delle falangi. Fendenti e stoccate al torace potevano essere
parati, poich il nemico non aveva
alcuna possibilit di dare pi d'un colpo caricando di corsa con la lancia.
C'erano dunque buone possibilit che
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la corazza di bronzo respingesse letteralmente decine di colpi di ogni genere,
dando a chi la portava attimi
preziosi, una nuova possibilit in ciascuna occasione di abbattere il suo
nemico. Abbiamo spesso testimonianze
di uomini infine sopraffatti dalle ferite ricevute al torace, dalla cui corazza
ammaccata o spaccata dopo ripetuti
assalti spuntano tronconi di lancia: sull'oplite ferito doveva scatenarsi una
pioggia di colpi che alla fine - ma
solo dopo un certo tempo - vincevano la resistenza dell'armatura di metallo. Per
esempio a Cinocefale nel 364 il
comandante tebano Pelopida fu abbattuto dal nemico che indietreggiando lo
bersagli con ripetute stoccate
finch la sua corazza cedette (Plut., Pel. 32.6-7). Analogamente, il re spartano
del IV secolo Agesilao rimase
ferito gravemente, ma non mortalmente, soltanto quando fu circondato e fatto
segno da una miriade di colpi
di lancia e di spada; i suoi uomini non riuscirono a serbare il re incolume,
visto che molti colpi, sia d'asta, sia
di spada, lo raggiunsero (Plut., Ages. 18.3-4). Neppure gli spartani che a Pilo
nel 425 furono
numericamente sopraffatti dai soldati ateniesi armati alla leggera, che li
avevano intrappolati e bersagliati di
colpi, furono del tutto annientati. Sebbene i loro conici cappelli di feltro
fossero un misero surrogato del
bronzo dell'elmo corinzio e non proteggessero dai colpi di freccia al capo,
nondimeno a detta di Tucidide molti
proiettili si erano infranti contro le loro armature, indicazione ulteriore del
fatto che le corazze avevano
perlomeno frenato la grandine di dardi, permettendo cos agli spartani di
continuare a resistere (4.34.3).
La lancia
L'uso della lancia da combattimento da parte dei greci la dimostrazione del
loro desiderio di avvicinarsi al
nemico per trafiggerlo guardandolo in faccia: la scelta attuata da uomini che
non amavano l'arco o le armi da
lancio e disprezzavano i soldati che non volevano o potevano affrontarsi faccia
a faccia. Il contrasto tra gli
arcieri di Dario e i lancieri greci lasci a Eschilo, veterano di Maratona, la
convinzione duratura della
superiorit morale degli uomini che cercavano di uccidere il nemico da vicino
(Pers. 85-86; 147-149; cfr. 25-32;
52-57; 278; 728-729; 816-817). La lancia greca era un'arma pesante che, lunga
circa due metridue metri e
mezzo, veniva maneggiata con la sola mano destra; era fatta di corniolo o anche
di frassino, ma aveva un
diametro soltanto di duetre centimetri, e perci pesava non pi di uno o due
chili. Non veniva modificata
per i mancini, ma ci non creava grossi problemi dal momento che la qualit
principale del lanciere era la forza
e non la destrezza: il problema non era di individuare il bersaglio, ma
piuttosto di trafiggerlo. Quando l'oplite
si avvicinava alla falange nemica, toglieva la lancia dalla spalla e la teneva
sottomano, sia per rendere pi agevoli
gli ultimi passi della carica, sia per poter portare il colpo di lancia
all'inguine o sotto lo scudo dell'oplite nemico
quando si lanciava contro la prima fila. Tuttavia, dopo che i due schieramenti
si erano scontrati, c'erano
maggiori probabilit di trovare uno spiraglio tenendo la lancia sopramano, e in
effetti molti dipinti su vaso ci
mostrano gli opliti che sferrano il colpo dall'alto in basso al collo, alle
braccia e alle spalle. Poich a quel punto
non era pi possibile sfruttare lo slancio, se si teneva il braccio alzato in
questa seconda posizione si era in
grado di imprimere al colpo energia sufficiente per uccidere o per ferire
seriamente il nemico, creando in questo
modo un vuoto nelle file avversarie (si veda Anderson 1970, pp. 88-89).
Gran parte delle lance, oltre alla punta di ferro, avevano anche alla base un
puntale di bronzo acuminato, che
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trasformava quest'arma in uno strumento ingegnoso dotato di una punta letale a
entrambe le estremit. Il
vantaggio del puntale acuminato non consisteva solo nel contrappeso alla punta
di ferro e neppure nella
protezione che forniva all'estremit inferiore della lancia quando veniva
piantata nel terreno: permetteva al
fante di attaccare anche in un altro modo, sia che si trovasse in prima fila sia
che fosse pi indietro, al centro
o in coda alla falange. Come vedremo, all'interno della falange si creavano in
realt due livelli simultanei di
combattimento chiaramente distinti: i duelli a colpi d'arma bianca delle prime
tre file e la pressione, la
spinta e gli incespicamenti delle cinque file successive. Il puntale acuminato
tornava utile a coloro che si
trovavano nel punto focale della collisione quando la pugna diventava una
mischia inestricabile di opliti; la
lancia poteva uccidere su due fronti, permettendo a chi la brandiva di colpire
all'indietro qualora, appunto,
sopraggiungesse un nemico di fianco o alle spalle. In casi estremi poteva
salvare la vita di un uomo, poich
gli permetteva di difendersi, sia pure alla meglio, da tali attacchi ciechi.
Ma il fatto pi importante che gli uomini delle prime tre file si ritrovavano
probabilmente con la lancia
spezzata dopo il primo cozzo tra corazze di bronzo, scudi di legno, spade di
metallo, punte di lancia e
carne. La tendenza della lancia a fracassarsi all'impatto era evidentemente cosa
nota, n pu stupire dato il
diametro relativamente ridotto dell'asta. Inoltre sui vasi dipinti, nelle
sculture e nella letteratura incontriamo
numerosi esempi di opliti costretti a colpire o a troncare le lance dei nemici
con le proprie corte spade
(Polib., 2.33.5; Anderson 1970, tav. 10). Ma doveva essere abbastanza frequente
che la lancia non fosse
immediatamente gettata via quando la punta si spezzava o l'asta era spaccata o
troncata da un colpo di
spada: quel che restava della lancia, con il puntale acuminato, poteva essere
usato nel combattimento
ravvicinato. Lo storico greco di Roma Polibio lo spiega chiaramente: il problema
delle lance romane,
racconta, era che mancando del puntale inferiore, potevano essere usate per il
primo colpo di punta, poi si
rompevano ed erano del tutto inservibili (6.25.9). A suo parere il modello
greco era nettamente superiore, in
quanto permetteva al guerriero di continuare l'attacco con l'altra estremit
quando la punta si era spezzata. Il
puntale acuminato permetteva comunque all'oplite di sferrare qualche altro
colpo, finch si vedeva costretto
a ricorrere alla corta spada, molto meno efficace. In realt la celebre replica
di una madre spartana alle
lamentele del figlio per gli inconvenienti di quella corta spada, allungala di
un passo, non era una vera e
propria risposta ma piuttosto la dimostrazione di quanto diventasse vulnerabile
l'oplite quando era costretto
ad assumere quella posizione (Plut., Mor. 241 F 18). I fanti che si trovavano
nel centro e nella parte posteriore della falange tenevano di solito le lance
verticali; essi contribuivano cos a deviare i proiettili e inoltre il
fatto che le punte fossero ben discoste dagli uomini davanti e dietro serviva a
evitare che si ferissero
accidentalmente (Polib., 18.29-30). Quando le lance erano tenute in quella
posizione, l'unico modo per
colpire era dall'alto verso il basso, conficcando il puntale e il suo corto
manico quadrato in un nemico che
giaceva per terra. Non era un fatto raro, come dimostrano chiaramente i buchi
quadrati trovati nei resti
dell'antica corazza portata alla luce a Olimpia (Snodgrass 1967, pp. 56, 80).
Dopo che le prime file avevano
dato la spinta iniziale, i soldati delle file retrostanti sospingevano con gli
scudi la schiena dei loro compagni e
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avanzavano incespicando nei detriti della battaglia: armi abbandonate, feriti
e cadaveri dei soldati gi caduti.
Molti nemici stesi per terra e oltrepassati dalla falange che avanzava non erano
ancora morti, ma si trovavano
intrappolati sul terreno dalle file successive che passavano sopra e accanto a
loro. Il modo migliore per finire
quei disgraziati era sollevare verticalmente la lancia per poi calarla verso il
basso, cos che un colpo violento
del puntale acuminato trafiggesse la corazza di bronzo del nemico.
Sebbene questo accorgimento tecnico aumentasse la versatilit dell'arma
nell'attacco, ciononostante la
lancia dell'oplite presentava due diversi inconvenienti. Il primo era ovviamente
la difficolt di movimento in
una formazione compatta. Un'asta di circa due metri imponeva seri limiti ai
movimenti e alla mobilit
dell'oplite, a causa sia del puntale acuminato, sia della punta delle lance di
coloro che gli stavano dietro e
davanti. Gli uomini della seconda e terza fila della colonna, per esempio, si
trovavano sempre davanti il
puntale delle lance di quelli che stavano loro davanti (nella prima e seconda
fila). Parimenti, i soldati della
prima e seconda linea dovevano fare i conti con le punte di lancia degli uomini
delle file posteriori che
premevano alle loro spalle. Inoltre l'uso delle lance limitava anche
lateralmente i movimenti del soldato, che
doveva fare attenzione a quelle dei suoi compagni. Oltre a conservare la
formazione, che consentiva protezione
dagli assalti del nemico, oltre a stare sempre attento ad avanzare in linea con
gli altri, a mantenere l'equilibrio
di fronte all'attacco, a evitare le cadute e perci una morte orribile se
calpestato, il fante doveva anche, come
se non bastasse, fare bene attenzione al bronzo pericoloso dei compagni che si
muovevano in continuazione
accanto a lui, che si spostavano a destra e a sinistra e minacciavano di ferirlo
accidentalmente causandogli una
fine ignominiosa. Un caso estremo la falange di Pirro, che rimase intrappolata
negli stretti vicoli di Argo
durante la battaglia del 272. La formazione era talmente ammassata, racconta
Plutarco, che gli uomini non
furono in grado di risollevare le lance spianate, e di conseguenza trafiggevano
i [...] compagni che erano
attorno, cos cadevano uccisi l'uno dall'altro (Pyrrh. 33).
A parte le limitazioni della mobilit, la lancia dell'oplite, al pari dell'altro
componente di legno della panoplia,
lo scudo, soffriva di un'intrinseca debolezza strutturale (Sen., Eq. 12.12).
Sebbene il legno della lancia fosse
di solito il durissimo corniolo e talvolta il frassino, chiaro che il diametro
di duetre centimetri non bastava
a evitare che la punta venisse tranciata (oppure che l'asta stessa andasse in
mille pezzi) durante il cozzo
iniziale, in cui l'oplite che avanzava si scagliava con la lancia contro le
difese di bronzo o di legno del nemico.
A volte il colpo poteva essere parato e l'asta veniva tranciata dal fendente di
un oplite finito per terra. Leggiamo
spesso, nelle antiche descrizioni delle battaglie, che le lance di molti soldati
diventavano inutilizzabili durante le
prime fasi del combattimento. Senofonte osserva che quando Agesilao si scontr
con i soldati di Tissaferne
presso Dascilo, nel 396, tutti i suoi uomini ebbero le lance infrante al primo
cozzo (Hell. 3.4.14). Diodoro
ricorda come a Mantinea le formazioni che si scontravano fossero talmente
compatte che le lance si
spezzarono e la battaglia, almeno tra le prime file, si svolse a colpi di spada
(15.86.2). Diodoro si sapeva ben
raffigurare la pressione continua esercitata da dietro, una pressione che
spingeva le lance della prima linea, che
tendeva a ricostituirsi incessantemente contro i corpi, il legno e il bronzo del
nemico che non poteva muoversi;
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legittimo chiedersi, tuttavia, dove trovassero lo spazio per brandire la
spada, data la densit e l'incalzare
degli uomini in corazza. Alle Termopi i coraggiosi soldati spartani di Leonida
furono sopraffatti da una
pioggia di proiettili soltanto dopo che si furono spezzate tutte le loro lance
(Erod., 7.225; cfr. anche Plut.,
Alex. 16.4; Eum. 7.3; Diod., 19.83; 17.100.7). Quando i soldati perdevano la
lancia non erano pi in grado di
penetrare tra le file nemiche, cosa che avrebbe permesso loro di avventarsi con
le spade pi corte contro i goffi
lancieri, impossibilitati a utilizzare le loro armi lunghe due metri. Ma il muro
di scudi e punte di lancia degli
uomini delle file posteriori teneva lontani gli assalitori e faceva s che
finissero schiacciati dalla pressione
incessante.
Se il colpo di lancia era abbastanza violento da aprirsi un varco nella corazza
di bronzo dell'avversario senza
rompersi, nulla garantiva che l'oplite potesse estrada tutta d'un pezzo.
Epaminonda, nell'ultima battaglia che
combatt a Mantinea nel 362, fu ucciso da un colpo di lancia che penetr
attraverso la corazza; l'asta si era
rotta all'impatto e aveva lasciato la punta conficcata profondamente nel torace
(Diod., 15.87.1). Tuttavia, alcuni
soldati disperati che avevano perduto le armi riuscivano talvolta a sfuggire ai
primi colpi del nemico e ad
afferrare poi l'asta di fianco, e magari anche a spezzare il tratto prossimo
alla punta con le mani nude prima che
l'oplite nemico riuscisse a infliggere loro qualche danno. Per esempio, nel 479
a Platea i persiani, secondo
quanto narra Erodoto, riuscirono dapprima ad afferrare le aste dei greci e poi a
spezzarle. Ci poteva verificarsi
solamente se pensiamo che i persiani avevano almeno una mano libera e che la
lunghezza e la sottigliezza della
lancia degli opliti ne facevano un'arma facilmente spezzabile a mani nude o con
la spada (9.62.2; Polib.,
16.33.2-4). La vita relativamente breve della lancia dell'oplite delle prime
file spiega perch le battaglie tra
questi fanti si trasformassero ben presto in una confusa lotta di pressione. In
un certo senso, il fatto che
quest'arma lunga due metri e pi potesse essere agevolmente resa inutilizzabile
faceva s che i due schieramenti
si dessero battaglia ancor pi da vicino: erano eliminati quei pochi passi che
separavano i due schieramenti
nemici, e perci i soldati potevano entrare in contatto diretto, premendo con
tutto il loro corpo, faccia a faccia,
in un modo sconosciuto alla storia militare successiva. Dopo che il soldato
aveva perduto la lancia e la spada, la
sua arma migliore diventava il suo stesso corpo rivestito di bronzo, poich i
suoi amici alle spalle cercavano di
spingerlo a forza tra le file del nemico.
7. I vecchi
Per chi avrebbe mai pensato che il vecchio avesse dentro tanto sangue?
Shakespeare, Macbeth
I cittadini della maggior parte delle cittstato dell'antica Grecia potevano
essere chiamati a prestare servizio
come opliti nella falange ogni primavera, da quando compivano diciottenni fin
verso i sessanta, dunque per
circa quarant'anni (Sen., Hell. 6.4.17; Arist., Ath. Poi. 53.4). Il cittadino di
una cittstato greca del V secolo,
che prendeva parte a qualche battaglia in media due anni su tre, aveva buone
possibilit di non morire di morte
naturale: era probabile che, in uno di quei lunghi anni di servizio militare,
rimanesse ferito o ucciso. Ma quel
che pi conta che, data la lunghezza del servizio militare, all'interno della
falange un gran numero di opliti
erano uomini di pi di trent'anni, che al pari dei compagni pi giovani dovevano
portare armi e corazze per
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un peso totale pari a circa la met di quello del loro corpo, senza alcuna
concessione all'et. Quando cominciava
la battaglia erano costretti a seguire i pi giovani passo dopo passo, colpo
dopo colpo, sempre tenendo lo scudo
all'altezza del torace; chiunque non rispettasse questo impegno nei confronti
degli uomini che gli stavano a
fianco metteva a repentaglio l'integrit della falange e perci la vita di tutti
coloro che ne facevano parte. Il fatto
che la battaglia oplite si risolvesse in un unico scontro si rivelava una
soluzione ideale, sotto l'aspetto della tenuta
fisica, per eserciti composti da uomini di tutte le et: costoro dovevano
rimanere in efficienza per un
combattimento di un solo giorno e non per una campagna lunga e faticosa. Essi
erano dunque giudicati per il
coraggio e la forza e non per la salute e la resistenza. Il mercenario tessalo
Polidamante, vissuto nel IV secolo,
per esempio, si vantava del fatto che gli uomini da lui assoldati erano tutti in
condizioni fisiche eccellenti, a differenza degli eserciti popolari di tante
cittstato, che includono uomini gi avanzati negli anni e altri non
ancora nel fiore (Sen., Hell. 6.1.5). Una simile affermazione potrebbe
significare che i membri pi anziani
degli eserciti di opliti erano un elemento che limitava la mobilit (ma non
necessariamente il coraggio) della
falange. L'immagine del guerriero coraggioso, seppure non pi veloce, ben
rappresentata dal vecchio
Idomeneo di Omero:
...dal cadavere l'asta ombra lunga
ritrasse, ma non pot l'altre belle armi
portar via dalle spalle; era premuto dai dardi;
e pi non erano salde le sue gambe nel muoversi,
n a balzare seguendo il dardo, n a evitarne:
cos nel corpo a corpo il giorno fatale sapeva sfuggire,
ma fuor della lotta, a fuggire, i piedi non lo portavano pi.
(11. 13.509-514)
In altri casi leggiamo che i vecchi sono sempre presenti nell'esercito della
citt e anche tra i caduti. N
esagerava poi troppo l'oratore Andocide quando lamentava che i giovani perdevano
il loro tempo nei
corteggiamenti mentre i vecchi erano costretti a combattere (4.22); tutto
sommato, su quarantadue classi di et
obbligate al servizio militare, trenta erano composte da uomini che avevano pi
di trent'anni.
singolare osservare come nella guerra moderna, in cui l'uso delle armi da
fuoco e dei trasporti meccanizzati dovrebbe rendere il combattimento fisicamente
meno pesante rispetto alla guerra per falangi, gli uomini sopra i
trent'anni siano generalmente ufficiali o sottufficiali di grado superiore
assegnati alle retrovie, poich
convinzione generale che individui di quell'et non siano all'altezza delle
esigenze del combattimento moderno e
che grazie agli anni di servizio in un esercito professionale si siano
guadagnati il diritto alla sicurezza del
posto di comando: in prima linea sono rari i combattenti di poco meno di
trent'anni, anche durante
un'emergenza nazionale. Uno dei miei uomini, il direttore ventottenne di una
high school del Vermont, ha
scritto William Manchester nel diario sulla guerra nelle giungle delle isole del
Pacifico durante la seconda
guerra mondiale, a causa dell'et avanzata era chiamato "Pop" (p. 121). Che la
presenza di uomini di pi di
trent'anni sui moderni campi di battaglia non fosse molto frequente dimostrato
dal soprannome che Robert
Graves si guadagn nelle trincee della prima guerra mondiale: pur avendo allora
soltanto ventun'anni, era
chiamato Old Gravy (p. 262). In netto contrasto con la realt moderna,
apprendiamo da Alcibiade nel
Simposio di Platone (221) che il filosofo Socrate calc il campo di battaglia di
Delio nel 424 quando aveva pi
di quarant'anni, e fu anzi uno dei pochi a tenere duro e a non farsi travolgere
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dal panico che aveva colto i suoi
compagni pi giovani scampati al disastro ateniese. Anche Demostene, che
peraltro non pare possedesse la forza
d'animo di Socrate, aveva passato da un pezzo i quarant'anni quando prest
servizio militare contro i macedoni a
Cheronea nel 338 (Davies, pp. 126 ss.). In Grecia non si teneva dunque in alcun
conto l'et degli uomini durante
il servizio attivo da impiegare in battaglia; l'unica dimostrazione di rispetto
- peraltro sensata - era la decisione
pratica di utilizzare i membri pi giovani della formazione per le scaramucce,
un riconoscimento delle loro
maggiori probabilit di successo se venivano schierati davanti alla falange con
l'incarico di tener testa agli
attacchi improvvisi e alle sortite. Per esempio, a Sparta di solito le prime
cinque, dieci o quindici classi di et -
giovani di diciottoventidue anni, ventitrventisette o ventottotrentadue - erano
chiamate a effettuare
questo tipo di operazioni, nella convinzione che fossero le uniche abbastanza
veloci da arrestare le sortite dei
nemici armati alla leggera. Analogamente, il grande statista ateniese Solone era
persuaso che un uomo rendesse al
massimo sulla trentina, il periodo del maggior vigore fisico, che per un uomo
segno di valore (16.7-8). Non
molti anni prima Tirteo aveva confermato che gli uomini che avevano passato la
trentina non si limitavano a
prestare servizio in retroguardia o a montar di guardia, ma spesso erano
chiamati a servire proprio nelle prime
file e a volte costituivano la punta di lancia nella collisione:
uno sconcio che un vecchio cada in prima fila
e resti sul terreno innanzi ai giovani,
con quel suo capo bianco e il mento grigio, e spiri
l'animo suo gagliardo nella polvere,
con le mani coprendo le pudende insanguinate. (Tirteo, 7.7-11)
Va detto che l'immagine del vecchio orribilmente ferito e abbandonato al suo
destino nel tumulto della
battaglia risale a Omero:
...A un giovane sta sempre bene
morto in battaglia, straziato dal bronzo acuto,
giacere; tutto quel che si vede, anche se morto bello.
Ma quando il capo bianco e la barba canuta
e le vergogne sconciano i cani d'un vecchio ammazzato,
questa la cosa pi triste fra i mortali infelici... (11.22.71-76)
piuttosto sorprendente scoprire, a un esame del censo dei cittadini
nell'Atene classica, un numero tanto
elevato di uomini che continuavano a combattere e morire in battaglia avendo
passato i quaranta e i
cinquantanni, sebbene i pi fossero possidenti noti e influenti. Senza dubbio il
morale altissimo che
caratterizzava la falange nasceva anche
dalla nozione implicita che tutti i cittadini, quale che fosse la loro
condizione personale o sociale e anche l'et,
erano innanzitutto opliti per tutta la vita, con il dovere di combattere e
morire senza eccezioni durante ogni
estate della loro vita. Un certo Menesseno, per esempio, fu ucciso nella
battaglia di Olinto del 429 all'et di
almeno quarant'anni; Cefisofonte nel 341 aveva pi o meno quarantacinque anni
quando prest servizio a
Oreo, Schito e Bisanzio; Glauco a cinquantanni fu nominato generale a Samo, e in
seguito serv Corf;
Pirilampe cadde a Delio nel 424 all'et di cinquantasei anni. Non era insolito
che tra le file degli opliti ci
fossero cittadini anche pi vecchi, sulla sessantina e talvolta perfino sulla
settantina. Andocide il vecchio aveva
forse sessant'anni quando prest servizio a Samo nel 441, e parimenti Fedro,
figlio di Callia, si avvicinava ai
settant'anni quando concluse la carriera di soldato con una campagna contro
Stira nel 323 (si veda Davies, pp.
29,145, 292-293, 339, 525). Fuori di Atene i soldati potevano essere ancora pi
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vecchi: Filopemene aveva
settantanni quando partecip alla battaglia in Messenia (Plut., Pli. 18.1), e
Agesilao a quanto pare era ancora
un combattente agguerrito quando termin la sua carriera in Egitto a poco meno
di ottantanni (Sen., Ages.
2.28). C' da chiedersi come potesse ancora reggere la panoplia.
La presenza di tanti individui pi vecchi nelle file della falange, insieme con
l'uso della panoplia oplite, port a
limitare la guerra a un'unica breve collisione tra formazioni compatte di
fanteria, per rispettarne la minore
resistenza fisica. Ma la presenza numerosa di uomini di oltre trentanni
comportava anche qualche grosso
vantaggio: enorme era la forza psicologica derivante dalla partecipazione alla
battaglia di tutti i segmenti della
societ, e ancor pi importante era l'esperienza di guerra che questi uomini
sfruttavano in combattimento. La
letteratura greca parla spesso della tranquillit che i veterani comunicavano
agli altri soldati. Negli istanti che
precedettero la battaglia di Delio del 424 il generale tebano Pagonda esort
l'esercito di confederati della Beozia a
emulare i veterani della falange, i vecchi presenti tra le file che avevano gi
messo in rotta gli ateniesi anni prima,
a Coronea nel 447. Dovevano essere numerosi i soldati (e tra questi lo stesso
Pagonda) che ventitr anni prima
avevano affrontato con successo gli ateniesi e da allora avevano servito
l'esercito ogni estate (Tuc, 4.92.6-7).
Pagonda contava sul fatto che, dal momento che erano la prova vivente
dell'invincibilit beota, infondessero
coraggio ai novellini, e sperava altres che ripetessero le antiche gloriose
gesta giovanili.
Anche il re Archidamo si affid alla presenza dei veterani nell'esercito del
Peloponneso nella speranza di
sollevare il morale delle truppe, rammentando loro, alla vigilia della prima
irruzione in Attica nel 431, che i loro
genitori e i pi anziani di noi non sono inesperti della guerra, dimostrando
in questo modo che tra i soldati c'erano
almeno due generazioni di opliti spartani che sapevano che cosa li aspettava nel
momento in cui aveva inizio la
battaglia (Tuc, 2.11.1). Archidamo faceva affidamento su uno dei grandi vantaggi
emersi nel corso di tutta la
lunga storia dell'organizzazione per reggimenti: la forza unificatrice della
tradizione. I generali come Pagonda e
Archidamo sapevano che i loro giovani soldati avevano ascoltato dalle labbra dei
padri e dei nonni le gesta
illustri della falange cittadina fin da quando erano fanciulli e che in virt di
questo retaggio non intendevano
deludere i vecchi veterani che gli stavano a fianco, ricordo vivente di tutti
quelli che erano ormai sepolti, caduti tanti
anni prima in difesa della madre patria. Il loro atteggiamento di fronte alla
battaglia era sempre improntato
all'emulazione, a un'esperienza di guerra comune alla generazione precedente (e
non era un violento rito di
iniziazione tra giovani di pari condizione); a esso corrisponde nel mondo
moderno l'esperienza ottocentesca del
padre che osserva e partecipa pienamente al primo incontro del figlio con la
realt dell'uccisione durante la caccia,
tanto distante dall'odierno incubo americano dei giovani armati che si aggirano
in campagna da soli alla ricerca di
qualunque bersaglio.
In alcuni casi i riferimenti al valore dei soldati pi anziani sono ancora pi
specifici; lo storico Diodoro narra che
il corpo di fanteria scelta di Alessandro Magno, la falange degli scudi
d'argento, continu a combattere come
unit di sarissofori nella falange macedone per molto tempo dopo la morte del
suo generale (19.41.2). Al
termine della carriera anche i pi giovani scudi d'argento avevano almeno
settant'anni (Plut., Eum. 16.4).
Erano tutti veterani stimati, celebri per l'abilit con la sarissa macedone e
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per la lunga esperienza di
combattimento: in poche parole, un reggimento formidabile di professionisti
feroci che incutevano timore a
qualunque avversario. Si diceva che Alessandro avesse scelto non gi uomini
validi ma non ancora nel pieno
degli anni, bens veterani che avevano gi completato il servizio (Giust.,
11.6.4). Leggiamo spesso di soldati
anziani che assumevano un ruolo pi attivo di consiglieri, invece di limitarsi a
essere di esempio al momento
della battaglia. Durante la prima battaglia di Mantinea nel 418, Tucidide parla
di un anziano dell'esercito
che grid al re spartano Agide di non schierare la falange in una posizione
tanto svantaggiosa, evitando in tal
modo agli spartani un errore prima che cominciasse la battaglia (5.65.2); costui
doveva aver partecipato a un
numero tale di battaglie tra opliti da sapere quando le cose si mettevano male.
Durante la battaglia del 365 tra
arcadi e spartani, quando stavano per riprendere le ostilit uno degli anziani
tra le file grid ai soldati che gli
stavano intorno: Perch batterci, soldati, invece di accordarci con una
tregua? (Sen., Hell. 1.4.25) Anche se
costui probabilmente non si espresse tanto garbatamente come riferisce
Senofonte, resta il fatto che a queste
parole le due para cessarono immediatamente l'inutile massacro. Gli uomini pi
anziani presenti nelle file,
perci, sono forse l'ulteriore dimostrazione che i greci dell'et classica
consideravano la battaglia campale un
mezzo per limitare la guerra, non un esercizio giovanile per esibire coraggio
nell'affrontare il nemico. Negarono
al combattimento ogni romanticismo e insegnarono tanto ai soldati quanto ai
civili perch bisognava liquidare la
battaglia il pi rapidamente possibile.
La presenza di tanti uomini di et piuttosto avanzata incideva sulla battaglia
oplite in altri due modi
contraddittori. Da un lato, lo sforzo che comportava portare la panoplia di
bronzo pu aver contribuito
inizialmente a determinare la natura stessa del combattimento, suscitando il
desiderio di affrontarsi ogni estate
in un unico scontro decisivo, in luogo di lunghe campagne e scaramucce continue:
un modo di combattere,
dunque, cui si poteva pensare fossero coinvolti tutti i membri della societ, a
prescindere dalla loro et o dalle
loro infermit. D'altro canto, in un modo di combattere in cui il peggior
pericolo era il panico che in pochi attimi
poteva travolgere l'intera falange, erano particolarmente preziosi i soldati di
oltre trent'anni che avevano sostenuto
numerose cariche contro il nemico. La loro presenza dava ai novellini (per lo
pi giovani) la garanzia che tra le
loro file c'era gente che in passato non aveva esitato ad avanzare contro le
lance del nemico, e ben difficilmente
avrebbe esitato ora. Nella battaglia oplite la velocit o l'agilit dei giovani
non erano in fin dei conti tanto
necessarie. La qualit che pi contava era la tenace determinazione a non
vacillare e a non consentire, di
conseguenza, che si aprisse una breccia letale nella linea. Lo zoppo Androclide,
spartano, spieg perfettamente
quali erano gli attributi necessari nella falange: a chi gli avesse domandato
del suo valore in battaglia, avrebbe
risposto a propria difesa: Non fa per voi gente pronta a fuggire, ma che stia
ferma per combattere contro gli
avversari (Plut., Mor. 217 C).
8. La paura dell'attacco in massa
Non vi sgomenti il numero e non cedete al panico. Punti ciascuno avanti con lo
scudo, od! la vita, ami le Parche brune della
morte come raggiante chiarit di sole.
Tirteo
Non credo che alcun uomo tema di essere morto, ma soltanto il colpo della morte.
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Francis Bacon
Gli opliti, oltre a dover sopportare il disagio particolare dell'armatura,
essere poco protetti dal caldo e dal
freddo e servire nell'esercito fino a un'et avanzata, si trovavano ad
affrontare un'ulteriore difficolt, diversa
dalle altre, che metteva a dura prova la loro forza e le loro capacit di
resistenza: il terrore particolare che
accompagnava lo scoppio della battaglia greca. L'idea del nervosismo che precede
la battaglia vecchia
quanto Omero:
...perch il colore del vile si cambia in cento maniere,
il cuore non sa tenerlo a seder senza tremito,
ma si rannicchia e siede or su un piede or sull'altro,
e il cuore, dentro, fortissimo palpita
pensando alla morte, gli battono i denti. (II. 13.279-283)
La natura della battaglia classica per falangi intensific questo sentimento,
comune a tutti i guerrieri, in un modo
tutto particolare. Poich gli uomini erano stipati nella massa compatta della
colonna, ben pochi oltre la prima fila
erano in grado di vedere o di sentire il nemico e perfino la voce dei loro
ufficiali. Se capivano qualcosa della
collisione imminente era solo grazie alla pressione di quanti stavano loro
intorno, schiavi allo stesso modo del
rumore, della confusione e del mormorio incessante tra le linee. Una spinta
accidentale e perfino una leggera
pressione potevano far credere agli opliti al centro e alla retroguardia che la
battaglia era scoppiata o, peggio, che
stava per essere perduta. Possiamo perci comprendere l'osservazione di Tucidide
sulla confusione che si era
creata all'interno della falange quando riand con la mente al disastroso
attacco notturno ateniese a Epipole:
Che di giorno i partecipanti a una battaglia vedono pi chiaramente, e neppure
vedono ogni cosa se si eccettua
quanto ciascuno vede, con fatica, dalla sua parte: ma in questa battaglia
notturna, che fu l'unica avvenuta in questa
guerra tra due grandi eserciti, come avrebbe potuto uno vedere con chiarezza?
(7.44.1). In seguito, durante
l'ultima ritirata degli ateniesi ormai perduti in Sicilia, aggiunse: E, com'
naturale che capiti a tutti gli eserciti, e
soprattutto ai pi grossi, che sorga cio spavento e timore (7.80.3).
Spavento e timore iniziali, che potevano propagarsi in tutta la falange nei
momenti che precedevano la
battaglia, si diffondevano con ogni probabilit a partire dalle prime file,
nelle quali i soldati fissavano per primi
la massa nemica che stava loro di fronte. Tuttavia, non appena gli uomini delle
file retrostanti avvertivano che
davanti a loro c'era qualcosa che non andava, tendevano a darsi alla fuga, e se
ci accadeva era l'intera
formazione a crollare. Le tensioni non potevano che essere aggravate dalla
natura particolarmente formalizzata
della guerra greca: la battaglia aveva luogo di comune accordo e richiedeva
che entrambi gli schieramenti si
ritrovassero faccia a faccia, guardandosi - ovunque fossero - per minuti o anche
per ore. Imboscate, attacchi di
sorpresa e trinceramenti non erano opzioni viste con favore. Anzi, la terra di
nessuno tra i due eserciti era
volutamente nuda, di modo che entrambe le parti potessero avanzare senza
impedimenti e perci osservare
chiaramente il nemico. Era ovvio che non c'erano alternative all'avanzare
direttamente verso le lance spianate a
pochi metri di distanza.
Numerosi sono i riferimenti alla paura che poteva suscitare lo spettacolo della
falange nemica. Plutarco racconta
che lo spettacolo terrificante dei greci schierati di fronte a Paolo Emilio
nella battaglia di Pidna del 168 e l'idea
che quegli uomini armati di lunghe aste di l a poco sarebbero stati a pochi
metri da lui lasciarono nel generale
romano un'impressione perenne di terrore: Di fronte alla saldezza dei loro
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Victor Davis Hanson - Volume Primo. L'Arte Occidentale Della Guerra.txt
scudi affiancati e alla violenza
dell'urto un brivido di paura corse per le sue vene; ebbe l'impressione di non
aver mai veduto spettacolo pi
terrificante di quello, e spesso, ancora molto tempo dopo, ricordava l'emozione
provata a quell'apparizione
(Aem. 19.3). Paolo Emilio era forse vittima di una sindrome ben nota al
guerriero moderno, ovvero il terrore
indimenticabile della morte, l'orribile sensazione prima della battaglia che lo
ossessioner per il resto della vita?
Anche Plutarco si sofferma sullo spettacolo spaventoso dell'appropinquarsi di
una falange greca nella battaglia di
Platea nel 479: La falange assunse in un baleno l'aspetto di un unico animale
che, inferocito, si pone in guardia e
rizza il pelo (Arist. 18.2). Onasandro comment questo spettacolo
particolarmente spaventoso di una falange
nemica con un linguaggio affatto diverso dalla sua prosa solitamente asciutta:
Le formazioni che avanzano, per
lo splendore delle armi, appaiono pi pericolose, e questa vista terribile
sgomenta il nemico (28.1). Il riflesso
dei raggi del sole sulle armi di bronzo suscitava un terrore particolare in
alcuni guerrieri, quando osservavano il
nemico dall'altra parte della pianura e vedevano uomini quali il guerriero
descritto da Mimnermo, che aveva
affrontato risolutamente i soldati lidi: Di lui non vi fu mai soldato pi
valente ad agire nel vivo della lotta, fino a
che visse nell'abbaglio celere del sole (13.10.11). Non sorprende che l'acheo
Filopemene - vissuto nel II secolo -
dicesse ai suoi uomini che il semplice bagliore delle loro armi e delle loro
corazze avrebbe creato il panico tra le
file del nemico (Plut., Phil. 9.3-8) o che i comandanti ordinassero spesso ai
soldati di lucidare gli scudi per
abbagliare il nemico (Sen., Res. Lac. 13.8-9; Diod., 14.23.3). Ma non erano
soltanto gli scudi rilucenti a far
vacillare il coraggio del nemico: il tattico Asclepiodoto (del I secolo)
osservava che le file di lance spianate
suscitavano il terrore nel nemico (4.5.2); in altri casi la paura era dovuta
semplicemente all'ordine e alla
disciplina della marcia dei greci (Poi., Strat. 2.2.3).
I soldati erano sempre consapevoli della natura e del valore di coloro che
avevano di fronte; in particolare, la
vista dei mantelli scarlatti e dei lunghi capelli degli uomini di una falange
spartana instillava la paura
nell'animo di quasi tutti i loro nemici (Sen., Res. Lac. 10.3.8). Sappiamo che
il povero Cleonte, comandante degli
ateniesi sconfitti ad Anfipoli nel 422, si diede alla fuga non appena scorse le
lambda che brillavano sugli
scudi degli spartani (lacedemoni) dall'altra parte della piana (Eup., F 359). La
falange spartana fu giustamente
armata con cura da Agesilao, di modo che la massa dei combattenti apparisse come
tutta di bronzo e di
porpora (Sen., Ages. 2.1). Mentre i persiani si facevano strada intorno al
passo delle Termopi, fu necessario
rassicurarli sul fatto che le sentinelle greche avvistate lungo il percorso non
erano in realt opliti spartani: tale
era la loro paura di quei soldati (Erod., 7.218.1-2). Non meno terrificante era
il famigerato suono dei flauti
spartani che segnalava alle prime file dello schieramento nemico, dall'altra
parte del campo di battaglia, l'inizio
della loro lenta e spaventosa avanzata (Sen., Cyr. 33.58; Esch., Sept. 270;
Pers. 389; Tuc, 5.70). Era uno
spettacolo grandioso e insieme terrificante, osserva Plutarco, vederli
avanzare al passo cadenzato dei flauti
senza aprire la minima frattura nello schieramento o provare turbamento
nell'animo, calmi e allegri, guidati al
pericolo dalla musica (Lyc. 22.2-3). Il Manteo di Lisia, in un discorso dopo la
sconfitta ateniese a Corinto nel
394, riassunse cos il sentimento generale: pericoloso combattere gli
spartani (16.17). Dovevano essere
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d'accordo con lui quegli ateniesi che sbarcarono per la prima volta a Pilo nel
425, poich ci viene riferito che
erano soggiogati dal pensiero di andare contro i lacedemoni (Tuc, 4.34.1). Per
ironia della sorte, e forse perch
avevano la certezza di non dover mai affrontare un nemico simile a loro stessi,
tra tutti i greci i soli spartani
potevano dirsi in un certo senso immuni dalla paura che imperversava
nell'imminenza della battaglia: alle
Termopi, per esempio, un esploratore persiano rifer che nei momenti precedenti
l'assalto finale aveva visto
quegli uomini condannati esercitarsi e mettersi tranquillamente in ordine i
capelli: Egli osserv attentamente
le truppe [...] disposte fuori [le mura] [...] Accadde che in quel periodo
fossero assegnati fuori i lacedemoni;
ed egli vedeva gli uomini dedicarsi agli esercizi fisici o pettinarsi le chiome.
Questo spettacolo lo stup (Erod.,
7.208.3).
Quali erano le reazioni degli uomini delle prime file quando si profilava lo
spaventoso spettro della falange nemica e sapevano che nell'arco di qualche
breve istante avrebbero preso ad avanzare contro la solida muraglia
delle lunghe lance? La reazione in alcuni casi era semplicemente il silenzio,
una calma irreale che calava
sull'esercito, come se di colpo tutti fossero rimasti impietriti, ammutoliti
dalla sola vista del nemico (si veda ad
esempio Sen., Cyr. 7.1.25). Senofonte si sente in dovere di riferirci che quando
i due eserciti che si affrontarono
nella tremenda battaglia di Coronea si misero in posizione, ci fu per un po'"un
profondo silenzio da ambe le
parti (Hell. 4.3.17; Ages. 2.9). E forse proprio per dissipare quella sorta di
stato ipnotico gli eserciti
istituzionalizzarono il peana o canto di guerra, che a detta del drammaturgo e
veterano di fanteria Eschilo era
fiamma di coraggio amico, liberazione d'affanno nemico (Sept. 270). L'assenza
di comunicazioni tra i
soldati, prodotta dalla paura, poteva avere un effetto deleterio mentre si
preparavano ad avanzare e ciascuno si
ritirava nel proprio guscio di terrore. La situazione non doveva essere molto
diversa da quella riscontrabile nella
guerra moderna; S. L.A. Marshall, che si dedicato allo studio della battaglia
moderna, ha sottolineato in
un'analisi dell'andamento delle battaglie nella seconda guerra mondiale la
necessit cruciale che i soldati di
fanteria parlino: Quando ci si prepara a combattere, occorre prepararsi a
parlare. Occorre capire che la
parola contribuir a salvare la situazione. In ogni momento necessario
preoccuparsi di far sapere agli altri che
cosa ci sta succedendo (p. 137).
In altri casi gli autori non menzionano tanto il silenzio che regnava tra le
file, quanto il brivido che lo
accompagnava, un tremore in senso letterale che coglieva gli uomini della
falange, quasi che tutta questa massa
fosse scossa dalla febbre. C'era probabilmente un elemento di verit nella
clamorosa protesta di Ificrate. Egli
non riusciva a udire il consueto clangore della corazza dei suoi uomini mentre
si preparavano alla battaglia
poich troppo forte era il battere dei denti (Poi., Strat. 3.4.8). E infatti
anche Brasida si avvide del medesimo
sentimento di paura nell'evidente confusione degli ateniesi ad Anfipoli: I
nostri uomini ci scappano. chiaro
dal movimento delle lance e delle teste. Chi fa questo di solito non attende
l'assalitore (Tuc, 5.10.5). Quei
poveri ateniesi non dovevano essere diversi dagli avversari di Epaminonda prima
della battaglia di Mantinea,
che a detta di Senofonte erano semplicemente uomini disperati (Hell.
7.5.22-23). Il vecchio poeta di guerra
Tirteo, presumibilmente per aiutare gli uomini delle prime file a riprendere il
dominio di s, li incitava, come si
visto, in questo modo: Resti ognuno ben piantato sulle gambe al suolo,
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mordendosi le labbra con i denti (8.21-
22).
Gli esperti militari moderni annoverano la paura della battaglia tra i grandi
pericoli cui sono esposte le
reclute. Ai coscritti della seconda guerra mondiale, per esempio, si diceva:
Avrete paura, sicuramente avrete
paura. Prima che cominci la battaglia vi spaventer l'eventualit di restare
uccisi. Far male? Saprete che cosa
fare? Ma dopo che vi sarete abituati alla situazione e alle sensazioni sul campo
di battaglia, cambierete
(Stouffer, p. 196). Gli studi di psicologia del combattimento compiuti nel
dopoguerra hanno messo in evidenza
che oltre il 90 per cento dei soggetti ammetteva di provare paura prima della
battaglia, che si manifestava
normalmente con violenti battiti del cuore o con una sensazione di
mancamento, e occasionalmente con
la perdita del controllo degli intestini e l"orinarsi addosso (Stouffer, p.
201). L'oplite antico doveva provare
spesso, in misura ancor pi accentuata, queste medesime sensazioni, anche se le
nostre fonti non le
riferiscono in modo tanto esplicito e arido. In effetti la guerra greca non
lasciava nessuna possibilit di
accostarsi gradualmente al combattimento attraverso una serie di azioni
preliminari minori. Ogni battaglia di
falangi, in misura molto maggiore di una guerra moderna, era l'azione decisiva,
un'unica, repentina esperienza
disperata che ciascun uomo nelle file doveva affrontare senz'alcuna preparazione
psicologica.
Agli uomini che componevano le file, ammutoliti e in preda al terrore, al pari
dei fanti moderni, poteva anche
capitare di orinarsi o peggio di defecarsi addosso per la paura dello scontro
imminente. forse possibile farsi
un'idea del malessere e del disagio che coglievano il soldato subito prima della
battaglia leggendo il Gerone di
Senofonte. Per comunicare la tensione incessante cui sottoposto un tiranno,
Gerone ricorre all'esempio
dell'analoga sensazione di tensione prima della battaglia: Se anche tu,
Simonide, hai conosciuto l'esperienza
della guerra, e ti sei mai trovato a doverti schierare contro la linea della
falange nemica, cerca di ricordare quale
cibo mangiasti allora, quale sonno dormisti. Quei dolori che tu allora hai
patito sono quei medesimi che - pi
acuti - conosce anche il tiranno (6.3.7).
Un esempio ancor pi irrynediato degli effetti dell'attesa della battaglia sul
sistema gastrointestinale lo
troviamo nella vita di Arato scritta da Plutarco, in cui viene ripetuta una
vecchia accusa contro il generale.
Quando scoppiava la battaglia di solito veniva colpito dalla dissenteria e dai
sintomi a essa associati, al punto
che si vedeva costretto a uscire dal campo di battaglia: Subito prima della
battaglia, era afflitto da crampi agli
intestini, mentre paralisi e vertigini si impadronivano di lui non appena il
corno dava il segnale di tenersi pronti
(29.5). Nella commedia Pace di Aristofane viene fatto il quadro pi esplicito in
tutta la letteratura antica di un
fenomeno che doveva essere piuttosto diffuso tra gli opliti prima della
battaglia. Il poeta rampogna il capitano
di fanteria, arrogante e vestito con lusso eccessivo, che si vanta del proprio
bell'equipaggiamento e del
mantello scarlatto. Ma, aggiunge Aristofane, quando arriva il momento di
combattere quello stesso
comandante comincia a fuggire e il mantello prende un colore diverso: un
riferimento esplicito alla
defecazione involontaria che imbratta la veste (1176 ss.). In un passo
precedente della commedia Aristofane
aveva definito la guerra semplicemente il terribile, il feroce, quello a gambe
aperte.... Il commentatore antico
di questo passo aggiunge, quasi potesse esserci qualche ambiguit nel suo
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significato, che la frase si riferisce
all'improvvisa defecazione degli opliti provocata dalla paura. In tutte le
commedie di Aristofane questa tendenza a perdere il controllo degli intestini e
della vescica continuo oggetto di scherno ed evidentemente
come tale era vissuta dal pubblico, composto da veterani di guerra (per esempio
Ach. 349-351; Eq. 1056;
Lys. 216). L'incontinenza era un'esperienza particolarmente sgradevole se non
imbarazzante per uomini
pesantemente armati e stretti gli uni agli altri sotto il sole estivo. Il fatto
che Aristofane traducesse la guerra,
anche in un'illusione comica, nell'esperienza di defecarsi sulle gambe indica
che doveva trattarsi di un
fenomeno noto a tutti i guerrieri della falange.
La manifestazione finale della paura dell'oplite in battaglia non erano il
torpore n il silenzio attonito o il
tremore e l'incontinenza, bens, semplicemente, la decisione di voltare le
spalle e scappare. Nella guerra ellenica
il panico repentino prima del cozzo tra gli eserciti non era comune, ma abbiamo
notizia di cinque o sei casi nella
storia della battaglia tra greci in cui i soldati non ressero alla vista del
nemico dall'altra parte del campo di
battaglia, dandosi alla fuga prima ancora che gli schieramenti si scontrassero
(Tuc, 5.10.8; Sen., Hell. 4.3.17;
4.8.38 e soprattutto 7.1.31). A Sparta gli uomini che non vincevano il terrore
dell'attacco di massa erano definiti
con disprezzo tresantes, che possiamo tradurre con fuggitivi: una definizione
pittoresca di coloro che
manifestavano visibilmente i segni della paura ed erano letteralmente incapaci
di marciare verso la battaglia al
suono dei flauti (Erod., 7.231; Plut., Ages. 30.2-4; Sen., Res. Lac. 9.4-5). La
tendenza dei soldati stipati nella
formazione a cedere d'improvviso era cos nota che talvolta i greci
l'attribuivano all'intervento del dio Fobos (la
paura) e in seguito, nel IV secolo, a Pan (da cui panico, in molte lingue
moderne), quasi che fosse necessaria la
comparsa di una divinit per spiegare l'occasionale fuga di massa di individui
che di solito sapevano dominare
la propria paura. Euripide a proposito del dio Dioniso scrive: Un esercito in
armi, schierato per la battaglia, il
terrore lo colpisce, prima che tocchi una lancia: e anche questo un delirio
che procede da Dioniso (Bacc. 303-
304).
I greci erano consapevoli del fatto che la normale battaglia tra falangi
sottoponeva gli uomini a una tensione enorme e che solo una linea sottile
separava il controllo della paura dal crollo nervoso. Gli autori greci non
perdono quindi occasione di confrontare il loro modo di combattere con la
consuetudine barbara della
scaramuccia, meno organizzata e a loro parere meno coraggiosa. A detta di
Polibio, pochi popoli erano in grado
di dominare il terrore che incuteva la battaglia tra falangi. Osservava che i
cretesi erano senza pari nelle
imboscate, scaramucce, attacchi di sorpresa e scontri notturni, ma anche che si
trattava di scontri secondari in
cui l'inganno era parte integrante e necessaria della guerra. Quando dovevano
sostenere la battaglia frontale, il
combattimento faccia a faccia della falange, erano molto vili e del tutto
inetti (4.8.10-12). Anni prima Brasida
aveva detto la stessa cosa dei barbari: Costoro [...] sono spaventosi per la
massa d'uomini che presentano allo
sguardo e irresistibili per l'altezza delle grida [...] [ma] non sono in
battaglia altrettanto spaventosi, che [...] non
hanno vergogna [...] ad abbandonare la posizione (Tuc, 4.126.5). Secondo i
greci non erano molti a poter resistere
al loro modo di combattere, e perfino loro riconoscevano la necessit di lottare
per vincere la paralisi, il tremore,
l'incontinenza e il puro e semplice panico scatenato dalla battaglia. Non
sorprende che gli autori greci che si
occupano di tattica invitassero a schierare gli uomini migliori non solo in
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prima linea ma anche in retroguardia,
affinch i pi deboli nel mezzo siano pi spaventati da quelli che non dal
nemico (Sm.,Mem. 3-4; Cyr. 6.3.25.
Hipp. 2.4-6).
PARTE TERZA Il trionfo della volont
In guerra l'elemento meno calcolabile la volont umana.
B. H. Liddell Hart
9. Il generale e i suoi soldati
La documentazione per il Vietnam assolutamente chiara [...]: semplicemente,
gli ufficiali non morivano in numero sufficiente o in
presenza dei loro uomini abbastanza spesso da fornire quel tipo di martiri di
cui hanno bisogno tutte le unit sociologiche primarie,
soprattutto quelle sottoposte a tensione, se vogliono mantenere la coesione.
Gabriel e Savage, Crisis in Command: Mismanagement in the Army
Se ci domandiamo le ragioni per cui gli uomini della falange greca combattevano,
dobbiamo cercare le
risposte non nella religione, sebbene si facessero sacrifici agli di nei minuti
che precedevano l'attacco, n al
patriottismo, per quanto nel V secolo molti opliti portassero inciso sullo scudo
l'emblema della loro cittstato;
la loro audacia, infine, non nasceva dal desiderio di saccheggiare o dalla paura
di punizioni, anche se molti
soldati frugavano le spoglie dei morti quando la battaglia era finita e potevano
essere puniti duramente per
aver rotto le file durante la pugna. Un incentivo ancora pi forte dello spirito
di corpo era per gli opliti la
vista del proprio ufficiale comandante, lo strategs, che combatteva al loro
fianco nelle prime file dell'esercito.
La successione elementare di avvenimenti nella battaglia greca di fanteria del
VI e V secolo -avanzata, scontro
e ritirata - elimin la necessit di una complessa pianificazione prima della
battaglia e dello spiegamento di
reparti speciali e contingenti di riserva dopo che lo scontro era cominciato.
L'ufficiale al comando della
falange aveva perci ben poche opzioni tattiche dopo che i due schieramenti
venivano a contatto. Ma tutti
erano convinti che il comandante supremo potesse maggiormente contribuire alla
causa del proprio esercito
guidandolo con l'esempio, combattendo nelle file dell'ala destra della falange,
dove gli opliti potevano essere
stimolati dal suo sfoggio di coraggio: molti soldati vicini, nelle prime tre
file, erano testimoni diretti del suo
valore con le armi, e a quelli delle file posteriori veniva comunicato che era
vivo e continuava a combattere il
nemico in prima linea.
Ma il suo intervento nel combattimento corpo a corpo non era determinato
puramente dal fatto che la
battaglia aveva uno svolgimento elementare e dall'assenza di alternative
tattiche dopo che era scoppiata, quasi
che non avesse nulla di meglio da fare n altro posto dove stare. Le fonti
indicano che il generale desiderava
sinceramente combattere e rischiare la vita a fianco dei suoi uomini - come
testimoni il re spartano Leonida
alle Termopi - anzich osservare da lontano, al sicuro, la carneficina. Questa
funzione del comando ebbe
notevole importanza almeno nel VI e V secolo. A Sparta tale tradizione non perse
mai la sua popolarit.
All'inizio del IV secolo, per esempio, il comandante spartano Anassibo scelse di
morire non appena fu chiaro
che aveva portato gli uomini al disastro, annunciando semplicemente, con parole
non molto dissimili da quelle di
Tirteo tre secoli prima: Soldati, il mio dovere di morire qui (Sen., Hell.
4.7.38; cfr. 6.4.13).
Per molti versi quest'idea nuova dei greci - che il comandante sul campo,
insieme con la ristretta cerchia di
subalterni, doveva restare vicino al centro della mischia, se non partecipare
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attivamente alla carneficina -
sopravvissuta in Occidente fino ai primi anni del Novecento, ma con la prima
guerra mondiale completamente
scomparsa: il generale si ritir nelle retrovie, in una posizione lontana dal
combattimento che gli uomini
dell'antichit non potevano concepire. Si dice di Joffre, il grande eroe della
Marna, che per ogni giorno della
lunga ritirata, mentre le colonne di soldati sudati e coperti di polvere si
ritiravano lungo le torride strade della
Francia settentrionale verso la capitale, smetteva di lavorare esattamente a
mezzod, prendendo posto a un
tavolo apparecchiato con una tovaglia candida, argenteria e bicchieri di
cristallo fuori dal quartier generale e
trascorrendo sotto lo sguardo di coloro che passavano le due ore successive a
rinvigorire lo spirito (Keegan e
Holmes, p. 200). L'assenza del generale dal teatro degli scontri stata
giustificata con l'apparente necessit di
prestare attenzione alle migliaia di problemi di pianificazione e di
comunicazione che richiede una guerra
moderna. Tuttavia, l'assenza del comandante dal luogo dei combattimenti ha avuto
spesso un effetto negativo
sui soldati. Un argomento poco convincente a favore di tale pratica moderna la
teoria secondo cui la
sopravvivenza del comandante ha oggi la massima importanza, mentre in realt lo
sterminato stato maggiore ha
immancabilmente previsto la possibilit che muoia; e infatti la sua
sopravvivenza, quand'anche si tratti di
Rommel o Patton, potrebbe essere per ironia meno importante per il successo dei
suoi uomini sul campo di
battaglia che non quella dell'antico condottiero greco, il quale non poteva
essere sostituito da altri ufficiali di
grado o status paragonabili.
L'improvvisa scomparsa del comandante greco dopo che si era lanciato nella
mischia poteva scatenare il
panico tra gli uomini intorno a lui che assistevano alla sua caduta. Invece la
perdita di un generale oggi
potrebbe passare inosservata per ore, se non per giorni, tra i fanti che si
battono sul campo: ci sta a indicare che
la burocrazia del comando ha tenuto adeguatamente conto di tutto, salvo
l'ingrediente cruciale per vincere: la
presenza magnetica di un condottiero che combatte e muore a fianco dei suoi
uomini in battaglia. Le poche
eccezioni di questo secolo lo dimostrano chiaramente. Kellet, per esempio,
osserva a proposito del corpo
ufficiali britannico in generale che forse le ragioni che meglio spiegano la
capacit degli ufficiali di trascinare i
loro uomini anche nelle iniziative pi pericolose era il fatto di accettare essi
stessi il rischio e il sacrificio (p.
156). Un ufficiale ha riassunto i sentimenti dei soldati americani di fanteria
nella seconda guerra mondiale in
questo modo: Durante il combattimento bisogna essere in prima linea a guidarli,
non dirigerli dalle retrovie.
Gli uomini dicono: "Se l'ufficiale se ne sta un centinaio di metri pi indietro,
allora io resto indietro con lui".
Non puoi dare ordini: devi guidarli (Stouffer, p. 124). S. L.A. Marshall lo ha
sostenuto anni or sono, subito
dopo la guerra, levando solitario una voce critica durante l'euforia generale
che segu alla vittoria americana:
Un sistema di comando sedentario provoca un danno tra le truppe che, pur
ubbidendo meccanicamente, non
hanno una risposta organica, razionale, alla volont del comando (p. 103).
William Shirer ha rilevato l'anomalia
della pratica bellica dei giovani ufficiali tedeschi nel 1940, durante il loro
momento di gloria in Francia:
I generali tedeschi erano pi giovani: alcuni neppure quarantenni, la
maggioranza tra i quaranta e i cinquanta e pochi, tra i
vertici, appena pi che cinquantenni. Ma ci conferiva loro le qualit dei
giovani: impeto, audacia, immaginazione,
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Victor Davis Hanson - Volume Primo. L'Arte Occidentale Della Guerra.txt
flessibilit, iniziativa e coraggio fisico. Il generale von Reichenau fu il
primo ad attraversare la Vistola durante la campagna
polacca, e a nuoto. Guderian, Rommel e gli altri comandanti delle Panzer
Divisionen guidarono di persona molti attacchi.
Non restavano, com'erano propensi a fare gli omologhi francesi, al sicuro nelle
retrovie, nei quartieri del comando di
divisione.
L'affinit naturale, nel mondo della Grecia classica, tra il generale e i suoi
uomini nasceva dalla
consapevolezza comune che il comandante in sostanza era poco pi di un oplite
che prendeva posizione vicino
all'ala destra, il primo a sostenere l'urto del nemico, un cittadino che avrebbe
sicuramente militato come
soldato semplice dopo che non avesse pi detenuto l'incarico di comandante delle
truppe.
Non sorprende perci che si senta parlare molto poco di qualche aggressione
all'ufficiale a opera degli opliti al
suo comando; non c' traccia, per esempio, degli attacchi (in questo caso con
bombe a mano) contro gli
ufficiali che si verificarono con allarmante frequenza tra gli americani negli
ultimi anni della guerra in Vietnam.
Quando si ha notizia di tali aggressioni sporadiche, di solito riguardano
mercenari vissuti sul finire del V e nel IV
secolo, come l'oplite dissidente dei Diecimila (mercenari), che scagli un'ascia
contro il suo comandante Clearco
(Sen., An. 1.5.12). Nella letteratura greca leggiamo anzi critiche esplicite ai
condottieri che non si trovano con i
loro uomini, che in virt delle vesti o della condotta cercano di innalzarsi al
di sopra dei soldati della falange,
alimentando in questo modo l'impressione di non condividerne rischi o interessi.
Ecco che cosa dice Archiloco,
poeta del VII secolo, di un comandante sconosciuto: Non mi piace un generale
gigantesco, gambelarghe, tutto
fiero dei suoi ricci, glabro a forza di rasoi. Io lo voglio piccoletto; gli si
notino le gambe storte, ma si regga in
piedi saldamente, tutto cuore. Parimenti, la ragione delle frecciate di
Aristofane all'indirizzo di Lamaco negli
Acarnesi (1071-1234) e del capitano senza nome in Pace (con i suoi tre cimieri
e il suo mantello rosso
sgargiante di tintura di Sardi, 1171) l'ostentazione ridicola fatta da tali
comandanti, assolutamente estranea
agli uomini che guidavano, che poteva far pensare che non erano ansiosi di
attaccare con i loro soldati il nemico.
D'altro canto, il generale greco ideale - osserv il poeta lirico Archiloco
all'alba dell'et oplite - doveva essere
una presenza ben chiara sul campo di battaglia, come il basso Agesilao che
faticava a fianco dei suoi uomini
vestito semplicemente, guadagnandosi cos non solo la loro obbedienza, ma anche
il loro affetto (Sen., Ages.
6.4-7), o forse come quel condottiero solenne e senza nome scolpito nel
monumento a Nereide, che sembra
prendere posizione come un soldato semplice di linea per spingere avanti i suoi
uomini (Anderson 1970, tav. 13,
14); un simile personaggio ci ricorda la descrizione di Plutarco del grande
statista ateniese Pericle durante la
battaglia di Tanagra (457), quando si distinse su tutti per sprezzo del
pericolo (Per. 10.1 ss.). Polidoro, a chi
gli chiedeva perch gli spartani fossero tanto prodi, avrebbe risposto perch
impararono a non temere, ma a
riverire i capitani (Plut., Mor. 231 F 4).
In seguito, durante il IV secolo, coloro che si occupavano di teoria militare
maturarono un interesse pi
astratto per una struttura idealizzata della battaglia, e al pari dei moderni
analisti militari cominciarono a
preoccuparsi dei pericoli che la presenza attiva del comandante supremo nella
battaglia corpo a corpo creava
all'esercito. La loro immagine ideale seppure fantasiosa del generale era quella
di un uomo che doveva prestare
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attenzione ai piani e ai contingenti di soldati armati alla leggera, alla
cavalleria e alle riserve. Senofonte, per
esempio, criticando il ruolo del comandante all'apogeo della battaglia oplite,
sostenne che un generale doveva
essere meno temerario, mantenersi calmo e in questo modo conservare una visione
generale dell'azione che si
svolgeva sul campo di battaglia (Mem. 3.1); in altre parole, doveva tenersi alla
larga dalla pugna pericolosa. A
quanto pare, la crescente complessit della battaglia, che durava sempre di pi,
sugger ad alcuni la necessit di
creare un quartier generale della guerra, mentre la battaglia poteva essere
condotta da un gruppo di ufficiali di
grado inferiore che guidavano gli uomini sul campo. Ma il fatto stesso che
questo suggerimento fosse avanzato
in aridi manuali di tattica indica che gli strateghi a tavolino erano nettamente
in minoranza e che il ruolo
tradizionale del comandante nella mischia aveva ancora la massima importanza per
i generali, tanto che perfino i
comandanti sul campo degli eserciti mercenari del IV secolo - come Ificrate e
Cabria, che guidavano armate di
tipo ben diverso dalle milizie esclusivamente cittadine dei due secoli passati -
continuarono a combattere a
fianco dei soldati quando scoppiava la battaglia. Onasandro, teorico militare e
filosofo platonico nel I secolo d. C,
reagiva forse a questo vecchio codice di comportamento del generaleguerriero
quando sostenne che il
condottiero doveva combattere con prudenza e non con temerariet, oppure tenersi
alla larga dal combattimento corpo a corpo (33.1). L'ovvia ragione per cui gli
autori si preoccupavano per il ruolo del generale era la
paura dell'effetto che un'improvvisa scomparsa del condottiero nella pugna
poteva avere sui soldati:
Qualunque cosa tu riesca a fare versando il tuo sangue, osservava Filone, non
paragonabile al danno che
riceverebbe tutto quanto ti sta a cuore qualora ti accadesse qualcosa (5.4.28;
cfr. anche Onasandro, 23). Ma
questa preoccupazione dichiarata per il morale degli opliti della falange stava
davvero alla base del suggerimento
dato al comandante di lasciare il campo di battaglia per assumere il ruolo di
comando dall'esterno?
verosimile piuttosto che la naturale paura del pericolo insito in un comando
attivo di vecchio tipo attanagliasse
quegli aspiranti generali.
E assai probabile che la convinzione ellenistica e romana che i comandanti
militari non dovevano mettere in
pericolo la propria vita fosse una reazione naturale alle carneficine delle
battaglie classiche tra opliti, in cui i
perdenti si ritrovavano immancabilmente privi del condottiero. Gli autori
successivi in genere non compresero
il perch del sacrificio dei generali opliti, n il fatto che tali perdite non
sempre erano causa della sconfitta di
un esercito, ma piuttosto erano sintomatiche dello stretto legame del
condottiero con i suoi soldati anche
quando, per altre ragioni, la battaglia era gi perduta. La confusione tra le
file tebane a Mantinea dopo la
morte di Epaminonda e forse anche la paura che colse gli spartani a Leuttra
quando cadde Cleombroto sono le
eccezioni che confermano la regola. Il morale sempre alto e la voglia di
battersi degli eserciti opliti del VI e V
secolo sono attribuibili in parte al tasso di mortalit sorprendentemente
elevato dei comandanti sul campo: i
soldati avevano la certezza che il loro generale sarebbe stato tra i primi ad
affrontare le lance del nemico, e non
assiso sul trono come Serse alle Termopi.
Se si passano rapidamente in rassegna le maggiori battaglie campali greche del
V secolo e anche del IV si
individuano tre tendenze generali. In primo luogo, il comandante effettivo
dell'esercito sconfitto cadeva
immancabilmente insieme con la maggior parte di coloro che si trovavano in prima
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fila e sostenevano l'urto del
nemico. Ci vale per ogni cittstato greca, a prescindere dalle specifiche
scelte militari. L'ateniese Callia cadde a
Potidea (Tuc, 1.63.3); Leonida, re e condottiero dei Trecento, alle Termopi
(Erod., 7.224); il corinzio Licofrone
a Soligea (Tuc, 4.44.1); l'ateniese IPPOCRATE nel disastro della sua citt a
Delio e il demagogo Cleome ad
Anfipoli (Tuc, 4.101.2; 5.10.9); gli spartani Pasimaco a Corinto, Teleutia a
Olinto e Clearco a Cunassa (Sen.,
Hell. 4.4.10; 5.3.6; An. 1.8.4-5).
In numerosi casi entrambi i generali di un comando congiunto e talvolta
l'intero gruppo che circondava il
generale furono annientati nella sconfitta: un fatto che si verific spesso
durante le varie, ben note catastrofi di
Sparta e di Atene. Per esempio, a Olpe morirono con i loro uomini entrambi i
generali spartani Euriloco e
Macario (Tuc, 3.109.1); parimenti, a Pilo cadde Epitade e il suo successore
Ippagrete fu dato per morto nel
mucchio dei cadaveri (Tuc, 4.38.1). Durante la serie di sconfitte subite in
Sicilia, morirono sull'isola Lamaco,
Nicia e Demostene, che in occasioni successive avevano assunto il comando.
Tucidide narra che in precedenza,
durante la prima battaglia di Mantinea (418), entrambi i generali ateniesi,
Lachete e Nicostrato, erano stati uccisi
accanto ai loro uomini (5.74.3). Durante una disavventura meno conosciuta di
Atene a Spartolo, tutti e tre i
generali - Senofonte, Estiodoro e Fanomaco - furono uccisi (Tuc, 2.79.7).
Senofonte narra che nel 371 a Leuttra
gli ufficiali Deino, Sfodria e Cleonimo caddero tutti a fianco del loro re
Cleombroto (Hell. 6.4.14).
Questo tasso di mortalit tra i generali tanto generalizzato che sembra che a
Sparta non si sia verificato un
solo caso, in circa seicento anni di guerra, di un re spartano sopravvissuto
alla sconfitta dei suoi uomini sul
campo di battaglia, fino a quando il re Cleomene ili, nella fase declinante
dello stato spartano, abbandon i
suoi soldati travolti dal nemico a Sellasia nel 222 (Polib., 2.65 ss.; Plut.,
Cleom. 28.5). Va detto a onore degli
ateniesi che rispettarono questa tradizione ancora per buona parte del IV
secolo. Dopo la battaglia di
Cheronea del 338 condannarono a morte il generale che era sopravvissuto alla
sconfitta dei suoi, Lisicle. Fu
Licurgo a muovergli le accuse: Fosti, o Lisicle, comandante della guerra! E
quantunque v'abbian lasciata la
vita mille cittadini, quantunque duemila vi siano rimasti prigionieri, e a
ignominia di questa citt siasi veduto
innalzato il trofeo, esposto il giogo della servit all'universa Grecia; e tutte
queste cose siano accadute mentre
eri tu capitano, mentre tu eri il comandante supremo della guerra; pure osi tu
vivere; pure hai fronte di
sostenere la luce del sole; n ti vergogni di venire nel foro, tu, infame
monumento della turpitudine e
dell'obbrobrio della tua patria? (Diod., 16.88.2)
In secondo luogo, in un numero sorprendente di battaglie importanti il generale
vittorioso viene ucciso
nonostante il successo delle sue truppe, forse un'ulteriore indicazione del
fatto che la sua presenza tra le prime
file era pi importante della sua incolumit affinch i soldati si battessero
con coraggio; tanto basta per
liquidare la tesi che la sopravvivenza del generale era sempre decisiva per il
successo militare. Si dimentica
spesso, per esempio, che durante la grande vittoria ateniese a Maratona,
Callimaco, collega di Milziade, perse
la vita. Parimenti Brasida cadde nel 422 ad Anfipoli sebbene i suoi spartani
avessero sconfitto gli ateniesi; in
questa battaglia morirono i generali di entrambi gli eserciti (Tuc, 5.10).
Occorre ricordare, infine, come ben pochi generali che assunsero pi volte il
comando terminassero i loro
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giorni nella quiete della vecchiaia; per costoro assumere il comando significava
il pi delle volte morire in
servizio, non gi godere di una meritata pensione. Agesilao pensava che lo
disonorasse il vivere inerte in citt,
aspettando la morte (Plut, Ages. 36.3). Un gran numero di generali moriva in
servizio, eventualit del resto
assai probabile quando bisognava restare esposti al pericolo in ripetute
occasioni. Personaggi come Cimone,
Pelopida, Epaminonda, Brasida e Lisandro - per fare soltanto qualche nome - pur
essendosi guadagnata una
reputazione anni prima ed essendo considerati quasi delle celebrit tra i
cittadini in patria, continuarono a
guidare gli uomini in battaglia tanto da essere uccisi sul campo. Sebbene questi
uomini di et avanzata (di
solito chi aveva meno di trent'anni non poteva ricoprire la carica di generale)
riuscissero in un modo o nell'altro a sopravvivere alla ripetuta esperienza del
primo cozzo delle lance, la tensione che si accumulava anno
dopo anno finiva per stroncarli, e molti morivano di malattia o per l'estrema
debolezza. Milziade l'ateniese fu
ferito a una coscia durante la spedizione a Paro e mor successivamente di
cancrena (Erod., 6.136). Nicia,
generale ateniese, fu afflitto da calcoli renali durante l'intero periodo in cui
fu uno dei comandanti della
spedizione in Sicilia; Agesipoli, re spartano del IV secolo, contrasse
d'improvviso una febbre durante l'attacco
contro Olinto e mor sul colpo (Tuc, 7.15; Sen., Hell. 5.3.19). Secondo
Plutarco, Antigono mor di
consunzione subito dopo la vittoria conseguita a Sellasia (Cleom. 30.2). Erano
perci davvero pochi coloro che
potevano vantare una carriera pari a quella del re spartano Agesilao, il quale
sopravvisse a innumerevoli battaglie, a diverse ferite e a un attacco quasi
fatale di flebite, per poi morire anni dopo durante il ritorno da una
campagna in Egitto nel 360, all'et di ottantaquattro anni, sfigurato per tutto
il corpo da ferite (Plut., Ages.
36.1).
Il solo esempio paragonabile di un rapporto tanto stretto - e tuttavia fatale -
tra il comandante sul campo di
battaglia e i suoi uomini nel periodo moderno risale alla guerra civile
americana. L'esercito confederato,
imbevuto della tradizione cavalieresca del Vecchio Sud, al pari dei greci
dell'et classica dava per scontato che
fosse dovere dei comandanti combattere a fianco dei loro uomini sul campo di
battaglia. La documentazione su
questi generali combattenti evidenzia un tasso sbalorditivo di mortalit nel
corpo ufficiali. Si era forse fatta
strada in loro la convinzione che per annullare la schiacciante superiorit
numerica e la potenza di fuoco delle
forze dell'Unione i loro soldati dovessero conservare un morale superiore, e per
conseguire tale obiettivo era
necessario che il generale sul campo, come il suo predecessore oplite, non
soltanto combattesse, ma quel che pi
conta, morisse accanto ai suoi uomini. A. P. Hill fu colpito alla testa a
Petersburg; Stonewall Jackson mor a
causa di una grave ferita al braccio riportata a Chancellorsville; Elisha Paxton
non sopravvisse alla medesima
battaglia, cos come Turner Ashby nello scontro di Port Republic; Jeb Stuart fu
mortalmente ferito al ventre a
Winchester; molti altri - Robert Rhodes, Dodson Ramseur, Dick Anderson, Wade
Hampton, John Bell Hood e
Joe Johnson - furono uccisi in azione oppure riportarono ferite quasi fatali,
rimanendo sfigurati o invalidi. Si
diceva che dopo la battaglia di Chancellorsville fossero stati trovati 30
ufficiali morti e 148 feriti, mentre 59
furono dati per dispersi, e tutto in un solo corpo d'armata (Freeman, n, p.
650).
Il comandante poteva contribuire a vincere l'enorme pressione fisica e
psicologica della battaglia: un
contributo che diventava evidente solo quando ogni uomo della falange vedeva che
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Victor Davis Hanson - Volume Primo. L'Arte Occidentale Della Guerra.txt
un compagno di condizioni
simili, vestito ed equipaggiato come lui (al pari di Grant, che preferiva
l'uniforme del soldato semplice
unionista), lo guidava in battaglia e sarebbe rimasto fermo dove la pugna era
pi pericolosa. Se un generale si
mostrava deciso ad avanzare o semplicemente a morire l dove si trovava, anzich
abbandonare gli uomini per
restarsene nelle retrovie, allora gran parte dei soldati si sentiva incoraggiata
a fare altrettanto.
10. Il morale e lo spirito di corpo: le origini del sistema reggimentale
Dividi gli uomini per trib, per quartieri, Agamennone,
quartiere sorregga quartiere e trib trib;
se tu farai cos, t'obbediranno gli achei,
saprai chi vile dei duci e dei soldati,
e chi valoroso, perch lotteran separati;
ancora saprai se per valore divino non abbatterai la citt
o per vilt degli uomini e imperizia di guerra.
Omero, Iliade
Dobbiamo stare bene attenti nell'uso della fanteria britannica. Il suo spirito
combattente si basa in larga parte sul morale e l'esprit de corps
reggimentale. Per nessuna ragione bisogna alterarlo.
Generale Bernard Montgomery

La coesione eccezionale tra gli individui che componevano una falange spiega in
larga misura il successo
conseguito dagli opliti greci, soprattutto di fronte ai soldati stranieri. Pur
essendo divisi dalle rivalit tra cittstato, in netta inferiorit numerica,
raccolti in tutta fretta e vittime di aperti tradimenti, i difensori greci
durante le
guerre persiane sconfissero gli invasori orientali in quasi tutte le battaglie
di terra in cui si misurarono. La chiave
del successo, oltre alla presenza dei generali greci sul campo di battaglia, va
cercata nel cameratismo diffuso tra le
file dei greci, nella fiducia che nasceva dai vincoli tra gli opliti della
falange, che consent a Leonida, alla vigilia
della sua certa distruzione, di rispondere per tutti i suoi uomini
all'ingiunzione di Serse di deporre le armi: Vieni,
e prendile (Plut., Mor. 225 D 11).
La fiducia nel comandante e nelle armi e anche l'amore per il proprio paese e
l'esperienza accumulata in guerra
possono spiegare perch un esercito impegnato in combattimento consegua il
successo sul campo, ma spiegano
poi davvero perch quegli individui accettavano l'idea di battersi e alla fine
avanzavano contro le punte delle
lance nemiche? vero che molti opliti greci potevano essere ubriachi, ma il
ricorso alle bevande alcoliche non
serviva necessariamente a convincere l'oplite a caricare, quanto piuttosto a
rendergli pi tollerabile la
prospettiva. Direi che i soldati della cittstato affrontavano la carica del
nemico grazie al loro generale e grazie
a coloro che stavano al loro fianco, al desiderio di difenderli dai colpi del
nemico e alla vergogna di mostrarsi
vili dinanzi ai loro occhi. L'ideale dell'uomo coraggioso era l'eroe della
poesia del vecchio Callino: Se vive,
come un semidio. S'aderge innanzi agli occhi come torre: uno, ma, per quello
che fa, vale per molti (1.17-
19).
Dopo aver condotto una serie di approfondite interviste ai combattenti
americani, alcuni ricercatori hanno
stabilito dopo la seconda guerra mondiale che la ragione per cui gli uomini
combattono nasceva da un
sostanziale adattamento a combattere, con un minimo di idealismo o di retorica,
in cui gli elementi che pi si
avvicinano allo stereotipo convenzionale dell'eroismo del soldato si fanno
strada attraverso la forte solidariet
nel gruppo combattente ristretto (Stouffer, p. 112). In parole povere, gli
uomini affermano di combattere per
difendere i compagni che sono al loro fianco. In simili circostanze, non
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dovrebbe meravigliarci il fatto che
Alcibiade, generale ateniese innovatore, non riusc a fondere in un solo corpo
due falangi separate a Lampsaco
nel 409. Uomini che non avevano alcun legame di sangue n esperienza comune di
battaglia non potevano
essere disposti a schierarsi insieme nelle file compatte della falange: le
truppe dei soldati pi anziani, afferma
Senofonte, non vollero essere messe insieme con quelle di Trasillo, adducendo
che non erano mai state
sconfitte, mentre le [altre truppe] [...] erano reduci di una disfatta (Hell.
1.2.15). William Manchester, nel
resocelo sulla sua esperienza di guerra nel Pacifico, ha scritto:
Quegli uomini della linea erano la mia famiglia, la mia casa. Mi erano pi
vicini di quanto possa dire, pi vicini di quanto
sia mai stato o sar un amico. Non mi avevano mai abbandonato e non avrei potuto
abbandonarli. Dovevo restare con
loro, non potevo lasciare che morissero per poi vivere sapendo che avrei potuto
salvarli. Gli uomini, oggi lo so, non
combattono per una bandiera, la patria, il corpo dei Marines, la gloria o
qualche altro ideale astratto; combattono l'uno
per l'altro.
Due erano gli elementi, che si ritrovano solo nelle battaglie della Grecia
classica, che tendevano a creare una
coesione eccezionale tra i soldati, al punto che non esagerato affermare che i
legami tra gli opliti della falange
erano pi forti di quanto si sia mai verificato tra i fanti in tutta la lunga
storia della guerra terrestre in
Occidente. In primo luogo l'armamento e la tattica della falange antica si
addicevano perfettamente all'ideale
della lealt e dell'amicizia; il combattimento in colonne anzich schierati in
linea portava tutti gli uomini a
stretto contatto tra loro: un atto di coraggio o di vilt di uno era colto da
tutti coloro che combattevano nei
ranghi dietro, davanti e di fianco a lui:
Quegli audaci che vanno fianco a fianco nella mischia
serrata, all'arma bianca, in prima fila,
muoiono in pochi e salvano il grosso che va dietro.
Quando si trema, ogni valore spento.
E chi potrebbe dire uno per uno i guai
di colui che si macchia di vergogna! (Tirteo, 8.11-16)
Allo stesso modo, Tucidide rilevava che il tipo di equipaggiamento dell'oplite -
lo scudo in particolare - faceva
s che la protezione del fianco destro di ciascun soldato dipendesse dall'uomo
che si trovava alla sua destra. I
soldati non soltanto dovevano raccogliersi in ranghi compatti prima della
battaglia, ma dovevano mantenere
quella formazione anche dopo l'inizio del combattimento, tanto che sicuramente
si verificavano spesso tra loro
contatti, urti, pestoni e spinte, poich ognuno cercava una protezione nel corso
della battaglia: l'oplite non
tentava tanto di vedere o udire gli amici che aveva a fianco, quanto di
sentirli. Plutarco ricorda che gli opliti
usavano l'elmo e il corsaletto per s, ma lo scudo si porta per uso ancora di
tutta l'ordinanza intera (Mor. 241 F
16). Chiunque abbandonava il posto che gli era stato assegnato per proteggere
l'uomo alla sua sinistra veniva
subito scoperto e tacciato di vigliaccheria.
Un altro fattore importante era la mancanza di specializzazione militare della
fanteria pesante. Tutti erano
armati di lancia e scudo e quindi non era possibile che nascesse rancore per
quelli pi abili o favoriti, dotati di
armi particolari o incaricati di compiti speciali come avviene nella battaglia
moderna, spesso pi prestigiosi e
meno esposti al pericolo. Nella battaglia greca non esistevano mitraglieri,
ricognitori, puntatori,
radiotelegrafisti, fucilieri, lanciafiamme e tutta la miriade di altre
suddivisioni della fanteria moderna. Al
contrario, sapere che tutti gli uomini della classe oplite erano armati in modo
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uniforme eliminava ogni rivalit e
risentimento e conferiva a tutti un mirabile senso di superiorit di gruppo su
coloro che non facevano parte
della falange: gli scorridori armati alla leggera, che non avevano la corazza
pesante, erano chiaramente
inferiori e spesso senza terra.
La natura peculiare dello spazio e del tempo sul campo di battaglia greco
faceva s che gli uomini della linea
non volessero n potessero abbandonare i propri compagni una volta scontratisi
col nemico. A differenza dalle
battaglie di un periodo successivo, in cui gli scontri potevano estendersi per
chilometri in azioni e scaramucce
separate, in cui potevano subentrare riserve ignare della lotta precedente dei
loro compagni (anch'essi estranei)
che aveva avuto luogo ore e perfino giorni prima, in cui i soldati potevano
dividersi in piccoli gruppi per
godere di maggiore sicurezza sia quando attaccavano sia quando si ritiravano,
gli opliti incontravano il nemico
sempre in gruppo, contemporaneamente e pi o meno nello stesso punto. Sebbene
questa tattica sfociasse in una
carneficina brutale concentrata in uno spazio limitato, nondimeno era sempre
chiaro che la vittoria o la sconfitta
dipendevano solamente dagli uomini al proprio fianco e si decidevano in quello
scontro, un elemento che
favoriva un'unit eccezionale tra tutti coloro che costituivano la falange. In
effetti Kellet, analizzando la battaglia
del XIX e XX secolo nel suo studio sulla motivazione a combattere, ha osservato
che le formazioni in ordine serrato, quali la linea e il quadrato, esercitano
notevoli coercizioni, di ordine sia sociale sia fisico: gli uomini erano
sicuri che tutti avrebbero mantenuto le posizioni perch in caso contrario le
conseguenze potevano essere
terribili (p. 137).
Forse non mai esistita una formazione in ordine tanto serrato quanto la
falange greca, e si pu capire
perch le ultime parole che Temistocle avrebbe rivolto ai suoi uomini prima
della battaglia di Salamina contro i
persiani siano diventate in seguito tanto popolari tra gli ateniesi. A quanto si
narra, aveva visto alcuni galli da
combattimento che si azzuffavano e da tale scena aveva tratto ispirazione per
incitare i suoi uomini: Quegli
animali, disse loro, non soffrono tante pene in nome della patria n per i
loro di nativi o per rispetto agli
eroi del passato, e neppure per la gloria, per la libert oppure per i figli.
No, essi lo fanno solo per il desiderio di
ciascuno di non mostrarsi inferiore o cedere di fronte all'altro (El., VH2.2S).
La seconda considerazione, che ha un peso maggiore, la natura peculiare dei
vincoli che legavano gli uomini
della falange: diversamente da quanto avviene negli eserciti moderni, i legami
tra gli opliti nei ranghi non
nascevano con il servizio militare o nelle settimane di addestramento in campi
appositi, ma erano il
prolungamento naturale della parentela e di un'amicizia di vecchia data nata in
tempo di pace. Sembra che gli
opriti di quasi tutte le cittstato fossero schierati nella falange per trib, e
con ogni probabilit conoscevano
bene, com' naturale, quelli della propria citt o demo. Gli uomini che si
frequentavano nelle associazioni
politiche, religiose o cerimoniali e che avevano legami di parentela
consolidavano tali legami quando si trattava
di combattere fianco a fianco nella falange. Ogni sottounit della falange
combatteva per difendere uomini che
si conoscevano da quando erano bambini, e perci difficilmente avrebbero gettato
via lo scudo, mettendo cos a
repentaglio la vita di amici e parenti.
Sono numerosi i riferimenti espliciti, nella letteratura greca, al fatto che i
singoli contingenti della falange
venivano formati sulla base dell'affiliazione tribale; inoltre gli uomini
conoscevano bene tutti quelli che
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provenivano dalla loro stessa comunit (per esempio Lis., 16.15; 13.79; Tuc,
6.98.4; 6.101.5; Arist., Ath. Poi.
42.1). Non sbaglieremmo perci se supponessimo che ogni qual volta la falange si
metteva in marcia, gli
uomini sapevano esattamente qual era la posizione loro assegnata nella
formazione cos come conoscevano i
parenti e gli amici che militavano davanti, di fianco e dietro a loro. Cimone,
ritornato dall'esilio, si un ai
compagni ateniesi pochi attimi prima della battaglia di Tanagra e prese subito
posizione tra gli uomini della
sua trib, che evidentemente lo stavano aspettando con armi e corazza in mano
(Plut., Cm. 17; Front., Str.
4.1). Anche dopo un'assenza prolungata sapeva perfettamente dove schierarsi
nella falange. A proposito
dell'organizzazione della falange svizzera medievale, che presenta caratteri
simili, Oman afferma: Non
occorreva sprecare giornate nel noioso lavoro di organizzazione, perch ognuno
si schierava con i parenti e i
vicini sotto la bandiera della sua citt, valle o gilda (il, p. 256).
Secondo Plutarco (Arist. 5), Aristide e Temistocle combatterono fianco a fianco
al centro della linea di battaglia
ateniese, in difficolt sotto l'urto dell'attacco persiano a Maratona. Questa
vicinanza tra loro in una grande battaglia
era dovuta secondo l'autore al fatto che appartenevano rispettivamente alle
trib leontide e antiochide, vale a dire
ai due contingenti che costituivano il centro della falange ateniese. Le persone
di alto rango combattevano come
semplici opliti a fianco di uomini che conoscevano da anni. Lo stesso, a quanto
pare, si verificava anche altrove.
Quando gli ateniesi misero le mani sui ruoli dell'esercito siracusano in Sicilia
nel 415, furono in grado di conoscere
il numero e la natura della forza nemica, poich quegli elenchi di soldati
opliti erano ordinati sulla base delle
affiliazioni tribali (Tuc, 6.66). L'importanza di queste associazioni tribali in
numerose cittstato greche emerge
anche dagli elenchi giunti fino a noi delle vittime, incisi su pietra, e dai
riferimenti ai morti in battaglia che si
incontrano nella letteratura. Epaminonda, per esempio, sarebbe stato riluttante
a ricostituire la sua falange di tebani
dopo una battaglia sanguinosa, per il timore che gli uomini si perdessero
d'animo vedendo i larghi vuoti tra i ranghi (Poi., Strat. 2.3.11). Pare fosse
consuetudine non ricostituire immediatamente le colonne decimate; pi
semplicemente, gli uomini avanzavano di una posizione per occupare il posto dei
caduti, con ogni probabilit
amici o familiari la cui perdita era stata notata da tutti coloro che gli
stavano intorno. Poich gli eserciti del
periodo classico non erano numerosi, a paragone con quelli moderni, era
probabile che ognuno conoscesse i
membri del contingente della sua trib, se non dell'intera falange, cosicch la
morte di un individuo colpiva il
gruppo nel suo complesso. Senofonte narra la triste storia degli spartani che
avevano subito una sconfitta per mano
dei loro nemici dell'Arcadia: dopo la battaglia gli sconfitti erano tanto pi
scorati avendo udito i nomi dei caduti:
uomini valorosi, e in genere, i pi distinti (Hell. 7.4.25). La maggior parte
degli spartani della falange doveva
conoscere tutti coloro che erano caduti. In altri casi abbiamo notizia di
perdite particolarmente pesanti in una singola trib (per esempio Lis., 16.15),
un dato che indicherebbe come i suoi membri si trovassero preferibilmente
in un punto della battaglia in cui si era verificato un cedimento circoscritto,
o semplicemente erano stati
sopraffatti dalla forza preponderante del nemico. Gli elenchi delle perdite, che
venivano di solito stilati per trib,
indicano che dopo la battaglia ciascuna trib aveva la responsabilit di
riprendersi i morti e di fornire l'elenco delle
perdite alla citt. Ad Atene e in altre cittstato greche - Mantinea, Corinto e
Argo -sono state trovate iscrizioni su
pietra in cui i caduti sono catalogati in base all'affiliazione tribale (per
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Victor Davis Hanson - Volume Primo. L'Arte Occidentale Della Guerra.txt
esempio IGI2 929, 931,943; Paus., 1.32.3; cfr.
Pritchett 1971-1985, rv, pp. 138-243). probabile che coloro il cui nome era
tramandato alla posterit in base
all'affiliazione tribale combattessero in quel contingente della falange.
In alcuni brani degli oratori attici si trova la dimostrazione del cameratismo
che legava i membri delle trib e
anche dello stesso demo. Un discorso attribuito al grande oratore ateniese Lisia
indica che gli uomini del
medesimo demo erano testimoni del numero di battaglie che un membro della loro
comunit aveva combattuto
(20.23); tutti costoro dovevano interessarsi gli uni agli altri con una certa
invadenza. In un altro discorso, Lisia
afferma abbastanza esplicitamente che i membri dello stesso demo si radunavano
prima di mettersi in marcia per
una campagna militare (16.14). Anche Iseo - oratore attico e maestro di
Demostene - sembra confermare
l'impressione che gli uomini della falange non soltanto conoscevano i membri
della trib che combattevano al loro
fianco durante la battaglia, ma anche i loro vicini in tutta la schiera; un
personaggio da lui citato ricorda all'uditorio di aver prestato servizio sia
nella trib sia nel demo durante le campagna di quel periodo (2.42). Teofrasto
racconta la nota storia del codardo che convoca i membri della trib e del demo
perch vedano che ha riportato
un caduto all'accampamento (25.3); chiaro che conosceva intimamente quegli
uomini e attribuiva grande valore
ai loro elogi. A Sparta gli uomini che mangiavano insieme in mensa erano
probabilmente schierati l'uno al fianco
dell'altro nella falange, affinch gli stretti vincoli che li legavano in tempo
di pace li unissero anche in battaglia
(Plut., Lyc. 12.13; Poi., Strat. 2.3.11; Sen., Cyr. 2.1.28). A Leuttra, Sfodria
e il giovane figlio caddero uno vicino
all'altro nel massacro generale dell'ala destra intorno al re Cleombroto: altra
indicazione del fatto che i parenti
stretti combattevano fianco a fianco (Sen., Hell. 6.4.14). Alcuni secoli dopo,
lo scrittore militare greco del I
secolo d. C. Onasandro, nel rievocare la guerra greca, concludeva che gli uomini
del passato combattevano
meglio quando il fratello si trova nella fila a fianco del fratello, l'amico a
fianco dell'amico, l'amante a fianco
dell'amante (p. 24).
Questi legami eccezionalmente solidi tra gli opliti costituivano semplicemente i
normali legami tra i guerrieri
delle falangi delle cittstato greche; non presupponevano cio un particolare
addestramento specifico o uno
sforzo concertato per costituire un corpo di lite. Abbiamo talvolta notizia di
contingenti scelti a Siracusa, a
Tebe e in diversi stati del Peloponneso, e possiamo solo pensare che il morale e
i vincoli tra gli uomini che li
componevano dovevano essere ancor pi eccezionali (si veda per esempio Pritchett
1971-1985, II, pp. 221-
224). Inoltre, alcune testimonianze indicano come in tutta la Grecia le amicizie
omosessuali fossero un fattore
che contribuiva al morale della singola falange; a Sparta, per esempio, la
separazione tra i sessi in tenera et,
insieme con alcuni atteggiamenti propri anche di altri greci rispetto al ruolo
delle donne, determinava
relazioni palesemente omosessuali che ruotavano intorno alla vita militare. Non
v' dubbio che questi solidi
legami avessero modo di esplicarsi anche sul campo di battaglia e contribuiscono
a spiegare l'eroismo degli
spartani, in particolare nelle sconfitte gloriose, dalle Termopi (480) a
Leuttra (371), in cui quegli uomini
preferirono l'annientamento all'onta della fuga. Tuttavia l'esempio supremo non
riguarda i dorici bens Tebe, il
cui battaglione sacro, composto da centocinquanta coppie omosessuali (una realt
sconosciuta perfino a
Sparta) combatt eroicamente per circa cinquant'anni nelle battaglie pi
disperate sostenute dalla citt, e fu
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completamente annientato a Cheronea (338); Filippo rimase colpito dallo
spettacolo del mucchio dei loro
cadaveri, che giacevano a coppie (Plut, Pel. 18-19; Mor. 761AD; Seti., Symp.
8.32).
La coesione che nasceva tra amici e familiari all'interno della falange greca
era il frutto dell'orgoglio che tutti
provavano affrontando insieme il pericolo. La battaglia condotta in questo modo
eliminava in sostanza i reparti
di retroguardia che non partecipano mai al combattimento vero e proprio, quei
combattenti che sono spesso
guardati con disprezzo dai soldati moderni e sono fonte continua di discordie in
tutto l'esercito: Qui il codice
dell'uomo esplicito. Il soldato degli scaglioni di retroguardia fonte di
rancore e oggetto di disprezzo perch fa
cattivo uso della decisione dell'autorit e perch rifiuta di far parte di una
comunit, di condividere un
sentimento (Stouffer, p. 135). Il legame che si crea combattendo insieme
evidente ancora oggi: anni dopo la
conclusione della seconda guerra mondiale, i veterani americani delle divisioni
corazzate della Terza Armata
ricordavano ancora con malcelato orgoglio di essere stati con Patton. Il loro
spirito ricorda in modo
impressionante quello dei veterani opliti ateniesi della carica di corsa (nuova)
a Maratona. Molto pi tardi, per
evocare a un uditorio pi giovane quella leggendaria esperienza collettiva di
battaglia, bastava che dicessero
semplicemente: Inseguivamo (Ar., Arch., 698).
11. L'alcol
Se non fosse stato per la razione di alcolici, non credo che avremmo vinto la
guerra.
Un ufficiale sanitario di un battaglione della Black Watch
E Dioniso ha una parte del dominio di Ares.
Euripide, Le Baccanti
L'uso, o forse sarebbe meglio dire l'abuso, di bevande alcoliche prima della
battaglia era un altro incentivo,
sia pure meno importante, cui ricorrevano gli opliti per reggere alla tensione
della guerra per falangi e far
fronte alla prima carica del nemico. La letteratura greca non mette in evidenza
il fatto che i comandanti dessero
agli opliti una razione di tali bevande in modo sistematico prima che si
mettessero in marcia, tuttavia chiaro
che in quasi tutti gli eserciti greci bere e ubriacarsi erano un'abitudine.
Neppure il fatto che di solito si taccia
sulla distribuzione di bevande una prova che gli opliti non combattevano sotto
l'influenza dell'alcol.
possibile che gli autori giudicassero irrilevante questo dettaglio per la
descrizione generale della battaglia, e
anche che fossero restii ad attribuire importanza al bere. Parlare di alcol
significa ventilare la possibilit di un
suo abuso, e questo poteva sia ritorcersi contro un generale qualora i suoi
soldati se la fossero cavata male sul
campo di battaglia, sia, perfino, sminuire la gloria dell'esercito vittorioso se
il nemico adduceva a scusante
della sconfitta la confusione provocata dall'ebbrezza. A ogni modo, l'immagine
dei soldati ubriachi appare
incompatibile con la nostra teoria del rigore, della disciplina e dell'ordine
necessari in una falange greca.
Quali vantaggi poteva offrire l'alcol in generale agli eserciti opliti? La
natura ritualizzata della battaglia
greca provocava una tensione crescente e incessante mentre le falangi si
schieravano una davanti all'altra,
ma al tempo stesso concedeva un momento di quiete prima della tempesta, durante
il quale i soldati
cercavano comprensibilmente in tutti i modi di corazzarsi contro il nervosismo.
Fin dai tempi di Omero i
greci sapevano che l'alcol aveva una certa efficacia analgesica contro i traumi
da ferita (11.11.863; 14.8). Pu
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darsi che molti soldati bevessero semplicemente per smorzare la sensibilit
fisica in attesa della ferita
imminente e dolorosa. Keegan, nello studio sulla pratica bellica occidentale, ha
sottolineato il ricorso
tradizionale a qualche droga tra i fanti:
Ma la prospettiva della battaglia, forse con l'eccezione del primo scontro di
una guerra o il battesimo del fuoco di un reparto
di reclute, sembra destare l'ansiet degli uomini, per quanto siano giovani e
vigorosi, invece di stimolarli nell'attesa.
Ecco quindi che si beve: una componente inseparabile della preparazione allo
scontro e dello scontro stesso. L'alcol, come
sappiamo, deprime i riflessi autoprotettivi e stimola cos la comparsa e la
sensazione del coraggio. Altre droghe producono
tale effetto, e in particolare la marijuana; il diffuso ricorso a essa
nell'esercito americano in Vietnam, per quanto turbasse
profondamente la coscienza della nazione, pu essere considerato pertanto una
risposta se non naturale, certamente
consacrata dal tempo, all'incertezza che tormenta i soldati di fronte alla
battaglia.
Il vino, com' risaputo, era la bevanda alcolica quotidiana preferita in tutto
il mondo mediterraneo antico, non
solamente una componente essenziale della dieta del cittadino medio, ma anche
una razione normale nel pasto
dell'oplite, un fatto inseparabile dalla vita militare in ogni campagna. Questo
stretto legame tra soldati e vino
sottolineato in tutta la storia della letteratura greca. Nel corso della
battaglia di fronte a Troia, per esempio, prima
di entrare nella pugna:
Non sfugg a Nestore il grido, bench stesse bevendo,
ma parl all'Asclepiade parole fuggenti:
Attento, gran Macaone, come accadr questa cosa!
Cresce presso le navi il grido dei giovani forti.
Tu qui seduto continua a bere il vino colore di fiamma
fino a che caldo lavacro Ecamede bei riccioli
scaldi e ti lavi il sangue raggrumato:
ma io sapr subito, andando alla vendetta. (11.14.1-8)
Anni dopo Archiloco cantava:
Lancia: pane impastato; lancia: vino d'Ismaro per me. Lancia: mio letto
conviviale. (Archil., 2)
La sensazione dell'ubiquit del vino nella vita militare si ricava anche dai
diversi riferimenti alle razioni normali
del soldato oplite quando era in marcia: fichi, formaggio e vino (Sen., An.
6.2.3-4; 6.1.15; Ar., Av. 544-554; Pax
1129; Tuc, 3.49.3; Plut., Lyc. 12). Durante i negoziati sugli spartani
intrappolati a Pilo, per esempio, gli ateniesi
concessero loro un paio di litri d'acqua e mezzo litro di vino al giorno (Tuc,
4.16.1). Nella Ciropedia, Senofonte
narra che Ciro prepar i soldati a una marcia attraverso il deserto passando
gradualmente dal vino all'acqua, e
ci suggerisce che un'eliminazione immediata della normale razione di vino
sarebbe stato un colpo troppo
duro per molti soldati, che la consideravano una necessit quotidiana
(6.2.28-29). Diverse fonti indicano che
molti opliti viaggiavano portando con s una tazza o una fiasca di vino ed erano
sempre pronti, non appena ne
avevano l'opportunit, a mandare gi un sorso (Archil., 4; Ar., Ach. 549; Plut.,
Lyc. 9.4).
Maggiore importanza hanno le indicazioni sul fatto che i soldati spesso bevevano
troppo. Quando erano
ubriachi gli opliti potevano farsi turbolenti e indisciplinati, diventando, a
causa dell'indisciplina, sia un
pericolo per il comandante sia una facile preda per il nemico. Senofonte osserva
che durante l'invasione di
Corf del 374 i mercenari condotti dagli spartani saccheggiarono a piene mani
l'intera isola, consumando
solamente i vini locali migliori. Subito dopo essere sbarcati, probabilmente, si
erano messia bere, col
risultato di avere il morale a pezzi e di essere vulnerabili ai contrattacchi.
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Victor Davis Hanson - Volume Primo. L'Arte Occidentale Della Guerra.txt
Quando finalmente furono cacciati
dagli indigeni, abbandonarono le riserve di vino e cereali (Hell. 6.2.5 ss.). La
medesima successione di eventi
presentata da Menandro in Aspis (53 ss.), quando Davo spiega come il suo reparto
sia stato fatto a pezzi da
un'incursione nemica: tutti gli uomini si erano ritirati nelle tende, istupiditi
dall'alcol (si veda anche Polib.,
5.48.1-5). Il generale macedone Antigono - si narrava - aveva cacciato alcuni
suoi uomini sorpresi in stato di
ubriachezza, i quali sembra giocassero a palla con la corazza ancora indosso
(Plut, Mor. 182 A 2). Nel IV
secolo Demostene, in un'orazione contro Conone, ramment all'uditorio ateniese
che i figli di questi, quando
erano di guarnigione nel forte di Panatto ai confini dell'Attica, si erano
ubriacati e avevano ingiuriato i
compagni; soltanto il tempestivo intervento dei loro ufficiali li aveva salvati
da una reazione violenta
(54.4). Senofonte, nella Costituzione degli spartani (5.7), ricorda la pratica
spartana della mensa in base alla
quale gli opliti dovevano tornare ai loro quartieri senza l'aiuto di una torcia,
evidentemente un tentativo
formale di evitare che gli uomini si ubriacassero.
Le indicazioni desunte dalla letteratura greca dimostrano dunque che ai fanti
veniva concessa tutti i
giorni una razione di bevande alcoliche, e che gli uomini finivano spesso per
ubriacarsi prima o subito
dopo la battaglia, con effetti disastrasi per l'incolumit di tutto l'esercito.
Bisogna tuttavia fare una
distinzione importante. Le nostre informazioni stanno forse anche a indicare che
gli opliti bevevano di
proposito prima del combattimento per calmare i propri nervi in vista dello
scontro e che l'uso dell'alcol
era permesso perch se ne riconosceva l'effetto positivo sugli uomini?
Innanzitutto, numerosi resoconti sulle battaglie degli opliti fanno riferimento
al pranzo di met mattina,
quando entrambi gli schieramenti consumavano l'ultimo pasto prima della
battaglia pomeridiana. Proprio a
quest'ultimo pasto tradizionale fa riferimento Leonida nel celebre commiato
d'augurio ai Trecento di Sparta
prima dello scontro finale alle Termopi; dopo aver comandato ai soldati di
nutrirsi bene, aggiunse che
quella notte avrebbero cenato nell'Ade (Diod., 11.9.4; Plut., Mor. 225 D 13).
Polibio rileva che durante la
seconda guerra punica i cartaginesi furono colti di sorpresa sul fiume Trebbia e
non ebbero la possibilit di
consumare il pasto consueto, e infatti soffrirono la fame durante la battaglia
che segu (3.72.5-7). Sappiamo
che per tutti gli opliti l'alcol era parte integrante della razione quotidiana;
i soldati erano poi inclini a bere
troppo nelle celebrazioni dopo la battaglia o durante il riposo
nell'accampamento. probabile che in effetti
molti di loro bevessero vino nel pasto tradizionale di met mattina, subito
prima della battaglia. Senofonte
racconta che nel 378 l'esercito di invasione di Agesilao poteva rimanere
tranquillo ogni giorno nell'attesa di
scontrarsi con i difensori tebani nello stesso luogo presso le loro
fortificazioni, poich comprese che anche i
nemici comparivano sempre dopo la colazione (Hell. 5.4.40-44). A un certo
momento la cavalleria tebana,
di solito molto forte, fu inspiegabilmente ricacciata da quella spartana, di
minor consistenza, affiancata dagli
opliti pi giovani e mobili. La ragione, secondo Senofonte, fu che avevano
scagliato stupidamente le lance
ben prima che i soldati nemici fossero a portata; l'autore osserva che i
cavalieri tebani avevano agito come
uomini che avessero un po'"bevuto a mezzo giorno. Senofonte intende allora
dire che avevano consumato
troppo vino durante il pasto tradizionale che precedeva la battaglia, oppure
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Victor Davis Hanson - Volume Primo. L'Arte Occidentale Della Guerra.txt
afferma semplicemente che quei
soldati incauti gli ricordavano coloro cui capitava di eccedere durante il pasto
fatto di pane, formaggio e
vino?
In altre occasioni abbiamo notizia di un tentativo deliberato di sollevare il
morale dei soldati che si accingono
ad attaccare. Plutarco, nella vita di Dione, dichiara esplicitamente che
Dionisio forn ai suoi uomini una forte
bevanda prima che caricassero: Di buon mattino dopo aver rimpinzato di vino
sincero i mercenari li lanci
di corsa contro il muro con cui i siracusani lo avevano accerchiato (Dione
30.3-4).
Nella letteratura greca un esempio migliore formato dalla descrizione di
Senofonte della catastrofe spartana
a Leuttra. L'autore ci ricorda come la confusione iniziale tra le file spartane
durante la battaglia, che scaten una
successione di errori fatali, fosse stata determinata in parte dal vino che i
soldati avevano bevuto prima del
combattimento.
Comunque anche vero che in questo combattimento tutto and contro gli spartani
e tutto bene per Tebe: anche da
parte della fortuna. Infatti: Cleombroto tenne l'ultimo consiglio di guerra dopo
il pasto del mattino; e, avendo i membri
del consiglio un po'"bevuto a mezzo giorno, corse voce che il vino avesse
contribuito ad eccitarli. (Hell. 6.4.8-9)
Forse questo spiega perch Cleombroto lanci la carica contro i tebani prima
che gli uomini del suo
comando si fossero accorti che egli si era messo alla testa (6.4.13). Tanto
nel resoconto sulla temerariet con
cui i tebani affrontarono Agesilao, quanto in quello sulla confusione tra gli
spartani a Leuttra, Senofonte
riconosce che la razione di vino consumata prima della battaglia aveva forse
eccitato i soldati oltre misura. Le
bevande, piuttosto che corazzarne i nervi nell'imminenza dello scontro, potevano
invece compromettere le loro
possibilit di successo a causa dell'avventatezza provocata dall'alcol. Va detto
comunque che nella maggior
parte dei casi gli opliti, saggiamente, dovevano bere solo quanto bastava per
calmarsi, evitando di eccitarsi
troppo. inoltre possibile che la maggior parte degli autori considerasse
affatto normale questa pratica
abituale: ancora una volta emerge l'eccezione pi che la regola, leggiamo gli
episodi in cui i soldati si
ubriacavano invece dell'ultima abituale bevuta prima dell'attacco, meno
eccitante e pi banale.
Gli antichi soldati greci andavano dunque in battaglia ubriachi? La risposta pi
verosimile quasi. Sarebbe
ingenuo pensare che l'oplite greco, il quale beveva tutti i giorni sia in casa
sia durante la marcia, non avesse
compreso che una o due coppe di vino in pi durante l'abituale ultimo pasto
potevano frenare la sua paura,
intorpidire la sua sensibilit di fronte alle ferite fisiche e all'angoscia
mentale e rendere enormemente pi
tollerabile il dovere terribile di affrontare la falange nemica.
PARTE QUARTA
Battaglia!
De l'audace, encore de l'audace toujours de l'audace.
Danton
12. La carica
Fu dato l'ordine di attaccare, e gli ateniesi si lanciarono di corsa contro i
barbari. La distanza che li separava non era meno di
otto stadi. I persiani li vedevano avanzare di corsa e si disponevano a
riceverli: convinti, nello scorgerne il numero scarso e come
si affrettassero e corressero senza disporre n di cavalleria n di arcieri, che
fossero pazzi e destinati a morte certa. Cos
pensavano i barbari. Ma gli ateniesi combatterono - quando, a schiere serrate,
vennero a contatto con loro - in maniera degna
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Victor Davis Hanson - Volume Primo. L'Arte Occidentale Della Guerra.txt
di elogio. Primi, fra tutti gli elleni che noi conosciamo, mossero di corsa
contro il nemico, e primi sostennero la vista degli abiti
dei medi e degli uomini che li indossavano. Fino allora, il solo nome dei medi
ispirava, a udirlo, terrore negli elleni.
Erodoto, a proposito della carica a Maratona
C'est magnifique, mais ce n'est pus la guerre.
Il maresciallo Bosquet a proposito della carica della Brigata leggera
La necessit di avanzare
Dopo che i soldati si erano schierati in formazione e avevano ascoltato l'ultima
arringa del loro generale, quando
ormai non c'era altra scelta che andare incontro al nemico, restava soltanto il
problema di far marciare i soldati
attraverso la pianura. Dobbiamo pensare che avesse sempre luogo una collisione
frontale, semplice, tra le
opposte falangi in corsa, al centro della terra di nessuno? Talvolta abbiamo
notizia di uno spostamento dei soldati
lungo la linea dello scontro all'ultimo momento, nel tentativo evidente di
rafforzare un contingente alleato che
poteva essere particolarmente efficace contro il nemico al di l della pianura
(Erod., 9.26-27). Altre volte gli
scontri iniziali di cavalleria coprivano i movimenti delle truppe o creavano
confusione tra le file nemiche,
favorendo l'avanzata degli opliti che seguivano (Tuc, 7.6.3; 6.69.2; Sen., Hell.
6.4.1; Polib., 2.66.4). Non era raro
che si mandassero avanti degli scorridori per saggiare le reazioni della falange
nemica (Diod., 15.32.4; Tuc, 4.33;
5.10), e di quando in quando si verificavano ritirate o un totale scompiglio
prima ancora che la battaglia avesse
inizio (Tuc, 5.10; Sen., Hell. 3.2.17; 4.3.17; 7.1.31).
Un interrogativo a cui pi difficile rispondere perch uno schieramento non
si limitava a star fermo, in
ginocchio, coprendosi con gli scudi e con le lance spiegate, il puntale piantato
per terra: ci avrebbe costretto il
nemico a tentare la sorte cercando di farsi strada in quel muro praticamente
impenetrabile di bronzo e di ferro. I
persiani avevano usato con buon successo questa tattica a Micale, quando il loro
fitto muro di scudi aveva
resistito per un breve momento alla carica dei greci, per essere infine
sopraffatto (Erod., 9.993). Nelle battaglie
tra i greci la prima fila, tenendosi china e con il rinforzo di sette linee alle
sue spalle, avrebbe costituito un ostacolo
molto serio tanto per gli uomini quanto per gli animali, sia pure incolonnati e
lanciati alla carica. Un muro ben
fermo offriva in realt una linea ininterrotta di scudi di bronzo, molto pi
compatta di quella ondeggiante di
una falange in movimento.
In casi rari abbiamo notizia della tattica che prevede che la falange resti
ferma, per cos dire trincerata senza
spostarsi. Spesso per in quei casi i soldati che adottavano questo schieramento
non venivano neppure attaccati
dalla colonna nemica, fattasi improvvisamente timorosa. questa forse la
ragione per cui i dipinti su vaso ci
mostrano gli opliti che attendono il nemico su un ginocchio o semplicemente
appoggiandosi l'uno all'altro.
Protendendo la lancia, si coprono il corpo con lo scudo, appoggiato per terra
oppure appeso alla spalla (Ducrey,
tav. 84; Snodgrass 1967, tav. 38). Quando nel 378 Cabria e i suoi difensori
della Beozia, soverchiati
numericamente, si attestarono tranquillamente su una buona posizione,
appoggiarono gli scudi per terra
aspettando la carica spartana (Diod., 15.32.4-6). Da parte di Agesilao e dei
suoi spartani fu saggio indietreggiare, avendo compreso evidentemente quanto
fosse difficile sfondare uno schieramento disciplinato
attestato su una posizione tanto favorevole. Anche a Pilo (425) l'esercito
spartano che non temeva rivali rimase
disorientato di fronte a un nemico che rifiutava di avanzare; la fanteria
pesante ateniese si attest mentre i
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soldati armati alla leggera attaccavano i fianchi spartani, i cui uomini si
ritrovarono spossati prima ancora di
aver raggiunto il quadrato ateniese. Il resoconto di Tucidide suggerisce che
l'esercito ateniese all'inizio era
avanzato contro gli spartani, quindi si era arrestato di colpo e, trovata una
posizione sicura, aveva mandato
avanti gli scorridori, aspettando fiducioso la prevista avanzata degli spartani
(4.33 ss.).
La situazione creatasi nella prima battaglia di Mantinea del 418 simile: gli
argivi si erano attestati su una
posizione solida attendendo l'attacco degli spartani, e prevedibilmente questi
ultimi, che non erano raffinati
strateghi, continuarono ad avvicinarsi finch un anziano dell'esercito mise in
guardia Agide, il generale,
contro quest'avanzata sconsiderata; a quel punto al generale non rimase altra
scelta che ordinare agli uomini di
ritirarsi (Tuc, 6.65). Anche in questo episodio alquanto insolito gli uomini si
erano schierati in una posizione
favorevole, seppure nient'affatto inaccessibile, e si preparavano fiduciosi a
reggere l'urto del nemico; in una
simile situazione potevano senz'altro tenere testa alle forze superiori
schierate contro di loro. La chiave del loro
successo, se questa la parola giusta per indicare la scelta di non ingaggiare
battaglia, fu in parte il terreno favorevole e una tattica accorta, ma
soprattutto la forza di volont di uomini che seppero mostrarsi risoluti di
fronte
alla carica della colonna nemica (per esempio Tuc, 4.73).
Questi episodi, tuttavia, erano pi un'eccezione che la regola: di solito gli
eserciti prendevano posizione
quasi di comune accordo e attaccavano simultaneamente. Che la pratica in Grecia
fosse questa dimostrato
dai casi in cui una falange si trova chiaramente in posizione superiore, con la
certezza di poter resistere a
qualunque attacco, e tuttavia preferisce rinunciare al vantaggio per affrontare
l'avversario avanzando.
L'esempio migliore quello della battaglia del Pireo del 403, quando gli esuli
di Trasibulo, in inferiorit
numerica, si schierarono su un colle da cui dominavano le superiori forze dei
Trenta tiranni. Gli uomini si
disposero in colonne della profondit inconsueta di cinquanta scudi, ed erano
inoltre affiancati da un numero
adeguato di contingenti di soldati con armi leggere e da lancio. Quindi si
misero ad aspettare la carica in
salita del nemico con gli scudi appoggiati per terra; prima dello scontro,
Trasibulo parl agli uomini dei
numerosi vantaggi di cui godevano, ricordando loro giustamente che per gli
uomini costretti ad avanzare in
salita era difficile scagliare il giavellotto, e al contempo costituivano un
facile bersaglio per chi li prendeva di
mira con armi che piovevano immancabilmente addosso a loro. In breve, era la
posizione ideale per attestarsi, e
in effetti il racconto di Senofonte indica che all'inizio il piano era proprio
questo: morale superiore, terreno
favorevole, scudi appoggiati per terra, i soldati fermi e schierati in un numero
di file inconsuetamente alto per
assorbire l'impatto con un nemico gi in difficolt per l'attacco in salita. Ci
che accadde da quel momento non
ha nessun senso, a meno che non lo si consideri un esempio dell'impulso naturale
e onnipresente, ma non per
questo meno scriteriato, della falange greca a caricare. Trasibulo, dopo aver
rammentato ai soldati i vantaggi
della loro posizione, d'improvviso lanci l'ordine di avanzare, guidando gli
uomini in discesa contro la falange
del nemico e irrompendo nel centro della loro colonna (Sen., Hell. 2.4.11-20).
Se il comportamento di
Trasibulo ci appare incomprensibile, in quanto baratt la sicurezza di una
posizione fissa con il pericolo di
scompaginare le file nella carica in discesa, rendendo inoltre pi breve la
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marcia dell'esausto avversario,
consideriamo la posizione dei suoi nemici, i quali aggravarono l'errore iniziale
stancandosi in un attacco in
salita. Il medesimo errore nell'attacco era stato compiuto dagli ateniesi in
passato, a Delio nel 424, quando
anch'essi avevano caricato in salita gli opliti beoti, che si erano precipitati
verso il basso per incontrarli (Tuc,
4.96.1), nonostante Epaminonda avesse consigliato di non attaccare mai il nemico
da una posizione inferiore
(Sen., Hell. 7.5.8). Pertanto, se i soldati erano disposti a rischiare la
sconfitta caricando in salita, possiamo
comprendere il loro desiderio di combattere avanzando quando entrambi gli
schieramenti si trovavano sul piano, terreno abituale degli scontri.
I problemi creati da un nemico che, con gli scudi ben appoggiati, rifiutava di
avanzare o si attestava
saldamente su una posizione superiore, preoccupavano i comandanti ma in genere
non impedivano agli
eserciti di cercare di lanciarsi contro il nemico. A mio avviso, questa tendenza
degli opliti greci a scontrarsi
ove possibile avanzando entrambi nasceva da quattro ragioni. La prima, presente
tuttora nella pratica militare
occidentale, naturalmente che la formazione in colonna stata concepita
specificamente per l'attacco, quali
che fossero le circostanze, e ci riporta alle origini della battaglia oplite,
quando i piccoli proprietari terrieri
decidevano di rinunciare alla sicurezza delle citt cinte di mura per cacciare
il nemico dalle loro terre
coltivate con uno sforzo concertato. Non si deve sottovalutare la forza di
questa tradizione, giacch proprio
questo impulso ad attaccare, a far qualcosa, a mettersi in movimento, ha
provocato tanti disastri rovinosi,
quali le cariche in Crimea, a Gallipoli e sulla Somme. AU" oplite greco dell'et
classica il trinceramento in attesa
che la falange nemica avanzasse doveva sembrare non meno disonorevole del
ricorso agli archi, delle
scaramucce o dell'opera di appoggio del soldato armato alla leggera, tutti
miseri surrogati della battaglia
campale nella quale le due parti si scontravano frontalmente. Ci spiega perch
in un certo senso gli eserciti
sembravano restare sorpresi di fronte a un nemico che non avanzava, quasi questo
avesse infranto una regola. A
Mantinea, per esempio, Agide non sa se attaccare in salita gli argivi, e nel 378
Agesilao esita davanti a Cabria in
Beozia, come se si sentisse costretto ad avanzare anche in circostanze
sfavorevoli, coerentemente con il
vecchio, rassicurante modo di combattere.
Nella guerra greca, che era per convenzione battaglia di un giorno, tutta
l'atmosfera prima dello scontro - le
grida e i canti intonati dalla falange, il fatto che si bevesse vino prima della
battaglia, l'attesa di un'arringa del
comandante - era pi propizia all'attacco che alla difesa. Le attivit abituali
che precedevano la battaglia
avevano lo scopo di invogliare l'oplite ad avanzare e non di tranquillizzarlo
affinch mantenesse la disciplina,
restasse fermo e attendesse la carica del nemico. Anche i soldati dovevano
sapere che se non si avanzava a
partire dal momento in cui la battaglia era cominciata si finiva per essere
sconfitti. Durante il combattimento era
essenziale spingere e premere, e i primi presagi della sconfitta non erano
necessariamente un arretramento, ma
piuttosto il mancato avanzamento, che scatenava il timore paralizzante che
stesse per verificarsi una contropressione inevitabile e incontrastabile. Per la
fanteria greca assumere questa attitudine significava riconoscere,
in uno strano modo, che la battaglia era gi mezza perduta, che i soldati non
potevano pi prendere
l'iniziativa.
In terzo luogo, esistevano ragioni pratiche per mettere gli uomini in
movimento. L'esperienza aveva insegnato
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agli opliti che il modo migliore per trafiggere con le proprie armi il bronzo e
il legno degli scudi e delle corazze
nemiche era acquistare velocit prima che i due schieramenti si mescolassero e
diventasse impossibile sferrare
un colpo di lancia preciso e realmente violento. Il desiderio dell'uomo armato
di lancia di andare a colpo
sicuro, di abbattere l'avversario con un solo colpo violento, era un potente
narcotico, e non c'era spazio
neppure per un ragionamento razionale: per esempio, la velocit stessa che il
soldato acquisiva correndo poteva
anche farlo infiggere sulle lance protese dei nemici inginocchiati oppure
scompigliare la linea degli scudi del
proprio schieramento. Era infatti risaputo che proprio la corsa offriva le
opportunit migliori di penetrare nella
corazza del nemico.
Infine, c'era sempre il pericolo di un attacco con armi da lancio. Molti fanti
sapevano quali danni potevano
infliggere, anche a uomini chiusi nella corazza, i frombolieri bene addestrati,
gli arcieri o i lanciatori di
giavellotto. Nessuno desiderava star fermo permettendo al nemico di prendere di
mira un bersaglio fisso: un
atteggiamento che avrebbe significato in sostanza essere vittima di una pioggia
di frecce, come i superstiti spartani
alle Termopi. Coprire di corsa gli ultimi duecento metri della terra di
nessuno, come avevano dimostrato gli
opliti a Maratona, limitava il tempo di esposizione all'attacco finch ci si
metteva al riparo nella mischia
generale (cfr. Arr., Anab. 2.10.3).
Dopo che i soldati si erano schierati in formazione e le falangi si erano
disposte a quadrato sul luogo
concordato della battaglia, la guerra greca perdeva di colpo la compattezza
delle colonne perfettamente
disegnate. Il momento in cui aveva fine l'ordinata disposizione per quadrati non
era, come molti pensano,
quello in cui i due schieramenti entravano in contatto, ma spesso quello stesso
in cui gli uomini cominciavano
ad avanzare al piccolo trotto, a una velocit di settenove chilometri all'ora.
Era assai raro che la disciplina si estendesse all'intera schiera dei
contingenti alleati, una falange che poteva
avere un fronte lungo anche un chilometro. Allorch la marea degli opliti
montava, era perci raro osservare
simultaneit di partenza, eguale velocit dell'avanzata o uniformit di
direzione della corsa. Nella maggior
parte dei casi l'attacco degli eserciti greci somigliava pi all'impeto di una
folla armata che alla marcia di
soldati disciplinati in formazione ordinata, pur essendo vero che sia le fonti
antiche, sia quelle moderne ci
mostrano, da parte degli spartani, il quadro di un'avanzata ordinata e precisa.
Basandosi sulle testimonianze
letterarie, Pritchett osserva per esempio:
...la successione degli eventi doveva essere la seguente: il comandante in capo,
si trattasse di un generale o di un re, dava
l'ordine di avanzare intonando il peana. Il trombettiere suonava l'avanzata e i
soldati si univano al canto, sia che l'avanzata
avvenisse a velocit normale, sia a una maggiore. Tutto indica che il peana era
una specie di inno o canto, e l'uso della
parola peana in altri contesti lo conferma [...] Il canto iniziava quando gli
eserciti si trovavano a una distanza di tre o
quattro stadi. Quando lo scontro era imminente, al peana subentrava il grido di
guerra.
La celebre descrizione di Tucidide dell'avanzata spartana nella prima battaglia
di Mantinea (418) forse la
migliore illustrazione del modo in cui gli spartani muovevano di solito contro
il nemico:
Dopo di ci avvenne lo scontro, gli argivi e gli alleati avanzando con impeto e
con furore, i lacedemoni lentamente e al
suono di molti flautisti, che secondo la consuetudine erano stati schierati in
mezzo a loro, non per seguire un rito, ma
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perch i soldati avanzassero camminando in modo uniforme e a tempo e lo
schieramento non si scompaginasse, come
fanno di solito i grandi eserciti quando si scontrano. (5.70).
Questa successione di eventi doveva verificarsi, a quanto leggiamo, in quasi
tutte le battaglie cui prendevano
parte gli spartani, i soli veri soldati di professione della Grecia antica; ma
in realt si tratta di un quadro
idealizzato anche dell'esercito spartano, che spesso non seguiva questa
procedura da manuale. Nella battaglia
del fiume Pattolo, per esempio, Agesilao ordin alle prime dieci classi di et
di caricare di corsa il nemico (Sen.,
Hell. 3.4.23). Inoltre, come osserva lo stesso Tucidide, la maggioranza degli
altri eserciti, in particolare gli argivi,
tendeva a essere molto pi disorganizzata. Ben pochi eserciti dell'antica Grecia
avrebbero potuto reggere
all'urto di una falange di picchieri svizzeri, un modello di velocit e di
disciplina reso possibile indubbiamente
sia dalla corazza pi leggera sia dalla composizione uniforme delle colonne:
Non occorrevano indugi per schierare in linea di battaglia un esercito composto
da tanti piccoli contingenti: uno
schieramento che altrove scatenava molte controversie e ritardava l'allestimento
di contingenti militari in et medievale.
Ciascuna falange marciava sul nemico a una velocit costante ma elevata,
coprendo il terreno in un tempo incredibilmente
breve. Se leggiamo i resoconti dei loro nemici, apprendiamo che l'avanzata di un
esercito svizzero aveva in s qualcosa di
prodigioso; la massa di picche e di alabarde arrivava ondeggiando sulla sommit
di una collina o dal profondo di un bosco,
un attimo dopo si era gi avvicinata e poi, quasi prima che il nemico avesse
avuto il tempo di rendersi conto della sua
posizione, era su di lui, con quattro file di punte di picca protese in avanti e
l'impeto delle file arretrate che si propagava
in avanti. (Oman, II, p. 256)
I problemi di un'avanzata nascevano in primo luogo dal fatto che non tutti gli
opliti dei singoli contingenti -
vale a dire il centro e le due ali dell'esercito - avanzavano
contemporaneamente; inoltre i componenti della
medesima falange non erano sempre consapevoli che le file davanti a loro
avessero cominciato a marciare.
Ovviamente, quando venivano meno coesione e uniformit dell'esercito nel suo
complesso, in realt non era mai
possibile ripristinarle, come ben sapevano gli accorti spartani, che infatti
avanzavano con lentezza: essi
dovevano pensare che un'esposizione pi lunga ai proiettili che venivano
scagliati loro e la concomitante
perdita di slancio nella collisione non fossero tanto importanti, purch la
falange potesse perlomeno
raggiungere la linea nemica nella formazione originale. Il loro successo sul
campo di battaglia fino a Leuttra
(371) indica come avessero ogni ragione per credere che una carica di corsa
rischiava di aprire dei vuoti letali
nelle file della falange. A preoccupare gli spartani erano situazioni come
quella creatasi a Mileto nel 413, in
cui gli argivi si erano avventati di colpo contro i soldati di Mileto dall'altra
parte del campo di battaglia,
lasciando indietro di molto la falange degli ateniesi che occupava il centro
della linea alleata e sconvolgendo in
tal modo il piano di attacco (Tuc, 8.25.3). Anni dopo, a Corinto, gli argivi si
precipitarono di nuovo all'attacco
con furia, causando lo scompiglio nella loro stessa falange e nell'avanzata
dell'intero esercito. Anche se
sconfissero una falange di soldati di Sicione schierata davanti a loro, ben
presto furono a loro volta isolati e
sopraffatti dagli spartani (Sen., Hell. 4.3.17). Gli uomini delle diverse
cittstato, chiusi nelle corazze e separati
da centinaia di metri anche quando combattevano nel medesimo schieramento,
avevano una visione particolare
dei contingenti nemici schierati di fronte a loro; molti eserciti composti da
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pi stati non erano altro che una
coalizione poco compatta e di conseguenza era infrequente che coordinassero
l'attacco: o non udivano o
ignoravano volutamente il segnale per l'avanzata generale. Ma il fatto di
maggior rilievo che uomini
abbastanza vicini tra loro nel medesimo contingente tribale non sempre sapevano
che cosa stesse accadendo:
proprio ci che Tucidide vuole dire quando osserva che i grandi eserciti non
marciano uniformemente contro il
nemico e anzi lo raggiungono in disordine. Il pessimo comportamento dei
siracusani nella prima battaglia
contro la fanteria ateniese in Sicilia nel 415 fu provocato dalla confusione dei
primi momenti della battaglia:
alcuni soldati non erano neppure entrati nella formazione allorch gli ateniesi
scatenarono il loro attacco.
Sembra che si fossero mossi tardi, cercando di occupare un posto qualunque nelle
file mentre la loro falange si
metteva in movimento (Tuc, 6.69.1). Anche la marcia spaventevole, agghiacciante
dei professionisti spartani che
tanto impression Tucidide poteva benissimo sfaldarsi di fronte alla dura realt
del campo di battaglia. A
Leuttra, dopo aver preso ad avanzare in disordine, non ritrovarono pi la
coesione. Senofonte narra che il re
spartano Cleombroto lanci l'attacco prima che il suo esercito si fosse accorto
che egli si era messo alla testa
(Hell. 6.4.13). I suoi alleati peloponnesiaci all'altra estermit dello
schieramento, se non buona parte degli
spartani vicini, non avevano neppure sentito il loro comandante segnalare la
carica. Se le grida generali e i
rumori sullo sfondo rendevano arduo per l'oplite con l'elmo udire l'ordine di
avanzata, restava l'alternativa di
trasmettere l'ordine lungo lo schieramento a voce, una procedura che avrebbe
determinato fin dal principio una
certa rottura di continuit (si veda per esempio Plut., Arist. 18).
La corsa
Numerose fonti riferiscono della difficolt di far marciare gli uomini allo
stesso passo, mantenendo
costantemente la formazione, dopo che si erano messi in movimento. Senofonte
descrive il modo in cui i soldati
mercenari tra i Diecimila si lanciavano grida per mantenere l'ordine di marcia
ed evitare di precipitarsi
disordinatamente in avanti quando inseguivano il nemico (An. 1.8.9). Filopemene,
il generale della Lega Achea
della fine del II secolo, a detta di Polibio sorvegli attentamente l'ordine
quando lanci la sua falange all'attacco
di corsa a Mantinea (11.15.2). Tutto ci non sorprende affatto, giacch la
marcia doveva spossare in breve tempo
la maggior parte degli opliti e li stancava in misura diversa, non tanto in
relazione all'avanzata generale delle
colonne, quanto piuttosto a seconda dei limiti della resistenza individuale di
ciascun oplite: un modo di
procedere decisamente incerto se si tiene presente che nella falange erano
disseminati una quarantina di diverse
classi di et. Oggi sappiamo che la storia di Erodoto sulla corsa ateniese di
un miglio a Maratona per
l'appunto una storia. Gli studi moderni sulla resistenza fisica in siffatte
condizioni hanno appurato che un paio di
centinaia di metri il massimo che possono coprire uomini con armatura pesante
a una velocit di ottonove
chilometri l'ora, tenendo ancora lo scudo all'altezza del petto, se vogliono
conservare energie sufficienti per la
battaglia. Nelle prove condotte ai giorni nostri, dopo circa trecento metri
anche una semplice formazione su due
file si disgrega per spossatezza (Donlan e Thompson 1976; 1979). Il quadro che
ne risulta quindi di una
formazione di opliti che si avvicinava al nemico al passo, finch non riteneva
di aver ridotto le distanze fino al
punto (circa duecento metri) dal quale era possibile mettersi al trotto. Se
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entrambi gli schieramenti avanzavano a
otto chilometri l'ora, si sarebbero scontrati dopo meno di due minuti. Un buon
esempio la battaglia di Coronea
del 394: sia i tebani che gli spartani avanzarono al passo fino a trovarsi a una
distanza di duecento metri; allora i
tebani lanciarono la carica e quando ebbero ridotto le distanze a cento metri,
anche gli avversari spartani si
gettarono in avanti per scontrarsi con il nemico (Sen., Hell. 4.3.17).
La decisione circa il momento in cui lanciare la carica finale di corsa veniva
presa inevitabilmente fidando
sul proprio buon naso; in genere i comandanti non potevano calcolare con
precisione quando lanciare
l'attacco perch era difficile giudicare la velocit esatta del nemico,
anch'esso in movimento. Il terreno e le sue
condizioni, l'ora del giorno, lo stato emotivo dei soldati e la capacit di
passare rapidamente parola erano fattori
ulteriori. In breve, se in alcuni casi gli eserciti attendevano troppo prima di
lanciare la carica e si trovavano di
fronte una massa nemica che si muoveva pi veloce e con maggior impeto, pi
spesso gli opliti si lanciavano
troppo presto, nell'ansia di raggiungere il nemico alla massima velocit. Nel
secondo caso si stancavano in
fretta, finivano per trascinarsi e si ritrovavano decisamente in svantaggio
quando finalmente cominciavano a
combattere. I meno resistenti, che potevano essere i soldati sopra la trentina e
quelli rallentati da vecchie ferite
e da malanni vari, perdevano rapidamente il passo man mano che i pi giovani e
meno esperti si lanciavano in
avanti. Fu cos che Diomilo e i suoi seicento siracusani furono agevolmente
sconfitti dagli ateniesi, giacch, ci
riferisce Tucidide, avanzarono con quanta pi fretta potevano [...] ma vi erano
non meno di venticinque
stadi [...] prima di venire alle mani. Quest'avanzata eseguita in modo
disordinato nel corso della
spedizione ateniese in Sicilia decise la loro sorte (6.97.4-5). Tucidide precisa
che quando finalmente
raggiunsero il nemico, la coesione della loro falange era ormai perduta, tanto
che si erano trasformati in un
esercito di individui. Si tratta di un caso estremo, ma molti eserciti entravano
in contatto col nemico in ordine
sparso. Nel 422 ad Anfipoli, per esempio, il generale spartano Brasida osserv a
proposito della disordinata
avanzata ateniese che i soldati disposti a quel modo, tra teste e lance che
ondeggiavano, non avrebbero mai
resistito alla carica (Tuc, 5.10). La prospettiva di un'avanzata disordinata a
passo di corsa preoccup i mercenari
greci a Cunassa quando il loro comandante Clearco li fece mettere in marcia a
circa ottocento metri di distanza,
attendendo per di lanciarli alla carica finch si trovarono a tiro d'arco,
probabilmente duecento metri o
meno. Diodoro spiega che Clearco si preoccupava sia di conservare le energie
degli uomini per la battaglia,
sia di limitare il tempo di esposizione al diluvio di proiettili scagliati dai
persiani (14.23.1-2; Poi., Strat.
2.2.3): aveva certamente visto numerose falangi mettersi a correre troppo
presto, ritrovandosi disorganizzate,
esauste e prive di una vera forza di penetrazione quando giungevano a contatto
con le lance del nemico.
Le difficolt non riguardavano solo la velocit, ma anche la direzione
dell'avanzata. Soltanto i soldati delle
prime tre file della falange vedevano distintamente il nemico e avevano perci
un'idea del punto in cui si
sarebbe verificato lo scontro. Nonostante fosse estremamente improbabile che le
due falangi potessero
mancarsi completamente, le testimonianze indicano che ben difficilmente le due
parti attaccavano in linea
retta, preferendo invece scontrarsi obliquamente, e questo fatto, insieme con la
difficolt della corsa e
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l'incertezza sul momento della partenza, non faceva che aggravare la confusione
generale. Gli opliti delle
prime file dovevano sapere che gli uomini che si trovavano esattamente davanti a
loro dall'altra parte del
campo di battaglia probabilmente non erano quelli con cui si sarebbero
scontrati. Tucidide, nell'accurata
descrizione della battaglia di Mantinea del 418, ricorda la tendenza peculiare
di molti eserciti in marcia a
deviare verso destra, talvolta in misura molto accentuata, poich ogni oplite
voleva riparare il proprio fianco
destro vulnerabile dietro lo scudo dell'oplite vicino, tanto che a Mantinea
l'ala sinistra di entrambi gli eserciti si
ritrov quasi circondata da quella destra del nemico. In seguito, a proposito
della battaglia sul fiume Nemea
del 394, Senofonte spiega chiaramente che entrambe le parti avanzarono verso
destra (Hell. 4.2.18), al
punto che l'ala destra spartana si scontr solo con una parte della falange
ateniese. Pi di vent'anni dopo, a
Leuttra, gli spartani avevano evidentemente limitato o meglio sfruttato
quest'impulso naturale,
trasformandolo in un piano intenzionale di accerchiamento a partire da destra
(Plut., Pel. 23.1).
Gli schieramenti opposti non erano necessariamente di uguale lunghezza. Un
esercito in stato di inferiorit
numerica, o che avesse deciso di accorciare la linea di battaglia ammassandosi
in colonna, poteva trovarsi di
fronte una linea nemica pi lunga su entrambe le ali. In questi casi gli opliti
erano probabilmente costretti ad
avanzare secondo un certo angolo - a prescindere dal fatto che la tendenza verso
destra fosse naturale o
intenzionale - per incontrare il nemico; chi attaccava in superiorit numerica
piegava sul nemico, mentre questo
era costretto o a spostarsi in massa verso destra, per evitare di essere
aggirato su entrambe le ali, oppure a
piegare verso l'esterno su entrambi i fianchi, rischiando cos di creare una
breccia al centro.
La terra di nessuno
Al momento della partenza la quiete assoluta, contemplativa, prima della
tempesta veniva di colpo infranta: il
campo di battaglia si trasformava in un mare di polvere e fragore. Per l'oplite
barbuto che portava l'elmo
corinzio era gi abbastanza difficile respirare e udire, e lo diventava ancor
pi nelle file compatte della
falange. Tuttavia, nel momento in cui cominciava l'avanzata, i suoi sensi erano
ulteriormente appannati e il
suo disagio veniva aggravato dalle migliaia di piedi che si trascinavano sotto
il peso della panoplia,
sollevando l'arida terra dell'estate. Il grido di ciascuno confluiva nel grido
di guerra collettivo, reso
doppiamente fragoroso da quello del nemico che si avvicinava.
Dopo le devastazioni compiute in Attica dall'esercito di Serse, si dice che
Demarato avesse visto qualcosa che
saliva da Eleusi: una nuvola, afferma Erodoto, che ben sapeva quanta polvere
sollevava una moltitudine di
uomini in corazza, come se avanzassero in trentamila uomini (8.64). Abbiamo
notizia di un episodio
analogo accaduto in una scaramuccia tra ateniesi e corinzi a Soligea nel 425,
durante la guerra del
Peloponneso; sebbene la maggior parte dei corinzi non riuscisse in effetti a
vedere la battaglia tra i loro
congiunti e gli invasori ateniesi, non si tard a capire che cosa stava
accadendo grazie alla nuvola di polvere che
si era levata nell'aria. La vista della battaglia, rileva Tucidide, era ostruita
dal Monte Oneio; possiamo farci
un'idea di quanto doveva essere grande la nuvola sollevata da qualche migliaio
di uomini in movimento
(4.44.4). A quanto riferisce Plutarco, durante lo scontro finale tra Antigono ed
Eumene, i successori di
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Alessandro, la fine sabbia bianca del campo di battaglia si sollev in una
nuvola come di calce che oscur la
vista di tutti, permettendo ad Antigono di irrompere nel territorio nemico (Eum.
16). Una simile scena doveva
ripresentarsi ogni qual volta gli uomini in corazza si scontravano nei polverosi
campi d'estate. In condizioni
ancora diverse da quelle consuete, come a Pilo, dove si trovata della cenere,
la polvere e il disagio potevano
creare addirittura una situazione in cui gli opliti, accecati, si aggiravano
incespicando nella confusione (Tuc,
4.34.4; cfr. anche Diod., 19.42.1-2; 19.61.1; Polib., 5.85.12). Omero stato il
primo a parlare della polvere
che turbinava sui campi di battaglia greci, cantando il primo scontro tra greci
e troiani:
Come quando sotto striduli venti volavano le tempeste in un giorno che c' molta
polvere lungo le strade, e
quelli conglomerano una gran nube di polvere;
cos avvenne l'urto allora in un groppo... (11. 13.334-337)
Era impossibile, a uomini chiusi nella corazza, muoversi senza urti e
sfregamenti con le corazze dei vicini,
con i loro scudi e le loro lance. Il fragore del metallo creava il sottofondo,
il motivo dominante della bizzarra,
eterogenea cacofonia della battaglia. Che gli opliti facessero un gran fracasso
quando si muovevano emerge
chiaramente dalla storia degli abitanti di Platea, che nel 429 scapparono dalla
citt assediata subito dopo lo
scoppio della guerra del Peloponneso. Ebbero cura infatti di tenersi a una certa
distanza gli uni dagli altri, di
modo che il rumore delle armi che urtavano fosse ridotto al minimo e il vento
notturno smorzasse il suono
delle armi di bronzo alle orecchie delle sentinelle spartane (Tuc, 3.22.2).
Gli sbuffi dei cavalli si mescolavano al clangore delle armi, accrescendo il
frastuono sul campo di battaglia
(Diod., 19.31.2). In certe, rare occasioni, la pioggia o la grandine sul bronzo
potevano produrre lo stesso effetto,
come impararono i cartaginesi invasori al fiume Crimeso in Sicilia: Ma pi di
tutto pare che i cartaginesi furono
danneggiati dai tuoni e dal fragore che causavano la pioggia violenta e la
grandine battendo sulle armature: essi
impedirono alla truppa di udire gli ordini dei comandanti (Plut., Tim. 28.2).
In altri casi lancia e scudo venivano
sbattuti di proposito (Sen., An. 4.5.18), oppure le armi da lancio picchiavano
sulla corazza dei fanti in marcia
(Sen., An. 4.3.28); in entrambi i casi l'effetto era identico: un rumore
terribile, inumano, che sorgeva
dall'armamento degli uomini in marcia.
Un altro genere di suono era quello che si levava dagli uomini stessi, i quali -
com' naturale - si parlavano,
cantavano e si lanciavano grida marciando e poi correndo; essi cercavano in
questo modo di tirarsi su il morale
chiacchierando o lanciandosi moniti ed esortazioni a mantenere la formazione
quando il nemico si
approssimava. Omero osserva che il rumore dei troiani che avanzavano ricordava
quello degli uccelli:
...andavano con grida e richiami, come uccelli, come sotto il cielo s'aggira il
grido delle gru, che quando fuggon
d'inverno, la pioggia infinita, volano con gridi sulle correnti d'Oceano... (II.
3.2-4)
Tucidide, palesemente ammirato, descrive le esortazioni che risuonavano tra le
file spartane a Mantinea; a
differenza di quanto accadeva per gli ateniesi, le conversazioni tra gli uomini
e i canti di guerra familiari erano
sufficienti a calmarne i nervi durante l'avanzata, senza bisogno dell'arringa
del generale prima della battaglia
(5.69). L'eroe, scrive Tirteo, impegnando la vita, il cuore intrepido, e
assiste e con parole rincuora chi gli
accanto (9.18-19).
Il rumore pi forte non era prodotto dalle chiacchiere e dalle grida dei
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singoli, bens dal grido di guerra
collettivo che l'esercito lanciava all'unisono: l'equivalente antico del grido
di rivolta, che aveva lo scopo di
fugare le paure di ciascun soldato e al contempo di comunicare terrore al nemico
(si vedano per esempio Esch.,
Sept. 270; Sen., Ages. 2.10-11; An. 4.2.12). Aristofane suggerisce che il grido
di guerra degli ateniesi suonava
pi o meno come un eleleleu (Av. 364). Senofonte narra che a Coronea, nel 394,
i tebani si lanciarono
finalmente di corsa contro il nemico, gridando durante la carica (Hell. 4.3.17).
Durante l'invasione spartana
dell'Arcadia nel 365, i soldati dell'alleanza arcadica, dopo aver resistito
all'attacco spartano, si lanciarono a loro
volta all'offensiva; in quella fase della battaglia, scrve Senofonte, si
levava un gran clamore, come se questa
loro improvvisa audacia avesse sollevato un'ondata di fiducia e scatenato un
urlo collettivo (Hell. 7.4.22).
Quando i due eserciti si avvicinavano l'uno all'altro, il clangore delle
corazze in movimento, le grida che si
lanciavano gli uomini in marcia e l'urlo collettivo dei due eserciti (si veda
per esempio Sen., Hell. 4.2.19),
mescolandosi da tutte le direzioni, diventavano assordanti. A Cinocefale nel 197
le grida e l'urlo di guerra dei
macedoni e dei romani, insieme con gli evviva di coloro che erano al seguito
degli eserciti, crearono un senso
di totale confusione sul campo di battaglia (Polib., 18.25.1). Non sorprende che
Omero abbia descritto cos il
grido di guerra dei greci che si fondeva a quello dei troiani:
...non cos l'onde del mare urlavano contro la spiaggia, gonfiandosi d'ogni
parte al soffio potente di Borea; non cos
grande il rombo del fuoco fiammeggiante nelle gole del monte, quando si leva a
bruciare la selva; non cos il
vento fra le querce alta chioma sibila, quando fu allora il grido degli achivi e
dei teucri urlanti paurosamente, come
gli uni sugli altri piombarono. (II. 14. 394-401)
Tucidide ci rammenta che nella disfatta spartana a Pilo nel 425 le alte grida
che accompagnavano l'avanzata
nemica, insieme con la nuvola di polvere, dissolsero la coesione tra le file
(4.32.2). Le cause del crollo degli
ateniesi sulle alture di Epipole, alcuni anni dopo, non erano state soltanto
l'oscurit e il terreno, ma anche le
grida dei vittoriosi assalitori siciliani, che si mescolavano ai suoni confusi
prodotti dai soldati ateniesi che
ripiegavano in disordine (Tuc, 7.45). Polibio descrive a un certo punto, pi o
meno con le stesse parole, il
terrore che colse inizialmente i romani quando furono sommersi dal suono dei
corni e dalle selvagge grida di
guerra dei greci dall'altra parte del campo di battaglia (4.64.6-8). Se vogliamo
credere a Plutarco, le grida e il
cozzo delle armi impedirono ai soldati di Dione in Sicilia di udire gli ordini
che questo comandante lanciava
(Dione 30.6).
Quando veniva dato il segnale di avanzata, l'oplite greco, se l'aveva udito,
doveva fare attenzione a non
rimanere indietro e a tenersi vicino agli uomini intorno a lui. La formazione
della falange, nel coprire gli ultimi
metri della terra di nessuno, spesso si rompeva perch ogni soldato correva alla
propria velocit. Si levavano le
grida di uomini e animali e il rumore delle armi, e vedere diventava difficile
per tutti a causa della nuvola di
polvere, delle creste e delle lance degli uomini davanti e in generale della
massa umana in movimento. In molti
casi l'esito di una battaglia tra opliti si decideva proprio nel corso della
prima carica, quando alcuni uomini
cedevano semplicemente alla paura e infrangevano l'unit delle loro colonne
prima ancora di essere entrati in
contatto col nemico. Come si vedr, in una battaglia tra falangi la chiave del
successo consisteva nel creare una
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breccia letale tra le file del nemico, un primo vuoto attraverso il quale
potevano spingersi i soldati,
distruggendo la coesione di tutta la formazione nemica. Alcuni eserciti si
disfacevano prima ancora di essere
entrati in contatto con le lance nemiche, e la battaglia finiva senza essere
cominciata. Sorprende in realt che un
crollo generale non si verificasse pi spesso, se pensiamo quale coraggio
esigeva e quanto era spaventevole la
carica contro il nemico.
13. Il cozzo tra gli uomini
Oggi ci sono tanti ragazzi che pensano che la guerra sia tutta gloria, ma,
ragazzi, solo un inferno.
William Tecumseh Sherman
Dico anche che bello cadere, le battaglie si perdono con lo stesso spirito con
cui si vincono.
Walt Whitman
Dopo la carica, i due schieramenti davano vita a quello che il poeta Callino
chiam la prima zuffa (1.11).
E impossibile capire ci che seguiva se non si considera prima lo spettacolo
peculiare della collisione, la
vista e anche i suoni che si levavano da quello spaventoso scontro tra uomini.
Anche se mancavano le esplosioni di cannoni e fucili, non c' ragione di pensare
che l'antico campo di
battaglia fosse pi tranquillo di quello moderno: dopo tutto i soldati non erano
schierati su un fronte lungo
chilometri e separati dal terreno accidentato, n impegnati in centinaia di
scaramucce isolate: ammassati uno
accanto all'altro, sferravano e subivano centinaia di colpi a breve distanza.
Tutto il rumore degli uomini e delle
armi era concentrato nella zona ristretta del campo di battaglia antico, di
solito una piccola pianura circondata
da montagne che moltiplicavano i suoni. Invece, ha osservato di recente Kellet,
non tutti convengono sul fatto
che il moderno campo di battaglia sia un luogo rumoroso; a giudizio di Marshall
esso dominato da una
"grande calma che appare pi minacciosa della tempesta di fuoco". Marshall ha
affermato in seguito che
questa situazione disorientava gli uomini, i quali erano preparati a una
situazione assolutamente diversa. Non
si tratta solo del fatto che il livello di decibel nella battaglia greca
aumentava man mano che le due falangi si
avvicinavano e si scontravano; cambiava anche la natura del rumore: le voci
umane riconoscibili - il grido di
guerra e i canti -, il clangore rassicurante dell'armamento durante la marcia e
la cacofonia orribile del bronzo,
del legno e delle ossa che si frantumavano.
Fin dalle prime testimonianze reperibili nella letteratura greca apprendiamo
che gli antichi conoscevano
benissimo quel suono particolare e inumano di morte. Nell'Iliade si leggono
quasi una decina di parole
onomatopeiche che indicano il combattimento o la battaglia, non facili da
tradurre, che evocano i rumori che si
levavano quando finalmente le due parti si scontravano (cfr. Pritchett
1971-1985, IV, p. 28: kelados, floisbos,
ktupos, klnos, kydoims). Anche Callino, poeta del VII secolo, ha parlato di
quei suoni, dei dardi che
rimbombano (1.14-15), suoni che a detta del quasi contemporaneo Tirteo erano
prodotti anche dalle violente
collisioni tra gli scudi rotondi (19.14-15). Poich le guerre in genere si
risolvevano in un'ora o in poco pi di
una battaglia campale, singolare constatare che gi in epoca molto antica sia
stato creato un ricco vocabolario
per un evento relativamente raro; il cozzo tra gli uomini doveva produrre
un'impressione particolare. Il rumore
di uomini in corazza che si scontravano non era solo un tema che stimolava la
fantasia dei poeti, ma la realt
del campo di battaglia. Quasi trecento anni dopo i poeti lirici, Senofonte,
nella celebre descrizione della battaglia di Coronea del 394 - una battaglia
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dissimile da ogni altra nel corso della sua vita - dimostrava di
essere rimasto impressionato dalla collisione iniziale tra i due eserciti: E
pur non vi era nessun grido; non vi
era neppure silenzio; vi era piuttosto un tale suono quale potrebbero produrre
ira e battaglia (Ages. 2.12). Quel
tale suono, quell"orribile strepito che Senofonte ben conosceva, non era
umano, perlomeno non
completamente:
Grande fu quindi la carneficina dei soldati, grande lo strepito delle armature
e dei dardi di ogni genere
che volavano per il cielo, alto il grido degli uomini che si chiamavano l'un
l'altro, s'incoraggiavano o
invocavano gli di (Sen., Cyr. 7.1.35).
I greci sapevano che il rumore particolare di quel cozzo iniziale aveva origini
differenti. In primo luogo, il
tonfo sordo del bronzo contro il legno si avvertiva quando la punta di metallo
della lancia si faceva strada
attraverso l'anima di legno dello scudo dell'oplite o quando i soldati
sbattevano lo scudo contro le corazze e
gli elmi di bronzo dei nemici, oppure ancora quando scudi di legno urtavano
l'uno contro l'altro. Per
Aristofane quel suono era sinonimo di guerra (Ach. 588). Contemporaneamente, si
levava il fracasso stridulo
del metallo contro il metallo, delle lance e delle spade che cozzavano con le
corazze, gli elmi e i gambali. Anche
le corazze potevano entrare in collisione tra loro quando gli uomini della prima
fila perdevano l'equilibrio e
venivano letteralmente proiettati contro la fila nemica, schiacciati petto
contro petto (Tirteo, 8.33). Uno
schiocco acuto era prodotto dalle lance di frassino che si spezzavano sotto la
pressione, in quella che Sofocle
ha definito la tempesta delle lance (Ant. 670).
I suoni prodotti dagli uomini avevano un che di animalesco: i gemiti all'unisono
degli uomini sottoposti a
sforzo, che premevano tutti insieme, con il corpo e lo scudo, contro la muraglia
immobile del nemico, grugniti
paragonabili a quelli emessi da coloro che sudano e faticano nei campi o nelle
officine: la battaglia, come ben
sapeva l'uomo omerico, dopotutto non era che un lavoro, sia pure del genere
peggiore. Infine, per quanto
Tirteo consigliasse all'oplite di mordersi le labbra, c'erano i suoni
immancabili della sofferenza umana. Qui si
levava la sinfonia grottesca degli urli di coloro che venivano feriti
all'inguine, l i singhiozzi incessanti di un
soldato moribondo, un ultimo rantolo di paura quando il colpo di lancia giungeva
a destinazione. E davvero
orrendo un cadavere nella polvere, scrive 196-197Tirteo ( 198-1991.19). La
famosa descrizione di Livio della
disfatta romana sul Lago Trasimeno durante la seconda guerra punica e la
confusione totale che regnava tra le
file dovevano essere un incubo comune a tutti i soldati dell'antichit:
Ma, per lo strepito e per il tumulto, n l'esortazione n il comando potevano
essere uditi; e tanto erano tutti
nell'impossibilit di riconoscere le rispettive insegne e le file e il posto
loro, che a stento lor bastava l'animo per afferrare le
armi e per adattarle al combattimento, e anzi molti erano da esse impacciati
invece che difesi. E pi servivano in s fitta
confusione le orecchie che non gli occhi; e i volti e gli occhi li volgevano ai
gemiti dei fanti, al fragore dei corpi e delle
armi cadute, alle grida commiste degli assalitori incalzanti e dei trepidanti
assaliti. (22.5)
Possiamo allora comprendere perch il testimone di una battaglia tra gli uomini
in corazza dell'et medievale
scrivesse che lo strepito era cos terrificante che non si sarebbe sentito
neppure il tuono di Dio (Verbruggen,
p. 166).
A quel punto gli eserciti sul campo di battaglia offrivano uno spettacolo
drasticamente diverso. vero che
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le colonne ordinate delle formazioni prima della battaglia si erano leggermente
scompaginate nella generale e
non uniforme avanzata, ma dopo l'impatto entrambe le parti ritrovavano la
compattezza man mano che le
file posteriori si ammucchiavano alle spalle dei comandanti e si serravano
lateralmente cercando di
proteggersi dietro la linea degli scudi. Poi i due eserciti diventavano un
intrico e un amalgama insolubili,
poich gli uomini premevano gli uni contro gli altri di fronte, di fianco e
dietro. Ora il mare di polvere era
fermo nell'aria e ancor pi soffocante, giacch i soldati, almeno in un primo
momento, si agitavano senza in
realt muoversi. Ben presto diventava impossibile distinguere l'amico dal
nemico. Le sacche di guerrieri pi
coraggiosi non tardavano a farsi strada nelle file della falange nemica, finendo
per essere assorbite e
annientate oppure trasformandosi pian piano in un cancro fatale, se i compagni
delle file retrostanti
sapevano sfruttare i loro sforzi, spingendoli ancor pi profondamente nella
formazione nemica. Possiamo
farci un'idea di quella confusione sulla base di testimonianze letterarie
secondo cui gli uomini delle prime file
in una battaglia tra opliti non si limitavano a combattere corpo a corpo o
lancia contro lancia (per esempio
Sen., Hell. 4.3.17; Tuc, 6.70.1), ma si scontravano anche petto contro petto e
l'elmo all'elmo:
Appoggi piede contro piede, scudo a scudo, il cimiero al cimiero, l'elmo
all'elmo, s'accosti, petto contro petto, e
lotti col nemico brandendo l'elsa della spada o l'asta. (Tirteo, 8.31-34)
Queste immagini inoltre suggeriscono che le seconde linee cominciavano a
premere furiosamente nel
momento stesso in cui gli eserciti si scontravano, spingendo letteralmente a
forza gli uomini davanti contro la
prima fila del nemico. Tanto nella prosa quanto nella poesia, questi primi
istanti dell'antica battaglia greca
erano definiti spesso un intreccio, poich era ormai venuta definitivamente
meno qualunque separazione
netta tra i due schieramenti (Tuc, 8.25.4; Callino, 1.11; Om.,71. 13.131;
15.510; 16.215-217).
Abbiamo parlato dello spettacolo e dei suoni che si levavano dalla collisione
iniziale, ma in qualit di
spettatori: gli opliti sul campo di battaglia non vedevano certo le cose a
questo modo. Il sudore che grondava, la
vista offuscata dall'elmo, il vorticare di polvere e di corpi li rendevano
prigionieri nella confusa massa umana;
e inoltre gli uomini erano completamente assordati dal fragore provocato in
buona parte dai colpi delle punte
delle lance nemiche contro la loro corazza. Gli uomini delle prime tre file,
dunque, non vedevano altro del
combattimento che le sagome indistinte del nemico che si faceva avanti - o al
suolo - e tutta la percezione del
mondo si riduceva a qualche metro di terreno davanti a loro. I soldati delle
altre file capivano di essersi
scontrati con la falange avversa soltanto quando si rendevano conto che i
compagni delle prime file non
procedevano pi. N va dimenticato l'odore acre del sudore di migliaia d'uomini
che penavano sotto il sole,
l'odore del sangue e degli intestini che scaturivano dalle ferite aperte e
talvolta il puzzo degli escrementi dei
soldati atterriti o appena uccisi; ma forse il senso dell'olfatto era
altrettanto intorpidito della vista e dell'udito.
Alcuni autori pensano che lo scontro iniziale, in molte battaglie di fanteria,
non sia talvolta una vera e
propria collisione, poich all'ultimo momento si eviterebbe l'impatto effettivo
tra i corpi ed entrambe le parti
farebbero un passo indietro di comune accordo. Keegan, per esempio, discutendo
le tesi di Du Picq, ha
scritto che le grandi masse di soldati non si avventano le une contro le altre,
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o perch una cede al momento
critico o perch gli attaccanti, nei metri che precedono il cozzo, si lasciano
indietro i codardi e giungono al
punto dello scontro in numero assai inferiore rispetto alla massa che assalgono
(p. 71). Tuttavia, una lettura
imparziale degli antichi resoconti sulle battaglie di opliti indica che nel caso
dei greci - e forse soltanto in questo caso - la prima carica dei soldati si
esauriva proprio contro la linea nemica: l'obiettivo era di assestare
un primo colpo, tramite la collisione, che costringesse letteralmente il nemico
a rinculare, permettendo ai
soldati di penetrare in massa nelle ulteriori brecce che si creavano lungo la
linea. proprio quanto intendeva
dire Arriano osservando che l'obiettivo della battaglia greca era ricacciare
indietro il nemico durante la carica
iniziale (Taci. 11.1-2). Sebbene nella maggior parte dei casi lo scontro si
trasformasse automaticamente in un
doloroso duello corpo a corpo tra due falangi inestricabilmente confuse,
ciascuna delle quali tentava di aprirsi
una breccia nella linea di battaglia dell'altra, leggiamo talvolta
dell'annientamento di un intero esercito,
spazzato semplicemente via dal campo di battaglia grazie alla forza dell'urto
iniziale degli avversari in corsa.
La collisione doveva essere uno spettacolo inimmaginabile: le lance dei due
schieramenti si avvicinavano le une
alle altre alla velocit di otto chilometri l'ora. A Coronea nel 394 gli uomini
di Agesilao corsero per
scontrarsi col nemico; quando giunsero a portata di lancia, i nemici cedettero
per lo spavento (Sen., Hell.
4.3.17). In effetti i resoconti delle battaglie di Mantinea, Delio, Nemea e
Leuttra, per non parlare di quelli di
episodi ancora precedenti (spesso senza un nome), per cui possediamo le
testimonianze dei poeti lirici,
non hanno alcun senso se non presumiamo che le due parti entrassero
letteralmente in collisione e
provocassero un cozzo tremendo scontrandosi violentemente alla velocit totale
di circa sedici chilometri l'ora.
L'episodio forse pi noto risale alla seconda fase della battaglia di Coronea,
quando, come riferisce
Senofonte, Agesilao e i suoi spartani si scontrarono testa a testa con i
tebani. La successione degli eventi
non lascia dubbi: i nemici, intenzionati ad aprire la strada ai propri
alleati, strette le file avanzavano
risoluti. Senofonte osserva che la tattica pi accorta sarebbe stata di lasciar
passare quella massa che caricava
per assalirla alle spalle. Invece Agesilao port la sua falange a scontrarsi
frontalmente con la colonna tebana e
rimase quasi ucciso (Hell. 4.3.19).
Esistono perlomeno quattro ragioni per pensare che l'antica battaglia greca, nei
primi attimi, fosse una tremenda collisione tra soldati che correvano. La prima
e pi evidente la notevole profondit della falange, una
colonna massiccia di uomini allineati come minimo in otto file. La funzione
delle linee posteriori
presumibilmente dalla quarta all'ottava, era alla lettera quella di spingere
avanti i compagni, e gli uomini
delle prime file non avevano in realt altra scelta che continuare a correre. Se
esitavano o cedevano alla
paura naturale dello scontro fisico, venivano egualmente spinti innanzi, oppure
calpestati dalle ondate
successive che premevano alle loro spalle dalla retroguardia. Gli uomini
schierati nelle file posteriori, non
trovandosi ancora di fronte alla linea delle lance nemiche, avevano meno paura
di procedere e spingevano
quelli davanti, giacch godevano ancora della protezione di quel muro di carne
tra s e le punte di lancia del
nemico. In quel frangente la natura peculiare della battaglia oplite faceva s
che tutti i combattenti, ad
eccezione di quelli dell'ultima fila, fossero costretti ad avanzare contro il
nemico. Non si leggono allusioni a
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una repulsione per l'atto di uccidere, fenomeno invece comune sui moderni campi
di battaglia, in cui i fanti
si dividono tra combattenti e non combattenti, tra chi agisce e chi non agisce,
tra chi guida e chi segue, e in
cui il disgusto che alcuni provano per la carneficina li spinge ad agire come
attori passivi, a fingere
solamente di prender parte al massacro. Nella Grecia antica la stragrande
maggioranza dei soldati delle prime
sette file della falange, quali che fossero le loro preferenze, erano costretti
da coloro che stavano alle loro
spalle a partecipare - ovvero a combattere - o a non partecipare - ovvero a
essere uccisi o feriti - (cfr.
Asclepiodoto 5.2; EL, Taci. 14.6). N i guerrieri della prima fila n quelli
dietro di loro potevano
indietreggiare all'ultimo momento: questi ultimi ben sapevano che anche la
propria sopravvivenza dipendeva
dalla forza dell'impatto, dalla capacit di spingere la prima fila quanto pi a
fondo nel ventre della falange
nemica.
In secondo luogo, la grandezza dello scudo dell'oplite e la sua forma
contribuivano a dare una sensazione
di protezione assoluta negli ultimi istanti della corsa: il fante greco lanciato
alla carica si sentiva sicuro dietro
lo scudo concavo che aveva un diametro di un metro: II petto e gli omeri entro
la pancia di uno
scudo immenso (Tirteo, 8.24). Forse pensava che correndo con lo scudo
all'altezza del torace e con la
testa china non avrebbe neppure potuto vedere il nemico al momento dell'impatto.
Tutti noi conosciamo
senza dubbio l'impulso naturale, una frazione di secondo prima di un urto
inevitabile, di chiudere gli occhi o
meglio ancora di proteggerci il viso e di coprirlo, quasi cos facendo
rendessimo pi tollerabile
quell'esperienza spaventosa. Ma quegli ultimi attimi di cecit rendono
inevitabile la collisione.
In quella fase la linea nemica non era necessariamente un muro affatto
impenetrabile di scudi i cui bordi
si toccavano: i soldati stavano correndo e pertanto lo schieramento formato
prima della battaglia era gi
scompaginato. Lo spettacolo della muraglia di scudi non si ripresentava fino al
momento della mischia
generale, quando altre file si ammassavano dietro i loro comandanti e tutta la
falange formava una linea
compatta nel tentativo di respingere le sacche di attaccanti nemici. I veterani
della battaglia oplite sapevano
che nell'assalto alla falange nemica avevano la possibilit di evitare la
barriera dello scudo o della lancia
nemica, che potevano infilarsi tra i piccoli vuoti creatisi tra i soldati in
corsa, anzich sbattere contro un muro di
legno e/ o carne, una punta di ferro, una piastra di bronzo; potevano farsi
largo attraverso braccia e gambe
per cominciare a colpire la seconda o terza fila della falange nemica. I grandi
eserciti, ci ricorda Tucidide,
[scompaginano] lo schieramento [...] quando si scontrano (5.70).
Infine, dovremmo forse pensare che in quel momento gli uomini si comportassero
razionalmente? Erano in
grado di riflettere con serenit sui pericoli della situazione, avvertivano
tanto chiaramente l'istinto naturale a
evitare la collisione da esitare, ammucchiarsi, indietreggiare o fuggire? Quando
l'oplite compiva gli ultimi
passi di una corsa di cento metri, l'adrenalina e le leggi del moto rendevano il
proseguimento dell'avanzata
pi probabile di un improvviso arresto. Inoltre, l'oplite non vedeva n sentiva
bene e non godeva pi di
un'immagine chiara delle difficolt che lo attendevano. Per finire, era un
membro del gruppo. Insieme agli
altri uomini aveva bevuto quel mattino prima della battaglia, forse non era del
tutto sobrio e in quegli ultimi
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momenti aveva innestato il pilota automatico. Ben pochi tra noi, lo abbiamo
imparato nel XX secolo, sono
in grado di dire che cosa possono fare e faranno in una data situazione gruppi
assai compatti di uomini lanciati
in corsa, le cui inibizioni sono attenuate dall'alcol.
Nel suo saggio sulla guerra nel medioevo, Oman ci offre una descrizione precisa
del cozzo tra una falange
tedesca e un quadrato di picchieri svizzeri, una collisione che non doveva
essere molto diversa dagli scontri
dell'antichit tra opliti greci armati pi pesantemente:
Le due linee irte di picche si incrociavano e le prime file venivano spinte le
une contro le armi delle altre dall'irresistibile
pressione esercitata da dietro. Spesso al primo assalto soccombeva l'intera
prima fila di ciascuna falange, ma i compagni
dei caduti avanzavano sopra i loro corpi per continuare a combattere. Quando le
masse avevano spinto l'una contro
l'altra per un certo tempo, il loro ordine si faceva confuso e le picche
finivano con l'intrecciarsi.
14. Squarci e brecce
...la gigantesca breccia fatta nell'esercito francese, la mitraglia inglese e la
mitraglia prussiana che si aiutano a vicenda; lo
sterminio; il disastro di fronte, il disastro di fianco; la guardia che entra in
lizza in quella spaventevole rovina.
Victor Hugo, I miserabili
Il modo pi comune per travolgere una falange greca sul campo di battaglia era
di scatenare la paura tra le file
del nemico, provocando in questo modo lo scompiglio nelle file retrostanti. Per
conseguire quest'obiettivo
occorreva trovare dei varchi o meglio ancora aprire delle brecce nella linea
nemica e impedire a ogni costo agli
uomini di fronte di tenere duro e di serrare le file (Tirteo, 8.11-12). Se
riuscivano ad aprirsi un varco tra gli
avversari, gli opliti potevano lanciarvisi e attaccare il nemico di fianco e
alle spalle mentre avanzava. Allora
tutta la colonna nemica vacillava, paventando un crollo generale in prima linea.
Allo stesso modo, nella
guerra medievale, alla carica iniziale dei cavalieri seguiva il combattimento
corpo a corpo nel mezzo della
formazione nemica: Le fonti narrative rivelano che la penetrazione avveniva in
due fasi distinte: prima la
carica in formazione strettamente compatta, poi l'irruzione tra le unit
nemiche (Verbruggen, p. 94). Keegan
si soffermato sugli analoghi obiettivi della carica francese in massa a
Azincourt: Lo scopo doveva essere di
metterne fuori combattimento il maggior numero possibile, aprendo in tal modo
dei vuoti tra le file e isolando
alcuni che potevano quindi essere uccisi o spinti a forza contro le armi dei
loro stessi compagni; "seminare il
disordine" un modo conciso per descrivere il loro obiettivo (p. 99).
Nelle battaglie greche si potevano usare sostanzialmente due metodi per
seminare disordine, uno psicologico
e l'altro fisico. Negli attimi che precedevano l'avanzata, proprio mentre il
nemico procedeva a sua volta sul
campo di battaglia, era possibile un'improvvisa disgregazione dell'unit se gli
uomini si accorgevano di colpo di
essere numericamente inferiori, scoperti su un fianco o schierati male. O magari
scoprivano di essere affiancati
da alleati poco affidabili, di aver subito perdite scoraggianti tra scorridori e
cavalieri prima della battaglia, di
trovarsi di fronte un nemico formato da professionisti che incutevano terrore
(per esempio gli spartani) o
semplicemente di aver gi smarrito l'ordine durante una marcia avventata. In
questi casi, quando l'esercito non
solo non era pi schierato in formazione ma si trasformava in una folla di
individui, nella falange si aprivano
subito qua e l vuoti e squarci lungo tutto il fronte della colonna. Allora
tutti sapevano di non poter
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combattere una battaglia di tipo classico e la pugna era finita ancor prima che
i due schieramenti si fossero
scontrati: gli uomini si giravano e fuggivano (si vedano per esempio Sen., An.
4.8.38; Hell. 3.2.17; 4.3.12;
4.3.17; Tuc, 5.10), una situazione che i greci definirono una battaglia senza
lacrime (Put, Ages. 33.3; Sen.,
Hell. 7.1.28 ss.).
Ma di solito non era tanto facile vincere una battaglia; in questo capitolo mi
occupo in particolare delle brecce
che gli opliti dovevano aprire nella linea nemica, combattendo duramente e
talvolta anche morendo. Era
compito della prima, seconda e terza linea della falange - gli uomini, cio, le
cui lance avevano raggiunto il
nemico durante la prima collisione e che erano sopravvissuti al cozzo - aprire
dei varchi, come avevano saputo
fare i macedoni a Cheronea nel 338, quando l'intera linea greca che stava loro
di fronte era stata incessantemente
squarciata e lasciata scoperta (Diod., 16.86.3-4) o, in seguito, com'era
avvenuto a Pidna nel 168, quando gli stessi
macedoni erano stati squarciati e divisi dai loro avversari romani al comando
di Paolo Emilio; Plutarco
osserva che i primi vuoti nella falange si erano aperti a causa del diverso
successo dei combattenti: un settore era
riuscito a spingersi avanti mentre non lontano altri erano stati costretti a
ripiegare (Aem. 20.4-5). L'attacco di
Cabria a Egina nel 388 determin il crollo di una falange guidata dagli spartani
quando la prima fila del
nemico, non pi schierata a ranghi compatti, si disperse rapidamente (Sen.,
Hell. 5.1.12). In altre parole, le prime
due o tre file della falange spartana permisero agli uomini di Cabria di creare
o di sfruttare alcuni varchi nel loro
fronte, cosicch in breve tempo fu scompaginata l'unit di tutta la formazione.
Come poteva uno dei due
schieramenti, nei primi istanti dello scontro, penetrare nella linea nemica,
creando o sfruttando qualche varco
tra gli scudi dei fanti nemici?
Quando gli opliti dei due eserciti cominciavano a coprire di corsa gli ultimi
duecento metri, abbassavano la
lancia e la portavano sul fianco tenendola sottomano, come si desume dalle fonti
letterarie e dalle scene dipinte
su vaso o scolpite (Anderson 1970, pp. 88-89). Colpendo in corsa con la lancia
tenuta a quel modo si
sfruttavano al massimo lo slancio e la forza, e naturalmente risultava pi
facile mantenere sia la velocit sia
l'equilibrio. E forse in questo modo si diminuiva la probabilit di ferire
accidentalmente i compagni, a patto
che la punta della lancia restasse molto pi in basso rispetto allo scudo e alla
corazza. dell'uomo che precedeva.
Si cercava di penetrare nell'inguine o nella parte superiore della coscia
dell'avversario, privi di protezione, sotto
il bordo inferiore dello scudo; l'inguine era la parte del corpo, a detta di
Omero, dov' molto doloroso Ares
per i mortali infelici (11. 13.567). Che il colpo all'inguine fosse quello
preferito nella collisione iniziale
deducibile anche dalla triste descrizione di Tirteo del vecchio che si tiene il
ventre sanguinante per un colpo di
lancia (7.25); quell'infelice, ci ricorda il poeta, si era battuto mirabilmente
nelle prime file. Il vantaggio di questi
colpi era che potevano costringere i guerrieri della prima fila a lasciar cadere
immediatamente scudo e lancia per
premere le mani sulla dolorosa ferita, e a ritirarsi dopo qualche secondo di
combattimento attivo. Si direbbe
questa la scena raffigurata in alcuni dipinti su vaso, in cui in diversi scontri
gli opliti portano il colpo all'inguine
dell'avversario con la lancia tenuta sottomano, cercando di indirizzarla sotto
il bordo dello scudo (cfr.
Anderson 1970, p. 294 nota 12).
Un'altra alternativa era sferrare un colpo alle gambe sopra i gambali, dove una
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ferita profonda poteva arrestare
altrettanto rapidamente l'oplite. Archidamo, comandante della falange spartana
che invase l'Arcadia nel 365,
non appena le sue truppe furono attaccate cadde nelle prime file per una ferita
alla coscia, un dato che
suggerisce come fosse una vittima della prima carica degli arcadi (Sen., Hell.
7.4.23; cfr. Omero, II. 8). In vari
altri passi della letteratura greca leggiamo di soldati vittime di ferite al
ginocchio o alla coscia, a conferma del
fatto che quella parte non difesa del corpo era uno dei bersagli preferiti dei
primi colpi sottomano (per esempio
Plut., Arai. 21.2). Un vaso proveniente da Siracusa raffigura un oplite in preda
agli spasimi provocati da
un'orribile ferita aperta lungo tutta la coscia (Lorimer, tav. 8); in effetti
diverse scene su ceramica ci mostrano
soldati riversi per terra con grandi ferite lungo le cosce scoperte e prive di
corazza, mentre il sangue sgorga a
fiotti e una smorfia di dolore impressa sul volto, o pi semplicemente gli
occhi sono chiusi in uno stato
semicomatoso (cfr. Ducrey, tav. 28). Il vantaggio di colpire al di sotto dello
scudo era che si trattava della
prima e ultima possibilit di mettere a segno il colpo di lancia in una parte
del corpo non protetta, con energia
sufficiente a eliminare in modo immediato e definitivo il nemico dalla
battaglia. Inoltre, gli attacchi iniziali con
la lancia non soltanto storpiavano i guerrieri della prima fila, ma soprattutto
li costringevano in alcuni casi a
rinculare e li proiettavano addosso a quelli che stavano dietro, paralizzando
momentaneamente anche altri
avversari. Ancora i dipinti su vaso ci mostrano che i colpi di lancia
sbilanciavano le vittime all'indietro, mentre
i colpi di armi da lancio meno efficaci o quelli di spada talvolta facevano
barcollare o anche cadere in
avantiToplite (per esempio Ahlberg, tav. 15, 32, 33).
A volte, durante questi attacchi iniziali, venivano sferrati con successo colpi
al torace, botte fatali che
squarciavano la corazza. Una stoccata sufficientemente violenta da penetrare
nella corazza di bronzo o di legno
probabilmente poteva essere sferrata soltanto durante l'iniziale carica di
corsa. In questi casi, quando l'oplite si
copriva con lo scudo nei secondi che precedevano la collisione, la lancia veniva
rivolta leggermente verso l'alto e
diretta con grande impeto contro l'ampio bersaglio del torace. A differenza del
giavellotto, della fionda e della
freccia, la lancia non perdeva energia con il contatto perch il braccio
dell'uomo continuava a spingerla avanti.
Dev'essere questo il senso del riferimento di Tirteo al soldato che pronto
trattiene l'onda della lotta e perde la
vita tutto trafitto prima di morire il petto, lo scudo umblicato, la corazza
(9.23-26). Il grande generale
tebano Epaminonda per in questo modo nelle prime fasi della battaglia di
Mantinea; nonostante la carica
contro l'ala sinistra degli spartani fosse stata coronata da successo, egli
cadde con una lancia piantata nel petto,
cosicch i suoi uomini, rimasti soli, non seppero sfruttare il suo successo
(Diod., 15.87.6). Anche Agesilao a
Coronea fu probabilmente vittima di un colpo di lancia di quel tipo durante il
cozzo iniziale, dato che Senofonte
afferma che fu ferito proprio attraverso la corazza (Ages. 2.13).
La prima collisione tra le lance segnava l'inizio, non il culmine della
battaglia ed era un mezzo per riuscire a
penetrare nel ventre della falange nemica, non per provocarne il crollo
generale. Ricordiamo che Eschilo parla
di una battaglia in cui si vedono le ginocchia piegate nella polvere e le
lance infrante dai primi urti (Ag. 64-
66). Si trattava, insomma, di continuare l'assalto iniziale combattendo
duramente a breve distanza; e allora la
pugna diventava selvaggia perch ciascuna parte voleva essere la prima a creare
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un focolaio fatale di confusione
tra le file del nemico. Questo sforzo furioso al centro della battaglia di
Soligea nel 425, che secondo
Tucidide fu violenta e tutta quanta combattuta corpo a corpo (4.43.3). Non
abbiamo motivo di dubitare
delle sue parole, dato che gli uomini potevano affrontarsi faccia a faccia dopo
che le lance si erano spezzate
per l'impatto. La maggior parte delle lance si rompeva non appena entrava in
collisione con gli scudi rotondi di
legno; altre si spezzavano dopo essere penetrate nella corazza e nel corpo
dell'avversario. Tante lance si
frantumarono quasi una frase di repertorio nella letteratura greca, forse
un'altra chiara indicazione del fatto
che la collisione iniziale avveniva tra opliti in corsa e non fermi (Diod.,
15.86.2; 17.11.7; 19.83.4-5; Sen.,
Hell. 3.4.14; cfr. anche Erod., 7.224.1; 9.62.2; Plut., Eum. 7.3; Alex. 16.4).
Dopo che le lance si erano frantumate nello scontro tra le prime linee dei due
schieramenti, molti superstiti
si riprendevano e combattevano aspramente a corta distanza nel tentativo di
sfruttare qualche punto debole
provocato dal cozzo nell'altra formazione, usando probabilmente ogni arma ancora
a loro disposizione per
mettere fuori combattimento gli uomini di fronte. Coloro che avevano la lancia
lunga due metri e pi ancora
intatta dovevano ora impugnarla sopramano, in modo da accumulare da fermi forza
sufficiente per colpire
dall'alto in basso il collo, l'inguine, le spalle o il volto dell'avversario. I
dipinti su vaso ce lo mostrano
chiaramente: gli opliti fermi scagliano la lancia dall'alto in basso
impugnandola sopramano, nel tentativo di
passare oltre il bordo superiore dello scudo del nemico. In un cratere attico a
calice dipinto in rosso dell'inizio
del V secolo, per esempio, un oplite, pur tentando una debole parata con la
spada, viene quasi ucciso da
un'unica botta sopramano sferrata dall'alto in basso all'inguine, non difeso
dallo scudo (Lazenby, tav. 12;
Ducrey, p. 284). Anche le ferite alla testa e al collo erano un evento frequente
nella mischia generale, e
sappiamo che il colpo di lancia dall'alto verso il basso inferto da un oplite
fermo talvolta colpiva l'elmo e le zone
non protette del collo (Lorimer, tav. 8).
Quando la lancia non era pi utilizzabile, l'oplite sfoderava per prima cosa la
corta spada, un'arma costruita
apposta per la breve distanza e utilizzata in particolare dagli spartani, che
con queste spade s'appressano pi
ai nemici (Plut., Mor. 191 E; 216 C; Lyc. 19.2). Di solito la battaglia tra
opliti entrava in questa fase
particolarmente brutale dopo pochi attimi, se la collisione non aveva dato un
vantaggio a una delle due parti,
che si massacravano perci con le altre armi di cui disponevano. Per esempio,
Diodoro narra che nella seconda
battaglia di Mantinea, nel 362, entrambi gli schieramenti si affrontarono con la
spada dopo che le lance erano
andate in pezzi durante la collisione: Si cominci collo scontro delle aste,
rotte le quali per la maggior parte a
cagione degli stessi colpi, si venne presto alle spade. In quella fase i corpi
degli opliti costituivano
letteralmente un intrico, a causa della densit della falange, e gli uomini
continuavano senza posa a infliggersi
ferite, n di un momento cedeva la pertinacia degli animi (15.86.3). La
disperazione che afferrava i guerrieri
in questa fase di combattimento corpo a corpo spiega perch Archiloco osservasse
a proposito della battaglia:
Sar una lotta amara: la parola alle spade.
Ma sappiamo che la pugna, se possibile, si faceva ancor pi selvaggia e
ravvicinata quando la pressione dei
corpi rendeva inservibili tanto la lancia quanto la spada. Si narra che gli
uomini usassero spesso le mani nude
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per afferrare le lance dei nemici, tentando di sbilanciare i loro avversari o di
farli cadere; quanto si verific
tra i disperati soldati persiani a Platea (Erod., 9.62) e i romani di Paolo
Emilio a Pidna (Plut., Aem. 20.2; cfr.
Poi., Strat. 2.29.2). Si potevano usare anche le lance spezzate, che fornivano
pur sempre al soldato un corto
troncone con un'estremit dentellata sufficientemente aguzza per penetrare nella
nuda carne. Data anche la
lunghezza ridotta (ideale per quella specie di lotta libera) e la presenza
immancabile del micidiale puntale,
questi tronconi potevano diventare armi assai efficaci, anche se improvvisate
(Plut., Arist. 14.5; Polib., 11.18.4;
16.55.2-4).
Ci si pu fare un'idea di che cosa fosse i] combattimento in quella fase grazie
alla letteratura, dove la battaglia
non solo descritta come un corpo a corpo ma in tutti i suoi dettagli, come
se una frase tanto generica fosse
insufficiente per rendere la disperazione di quello spettacolo. Gli opliti
afferravano la barba, i capelli o gli elmi dei
loro avversari, cercando di abbatterli a mani nude (Plut., Thes. 5; Polib.,
4.3.2); Alessandro avrebbe consigliato
ai suoi uomini di radersi accuratamente per impedire ai nemici di atterrarli
prendendoli per la barba (Plut., Mor.
180 B 10). Durante i convulsi combattimenti alle Termopi, narra Erodoto, alla
fine della giornata gli spartani,
che avevano infine perduto le lance e le spade (nelle battaglie contro uomini
privi di corazza le lance greche
sopravvivevano alla prima collisione), continuarono a combattere con le mani e
con i denti (7.225.3). Secondo
quanto scrive Plutarco, lo scontro finale tra Neottolemo e Eumene di Cardia si
era trasformato in una sorta di
incontro di lotta libera: l'uno cercava di strappare l'elmo e la corazza
dell'altro (Eum. 5.5).
Che la battaglia si risolvesse pi spesso in una gragnuola di colpi menati alla
cieca e di prese disperate
piuttosto che in abili e precise stoccate o in movimenti ripetuti suggerito
dal racconto di Erodoto sul cieco
Eurito, che fu condotto alla battaglia delle Termopi dal suo servitore (7.229).
Invece il suo compagno
Aristodemo, cieco come lui, si trincer dietro alla sua infermit e sfugg
all'annientamento, ma una volta
ritornato vivo a Sparta fu da tutti giudicato un codardo; secondo la mentalit
degli spartani in quel tipo di
combattimento ravvicinato, corpo a corpo, dove non mancavano certo i bersagli,
la cecit non doveva
necessariamente esimere dal dare il proprio contributo, tanto che in qualche
caso anche agli storpi si
richiedeva di combattere, perch la guerra ha bisogno non di chi fugga, ma di
chi stia saldo e fermo (Plut.,
Mor. 210 F 34; 217 C). Diviene allora comprensibile perch Platone non
considerasse l'addestramento militare
fondamentale per la battaglia oplite (Res. Lac. 182 AB): com'era infatti
possibile insegnare le doti marziali a
uomini chiusi nella corazza, spinti avanti senza posa dalle file posteriori?
Plutarco osserva che nel momento in cui la battaglia si faceva furiosa, corpo a
corpo, gli opliti cercavano di
spingersi e buttarsi a terra a vicenda, tentando di trovare un varco nella linea
nemica. Era persuaso che l'abilit
dei tebani nella lotta, trasferita sul campo di battaglia, spiegasse almeno in
parte il loro successo a Leuttra.
chiaro che la pugna tra le prime file si trasformava in un confuso afferrarsi,
inciampare e cadere di uomini
sottoposti a una pressione incessante: una mischia in cui i lottatori che
sapevano battersi a mani nude erano
altrettanto importanti degli opliti abili nell'uso dello scudo e della lancia
(Mor. 639 F; cfr. in particolare Pritchett
1971-1985, IV, p. 64). Senofonte aveva sicuramente ragione, e anzi forse
minimizzava, quando osserv che
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Victor Davis Hanson - Volume Primo. L'Arte Occidentale Della Guerra.txt
nella battaglia oplite c'erano poche possibilit di mancare un colpo (Cyr.
2.1.16): il vero obiettivo era di riuscire
in qualche modo a colpire il bersaglio con forza sufficiente a metterlo fuori
combattimento.
I guerrieri pi abili sapevano talvolta della pressione costante che spingeva
avanti i nemici. Una fonte antica descrive una scena in cui un oplite arretra di
un passo per far perdere l'equilibrio all'avversario che lo assale e
colpirlo d'improvviso con la spada (cfr. il chiosatore di Eur., Phoen.
1407-1413, e Pritchett 1971-1985, IV,
p. 64). lecito chiedersi come fosse possibile una mossa del genere, dato che
era anche lui sottoposto alla
pressione delle file retrostanti. I riferimenti alle prese e alle strette
indicano che non solo la mano destra era
priva della sua arma offensiva, ma anche la sinistra aveva ormai lasciato cadere
lo scudo, forse andato in pezzi
o trapassato da una lancia o una spada. I numerosi riferimenti agli scudi
gettati via in battaglia possono
comunque spiegare perch l'oplite avesse entrambe le mani libere per lottare.
Non va dimenticato che la battaglia oplite, anche in questa fase cruciale e
furiosa, era tuttavia un
combattimento di gruppo; coloro che si azzuffavano corpo a corpo dovevano tenere
costantemente d'occhio
gli uomini al loro fianco. Non solo, infatti, dovevano farsi strada nella linea
nemica, ma anche impedire al
nemico di fare altrettanto. Se un oplite non trovava protezione dietro lo scudo
del vicino, doveva cercare di
combattere a contatto di gomito con l'uomo al suo fianco, affinch la densit
dei corpi impedisse al nemico di
penetrare tra loro quando premeva in avanti. Fu proprio la capacit di mantenere
l'ordine a salvare la falange
focese a Platea: circondata all'inizio da ogni parte dagli assalitori persiani,
resistette all'avanzata del nemico
perch i soldati rimasero in unico blocco e con le file serrate al massimo
(Erod., 9.18.2). Gli uomini delle
file retrostanti dovevano tenersi sempre pronti a ricostituire una fila per
impedire ogni penetrazione che
minacciava di scompaginare la falange. La generale tendenza degli opliti a
serrare le file un tema ricorrente in
numerose descrizioni di battaglie, in cui leggiamo che la parte vincente era
riuscita in qualche modo a
mantenere un ordine serrato lungo tutta la linea, avanzando con gli scudi
accostati nei varchi della colonna
nemica senza lasciare neppure una piccola breccia nella propria. Per reggere a
quell'assalto a distanza
ravvicinata, scrive Tirteo, i guerrieri dovevano andare fianco a fianco nella
mischia serrata e salvare cos il
grosso [degli armati] che va dietro (8.11-13). La necessit che gli uomini
mantenessero il posto loro assegnato
di fronte all'attacco nemico spiega il riferimento di Sofocle all'uomo che deve
resistere al suo posto durante
la tempesta di lance (Ant. 670).
Qualunque incauto l'allontanamento dalla linea da parte di un singolo assetato
di successi personali aveva ben
poco valore: l'eventuale penetrazione nella postazione nemica non valeva il
vuoto che si lasciava dietro. Pare che
Aristodemo fosse il pi coraggioso degli opliti greci nella battaglia di Platea,
ma dopo la vittoria gli spartani gli
negarono un premio per il coraggio perch era uscito dalle file come un
forsennato (Erod., 9.70.3).
Allontanarsi dalla formazione per scontrarsi con il nemico in uno sfoggio
individuale di valore marziale era in
effetti la cosa peggiore che un soldato potesse fare. Erodoto ci rammenta che i
persiani furono. vittime di
quest'avventatezza; a Platea segnarono il proprio destino quando si avventarono
contro gli spartani a dieci a
dieci o formando gruppi pi o meno numerosi (Erod., 9.61.3). Il giuramento
efebico che i giovani ateniesi
dovevano prestare descriveva la condotta ideale in battaglia: Non abbandoner
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Victor Davis Hanson - Volume Primo. L'Arte Occidentale Della Guerra.txt
il mio compagno ovunque io
mi trovi sul campo di battaglia (Tod, II, p. 204).
Se ci basiamo sulle ripetute allusioni della letteratura greca ai vantaggi che
offrivano una linea compatta di
scudi (si vedano Polib., 4.64.6-9; Erod., 9.99) e una formazione allineata
(Polib., 10.22; Diod., 23.2.1; Sen.,
Hipp. 2.7; Mem. 3.1), potremmo ricavare un'immagine contraddittoria e perfino
sconcertante della battaglia
oplite. Al momento dello scontro, i guerrieri delle primissime file, per
vincere, dovevano aprirsi un varco tra
le file nemiche, combattendo, se necessario, anche a mani nude, creando cos una
breccia in cui potessero
infilarsi le seconde linee, mantenendosi per sempre a stretto contatto con i
compagni ai fianchi e alle spalle.
La battaglia oplite, al pari di altri aspetti della cultura greca, esigeva
quindi dal guerriero una particolare dualit
di spirito: doveva essere un combattente temerario in grado di farsi strada con
la forza tra la carne e il bronzo
del nemico che gli stava di fronte, senza per dimenticare mai di concertare il
suo sforzo con i compagni.
Doveva insomma recitare due ruoli difficili che si escludevano o quasi a
vicenda: scatenarsi con furia selvaggia
nel cozzo iniziale conservando per il controllo assoluto di tanta furia per
avanzare tra le colonne nemiche con
una disciplina assoluta.
vero che in genere nella battaglia oplite alla collisione iniziale tra gli
uomini e alla successiva pugna corpo a
corpo subentrava ben presto l'othisms, la spinta con gli scudi, non appena
una parte riusciva a farsi trada
consentendo ai guerrieri di penetrare dentro e attraverso la falange nemica. In
taluni casi nessuno dei due
contendenti riusciva ad aprire la breccia necessaria, e allora si limitavano a
massacrarsi l dove si trovavano: i
morti venivano scoperti al termine della battaglia, tutti feriti frontalmente
(Diod., 1553.2). In questi rari
casi i soldati delle file retrostanti non potevano premere fino a conseguire la
vittoria, ma erano costretti ad
avanzare di una fila sopra i corpi dei caduti e a dare il loro contributo alla
carneficina (per esempio Diod.,
20.12.7). Nella battaglia del fiume Nemea, quando gli uomini di Pallene si
precipitarono a capofitto contro la
falange dei soldati di Tespia, le due parti combatterono e morirono allineate
(Sen., Hell. 4.2.20). Che la spinta
con gli scudi in una battaglia oplite non provocasse necessariamente un crollo
repentino subito dopo la
collisione emerge anche dalla seconda fase dei combattimenti a Coronea, in cui
le falangi tebane e spartane si
scontrarono frontalmente: Cozzavano gli scudi, gli uomini premevano, si
battevano, uccidevano, cadevano
(Hell. 4.3.19). Le battaglie di questo tipo in genere erano pi lunghe e
certamente pi brutali. Gli autori greci
colsero l'anomalia di questo modo di combattere, in cui due falangi compatte si
massacravano l'una con l'altra
in una carneficina incessante, senza riuscire ad avanzare. C'era qualcosa di
radicalmente sbagliato nella guerra
di tipo greco? Si coglie una punta di paura oltre che di tristezza nei racconti
delle battaglie in cui una delle due
parti non crollata: nella celebre osservazione di Senofonte sulla battaglia di
Coronea, per esempio, dissimile
da ogni altra nel nostro tempo (Hell. 4.3.16), e nel suo resoconto su quella
del fiume Nemea, dove gli uomini
di Tespia e gli uomini di Pallene caddero sul posto gli uni e gli altri (Hell.
4.2.20).

15. La pressione e il crollo


Avanzare significa vincere.
Federico il Grande
Un ben duro pestaggio, signori; vediamo chi pester pi a lungo.
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Victor Davis Hanson - Volume Primo. L'Arte Occidentale Della Guerra.txt
Duca di Weilington
Gli uomini che occupavano le file dalla quarta all'ottava nella maggior parte
delle falangi dell'et classica
non restavano a guardare mentre i compagni davanti a loro si scontravano con il
nemico; non somigliavano
affatto ai soldati delle retrovie cos come li vedono, disprezzandoli, i
combattenti moderni. Anzi, spesso i
guerrieri migliori restavano in retroguardia e da l sorvegliavano l'andamento
della battaglia. Se dopo la
collisione non iniziava l'avanzata, dovevano restare fermi, mantenere il posto
assegnato e resistere alle pressioni
all'indietro esercitate dagli opliti innervositi al centro, che non avendo la
possibilit di avanzare cominciavano
a pensare di fuggire (per esempio Polib., 18.30.4; Asclepiodoto, 5.2). Kellet
osserva che anche nella battaglia
moderna, che non prevede i ranghi compatti come nella falange antica,
...un altro fattore che trattiene il soldato dal fuggire l'impeto. Federico il
Grande, per esempio, lanciava alla carica i suoi
squadroni al gran galoppo, di modo che la paura stessa del codardo lo spingeva
avanti: se avesse esitato, sarebbe stato
travolto dal resto dello squadrone. L'impeto era anche una specialit delle
colonne di Napoleone, e forse ancor pi
caratteristico delle battaglie moderne, grazie alla meccanizzazione.
Gli opliti, le lance rivolte verso il cielo, ne tenevano la punta mortale
lontano dalla schiena dei compagni
davanti; se i soldati nemici cercavano di bersagliare con proiettili la falange
mentre attraversava la terra di
nessuno, essa era in grado in qualche modo di rintuzzare l'attacco con la
barriera di aste. Inoltre l'oplite usava la
lancia in altri modi. L'asta poteva essere calata con violenza verso il basso
con un colpo verticale contro i soldati
nemici che giacevano feriti, di modo che il puntale penetrasse nella corazza e
nello scudo dei caduti. Infine, i
compagni delle prime file rimasti tramortiti, feriti o abbattuti potevano essere
aiutati a rimettersi in piedi e
assorbiti nella formazione oppure rifugiarsi nelle retrovie. Era ovviamente
difficile farlo: occorreva che il soldato
in corazza si chinasse e tirasse su il compagno (che con tutto l'armamento
pesava un centinaio di chili)
continuando al contempo a spingere e a mantenersi in formazione. pi probabile
che i soldati spesso
camminassero - se questo il verbo giusto - sopra il corpo degli amici
feriti.
Il vero contributo di questi uomini delle file retrostanti consisteva
semplicemente nell'esercitare una pressione
con lo scudo contro coloro che li precedevano: per dirla con Asclepiodoto,
premevano con il corpo (5.2).
chiaro che dal momento dell'impatto il loro compito era essenzialmente questo,
man mano che si ammassavano
dietro i capofila; la loro pressione si faceva via via pi forte o pi disperata
in quanto si sforzavano di ricacciare
indietro tutta la massa nemica, che cercava a sua volta di spingersi avanti. E
sorprendente constatare quanti autori
antichi definissero le fasi cruciali della battaglia oplite una spinta
mediante cui ciascuno schieramento tentava
disperatamente di darsi uno slancio maggiore grazie al peso o alla massa
superiori (cfr. Sen., Hell. 2.4.34;
6.4.14; 7.1.31; Ages. 2.12; Cyr. 7.1.33; Tuc, 4.96.2; 4.35.3; 6.70.2; Erod.,
7.224-225; 9.62.2; Polib., 18.30.4; Arr,
Toct. 12.10.20; 14.16; Paus., 4.7.7-8; 13; Plut., Ages. 18.2). Nei Calabroni di
Aristofane, i veterani raccontano che
subito, con lancia e scudo, accorremmo fuori e combattemmo contro di loro [...]
l'uno fermo accanto all'altro
[...] con l'aiuto degli di li cacciammo [...] e poi li inseguimmo (1081-1085).
A Coronea, scrive Senofonte, gli
spartani cozzavano gli scudi [...] premevano, si battevano, uccidevano,
cadevano (Hell. 4.3.19)
Per gli antichi era scontato che quanto pi profonda era una colonna, tanto
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maggiori erano la sua pressione e
il suo impeto; non per noto quale fosse il numero ottimale di file in pi. Le
falangi formate da pi di sedici
file dovevano avere sicuramente anche altre preoccupazioni: forse in qualche
caso desideravano accorciare
(egoisticamente) il proprio fronte scoperto, nel tentativo di costringere
qualche alleato riluttante a esporsi di pi
lungo la linea della battaglia. In ogni caso, generalmente le falangi non erano
definite in base al numero di file,
righe o lance, ma alla profondit degli scudi, un dato che starebbe a indicare
come l'obiettivo principale delle
file centrali e posteriori fosse quello di spingere avanti con lo scudo e con il
corpo. A volte la battaglia oplite si
risolveva semplicemente in un othisms aspidion, in urti di scudi (Tuc,
4.96.2). Si trattava insomma di
superare il punto morto nei pochi, preziosi minuti prima che prevalesse la
stanchezza; la percezione del successo,
di un movimento in avanti, doveva essere quasi altrettanto importante di
un'avanzata reale, poich dava agli uomini la fiducia che i loro strenui sforzi
non erano stati vani.
Come ovvio, la pressione lungo tutta la linea di una falange non era mai
uniforme. Un'ala o anche un piccolo
settore di un singolo contingente potevano avvertire un fremito di stanchezza
nel gruppo di opliti nemici che
stavano proprio di fronte e perci la possibilit di farsi largo tra le loro
file. Ma nel momento in cui gli opliti
raddoppiavano gli sforzi dovevano anche stare bene attenti che in qualche punto
della propria linea i loro
compagni non si trovassero nella stessa situazione di quei nemici, non stessero
cedendo terreno fino a trovarsi
isolati nella falange, consentendo cos al nemico di incalzarli sui lati e da
dietro. Due grida di esortazione
contrastanti che risuonavano nella battaglia greca esprimono tali estremi. Le
grida di esultanza degli uomini
che si accorgevano di colpo di aver avuto successo e di dover fare solo uno
sforzo ulteriore, dare un'ultima
spinta concentrata, per sbaragliare il nemico vacillante: Un passo avanti e la
vittoria sar nostra (Poi., Strat.
23.2-4; 3.9.27; 4.3.8). O, all'altro estremo, il grido, indirizzato agli uomini
accerchiati, di resistere, di non cedere
alla pressione dei corpi e di non farsi spazzare via dal campo di battaglia:
Resista ognuno ben piantato sulle gambe al suolo, mordendosi le labbra con i
denti. (Tirteo, 8.21-22)
In alcune descrizioni di battaglie tra opliti evidente che un'ala tiene
costantemente d'occhio l'altra,
preoccupata (o forse prevedendo) che il proprio successo nell'incalzare
l'avversario sia messo in pericolo dagli
alleati meno fortunati o meno affidabili, che non hanno nessuna intenzione di
seguirla e neppure di
proteggerle le spalle e i fianchi durante la rapida avanzata. Per esempio,
durante la prima battaglia di
Mantinea del 418, i soldati di questa citt piegarono l'ala sinistra dei
peloponnesiaci e inseguirono i nemici
fino al loro campo; a quel punto, per, si videro costretti a interrompere
l'inseguimento, perch si accorsero
d'improvviso che i loro alleati nella linea di battaglia, gli argivi e gli
ateniesi, erano stati sbaragliati, e che gli
spartani si dirigevano a tutta velocit contro di loro (Tuc, 5.73). Allo stesso
modo, narra Senofonte, a Leuttra
le truppe dell'ala sinistra spartana mantennero le posizioni fino a quando
vedendo la destra respinta
cedettero, senza dubbio in preda a un senso di incredulit e di stupore (Hell.
6.4.14).
Ma come si svolgeva esattamente questa pressione di massa? I riferimenti al
grande peso o alla massa di
una falange riguardano l'energia fisica generata da file e file di uomini; i
fanti che nella colonna occupavano le
file oltre la terza - per la precisione le file dalla quarta all'ottava nella
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falange tipo - si appoggiavano con tutto il
corpo agli uomini davanti nei primi momenti dopo la collisione tra le due
formazioni. In altre parole, ciascun
oplite premeva con il centro del proprio scudo sulla schiena dell'uomo davanti a
lui, magari tenendosi in
equilibrio con la lancia tenuta verticale quando era piegato in avanti. In tal
modo l'asta serviva come una sorta
di puntello; usata come sostegno forniva una spinta supplementare oltre a dare
equilibrio. Senofonte aveva in
mente quest'immagine quando osserv, in un racconto romanzato di una battaglia,
che gli egiziani erano
particolarmente adatti al combattimento in colonna perch le dimensioni dello
scudo consentivano al fante di
appoggiare la spalla mentre spingeva (Cyr. 7.1.33). In base alle ricostruzioni
dello scudo dell'oplite, alle
testimonianze dei dipinti su vaso e alle indicazioni nella letteratura greca,
sappiamo che il bordo superiore del
modello concavo greco era previsto per quella spinta costante; l'oplite
appoggiava lo scudo sulla spalla mentre
lo premeva contro la schiena dei compagni davanti a lui. In quel modo il peso
veniva distribuito su tutto il
corpo anzich sul solo braccio sinistro, mentre l'ampia superficie dello scudo
faceva s che la pressione si
distribuisse in modo uniforme lungo tutta la schiena dell'uomo davanti, senza
essergli d'ostacolo n fargli
perdere l'equilibrio. Polibio scrive semplicemente che gli uomini premono con
il peso stesso del loro corpo
(18.30.4); quest'immagine della spinta si ritrova in numerosi autori e non fa
che confermare la nostra
convinzione che gli uomini facevano effettivamente pressione su chi stava loro
davanti, rannicchiandosi dentro
l'ampia superficie del proprio scudo (Tuc, 4.96.2; Asclepiodoto, 5.2; Arr,,
Taci. 10.12; El., Taci. 14.6). Il poeta Teocrito descrive il modo in cui Castore
sollecita rcole a mettere la spalla
dietro lo scudo (24.15) e questa tecnica fu ripresa nelle guerre successive: a
proposito della famosa battaglia di
Zama, Livio afferma che i romani avevano spinto avanti i propri uomini
esercitando una pressione sulla loro
schiena con la parte centrale degli scudi (30.34).
Un'indicazione dell'immensa energia prodotta da questa massa di scudi il tipo
di ferite inflitte dopo l'impatto
iniziale: sono numerosi i riferimenti ai soldati calpestati oppure letteralmente
soffocati nel punto in cui si
trovavano. Chiunque inciampasse o cadesse ferito correva il pericolo di essere
maciullato dagli uomini delle
file posteriori che avanzavano pesantemente, accecati dalla polvere e dalla
stretta dei corpi e ignorando l'esatta
successione di eventi nel momento cruciale della battaglia. Per gli opliti
armati di tutto punto era difficile
raccogliere un compagno caduto e spesso si limitavano a evitarne goffamente il
corpo. Un generale greco non
era in grado di fermare la pressione neppure per un momento, perch un ordine in
questo senso avrebbe fatto
credere agli uomini delle retrovie che il combattimento aveva preso una brutta
piega, inducendoli alla fuga.
Anche se talvolta chi cadeva riusciva a rimettersi in piedi, come il figlio di
Sfodria che nella battaglia di Leuttra
cadde tre volte (Sen., Hell. 5.4.33), probabile che tali recuperi fossero rari
e riguardassero per lo pi la linea di
battaglia sul fronte della falange nei secondi che seguivano la collisione,
perch solo allora era ancora presente,
nella zona della carneficina, un minimo di fluidit nel combattimento tale da
permettere una certa mobilit
individuale. Pi spesso sentiamo parlare di corpi calpestati e perfino
maciullati sul terreno, come se le
corazze non fornissero una protezione dai piedi di chi marciava. Durante la
battaglia di Corinto, per esempio,
gli argivi furono spinti contro una palizzata dall'avanzata dei peloponnesiaci.
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Non soltanto erano stati sorpresi
dall'avanzata nemica, ma la mancanza di una via di fuga fece s che molti
fossero schiacciati dai loro compagni
che premevano da dietro. Dopo la battaglia, Senofonte rilev che in pochi attimi
era caduto un tal numero di
uomini che la pila dei cadaveri somigliava a mucchi di grano, di legno o di
pietre (Hell. 4.4.12). In altre parole,
si erano creati strati di morti, soffocati e ammucchiati gli uni sugli altri.
Senofonte non ci dice quanto erano alti
i mucchi. Sia Diodoro sia Tucidide raccontano di corpi calpestati durante
un'avanzata generale o una ritirata
(per esempio Diod., 16.86.3; Tuc, 5.72), ed Erodoto ci ha lasciato una
descrizione vivida della carneficina che
la pressione incessantemente esercitata da dietro poteva provocare. Durante le
ultime fasi della battaglia
condotta dai persiani alle Termopi, narra Erodoto, molti cadevano nel mare e
vi perivano, e in numero
ancora maggiore venivano calpestati vivi gli uni dagli altri (7.223). Il poeta
romano Lucano fantastic di una
battaglia in cui la pressione era tale che tutti i morti, stretti in quella
folla, rimasero in piedi (4.787),
un'immagine che forse non solo un prodotto della fantasia se si considera che
gli uomini erano imprigionati e
soffocati nella pressione davanti e dietro. Secondo Ammiano anche nella
battaglia romana, in cui la fluidit
era molto maggiore, si verificavano episodi in cui i morti rimanevano in piedi,
tale era la densit dei corpi
(18.8.12).
Quando gli artisti che dipingono su vaso tentano di rendere la scena difficile
dello sforzo collettivo, di solito
raffigurano uno o due opliti greci che incespicano e stanno per finire
calpestati nella mischia generale (Lorimer,
tav. 11). Nella scultura troviamo prove analoghe della pressione; per esempio,
il fregio del tesoro di Sifno a
Delfi raffigura un guerriero a terra che sta per essere calpestato dal nemico
incombente (Ducrey, tav. 174).
Alcuni dei primi soldati a finire calpestati dovevano essere gli opliti pi
vecchi, i meno abili o meno bramosi
di combattere. Tuttavia, dato che mantenersi nei ranghi e respingere l'attacco
conservando la formazione era
altrettanto importante che infliggere perdite al nemico, anche un oplite delle
file centrali non molto abile o
forte con la lancia e con lo scudo, e per di pi poco ansioso di uccidere, dava
un valido aiuto ai compagni
mantenendo la posizione quando veniva spinto in avanti: fino alla morte il suo
corpo costituiva un anello
cruciale per conservare l'intera formazione. S. L.A. Marshall osserva come il
fatto che un reparto riesca a
preservarsi nella battaglia moderna dipenda spesso non solo da coloro che sono
in prima fila ma anche da
quelli che seguono:
L'inazione degli individui passivi non ha un effetto demoralizzante su coloro
che fanno un uso tattico della loro potenza
di fuoco. Al contrario, la presenza dei primi permette ai secondi di andare
avanti. Ogni manifestazione di potenzia lungo
la linea che pu essere vista dagli altri soldati accresce la forza morale.
Solamente quando gli uomini cominciano a
cedere terreno lungo l'intera linea il coraggio vacilla. E pur essendo chiaro al
di l di ogni dubbio che la vera forza
difensiva della posizione data da quegli uomini che usano le loro armi, non
c' prova che il soldato che non prende
l'iniziativa sparando contro il nemico, sotto la pressione abbandoner la
posizione prima del compagno pi aggressivo.
A un certo punto, da una delle due parti, un settore della falange non era pi
in grado di resistere alla pressione
e cominciava a essere spinto indietro, in questo modo veniva messa a repentaglio
l'unit dell'intera colonna e tutti
gli uomini - sia quelli che si erano infilati nei varchi lungo la linea nemica,
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sia quelli delle file dietro che
premevano in avanti - cominciavano per la prima volta a pensare alla propria
salvezza. In altre parole, iniziava la
disfatta finale. Talvolta si verificava un crollo improvviso e drammatico in un
punto particolare della falange; il
termine greco pararrexis e quelli affini (la rottura della linea) rendono
perfettamente il significato di un disastro
del genere. Mentre la successione di eventi a partire da quel momento
facilmente immaginabile, ci interessa di
pi Yatmosfera peculiare nella falange in nell'ultima, disperata fase della
battaglia tra opliti greci.
In primo luogo, da una parte si faceva strada l'interesse personale: ciascun
oplite, in misura diversa a
seconda della sua posizione rispetto al punto del cedimento e della propria
condizione fisica, doveva
affrontare il pericolo via via crescente di rimanere in linea nella falange,
combattendo a oltranza nella ferma
lotta per la patria e i figli (Tirteo, 9.33-34). Ogni soldato, accorgendosi che
la battaglia era perduta e che i
compagni dietro a lui fuggivano fila dopo fila, doveva decidere in pochi secondi
quando, come e se gli sarebbe
stato possibile fuggire. Per alcuni non si sarebbe mai posto alcun dilemma,
avrebbero appoggiato la scelta fatta
dai vecchi poeti di guerra Callino e Tirteo o dai Trecento alle Termopi: morire
al proprio posto quando il
nemico irrompeva in massa dai fianchi e da dietro ed evitare a ogni costo il
disonore della fuga. Tali furono, per
esempio, secondo Senofonte, gli ultimi, violenti istanti di vita di Anassibo,
che nel 389 prefer morire a
fianco degli altri ufficiali spartani mentre i suoi soldati cercavano di
scappare: Soldati, il mio dovere di morire
qui. Ma voi non aspettate l'urto dei nemici: affrettatevi a mettervi in salvo.
Ci detto, preso lo scudo dallo
scudiero, cadde combattendo l sul posto (Hell. 4.8.38). Parimenti, durante la
precipitosa fuga a seguito del
disastro ateniese ad Anfipoli nel 422, alcuni soldati assediati di Cleonte
-uomini assai migliori del loro
ufficiale comandante - mantennero la formazione e respinsero l'attacco; molti di
loro esalarono l'ultimo respiro
opponendo la resistenza finale sotto una pioggia di dardi (Tuc, 5.10.9). Il loro
coraggio, senza dubbio, non fu
da meno di quello esibito dai pi famosi difensori delle Termopi.
Al cedimento localizzato faceva seguito il crollo generale (trope). A dispetto
degli ammonimenti di Omero e
dei poeti lirici, la ritirata appariva a molti soldati preferibile a una fine
gloriosa; si trattava semplicemente di
trovare una via di fuga adatta. La scelta dipendeva da diversi fattori: quanto
era disperata la situazione; se
esistevano vie di scampo; in quale misura il panico o la paura soverchiavano la
ragione; la vergogna e il senso di
ignominia che avvertivano gli individui pi padroni di s. Se la falange aveva
conservato un minimo di
coesione, era ancora possibile, seppure difficile, una ritirata attiva
improvvisata. vero che non era facile
sganciarsi dal nemico, ricostituire i ranghi, ruotare di 180 gradi e costituire
una retroguardia credibile, ma
questa manovra dava l'opportunit migliore di salvare tanto la vita quanto la
reputazione. Tucidide racconta
che durante il disastro peloponnesiaco a Olpe nel 426 gran parte degli uomini,
in preda al panico e alla confusione, cadde vittima della fuga disordinata, con
l'eccezione degli uomini di Mantinea: In tutto l'esercito
costoro nel ritirarsi furono i meglio schierati (3.108.3). Allo steso modo,
nella battaglia di Soligea i corinzi si
ritirarono in ordine dopo il cedimento iniziale, si riorganizzarono su un
terreno pi elevato e si prepararono a
respingere un altro assalto ateniese (Tuc, 4.44.2). In seguito, nel corso di una
battaglia contro gli arcadi nel
365, gli spartani cedettero di fronte alla moltitudine degli assalitori, ma
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com'era prevedibile lo fecero in massa,
mantenendo la formazione finch ebbero spazio sufficiente per ricostituire la
falange e cercare ancora di resistere
al nemico (Sen., Hell. 7.4.24). Una volta di pi, nel racconto di Senofonte
nulla indica che gli spartani, da soli
o in piccoli gruppi, cercassero la salvezza nella fuga. Anche nel 371 a Leuttra,
la pi grave catastrofe militare
nella storia di Sparta, le colonne smembrate, nonostante le perdite pesanti,
riuscirono in qualche modo a
ripiegare in ordine fino al campo, a schierarsi dietro gli scudi e ricostituire
con gli uomini la formazione di
battaglia; cos poterono effettivamente strappare il corpo del loro re morto,
Cleombroto, dalle mani dei tebani
vittoriosi (Sen., Hell. 6.4.14). Un quadro simile di coraggio e disciplina
offerto dalla fermezza dei picchieri
svizzeri del XV secolo, la cui calma nella sconfitta ricorda quella degli
spartani:
La battaglia di San Jacob, per quanto assurda e inutile, poteva servire da
esempio per scoraggiare il nemico pi audace
dal prendersela con uomini che preferivano l'annientamento alla ritirata. I
confederati, dominati dall'idea che la loro
falange potesse abbattere ogni ostacolo, attraversarono di proposito i Bir a
dispetto di un esercito quindici volte superiore
[...] Non fu cosa di poco conto ingaggiar battaglia con un nemico deciso a non
ritirarsi per quanto numericamente
inferiore, che era sempre pronto a combattere, che non intendeva concedere n
chiedere grazia. (Oman)
La maggior parte degli eserciti, tuttavia, non aveva di solito le capacit e il
sangue freddo degli spartani o in
seguito degli svizzeri, e spesso la paura della morte prevaleva su ogni altra
considerazione: non c'era la
possibilit n, forse, la volont di riformare i ranghi e affrontare di nuovo le
lance nemiche. In simili
circostanze solo due erano le alternative. La prima consisteva nel formare
piccole sacche di coraggiosi, che
potevano ritirarsi a gruppi di due o tre, o di cinque o dieci, facendo pagar
caro al nemico un inseguimento
sconsiderato. In situazioni disperate, si trattava dell'alternativa pi
razionale, che per si verificava raramente.
In fin dei conti, a quel punto del crollo definitivo l'oplite doveva possedere
un coraggio fuori dal comune per
tenere stretto lo scudo e muoversi lateralmente con passo piuttosto lento
attraverso il campo di battaglia, alla
ricerca dei pochi che riuscivano ancora a controllarsi, parando nel frattempo,
in condizioni sfavorevoli, i
ripetuti ttacchi del nemico che incalzava. I siracusani, sconfitti nel primo
scontro del 415 dall'esercito
d'invasione degli opliti ateniesi, avevano probabilmente conservato questa
parvenza d'ordine, visto che a detta
di Tucidide riuscirono a formare qualche sorta di gruppo nel corso della
ritirata, sebbene la loro falange fosse
stata spezzata in due. Abbiamo l'impressione che i piccoli gruppi, forse aiutati
dalla cavalleria, si fossero
ritirati ognuno per proprio conto finch riuscirono a raccogliersi in numero
sufficiente per riformare i ranghi
(6.70).
I migliori esempi di queste ritirate attive di individui con intenti simili, che
si raccoglievano per salvarsi in mezzo
al panico generale, si leggono in una serie di aneddoti relativi alla carriera
militare del filosofo Socrate. Grazie a
Plutarco, sappiamo che dopo la sconfitta ateniese a Delio nel 424 Socrate guid
la ritirata di un piccolo gruppo
all'Oropo (Mor. 581 D). Nel Simposio Piatone racconta il medesimo episodio per
bocca di Alcibiade: Socrate
soppes tranquillamente amici e nemici, mostrando chiaro a chiunque anche da
molto lontano che, se
qualcuno avesse toccato quest'uomo, si sarebbe difeso con la massima forza.
Anche per questo si ritiravano con
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sicurezza, lui e il suo compagno. Alcibiade conclude questo racconto con
un'osservazione particolarmente
interessante sulla condotta degli opliti durante il cedimento di una falange:
Perch quasi non li toccano neppure
quelli che in guerra sono in questa disposizione, mentre inseguono quelli che
fuggono in disordine (221 B).
Pare che durante la rotta seguita alla sconfitta ateniese ad Anfipoli Socrate
avesse salvato ugualmente Alcibiade,
portandolo in salvo: Sia Socrate sia Alcibiade si distinsero nell'aspra
battaglia. Ma quando Alcibiade cadde
ferito, Socrate gli rimase accanto, lo difese e con coraggio manifesto salv lui
e le sue armi... Durante la fuga
degli ateniesi dopo la sconfitta di Delio, Alcibiade, che era a cavallo, vide
Socrate che si ritirava a piedi con
pochi compagni; gli si avvicin e lo aiut a difendersi sebbene i nemici
fossero vicini e attorno cadessero molti
soldati (Plut., Ale. 7.3). Ancora Platone, nel Lachete, fa riferimento a questa
resistenza di uomini armati dal
coraggio l dove suggerisce che l'abilit nel combattimento con la corazza, pur
avendo una certa importanza
nella mischia generale, sommamente utile quando occorre combattere in
schieramento con molti altri; ma la
massima utilit sar quando lo schieramento rotto e occorre ormai combattere
da solo a solo o inseguendo e
attaccando chi indietreggia o difendendosi nella ritirata da chi attacca (182
A). In quell'occasione Platone fa
dire a Socrate, senza dubbio in base alla sua esperienza di combattimento, che
nella collisione e nella pugna
confusa che segue tra le falangi l'abilit con le armi non decisiva, mentre
quando comincia la rotta la fluidit
della battaglia impone agli opliti di duellare individualmente se vogliono
salvare la pelle.
La seconda alternativa che si offriva agli opliti della falange sconfitta era
semplicemente quella di buttar via
le armi - scudo, lancia ed elmo - e fuggire per proprio conto, come i poeti
Archiloco e Alceo. Anche a
prescindere dal biasimo che circondava questa risposta affatto umana, la
semplice fuga offriva minime
possibilit di sopravvivenza. Anche nella battaglia moderna si constatato
spesso che la fuga era la scelta pi
pericolosa che un soldato potesse fare. Nella prima guerra mondiale spesso era
altrettanto pericoloso (e a
volte di pi) ritirarsi, arrendersi o semplicemente restare in situ che non
lanciarsi sull'obiettivo o continuare a
combattere (Kellet, p. 304). L'oplite che fuggiva non solo metteva in pericolo
gli amici, riducendo le
possibilit restanti di riformare i ranghi, ma quel che pi conta offriva il
facile bersaglio della schiena
all'inseguitore. Era probabile che il nemico attaccasse per primi questi
bersagli facili, che nel migliore dei casi
non erano protetti da corazza ed erano armati solo di corte spade, e che
ovviamente offrivano un'opportunit
assai pi agevole delle sacche di resistenza intrepida formate da uomini quali
Socrate e i suoi amici.
Raccogliersi in gruppo per scagliarsi contro quei bersagli sparsi e indifesi
poteva procurare l'insolito piacere di
una facile carneficina che non comportava un rischio reale:
Sette i morti (noi correndo li agguantammo, e caddero). Gli uccisori siamo
mille. (Archil., 46)
Questo cantava Archiloco dopo essersi trovato ad assaltare uomini che fuggivano
disarmati: quel medesimo
poeta che si era vantato di aver avuto anch'egli occasione di gettare via lo
scudo e di fuggire dalla battaglia.
Tirteo ha descritto con maggior dovizia di particolari la scena patetica del
massacro di coloro che voltavano le
spalle e fuggivano terrorizzati:
cosa cos agevole dilacerare il tergo
di chi fugge nel vivo della mischia!
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Ma che sconcio un cadavere che giace nella polvere,
trafitto il dorso da punta di lancia! (Tirteo, 8.17-20)
Lo sconcio dell'oplite intrappolato uno dei temi preferiti sia dei dipinti
su vaso, sia delle sculture, in cui
vediamo il soldato caduto che protende invano la corta spada prima del colpo di
grazia infertogli dalla lancia del
nemico vittorioso (Anderson 1970, tav. 10).
La ragione per cui la conclusione pi frequente della battaglia oplite era una
fuga in massa anzich una ritirata
ordinata delle colonne forse l'estrema vulnerabilit dell'intera falange per
la debolezza di pochissimi
individui. Se per qualche motivo inesplicabile uno o due soli opliti rompevano
le righe, l'improvviso
arretramento veniva immediatamente percepito da chi era vicino, che non poteva
fermarsi a contestare quella
decisione ma la seguiva d'istinto, quasi che i pusillanimi avessero individuato
un ignoto pericolo mortale. Inoltre,
non molti sopportavano l'idea che la loro tenace resistenza al nemico, il loro
coraggio nell'attacco, non servissero
ad altro che a permettere la fuga di quei codardi, mentre loro rischiavano di
essere annientati. S. L.A.
Marshall ha osservato pi o meno lo stesso fenomeno tra i fanti moderni durante
la seconda guerra mondiale, tra
uomini che combattevano in linea (e non a stretto contatto, come nell'antica
falange) e avrebbero dovuto essere
molto meno vulnerabili al panico di pochi:
In ogni caso, questo qualcosa avrebbe potuto essere evitato. Il denominatore
comune era che i guai cominciavano perch
qualcuno agiva in modo sconsiderato, qualcuno non diceva agli altri che cosa
stava facendo. Penso si possa formulare la
regola che nulla come la vista di qualcuno del gruppo che si da inspiegabilmente
alla fuga verso le retrovie possa
determinare il crollo di una linea di fanteria in combattimento. Un movimento
precipitoso nella direzione sbagliata un
aperto invito al disastro.
L'esempio forse migliore di un disastro di questo genere la cosiddetta
battaglia senza lacrime tra gli alleati
peloponnesiaci e gli spartani nel 368. Gli alleati non ressero alla vista della
carica spartana e, semplicemente,
voltarono le spalle e fuggirono davanti ai loro occhi. Vittime del panico,
furono spietatamente massacrati da
Archidamo e dai suoi vari contingenti. Diodoro afferma che quasi diecimila
uomini furono colpiti alle spalle
(15.72; cfr. Sen., Hell. 7.1.31).
Oltre all'inseguimento da parte degli opliti, un pericolo ancora peggiore era
costituito dall'intervento della
cavalleria e dei soldati armati alla leggera. Durante le prime fasi della
battaglia questi corpi ausiliari si tenevano
in generale lontani dalla pugna, non avendo nessuna possibilit di sferrare un
attacco contro le truppe superiori
che formavano la solida linea di scudi opliti. Ma ora, per la prima e unica
volta dopo le piccole scaramucce
precedenti la battaglia, avevano la possibilit di intervenire sul campo per
dimostrare che anche loro dopo tutto
erano guerrieri, scagliandosi a piedi o a cavallo contro il nemico indifeso e
condannato. Per esempio, dopo il
crollo ateniese a Delio, Tucidide segnal l'intervento della cavalleria della
Beozia e della Locride, che aveva
riportato i massimi allori contro il nemico in fuga (4.96.8-9). Un caso simile
si verific nel 429 durante la ritirata
ateniese a Potidea. In quest'occasione la cavalleria calcidica e gli arcieri
causarono pi di quattrocento vittime
tra gli ateniesi in fuga, uccidendone tutti i generali (Tuc, 2.79). Senofonte,
nell'Ipparchico, parla di queste occasioni ideali raccomandando esplicitamente
ai cavalieri di attaccare un nemico che fugge in disordine:
L'inseguitore deve essere, in ogni caso, pi forte della preda. facile
comprenderne il motivo. Persino gli animali, che
niente hanno dell'intelligenza umana, come i falchi, ghermiscono ogni qualcosa
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sia lasciata incustodita e poi si ritirano a
una distanza che li ponga al sicuro prima di poter essere catturati. (4.18).
16. Confusione, errori di manovra, violenza di massa
Mon centre cde, ma droite recule, situation excellente. J'attaque!
Maresciallo Foch
La battaglia greca si svolgeva di solito secondo certe regole: carica,
collisione, combattimento corpo a corpo,
pressione e rotta finale. Questa successione di eventi confermata dagli
osservatori antichi, i quali coniarono
un vocabolario apposito per descrivere ci che vedevano o sentivano: la carica
(efodos o epidrome), il cozzo
delle lance (dorathisms), il combattimento corpo a corpo (en ebersi), la
pressione (othisms) e il crollo {trop).
Tuttavia, immaginare una battaglia oplite distinta in queste fasi fuorviante
se si ipotizza che la successione
degli eventi fosse ben precisa e non una incessante confusione di movimenti
ininterrotti, il cui corso futuro era
sempre alquanto incerto. probabile che gli opliti sul campo di battaglia non
capissero mai chiaramente se la
loro falange era avanzata dopo la collisione, riuscendo a penetrare tra le file
del nemico, oppure se stesse per
precipitare in un disordine fatale. I soldati potevano farsi soltanto un'idea
assai vaga - per lo pi in base al
contatto con i corpi e alla pressione della carne e non perch riuscissero a
vedere o a sentire - dell'andamento
favorevole o sfavorevole della battaglia. I fanti non scorgevano altro che corpi
in movimento dappertutto, di
fronte, di fianco e dietro, i cadaveri ai loro piedi, disordine e confusione:
dunque non una successione di
eventi prevedibili.
Inoltre, quando gli schieramenti erano confusi tra loro tanto che non esisteva
una linea offensiva o difensiva
n una chiara demarcazione tra loro, era difficile capire chi era nemico e chi
amico. L'oplite greco non portava
l'uniforme e soltanto le insegne sullo scudo indicavano a quale forza
apparteneva. I soldati di professione di
Sparta si distinguevano grazie alle tuniche rosse particolari, per non dire
famigerate, ma per il resto, quando due
schieramenti si scontravano, l'uniformit degli elmi e delle corazze in tutto il
mondo greco rendeva pressoch
indistinguibili i soldati. Inoltre, nella mischia generale a breve distanza, la
lettera o l'emblema che comparivano su
ogni scudo non erano affatto sufficienti per distinguere gli amici dai nemici,
soprattutto dopo che gli scudi erano
stati colpiti ripetutamente durante la collisione e la pugna che vi seguiva. Per
esempio, in un passo degli
Acarnestdi Aristofane (1180) l'emblema dello scudo di Lamaco si stacca. Inoltre,
in molti casi gli emblemi
erano individuali e non nazionali e in qualche caso mancavano completamente.
Dato che le alleanze tra le
piccole cittstato non erano bene definite e cambiavano in continuazione, non
sempre c'era modo di
riconoscere un soldato amico, e come se non bastasse non c'era nessuna
garanzia che i soldati usassero
necessariamente i propri scudi; Senofonte racconta un episodio di questo genere
quando nel 392 gli spartani
vennero in aiuto dei loro alleati di Sicione che versavano in gravi difficolt
durante uno scontro minore presso
Corinto. Pasimaco, il comandante spartano,
tolse ai sicioni gli scudi e si fece innanzi agli argivi con i suoi volontari.
Gli argivi, vedendo il sigma [la lettera greca che
indicava i sicioni] sugli scudi, li credettero sicioni e non temevano nulla. Si
dice che allora Pasimaco abbia esclamato: Per
i Gemelli! Argivi, sarete delusi da questi sigma! (Hell. 4.4.10).
Gli opliti non solo non erano regolarmente identificabili in base alla loro
tenuta, ma neppure la lingua che
parlavano era d'aiuto. Coloro che parlavano il dorico o l'attico potevano
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trovarsi dalla parte opposta del
campo di battaglia quando le loro cittstato si alleavano con altre che
parlavano un dialetto diverso. Durante lo
scontro di Epipole nelle colline intorno a Siracusa, gli ateniesi, udito il
grido di guerra dorico, non riuscirono a
capire se fosse stato lanciato dai loro alleati, gli argivi e gli uomini di
Corf, o dai nemici peloponnesiaci e
siracusani (Tuc, 7.44).
La battaglia oplite diventava perci, con una certa frequenza, una sorta di
lotta tutti contro tutti tra fanti che
apparivano, si vestivano, combattevano e parlavano in modo simile: non sorprende
che spesso gli uomini non
avessero la minima idea di chi stessero combattendo dopo che le falangi si erano
scontrate e mescolate. Se
cambiava la pressione delle linee che avanzavano e arretravano, i soldati
potevano trovarsi di fronte, quasi
faccia a faccia con i propri compagni, mentre qualche sacca nemica si formava a
fianco a loro e magari alle
loro spalle. Due sono le conseguenze ovvie di tanta confusione: si potevano
ferire accidentalmente soldati
amici - un flagello che affligge anche la guerra moderna ad alta tecnologia - o
subire un attacco improvviso e
imprevisto di un nemico non visto. Keegan ha descritto il primo aspetto, che si
verific spesso durante le
ultime ore della battaglia di Waterloo:
...esistono numerosi racconti autentici di perdite causate dal fuoco amico - e
perfino da sciabolate amiche - a
Waterloo. Mercer si dilunga sui danni causati da una batteria prussiana che
scambi i suoi uomini per francesi,
infliggendo loro perdite maggiori di quanto avessero subito in tutta la giornata
di scontri, e che fu messa a tacere solo
dall'arrivo di una batteria di belgi - ubriachi fradici e nient'affatto
preoccupati di dove sparavano - che scambi a sua
volta i prussiani per il nemico [...]
Tomkinson, del 16 Light Dragoons, rivela, in un suo commento come fosse
possibile ferirsi anche tra persone che si
conoscevano bene: un francese aveva finto di arrendersi e poi aveva fatto fuoco;
il luogotenente Beckwith [...] non
indietreggi e cerc di colpire quell'uomo con la spada, ma lo manc e per poco
non mi trapass.
Una confusione del genere si verific certamente tra gli ateniesi durante la
disfatta di Epipole. Ecco il
commento di Tucidide: Infine, una volta scompigliati, si scontrarono gli uni
con gli altri in molte parti dello
schieramento, gli amici con gli amici e i concittadini con i concittadini; e non
solo si atterrirono tra di loro ma,
venuti alle mani, stentarono a separarsi (7.44.8). In questo caso,
naturalmente, il rischio era che tra gli ex
alleati si scatenasse un combattimento tale da aggravare la carneficina. Ai
giorni nostri, alla fine della seconda
guerra mondiale, gli strateghi alleati paventarono una situazione analoga
qualora fossero penetrati troppo in
profondit in Germania, congiungendosi con i russi che avanzavano nella foga
della battaglia. Il comandante
supremo alleato era riluttante a entrare in competizione con i russi per
Berlino. Questa mossa poteva
rivelarsi non soltanto imbarazzante per il perdente, ma anche - nell'eventualit
di uno scontro imprevisto tra
gli eserciti avanzati - catastrofico per entrambe le forze (Ryan, p. 209).
Senza dubbio questo genere di confusione totale si verificava abbastanza spesso
sugli antichi campi di battaglia,
come emerge dalla descrizione di Tucidide sul successo iniziale degli ateniesi
nella battaglia di Delio del 424, in
cui a un certo punto l'ala destra ateniese sopraffece e in pratica circond
l'ala sinistra dell'alleanza beota
schierata di fronte, prendendo in trappola durante l'azione centinaia di soldati
di Tespia che non riuscirono a
mettersi in salvo. Ben presto gli ateniesi accerchiarono tutta l'ala dei soldati
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di Tespia, cosicch quando i due
schieramenti ateniesi ora disposti a semicerchio si incontrarono,
scompigliatisi a causa di
quell'accerchiamento, non si riconobbero e si uccisero gli uni con gli altri
(4.96.4). Sebbene gli ateniesi e i confederati della Beozia parlassero dialetti
diversi e portassero insegne diverse, nondimeno dovevano essere tanto
presi dalla furia del massacro, o tanto disorientati, da continuare a colpire
tutto ci che gli si parava davanti,
tanto da finire per combattere contro i loro stessi parenti. La descrizione
asciutta di Tucidide presuppone che si
trattasse di un'eventualit perfettamente comprensibile, dato che gli uomini
vedevano e sentivano a malapena e
perci potevano distinguere un nemico soltanto in base alla posizione che
occupava sul campo di battaglia; una
volta perduto il senso dell'orientamento, gli opliti non potevano sapere con
sicurezza chi stavano attaccando.
Nel prosieguo di quella battaglia gli ateniesi temettero a torto che due
semplici reggimenti di cavalleria nemica
spuntati d'improvviso su una collina fossero in realt un vero e proprio nuovo
esercito, si fecero prendere da un
panico irrazionale e fuggirono dal campo di battaglia (Tuc, 4.96.3-7; cfr.
1.50.1-2).
Possiamo comprendere che gli opliti, quando cambiavano direzione e smarrivano
l'orientamento, tendessero a
uccidere chiunque gli capitasse a tiro, amico o nemico. Ma anche a prescindere
da tale confusione, dovevano
essere senz'altro frequenti le ferite accidentali, anche mortali, all'interno
della falange. Durante la pugna gli
opliti dalla seconda alla quarta fila potevano venire colpiti dai puntali aguzzi
delle lance dei compagni
antistanti quando premevano contro la loro schiena: dopo tutto i soldati delle
prime tre file combattevano per
la propria vita con le lance spianate contro il nemico e non potevano certo
preoccuparsi del pericolo che i
puntali delle loro lance costituivano per gli uomini retrostanti. Al tempo
stesso, gli uomini delle prime due file
potevano essere feriti al fianco dalla punta di lancia di coloro che occupavano
la fila alle loro spalle. Dato che la
lancia era un'arma a due punte, entrambe letali, che si protendeva in entrambe
le direzioni ben oltre il controllo
del soldato che la impugnava, gli incidenti dovevano essere frequenti e
inevitabili, quando, durante la pugna,
gli uomini cercavano di restare in piedi. Forse, pi raramente, la spada o la
lancia potevano ferire chi le impugnava se questi perdeva di colpo l'equilibrio.
Gli uomini inciampavano spesso e di conseguenza finivano addosso
agli opliti amici. I soldati che stavano in retrovia come potevano sapere
esattamente che cosa succedeva agli
uomini delle prime file? Se un oplite delle prime file cadeva, poteva essere
calpestato, nonostante la corazza,
dai piedi dei suoi compagni inconsapevoli che premevano da dietro. Se gli si
spezzava la lancia e gli cadeva lo
scudo, poteva essere respinto dal nemico tra i suoi compagni e finire trafitto,
se non soffocato in piedi, tra
quelle due masse che premevano. A Mantinea, nel 418, il re Agide travolse al
primo assalto il centro e l'ala
sinistra alleati, e subito gli uomini cominciarono a calpestarsi nel tentativo
disperato di sfuggire all'attacco
spartano (Tuc, 5.72.4).
Sebbene nella maggior parte dei casi fosse il panico tra i soldati lontani dalla
pugna a provocare il crollo delle
colonne, in rari casi la falange si disintegrava proprio in prima linea. Quando
i soldati delle prime tre file si
trovavano in una situazione disperata, potevano cominciare a indietreggiare o
cercare di voltarsi e aprirsi una
strada tra gli uomini delle file retrostanti che avanzavano; questi, ignorando
il disastro che si verificava
davanti, probabilmente continuavano in un primo momento a premere, col risultato
di provocare una
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collisione al centro della colonna: fronte e retroguardia si trovavano uno di
fronte all'altro, terrorizzati (per
esempio Diod., 14.104.4; Eur., Aniromache, 1136-1147). Livio immagin una scena
identica durante il
disastro romano al Lago Trasimeno nel 217, in cui gli uomini in preda al panico
si voltarono, caddero e furono
calpestati dai propri legionari (22.6).
Spesso, nella mischia generale, il soldato non poteva farsi un'idea chiara di
chi doveva attaccare, cosicch il
combattimento si risolveva in una serie di fendenti e colpi alla cieca. Per
esempio, tre opliti potevano prendere
di mira con le loro lance un solo nemico che in quel momento si trovava
intrappolato dagli ondeggiamenti della
linea di battaglia, oppure due soldati potevano finire accerchiati da dieci o
pi nemici, tagliati fuori e
circondati da una sacca di avversari che avanzavano. I dipinti su vaso ci
mostrano spesso gruppetti di tre o
quattro opliti che avanzano gli uni contro gli altri, come se gli artisti
considerassero queste piccole sacche di
guerrieri il modo migliore (e l'unico) di rendere lo scontro tra due falangi
(Lorimer, p. 84; Greenhalgh, tav.
44). Poich le punte delle lance delle prime tre file di ciascuna falange si
protendevano nella zona del cozzo, il
nemico avanzava sempre contro un muro anonimo di punte, lo sciame delle lance.
Due terzi di queste armi
erano impugnate da soldati che si trovavano almeno a una fila di distanza dalla
collisione; poich portavano l'elmo e la zona era invasa dalla polvere, costoro
non avevano forse la minima idea di chi o che cosa avevano colpito
n se avessero ferito il loro avversario o ucciso in realt con un colpo uno o
pi uomini. Nelle descrizioni delle
battaglie opliti sono di solito molto rari i riferimenti al singolo soldato che
si vanta di aver ucciso un nemico.
Gli uomini che si fregiavano del fatto di aver mietuto vittime parlavano di
solito di un duello in particolare,
degli attacchi di cavalleria o della morte di una persona eminente, come
l'asserzione di Anticrate di aver trafitto
con la lancia il comandante tebano Epaminonda a Mantinea (Plut., Ages. 35.1-2).
I premi conferiti ai singoli
per il coraggio e il valore in battaglia venivano assegnati in base a criteri
quali: essersi mantenuti nei ranghi in
circostanze assai difficili o aver salvato un ferito a dispetto del nemico (PI.,
Sym. 220 D), aver mostrato un'audacia
eccezionale nel guidare l'avanzata, aver scalato un muro o essere entrati per
primi nel campo nemico (Diod.,
14.53.4; Polib., 6.39; Tuc, 4.116.2). Com'era prevedibile, trattandosi di uno
sforzo collettivo, coloro che affermavano di aver ucciso il maggior numero di
nemici raramente ricevevano qualche riconoscimento. I soldati
forse non potevano proprio avere la minima idea di quanti uomini avessero
ucciso, se non nei poemi epici.
Nel giro di poco tempo, forse in meno di un'ora, la battaglia spossava gli
opliti della falange, sia fisicamente sia
psicologicamente. Gli uomini si affrontavano faccia a faccia e ogni colpo
richiedeva uno sforzo fisico enorme per
trapassare con l'arma il bronzo dell'avversario; e tutto ci avveniva con la
corazza indosso e in mezzo alle spinte
incessanti delle file retrostanti. Poich in sostanza gli uomini che davano e
ricevevano quei colpi erano a contatto
tra loro, tutti erano coperti da un mare di sangue Gli opliti si ritrovavano in
breve sporchi del sangue di coloro con
cui si scontravano, che colpivano o contro cui erano spinti. I riferimenti nella
letteratura al sangue che scorreva in
battaglia vanno presi alla lettera, come descrizioni in prima persona di
testimoni oculari che sapevano realmente
che cosa significava uccidersi a distanza ravvicinata. Tirteo, per esempio
affermava che solo un vero guerriero
regge alla vista della strage (9.11). Mimnermo immaginava la stessa scena
quando scrisse di un grande guerriero
anonimo del passato che si faceva strada attraverso la mischia nella guerra
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cruenta (13.7). Parimenti, dopo la fine
della battaglia di Pidna del 168 il figlio di Scipione sarebbe tornato
nell'accampamento coperto di grumi di
sangue dei suoi nemici, animato da un piacere sfrenato (Plut., Aem. 22.4); la
sensazione che il soldato romano fosse quasi ebbro di sangue per la
carneficina.
Lo shock psicologico era determinato in larga misura anche dalla perdita di
parenti e amici proprio davanti agli
occhi di ciascun fante, che doveva sapere con certezza che a pochi metri di
distanza venivano massacrati i
compagni di tutta la sua vita. Senofonte ci da un'idea di quelle carneficine
descrivendo le perdite dell'ala destra
spartana a Leuttra nel 371. Dapprima cadde ferito il re di Sparta Cleombroto,
quindi Deino, il primo ufficiale,
e accanto a lui Sfodria, un alto ufficiale, insieme a suo figlio. In altre
parole, nel giro di pochi secondi furono
uccisi dall'assalto della massa tebana di Epaminonda tutti i membri dell'alto
comando dell'esercito spartano,
amici da tutta la vita o parenti. A quel punto i compagni superstiti cedettero
di colpo e furono spazzati via dal
campo di battaglia, forse non reggendo allo shock di vedere annientati in un
solo colpo tanti dei loro guerrieri
migliori (Sen., Hell. 6.4.14). Kellet ha parlato dell'effetto di tali perdite
sulle truppe moderne:
L'effetto che la vista degli uomini colpiti intorno a loro produce su quelli
rimasti illesi dev'essere stato particolarmente
penoso per le formazioni in ordine serrato del XVIII e XIX secolo. Ogni avanzata
o ritirata costringeva a superare un
tappeto di morti e di feriti, sia amici sia nemici, e anche quando rimanevano in
posizione, gli uomini dovevano cercare di
ignorare la morte e il ferimento dei compagni che gli stavano intorno. Il
capitano Grenow ha scritto, a proposito del
quadrato della Guardia dei Granatieri a Waterloo: Era impossibile muovere un
passo senza calpestare un compagno ferito
o i corpi dei morti.
Durante la battaglia greca, un certo numero di uomini non solo restava smarrito
e disorientato per la
tensione del massacro, ma perdeva quasi la ragione, tanto da non sapere pi che
cosa stava accadendo, vittima di
quella che noi definiremmo psicosi traumatica da combattimento. In quasi ogni
battaglia greca si sente parlare
di epiphanies, storie di di ed eroi che compaiono a un dato momento per
combattere a fianco di un
contingente particolare (si veda per esempio Pritchett 1971-1985, III, pp.
11-46); la maggior parte si verificano,
secondo le fonti, prima o dopo il combattimento, e possiamo perci considerarle
ingegnosi stratagemmi volti a
sollevare il morale prima della battaglia o miti nati dopo la battaglia per
spiegare qualche impresa bellica sovrumana o incredibile. Alcune epiphanies
appaiono per assimilabili ad allucinazioni e non possono essere
creazioni successive della fantasia. pi probabile che qualcuno, nella
tensione della battaglia, affermasse di aver
scorto immagini durante il combattimento. L'episodio forse pi noto la visione
che sarebbe apparsa durante la
battaglia di Maratona a Epizelo, un ateniese che vide un oplite gigantesco
passargli vicino e uccidere l'uomo
accanto a lui:
E avvenne ivi un miracolo. L'ateniese Epizelo figlio di Cufgora, mentre
combatteva da valoroso nello scontro, perdette,
senza essere stato n da presso n da lontano colpito in alcuna parte del corpo,
l'uso degli occhi; e rimase da allora, per
tutto il resto della vita, cieco. Mi si disse che questo accidente egli lo
riferiva cos: gli era parso che gli si fosse parato
davanti un uomo alto, pesantemente armato, la cui barba copriva d'ombra tutto lo
scudo; e che questo fantasma gli
passasse oltre, ma uccidesse il suo compagno. (Erod., 6.124)
In quella stessa battaglia altri opliti erano certi di aver visto Teseo in armi
che conduceva il loro assalto
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contro i persiani (Paus., 1.15.4; Plut., Thes. 35).
Altri segni dei traumi e dello scoramento provocati dalla battaglia si leggono
nelle storie di opliti che si
espongono in modo assurdo al pericolo o scelgono deliberatamente di morire in
battaglia. Senofonte narra che
nel 365 Andromaco, comandante della cavalleria di Elea, dopo aver guidato i suoi
uomini a un attacco
disastroso contro gli arcadi, si uccise sul posto (Hell. 7.4.19). Esporsi
volutamente al pericolo in battaglia
equivaleva praticamente al suicidio, e talvolta si ha testimonianza di un oplite
che si espone a bella posta a ogni
rischio per essere sicuro di morire. Questa fu la scelta fatta dal cieco Eurito
alle Termopi quando ordin al
servitore di condurlo dove i Trecento opponevano l'ultima resistenza (Erod.,
7.229). Anche Anassibo, il
comandante spartano che nel 389 si scontr con l'ateniese Ificrate, vedendo che
i suoi uomini non sarebbero
sfuggiti al massacro, diede l'ordine di ritirata, mentre egli era deciso a
morire; altri dodici peloponnesiaci
scelsero la stessa sorte (Sen., Hell. 4.8.38)
PARTE QUINTA Dopo la battaglia
17. Il luogo del massacro
L'indomani, all'alba attesero a raccogliere le spoglie e a contemplare la
strage, orrenda anche per un nemico, tante migliaia di
romani giacevano, fanti misti a cavalieri, come li aveva accomunati il caso o
nel combattimento o nella fuga. Alcuni, riscossi dal
dolore delle ferite inaspritesi nel freddo mattutino, si alzavano insanguinati
di tra il carnaio, e furono finiti dai nemici. Altri ne
trovarono vivi, coi femori o coi ppliti recisi, che si nudavano la gola e la
nuca, e chiedevano che fosse loro tolto il sangue
rimasto. Altri furono trovati con la testa ficcata in una buca, e si vedevano
che se l'erano scavata essi stessi, e che gettandovisi e
coprendosi di terra si eran tolta la vita. Particolarmente fu notato un numida
ancor vivo, tratto di sotto a un romano che gli
giaceva addosso, con le orecchie e col naso strappati, giacch quello, non
potendo pi con le mani far uso dell'arma, da irato
divenuto rabbioso, era spirato addentando il nemico.
Livio, a proposito della sconfitta di Canne
Il terribile aspetto del campo di battaglia, coperto di cadaveri e di feriti,
insieme con la testa pesante e la notizia di venti generali
a lui noti morti o feriti e la coscienza che il suo braccio prima cos forte
adesso era senza forza, produssero un effetto inatteso su
Napoleone, che di solito voleva vedere i morti e i feriti, sperimentando cos
(per quel che gli pareva) la sua forza d'animo. Quel
giorno l'orrendo aspetto del campo di battaglia vinse quella forza d'animo nella
quale egli faceva consistere il suo merito e la sua
grandezza.
Lev Nikolaevic Tolstoj, Guerra e pace
Il combattimento nel mondo antico, a differenza dalla battaglia moderna, si
concludeva dopo poche ore, e sul
campo su cui si era svolto calava il silenzio. Il terreno non veniva pi
ripetutamente calpestato. I corpi dei caduti
erano lasciati in pace per qualche ora, n era stata loro inflitta l'offesa che
la nostra et civile riserva ai caduti,
fatti a pezzi dall'artiglieria e dai mezzi motorizzati. Il campo offriva subito
dopo il massacro, durato poche
ore, uno spettacolo da brividi agli uomini sopravvissuti. Data la natura
formalizzata del combattimento tra
opliti, era possibile ricostruire la battaglia dalla posizione dei morti.
La scena della collisione iniziale e della pugna successiva era, com' ovvio,
uno spettacolo rivoltante, perch
la carneficina era stata brutale, circoscritta e intensa. I corpi erano
accatastati per terra, anche su due o tre
strati, poich ciascuno schieramento si era gettato contro le lance
dell'avversario nel tentativo disperato di
riuscire in qualche modo ad avanzare. Era in quella fase che quasi tutti i
soldati morivano feriti frontalmente
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(Diod., 15.55.2); si erano arrampicati sopra i cadaveri dei loro amici
cercando di farsi strada. Senofonte, a
proposito dei morti di Coronea, afferma che quando poi cess la battaglia era
dato vedere anche il terreno
insozzato di sangue nel luogo in cui gli uni con gli altri si azzuffarono; gli
uni con gli altri giacere cadaveri
amici e nemici, anche scudi traforati, lance fracassate, pugnali sprovvisti di
foderi, altri per terra, altri nei corpi
e altri ancora fra le mani (Ages. 2.14-15). Cos, nel punto in cui gli argivi
presi in trappola a Corinto furono
costretti a subire l'assalto della falange spartana, c'erano mucchi di caduti;
quando cominci il rigor mortis
essi, secondo quanto riferisce Senofonte, assunsero l'aspetto di mucchi di
grano, di legna o di pietre (Hell.
4.4.12). Pelopida cadde ferito durante la battaglia di Mantinea e stramazz
sopra un mucchio di cadaveri, ove
si trovavano alla rinfusa amici e nemici, fino a quando fu tirato fuori, vivo,
da Epaminonda (Plut., Pel. 4.5).
Erodoto, a proposito dei persiani che si erano scontrati con le lance di Leonida
e dei suoi spartani alle
Termopi, ricorda che cadeva una moltitudine grande; non riuscendo ad avanzare
al di l della linea delle
lance nemiche, cadevano semplicemente fila dopo fila gli uni sopra gli altri
(7.223). Lo storico della tarda
romanit Ammiano ha scritto le stesse cose su una battaglia tra illiri e
persiani:
Eravamo cos pigiati gli uni con gli altri che i cadaveri dei soldati uccisi,
sorretti dalla moltitudine, non trovavano da nessuna
parte lo spazio libero per cadere, tanto che davanti a me un soldato con la
testa spezzata in due parti uguali da un potente
colpo di spada, se ne stava immobile come un palo, compresso com'era da ogni
lato. (18.8.2)
A Pidna nel 168 il figlio di Catone, Marco, perse la spada e quando torn sul
punto dov'era caduta la trov
a stento, nascosta sotto un mucchio di armi e di cadaveri distesi al suolo
(Plut., Aem. 21).
Gi nei primi dipinti greci su vaso si osserva chiaramente il tentativo di
raffigurare questo mucchio di
uomini sul campo di battaglia; le immagini suggeriscono che il mucchio di
cadaveri costituiva una parte
tradizionale di ogni battaglia greca (si veda per esempio Ahlberg, tav. 6, 57,
87, 88, 89, 90). Keegan fa una
descrizione analoga dei morti francesi ad Azincourt:
...inoltre, una breve riflessione dimostrer che il mucchio alto pi di un
uomo un'esagerazione del cronista. I corpi
umani, anche quando sono spostati dai bulldozer, non formano un muro, come si
pu osservare, se si riescono a tenere gli
occhi aperti, nel film sulle fosse comuni a Belsen ma giacciono in collinette
irregolari e informi. Quando sopraggiunge il
rigor mortis possono essere disposti in cataste, come si vede nel film delle
squadre addette alla sepoltura di un reggimento
francese che portano via i morti dal campo dopo un attacco, durante la seconda
battaglia della Champagne (settembre
1915). Ma gli uomini vittime di colpi di arma da fuoco in prima linea,
inciampando su quelli gi caduti, formeranno due o
tre strati al massimo. Perch si creino mucchi pi alti, dovrebbero essere
scalati dalle vittime seguenti; i mucchi di
due metri di Azincourt si sarebbero creati soltanto qualora gli uomini delle
due mirti fossero stati disposti a duellare
tenendosi in equilibrio sui cadaveri di venti o trenta altri soldati.
un'immagine pi ridicola che macabra [...] I tumuli che
si erano formati erano abbastanza grandi e orrendi da giustificare una certa
retorica sacerdotale, ma non da smentire la penetrazione inglese nelle posizioni
francesi.
Dopo il cedimento della falange, una serie di cadaveri si estendeva da un lato
del mucchio al centro del
campo verso la periferia; molti corpi erano probabilmente le spoglie di coloro
che erano stati calpestati nella
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fuga precipitosa verso le retrovie. Il teatro della carneficina doveva essere
asimmetrico: un monticello di
morti delle due parti pi o meno al centro della pianura e poi, salvo qualcuno
colpito da un'arma da lancio, un
assenza quasi completa di corpi da una parte del mucchio, quella da cui gli
opliti erano avanzati vittoriosi nel
territorio della falange nemica; dall'altra parte invece il terreno degli
sconfitti era talvolta coperto dai corpi dei
morti e dei feriti, calpestati tanto dagli amici quanto dai nemici: gli uomini
abbattuti mentre fuggivano o forse
travolti mentre cercavano vanamente di uscire dai ranghi della formazione. Qui
la maggioranza apparteneva a
un solo esercito: padri e figli, fratelli, amici d'infanzia che giacevano
insieme. Non erano i corpi dei soldati
caduti a faccia in avanti in un ultimo scambio di colpi, feriti al viso e al
torace, con le mani ancora strette intorno
alle armi. No, queste erano le spoglie di uomini spaventati, atterriti, che
erano stati massacrati anonimamente
da tergo da un nemico non visto, facile preda delle armi nemiche in quegli
ultimi, confusi istanti di panico, e
poi calpestati da tanti piedi pesanti. Non sorprende - come si gi visto - che
Tirteo abbia scritto di loro:
cosa cos agevole dilacerare il tergo di chi fugge nel vivo della mischia!
Ma che sconcio un cadavere che giace nella polvere, trafitto il dorso da punta
di lancia! (Tirteo,
8.17-20)
C'erano, infine, i cadaveri sparsi qua e l degli uomini che erano riusciti a
uscire dalla falange e si erano dati
alla fuga, solo per essere abbattuti dalla cavalleria o dagli inseguitori armati
alla leggera. A proposito della
disfatta macedone a Pidna nel 168, Plutarco afferma che degli altri che
fuggirono si fece una grande strage,
talch la pianura e le pendici dei monti rimasero coperte di cadaveri (Aem.
21.3). Pi spesso, per, si
presentava la scena di singoli scontri sparsi in una sola direzione, fino al
terreno accidentato. I corpi dei caduti
dovevano perci essere disseminati per centinaia se non per migliaia di metri.
Senofonte ripercorse gli ultimi
passi dei suoi soldati in preda al panico durante la ritirata dei Diecimila
grazie alla lunga scia di cadaveri, gli
uomini massacrati dalla cavalleria babilonese di Farnabazo (An. 6.5.5-6). Non
molto dopo, conclusasi la
battaglia di Cinocefale del 364, i tessali di Pelopida inseguirono lontano il
nemico in rotta e poi
riempirono la campagna di cadaveri. Pi di tremila furono i morti (Plut., Pel.
32.7). Possiamo essere certi che
i corpi erano sparsi a gruppi di due o tre per miglia e miglia.
I morti raccontavano anche un'altra storia, un aspetto pi umano del disastro:
la teoria dei cadaveri di parenti
e amici che erano stati schierati ed erano rimasti gli uni accanto agli altri
durante tutta la battaglia o, in rari casi,
uomini della stessa trib completamente sterminata, come gli ateniesi morti
nella battaglia di Platea, appartenenti
tutti alla trib aiantide (Plut., Arisi. 19). Quando la falange di Tespia fu
circondata dagli ateniesi a Delio nel 424
durante le prime fasi della battaglia, tutti i suoi membri furono isolati e
annientati. In seguito, i tebani invasero il
loro territorio e demolirono le mura della loro piccola citt, poich erano
troppo pochi gli uomini scampati che
poterono opporvisi.
Tucidide aggiunge, a m di spiegazione, che quest'iniziativa era stata possibile
perch nella battaglia contro gli
ateniesi era perito il fiore dei loro [di Tespia] uomini (4.133.1). Visti da
quest'angolazione, i mucchi di
cadaveri non raccontano la collisione, la pugna, la fuga e la rotta, bens il
comune destino di interi gruppi di
parenti, famiglie e compagni: un piccolo olocausto, se vogliamo, di uomini
legati da stretti rapporti che
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giacevano gli uni accanto agli altri nella morte cos come avevano combattuto
fianco a fianco in vita. Una
scena analoga si offr dopo la disfatta spartana a Leuttra nel 371. L'intero
alto comando, amici e parenti, era
perito sul posto nel giro di pochi minuti: circa quattrocento uomini scelti sui
settecento spartani che
combattevano nella falange dei peloponnesiaci (Sen., Hell. 6.4.15). Non molti
anni prima, nel 384 sul fiume
Nemea, doveva essersi verificata un'analoga carneficina. La maggior parte degli
alleati di Sparta aveva ceduto,
ma in un punto della linea gli uomini di Pallene si erano scontrati con quelli
di Tespia. Entrambi si batterono
fino alla fine e caddero al loro posto (Sen., Hell. 4.2.20), quasi che quei
piccoli contingenti avessero preferito
l'annientamento alla fuga. Ma l'esempio pi conosciuto quello del battaglione
sacro di Tebe, i cui membri
finirono tutti massacrati sul campo di Cheronea nel 338 dopo il fatale scontro
con i soldati macedoni di Filippo
armati di sarissa:
Filippo, quando, al termine della battaglia, ispezion i morti si ferm nel
punto ove i trecento della compagnia
giacevano per terra con le armi indosso, tutti colpiti dalle picche dei macedoni
sul petto e l'uno stretto all'altro. Grande fu
la sua ammirazione, e sentendo dire che era la compagnia degli amanti e degli
amati, scoppi in lacrime ed esclam:
Muoia di mala sorte chi pensa che costoro compirono o subirono qualcosa di cui
debbano vergognarsi. (Plut., Pel.
18.5)
Il fascino macabro spesso esercitato dai morti sottolineato dai numerosi
riferimenti della letteratura greca
alla visita dopo la morte di una quantit di curiosi. In effetti, molti
avvertivano l'impellenza di osservare i
morti che giacevano sul terreno prima che i corpi fossero portati via e
l'atrocit della scena andasse perduta.
Si coglie forse il medesimo interesse per i morti sul campo di battaglia
nell'arte primitiva greca, in cui
evidente lo sforzo fatto per raffigurare i defunti con realismo ossessivo. Tra
tutte le figure dei primi dipinti su
vaso e della scultura, i cadaveri sono quelli ritratti con la maggiore
precisione: braccia piegate, rhani con le
dita aperte, la testa abbandonata da una parte (Ahlberg, tav. 87-89).
Ovviamente, il comandante vittorioso era
solito guardare i morti, osservare da vicino le spoglie di coloro che avevano
ucciso tanti suoi uomini e che per
la prima e ultima volta potevano essere impunemente avvicinati. una pratica
che si ritrova dopo millenni:
era nota anche a Napoleone. Filippo di Macedonia pass in rassegna i morti greci
dopo la vittoria a Cheronea,
cos come aveva fatto Serse dopo la sconfitta finale dei greci alle Termopi,
quando aveva voluto che si
rintracciasse il corpo del re spartano Leonida (Erod., 7.238). Il campo di
battaglia, inoltre, veniva visitato da
altri che forse non avevano preso parte ai combattimenti. Dopo la vittoria
ateniese a Maratona, i duemila
peloponnesiaci giunti troppo tardi per partecipare alla battaglia continuarono
ugualmente la marcia oltre
Atene fino al campo di battaglia. Erodoto spiega che vi andarono per il
desiderio di vedere i morti persiani
(7.120). Senofonte rivela la medesima curiosit l dove racconta il seguito
della battaglia di Coronea, era
dato vedere lo spettacolo (Ages. 2.14); doveva essersi verificato un massacro
terribile nel punto in cui la
falange tebana si era scontrata frontalmente con gli spartani. Non dobbiamo
infine dimenticare il tentativo
patetico di Serse di mascherare le perdite disastrose subite alle Termopi
seppellendo subito i morti in fosse
dissimulate. Egli si aspettava, evidentemente, che una moltitudine di curiosi
convergesse sulla scena, ansiosa
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di camminare tra i cadaveri, e in effetti cos avvenne. Tale pratica era cos
prevedibile che i persiani misero a
disposizione alcune barche per trasportare sul campo di battaglia i curiosi che
volevano osservare i greci
massacrati; tuttavia conseguenza [...] fu che le imbarcazioni divennero una
cosa rarissima: tanta gente voleva
recarsi a vedere! Non sorprende allora che Erodoto abbia giustamente definito
tutto l'episodio come uno
spettacolo (Erod., 8.25).
Oltre alla semplice concentrazione dei cadaveri, lo spettacolo pi comune che
si offriva a quegli
spettatori doveva essere la quantit di sangue versato. In alcune grandi
battaglie - Delio, Leuttra, Platea -
restavano sul terreno migliaia di corpi con larghe ferite di lancia e di spada.
Poich i corpi non finivano mai
inceneriti, come avviene nelle battaglie moderne a causa dell'esplosione di
bombe e granate, e poich le ferite
provocate dalle punte di lancia di ferro a doppio taglio entrando e uscendo
erano pi larghe di quelle causate
dalle armi da fuoco portatili, i corpi dovevano aver perduto gran parte dei
fluidi. Camminare tra i mucchi di
cadaveri significava calpestare la terra insanguinata e finire in pozze di
sangue. Polibio afferma che dopo
Zama il campo di battaglia era cos coperto di cadaveri insanguinati da rendere
pressoch impossibile
procedere sul terreno (15.14.1): molti, perci, avevano provato a farlo. Nella
celebre descrizione di Coronea,
Senofonte ricorda che la stessa terra era divenuta rossa, una frase che non
costituisce forse un'esagerazione
(Ages. 2.14). In Sicilia, dopo il massacro finale degli ateniesi nel 413, i
cadaveri dei morti giacevano ammucchiati gli uni sugli altri nell'acqua; il
sangue che scorreva aveva tinto di rosso la corrente (Tuc, 7.84.5-7;
7.85.1). Plutarco riporta una scena simile dopo la morte di circa
venticinquemila soldati macedoni a Pidna.
Tutta la pianura, racconta, era coperta di cadaveri e il fiume Leuco era
diventato rosso di sangue. Anche in
tal caso la scena appare verosimile: se ciascun caduto aveva perso solo un terzo
dei suoi sette litri di sangue,
durante gli ultimi spasimi o quando il corpo giaceva gi nella polvere, pi di
cinquantamila litri di sangue
dovevano aver inzuppato il terreno (Plut., Aem. 21.3).
La rimozione di quelle spoglie umane doveva essere particolarmente penosa.
Migliaia di uomini si erano messi
in marcia e si erano scontrati nell'attacco in massa, e ora potevano essere
migliaia i morti; ci voleva dunque un
bell'impegno per smaltire i cadaveri. Le panoplie di bronzo, difficili da
trasportare in circostanze normali dato
il peso e le dimensioni inusitate anche senza il problema del rigor mortis,
erano disseminate per miglia intorno
e dovevano essere sfilate dai cadaveri irrigiditi il pi in fretta possibile.
Scudi, gambali, elmi, lance, spade e
corazze potevano essere venduti sul mercato libero o, se erano in buone
condizioni, riutilizzati dai vincitori il cui
armamento aveva subito danni o era inferiore. Ma soprattutto venivano spesso
usati come offerte propiziatorie
presentate come parte del trofeo di battaglia, da inviare ai templi e ai
santuari locali oppure da ammucchiare e
offrire agli di nei maggiori santuari panellenici. Tucidide osserva che dopo il
disastro ateniese a Epipole nel
413 i siracusani vincitori avevano trovato sul terreno un numero di armi molto
maggiore di quanto si poteva
calcolare in base al numero di cadaveri (7.45): non vi dubbio che in quasi
tutte le battaglie molti superstiti,
al pari del poeta lirico Archiloco, gettassero via le armi quando si davano
precipitosamente alla fuga. I
problemi non nascevano soltanto dal numero di panoplie da trasportare, ma anche
dal pi arduo compito di
sfilare l'armatura da un cadavere, inizialmente rigido ma ben presto gonfio e
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tumefatto. Non esagerava il
comandante ro mano Lucullo dicendo ai suoi uomini che sarebbe stato pi facile
ammazzare i nemici greci
che spogliarli della pesante corazza dopo averli abbattuti (Plut., Mor. 203 A
2). Occorreva inoltre fare i conti
con il problema della posizione e dell'identificazione dei caduti, oltre che con
il fetore crescente emanato dalla
carne putrefatta, che rendeva particolarmente disagevole e ripugnante il lavoro
di rimozione e sepoltura. Dopo
poche ore diventava pressoch impossibile, tanto pi nella calura dell'estate
greca, raccogliere o portare via i
cadaveri dal campo di battaglia. Senofonte, riferendo un episodio
particolarmente macabro avvenuto durante
la marcia dei Diecimila, spiega che alcuni greci, caduti pi o meno cinque
giorni prima, dovettero essere
seppelliti nel punto in cui giacevano, in quanto le loro spoglie non erano in
condizioni tali da poter essere rimosse (An. 6.4.9); in altre parole, i corpi
erano putrefatti, tumefatti e decomposti a tal punto che sarebbe stato
impossibile conservarli integri. Robert Graves ha descritto questo fenomeno in
riferimento alla propria
esperienza nella prima guerra mondiale:
Dopo uno o due giorni si gonfiavano e puzzavano [...] quelli che non riuscivamo
a strappare dal filo spinato tedesco
continuavano a gonfiarsi finch le pareti dello stomaco scoppiavano, per conto
loro o perch bucate da una pallottola;
allora un lezzo disgustoso si spandeva nell'aria. Il colore del viso dei morti
passava dal bianco al giallogrigio, al rosso, al
porpora, al verde, al nero, al melmoso.
Gi agli albori dell'et oplite Omero ben conosceva il rapido processo di
putrefazione del corpo del
guerriero caduto in battaglia. Nel ventiquattresimo libro dell'Iliade, Mercurio
assicura a Priamo, il vecchio re
di Troia, che il cadavere di suo figlio Ettore difeso dagli di: E il corpo
non putrefatto; n i vermi lo
rodono, che mangiano gli uomini caduti in battaglia (413-415).
Tucidide descrive lo spettacolo dei cadaveri putrefatti degli ateniesi uccisi a
Delio; a causa di una disputa
sulla restituzione dei caduti, i tebani coinsegnarono i morti solo dopo
diciassette giorni (Tuc, 4.10,1). Caso
estremamente raro in una battaglia greca, i tremila siciliani caduti a Imera nel
409 non furono seppelliti per
quasi due anni, fino a quando Ermocrate ritorn per raccogliere ci che restava
dei cadaveri. Anche il racconto
mistico di Platone sul mito di Er, nell'ultimo libro della Repubblica, si apre
cos: Er, figlio di Armenio, di
Panfila stirpe; egli, un tempo, era morto in battaglia, e dieci giorni dopo,
come si raccoglievano i cadaveri gi
putrefatti fu tolto su intatto (614 B). Diodoro narra che l'aria malsana che si
levava da Arbela costrinse
Alessandro ad allontanare in fretta il suo esercito dal campo di battaglia
(17.64.3; Curtius, 5.1.11). Una
descrizione pi viva dei morti sul campo di battaglia si trova nell'Aspide di
Menandro:
Non potei conoscere il suo corpo;
i morti erano stati per giorni sotto il sole, i volti gonfi.
Come si poteva essere certi?
Egli giace, con lo scudo ancora imbracciato e piegato. (69-72)
Anche senza tener conto della decomposizione, altri fattori rendevano difficile
l'identificazione dei morti, dato
il tipo di ferite inflitte nella battaglia oplite. vero che le ferite non
erano paragonabili alle mutilazioni della
guerra moderna, in cui artiglieria e bombe lacerano la carne, tanto che torso e
arti possono essere scagliati a
metri di distanza; tuttavia la corazza dell'oplite faceva s che gran parte dei
colpi di spada e di lancia fosse
indirizzata verso il viso non protetto, come si nota su molti vasi greci. Oltre
alla tendenza generale a
calpestare il corpo dei guerrieri caduti e alle pi rare decapitazioni per un
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colpo di lancia o di spada
particolarmente violento, a volte gli opliti subivano ferite al volto tanto
orribili che i loro lineamenti diventavano irriconoscibili. Oman descrive in
modo pittoresco i danni che potevano infliggere le alabarde
brandite dagli uomini della falange svizzera, armi lunghe due metri circa,
simili alle lance degli opliti ma con
una lama pi larga a forma di accetta:
Oltre che la pi pesante, era la pi feroce delle armi. Brandita da forti
braccia poteva fendere in due un elmo e una
piastra di armatura come nessuna spada era in grado di fare. Furono le lame
delle alabarde a penetrare nei crani dei
cavalieri del duca Leopoldo a Sempach e ad abbattere Carlo di Borgogna - il cui
volto rimase sfregiato dalla tempia
ai denti - nei gelidi fossi presso Nancy. (II, p. 254)
Non sorprende allora che quando i troiani recuperavano i caduti trovassero
difficile conoscere ogni
guerriero, ma lavati con acqua i grumi sanguinosi, versando lacrime calde li
alzavano sui carri.
probabile che dietro lo strano racconto di Polieno, il quale narra che in
un'occasione gli spartani
incisero i loro nomi sugli scudi, in modo che quando fosse giunto il momento di
raccogliere i morti
potessero essere riconosciuti dagli amici (1.17), ci fosse la paura di restare
orribilmente sfigurati.
Pensavano forse che l'impugnatura dello scudo avrebbe permesso loro di cadere
tenendolo stretto, e quel
segno di riconoscimento sarebbe servito come una piastrina d'identit qualora
avessero subito una
ferita orribile alla testa. Anche Diodoro ripropone pi o meno la stessa storia
quando riferisce che talvolta
gli spartani incidevano il proprio nome su braccialetti di legno (8.27.2).
Alcuni morti non venivano recuperati, poich troppo mutuati per essere
riconosciuti, o perch i soldati si
trascinavano fino a qualche luogo in cui la vegetazione li nascondeva e non
venivano pi trovati. Dopo la
battaglia di Soligea del 425, per esempio, gli ateniesi non riuscirono a trovare
due loro morti in seguito i
cadaveri furono recuperati e restituiti loro dai corinzi. Appare probabile che
fossero stati trovati lontano
dalla collisione iniziale o che, dopo un esame accurato dei morti di entrambe le
parti, i corinzi ne avessero
stabilito l'identit ateniese (Tuc, 4.44.5-6). Nella descrizione dello scontro
di cavalleria che precedette la
battaglia di Mantinea del 362, Senofonte narra che solo alcuni morti tessali
vennero restituiti dagli
ateniesi. Probabilmente gli altri erano morti lontano e per questo mancavano.
(Sen., Hell. 7.5.17). Anche gli
uomini che perivano proprio nel mezzo della pugna tra i due eserciti potevano
non essere trovati subito,
tanta era la densit e la mescolanza tra i corpi nel mucchio dei caduti.
L'identificazione era possibile solo in
un secondo momento, dopo che i cadaveri erano stati districati. Se teniamo
presente ci, si pu capire
perch Strifone assunse il comando degli spartani intrappolati a Pilo: il suo
predecessore Ippagrete giaceva,
narra Tucidide, tra i cadaveri come morto, sebbene fosse ancor vivo (4.38.2).
Ippagrete aveva perduto i
sensi per un colpo, si trovava in stato di shock sepolto vivo sotto la massa di
corpi; fu trovato successivamente, durante lo sgombero dei caduti dal campo di
battaglia. Tucidide ricorda che prima
dell'orazione funebre di Pericle gli ateniesi portarono le spoglie dei morti di
ciascuna trib in bare di
cipresso; una bara vuota fu riservata agli uomini che non erano stati trovati
(2.34.3). Si trattava dei soldati i
cui corpi non erano stati recuperati dopo le battaglie tra opliti o
esclusivamente dei marinai periti in mare?
Era un uso diverso da quello moderno della tomba al milite ignoto, poich in
questo caso corpi mutilati al
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punto da non poter essere identificati, di solito vengono recuperati in qualche
modo.
Tutte queste difficolt, insieme con lo stato pietoso dei sopravvissuti, molti
dei quali non erano in
condizione di rendersi utili a lungo nei giorni successivi alla battaglia (per
esempio Diod., 14.105.2; 19.31.2-3;
Sen., Hell. 4.3.20), spiegano perch tanti morti e larga parte delle armi non
venissero pi trovati. I primi
sforzi dovevano essere diretti a portare via, trascinare o caricare sui carri i
feriti che avevano ancora qualche
possibilit di sopravvivere. Non sorprende pertanto che molti campi di battaglia
non fossero ripuliti dai resti
e che intorno alla maggior parte dei luoghi degli scontri nascesse una sorta di
archeologia del campo di
battaglia. Per anni e anni, i visitatori e i locali vi si aggiravano
raccogliendo armi e corazze vecchie e danneggiate, oltre alle sparse ossa degli
opliti. In seguito, quando i contadini aravano e rivoltavano il terreno,
oppure quando dalle colline scorreva verso il basso la pioggia primaverile,
sarebbero venuti alla luce nuovi
souvenir.
Siamo soliti associare il ricordo della battaglia alla guerra moderna, in cui
l'artiglieria trasforma lo stesso
paesaggio e si trovano per terra una quantit di pezzi di metallo: bossoli di
proiettili, lattine delle razioni, veicoli
abbandonati e cos via. Ma anche nel mondo antico restavano sul terreno notevoli
quantit di detriti, e forse il
fatto che la battaglia si svolgesse su un'area cos ristretta pu contribuire a
spiegare perch restava tanto
materiale. Erodoto afferma di aver visto il campo in cui si erano scontrati
Cambise e Psammetico III pi di cento
anni prima. Gli abitanti del luogo mostrarono al famoso studioso le ossa dei
morti e anche le differenze peculiari
di spessore tra il cranio dei persiani e quello degli egiziani; Erodoto aggiunge
di aver osservato la stessa cosa a
Papremi, dove per l'ennesima volta aveva visto le ossa dei partecipanti a una
battaglia del passato (3.12).
Anni dopo la battaglia di Platea del 479, osserva lo storico, gli abitanti di
quella citt avevano trovato alcuni
oggetti sul campo di battaglia - un cranio senza scalfitture, una mandibola con
tanto di denti, un intero scheletro
della lunghezza di circa un metro e ottanta centimetri - e commenta che si
trattava solo delle scoperte pi
recenti; negli anni successivi alla battaglia erano stati estratti dal suolo
oro, argento e altri tesori (9.83).
Abbiamo l'impressione, leggendo il suo racconto, che i locali andassero alla
ricerca di monete e gioielli perduti
e solo quando non ne trovavano pi accogliessero gli scheletri e le ossa che
potevano mostrare ai visitatori
come Erodoto.
Forse il miglior resoconto antico della permanenza sul campo di battaglia delle
tracce dello scontro
contenuto nella vita di Siila scritta da Plutarco, secondo cui quasi duecento
anni dopo la grande vittoria di Siila
su Archelao nell'86 a Orcomeno in Beozia (e perci mentre l'autore era in vita),
si continuavano a dissotterrare
archi, elmi, frammenti di ferro, corazze e spade (Siila 21.4). Anche in epoca
moderna, in effetti, sono stati
dissotterrati nei luoghi delle maggiori battaglie in Grecia - Maratona, Termopi
e Cheronea - punte di freccia e
di lancia, scheletri e altri piccoli oggetti.
Sebbene la battaglia greca dell'et classica tra uomini chiusi in pesanti
corazze non fosse catastrofica sotto il
profilo delle perdite complessive dell'esercito, nondimeno in un'area tanto
ristretta si concentrava un numero
particolarmente alto di cadaveri. Krentz (p. 18) ha calcolato che il numero di
morti dell'esercito vittorioso, in
una battaglia tra opliti, era pari in media al 5 per cento della forza
originale, mentre di solito gli sconfitti
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perdevano circa il 14 per cento delle loro forze. In alcune grandi battaglie,
per esempio quelle di Agrigento
(472) o del fiume Nemea (394), il totale delle vittime di entrambe le parti
poteva assommare a quattromila o
pi unit. Quasi tutti i morti dello schieramento vincente cadevano durante la
carica o nella successiva pugna
corpo a corpo prima della rotta; almeno un 5 per cento degli sconfitti (sul
totale del 14 per cento di perdite
medie) cadeva durante quella stessa fase. Se i due schieramenti si equivalevano,
il 10 per cento di tutti gli
opliti che si erano messi in marcia il mattino della battaglia al tramonto
giaceva ammucchiato insieme al centro
del campo di battaglia, lungo una linea solitamente non molto pi lunga di
unotre chilometri. Non sorprende
che in quell'area il loro equipaggiamento continuasse a venire alla luce per
anni e anni.
18. I feriti
Che siccome i morti non erano stati sepolti, quando uno vedeva il cadavere di
uno dei suoi cari, piombava in un dolore misto a paura, e
quelli che venivano abbandonati ancor vivi, feriti e malati, infliggevano ai
vivi un dolore ancor maggiore dei morti e parevano pi
sventurati degli uccisi.
Tucidide, a proposito della sconfitta ateniese in Sicilia
Le perdite sono una delle pi tristi realt della guerra, forse il suo elemento
pi importante. Un esercito che non pu permettersi
perdite non pu combattere, e un esercito che ne subisce troppe finir
sconfitto.
James Jones
Dopo la battaglia il numero di uomini feriti e di moribondi poteva essere
superiore a quello dei morti. I
soldati messi fuori combattimento possono essere suddivisi in due grandi
categorie; la prima comprende quelli
che avevano subito ferite relativamente superficiali, contusioni o fratture
semplici, essi potevano essere aiutati
dagli amici a uscire dal campo di battaglia (per esempio Ducrey, tav. 146),
fasciati e curati sul posto (La2enby, tav.
4), o anche tornarsene a casa con le proprie forze. Tutti costoro avevano buone
probabilit di sopravvivere
almeno qualche giorno o qualche settimana, se non di pi, dopo la battaglia. In
effetti, i dipinti su vaso ci
mostrano spesso soldati che cercano di strappare una lancia o una freccia dalla
propria carne, un dato che indicherebbe come in molti casi il ferito avesse
ragionevoli probabilit di guarire (Ahlberg, pp. 7, 12, 13, 15).
Gli uomini che invece giacevano sul terreno feriti pi gravemente dovevano
essere soccorsi sollecitamente, ma
per loro le prospettive erano meno promettenti se non riuscivano ad alzarsi con
le proprie forze. La maggior
parte era caduta durante la prima collisione o nella rotta finale, le due fasi
della battaglia in cui la fluidit
permetteva di sferrare colpi letali. Per gli opliti abbattuti durante il cozzo
delle lance in corsa le previsioni
erano grigie: con ogni probabilit erano vittima di ferite profonde e fatali
(spesso inferte al grande bersaglio
del torace) e gli indumenti che indossavano erano penetrati nella carne insieme
con l'arma quando la corazza
di bronzo aveva ceduto. Abbiamo gi visto come ne parla Tirteo:
Questi perde la vita cadendo in prima fila,
glorifica la patria, il padre, il popolo,
tutto trafitto prima di morire il petto,
lo scudo umblicato, la corazza. (Tirteo, 9.23-27)
Gli scavi effettuati nel Ceramico ateniese hanno portato alla luce i cadaveri
di tredici spartani, caduti
probabilmente durante l'attacco alla citt nel 403. Uno degli scheletri aveva
una punta di ferro di lancia ancora
piantata nella cassa toracica (cfr. Van Hook). Nelle rappresentazioni
iconografiche si osservano spesso larghe
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ferite, provocate dal fatto che l'attaccante strappava la lancia dal corpo della
vittima (Ahlberg, B7). Il ferito
doveva morire nel giro di pochi minuti, a causa delle lacerazioni profonde
subite dal sistema circolatorio
intorno all'arteria polmonare; in caso contrario, correva il pericolo di
contrarre un'infezione diffusa con
conseguente sepsi della cavit toracica. Epaminonda, per esempio, mori poco dopo
essere stato portato via
dal campo di Mantinea con una lancia spezzata ancora piantata nel petto (Diod.,
15.87.1). Il collasso
polmonare, oppure un irreversibile danno alle vie respiratorie, erano il
risultato consueto dei colpi inferti al
torace: un colpo violento alle costole, inoltre, anche se in realt mancava i
vasi maggiori, poteva fracassare
l'osso e spingerlo contro i polmoni, causando cos un immediato collasso delle
vie respiratorie. vero che gli
antichi sapevano curare la pleurite e il collasso polmonare mediante l'uso di
siringhe e di vesciche; tuttavia la
percentuale di superstiti era deprimente e in ogni caso i medici erano
generalmente troppo occupati nelle
prime, critiche ore dopo una battaglia per tentare un procedimento critico e
complesso. Frolich, che ha preso
in esame nel secolo scorso le ferite di cui si narra nell'Iliade, ha osservato
che 106 su 147 erano state inflitte
con la lancia (pp. 58-62), e soprattutto che l'8O per cento di esse aveva
provocato la morte dell'eroe. A suo
giudizio, il numero di gran lunga maggiore di quei colpi fatali era portato al
torace. Omero celebrava dunque
un tipo di battaglia nella quale i colpi venivano sferrati da distanza
ravvicinata, il bersaglio era nella maggior
parte dei casi il torace e i risultati erano generalmente fatali. lecito
chiedersi se avesse assistito di persona alle
prime battaglie tra opliti, oppure se le sue descrizioni delle ferite si
limitassero a riprendere le formule della
poesia orale, che corrispondevano ai moduli tematici del duello aristocratico
pi che alla realt del campo di
battaglia.
I primi colpi di lancia sferrati in corsa potevano anche penetrare pi in basso
attraverso la corazza di
bronzo, e il ferro si conficcava profondamente nella cavit addominale o magari,
sfiorando il bordo dello scudo
e della corazza, perforava l'inguine, se il colpo era portato sottomano. Queste
ferite addominali alla parte
inferiore del ventre e all'inguine risultavano quasi sempre fatali e in pochi
giorni, se non in poche ore,
causavano la morte per collasso, peritonite o altre infezioni, poich il
contenuto dell'intestino si riversava nella
cavit addominale e l'oplite si spegneva per la perdita di sangue e di fluidi.
Ecco le parole di Tirteo - gi
ricordate - a proposito del vecchio guerriero che si dibatte per una ferita
all'inguine:
uno sconcio che un vecchio cada in prima fila
e resti sul terreno innanzi ai giovani,
con quel suo capo bianco e il mento grigio, e spiri l'animo suo gagliardo nella
polvere,
con le mani coprendo le pudende insanguinate. (7.21-25)
Il poeta doveva aver visto o sentito parlare di una battaglia in cui il
guerriero di prima linea era stato gettato a
terra da un colpo terribile che aveva colto la sfortunata vittima proprio tra le
gambe, prive di protezione e in quel
momento non difese dallo scudo. Il corpus ippocratico pieno di esempi di tali
ferite fatali riportate in
battaglia. Un certo Eno fu ferito profondamente da un giavellotto nella parte
bassa della schiena, con
conseguente, consueta infiammazione peritoneale. Anche se da principio non sent
dolore, il terzo giorno ebbe
violenti spasimi e soffr di stitichezza. Ventiquattr'ore pi tardi, a causa
delle convulsioni e del vomito
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incessante, la vittima era inebetita e disidratata, e per cinque giorni dopo
essere stata ferita (Epidemia, 5.61).
Il secondo bersaglio fatale durante la collisione delle lance era il cranio. Nel
celebre trattato di Ippocrate
sulle ferite alla testa, si trovano esaurienti descrizioni delle svariate ferite
alla testa causate dalle armi da taglio;
evidente che gli antichi sapevano distinguere tra i traumi provocati da armi
da lancio, da armi con
superficie liscia o oblunga, dal calpestio o da una caduta (11.20-40). In
qualche caso il primo colpo sferrato dal
nemico si faceva strada tra i guanciali penetrando nel volto, come quello di
Aiace che uccise il tracio Acamante:
Lo colse per primo sopra il cimiero dell'elmo chiomato, gli piant l'arma in
fronte; e penetr nell'osso la
punta di bronzo (11. 6.9-11). In altri casi la violenza del colpo di lancia era
tale da farla penetrare nell'elmo di
bronzo o da provocare in esso una tale ammaccatura da causare comunque la morte
dell'oplite; in questi casi,
probabilmente, la lancia schiacciava le pareti dell'elmo contro il cranio,
ledendo le arterie cerebrali e
provocando di conseguenza una grave emorragia. In altre parole, un oplite poteva
morire per una ferita alla
testa anche se apparentemente il cranio non aveva subito danni e anzi senza che
fosse visibile alcun trauma.
Gli esemplari ancora esistenti di elmi corinzi presentano numerose, ampie
ammaccature, incrinature e
schiacciature che dimostrano che i colpi, se anche non riuscivano a trapassare
la superficie metallica,
potevano provocare seri danni al cervello della vittima. Era infatti probabile
che quasi tutti i traumi di
questo tipo fossero fatali. Anche se il ferito sopravviveva per le prime
quarantott'ore, il suo futuro non era
roseo: i resoconti dei tentativi degli antichi greci di curare l'edema cerebrale
causato da una commozione,
quale che sia il loro fascino per la comunit medica, costituiscono tuttavia una
lettura che mette i brividi e non
sembrano indicare un successo sul lungo periodo (cfr. Majno, pp. 168-69). Anche
quando l'elmo corinzio
proteggeva l'oplite da un danno cerebrale grave, la sola forza del colpo di
lancia poteva scagliare con violenza
la testa all'indietro o verso il basso, fratturando le vertebre cervicali, con
conseguente fuoruscita del midollo
spinale, che causava la paralisi e magari la morte immediata, o provocando
un'emorragia nella spina
vertebrale, che poteva causare una pressione intollerabile, preludio della morte
o di una quadriplegia totale:
una condizione che nel mondo antico doveva rivelarsi fatale a causa della
concomitante infezione e dei
problemi igienici. Nella letteratura o nei dipinti su vaso mancano esempi di
uomini paralizzati su una sedia o in
un letto. Questi traumi vertebrali o quelli alla testa che li provocavano
dovevano verificarsi di frequente
durante una battaglia greca (per esempio Om., 11. 11.471-479; Ar., Ach. 1180
ss.; Plut., Arist. 14.5), o meglio in
qualunque battaglia tra uomini in corazza che cercavano disperatamente di
mettere fuori combattimento il
nemico nel modo pi rapido possibile. Pirro rimase stordito per un colpo che lo
prese alle vertebre sotto
l'elmo; a quel punto uno degli uomini di Antigono decapit il generale che era
in stato semicomatoso (Plut.,
Pyrrh. 34). Infine, gli scavi sul luogo della battaglia medievale di Wisby (1361
d. C.) indicano che il 44 per
cento di tutte le ferite riguardava il cranio (Thordeman, pp. 179-185).
Una carneficina terribile aveva luogo anche durante la rotta, quando una
falange crollava in preda al panico
e veniva abbattuta o calpestata tanto dagli amici quanto dai nemici. I feriti
che si trascinavano sul campo
dopo la battaglia, aggrappandosi alla vita, erano stati colpiti con ogni
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probabilit da fendenti di spada alla
schiena o avevano subito una serie di fratture composte. Nell'Iliade Fereclo
viene inseguito da Merione che
nella natica destra lo prese; e dritta in avanti traverso la vescica arriv
all'osso la punta (5.65-68). Le fratture
dovevano essere un evento molto frequente in quanto i soldati si trascinavano
sulle mani, sulle braccia, sulle
gambe e perfino sulla schiena nel tentativo disperato di sfuggire alla calca.
vero che le fratture semplici, le
slogature e anche le lacerazioni gravi di solito erano curabili (per esempio
Erod., 3.129.1); il successo della
medicina antica era dovuto alla notevole conoscenza dell'anatomia da parte dei
medici greci: in genere, essi
curavano con facilit i traumi da ferita in cui le fratture erano semplici e
l'emorragia era causata da danni al tessuto o dalla rottura di piccole vene. I
medici avevano acquisito una conoscenza tanto profonda dei vari tipi di
ferite provocate da colpi di spada o di lancia, che Plutarco poteva affermare
che era facile distinguere
un'insolita autolesione dalle ferite effettivamente riportate sul campo di
battaglia (Dione. 34.3-5). Tuttavia,
molti uomini che erano stati travolti e calpestati in posizione prona
presentavano lesioni di tipo pi grave,
fratture composte in cui l'osso era penetrato nella pelle provocando una grave
emorragia non curabile, di solito
causa di un'infezione fatale al midollo stesso. In tal caso le prospettive erano
invariabilmente nere: l'oplite
ferito moriva in poche ore per la perdita di sangue o sopravviveva appena pi a
lungo andando incontro a una
morte dolorosa per infezione.
Ma non tutte le ferite erano fatali. Sentiamo parlare spesso di uomini
sopravvissuti a dozzine di colpi, veterani della battaglia oplite che, a
quanto si diceva, avevano il corpo ricoperto di vecchie cicatrici e di ferite di
vario genere; Pelopida, per esempio, che fu portato via dalla battaglia di
Mantinea dopo aver ricevuto sette
ferite, tutte davanti (Plut., Pel. 4.4), o Agesilao, il quale sopravvisse alla
battaglia di Coronea pur essendo
stato ferito in ogni parte del corpo con ogni sorta di arma (Sen., Ages. 2.13).
L'oplite subiva con tutta
probabilit colpi non letali al torace o alla testa durante la mischia generale,
le spinte e gli scambi di colpi
corpo a corpo, perch i fendenti sferrati in quella fase della battaglia non
erano necessariamente abbastanza
violenti da trapassare la corazza di bronzo o da ledere gli organi e le arterie
principali. I combattenti si colpivano
alla disperata con ci che restava della lancia, menando fendenti e puntonate
con la corta spada, ma da fermi e
senza slancio. In una situazione del genere le ferite al torace o all'addome non
penetravano necessariamente a
fondo nella carne e perci non sempre si rivelavano fatali. Perseo, generale
macedone, usc dalla battaglia di
Pidna con una violenta contusione provocata da un colpo di striscio che gli
aveva solamente lacerato la tunica e
indolenzito le costole (Plut., Aem. 19.4-5). Anche l'elmo poteva reggere
all'urto di un colpo infetto da un
avversario sbilanciato, che nella rissa ravvicinata non aveva molte possibilit
di infondere grande energia al
proprio attacco. Ecco la situazione che si crea a un certo punto nell'Iliade:
Diomede colpisce Ettore proprio al
capo, ma fu respinto il bronzo dal bronzo, la bella pelle non fu raggiunta, la
salv il casco a tre piastre, dal
lungo cimiero (11.350-353). Antioco a Bactria fu ferito alla bocca e perse i
denti, ma guar perfettamente
(Polib., 10.49.13-15). Erodoto narra che il persiano Intaferne (3.78.2) perse un
occhio dopo essere stato
ferito da un colpo di spada all'orbita, ma poi si riprese completamente. Gli
antichi sapevano inoltre estrarre
una freccia o una lancia e in alcuni casi il soldato ferito si salvava, se la
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perdita di sangue non era stata
eccessiva. Alessandro Magno si ristabil da una profonda ferita di freccia alle
costole dopo che l'asta venne
segata, la corazza sfilata e la punta estratta. vero che perse conoscenza e
rischi di morire, ma dopo una
lunga convalescenza guar (Plut., Alex. 63).
Ancora pi frequenti erano le ferite secondarie meno gravi alle braccia, alle
gambe, alle mani e ai piedi,
dato che queste parti del corpo non sempre erano protette dall'armatura;
anch'esse nella maggior parte dei
casi non erano necessariamente mortali. Erodoto racconta il singolare incidente
capitato all'eginate Ischeno,
che cadde nelle mani dei persiani al largo di Sciato. Dopo un'eroica resistenza,
fu quasi fatto a pezzi dai
persiani ma, curategli con mirra e fasciate con cotone le numerose ferite,
sopravvisse e guar. Doveva trattarsi
di ferite non profonde riportate nel combattimento corpo a corpo; era perci
possibile evitare le perdite di
sangue con un pronto intervento, purch fossero stati risparmiati le arterie e
gli organi principali. Si pu
comprendere quanto fossero frequenti i colpi alle estremit scoperte se si legge
un brano della Ciropedia di
Senofonte; gli uomini di Ciro, dopo aver ingaggiato una finta battaglia con
gambi di finocchio invece di
lance vere, lamentarono tutti male alle mani e al collo e perfino contusioni al
viso (2.3.17-20).
Si pu credere che molte ferite riportate nella mischia ravvicinata fossero
tagli e botte dovuti ai fendenti e
alle parate con la lancia e con la spada, dato che a quel punto non c'era alcuna
possibilit di infliggere ferite
profonde con un colpo di lancia violento. Spesso leggiamo di opliti che sono
vittima di tagli non gravi al
braccio (Diod., 16.12.4; 17.61.3), alla mano e al piede (Plut., Dione 30.6; Mor.
241 F 151) o alla coscia (Plut.,
Arat. 27.2). C'erano buone possibilit di riuscire a curare tali ferite in
quanto, fin dai tempi di Omero, i greci
avevano maturato una notevole esperienza nel fasciare il tessuto lacerato per
evitare fatali perdite di sangue.
Sappiamo, per esempio, che sulle ferite aperte erano regolarmente applicate
fasce di lino o di cotone (Ar.,
Ad. 1176; Om., 11. 13.769-770; Erod., 7.181.2), e spesso per frenare l'emorragia
si usavano mirra, latte di
fico e anche vino. Si leggono anche riferimenti a tamponi di lana o di garza e
perfino a impiastri di giuggiola
e grano, usati come spugne per assorbire il sangue e pulire la ferita (Majno, p.
150). Tuttavia, nella maggior parte
dei casi, questo modo di curare semplici ferite superficiali o fratture non
composte era il limite cui giungeva la
scienza del corpo sanitario al seguito dell'esercito (Sen., Cyr. 6.2.25-3.4;
Hell. 4.5.8; An. 3.4.30; Res. Lac.
13.7; Arr., Tact. 2.1). Gli stessi combattenti curavano i loro compagni sul
campo di battaglia. In alcuni vasi
decorati vediamo un oplite che sul campo di battaglia applica una sorta di
medicazione da campo al braccio o
al dito ferito di un amico (Ducrey, tav. 142, 143). I greci conoscevano anche la
sutura con aghi di bronzo,
utilizzata nel caso di tagli e lesioni superficiali della carne per i quali le
semplici fasciature non bastavano a
evitare perdite di sangue. Anche in questo caso il dato fondamentale era che
arterie e vasi principali fossero
stati risparmiati, dal momento che gli antichi non avevano modo di ovviare a
gravi perdite di sangue. Il fratello del poeta Eschilo, per esempio, mor
dissanguato durante la battaglia di Maratona quando gli fu troncata
una mano all'altezza del polso (Erod., 6.114).
Anche i feriti che erano in grado di lasciare sulle proprie gambe il campo di
battaglia, e non venivano perci
annoverati tra le perdite del giorno, talvolta morivano per ferite minori. I
guerrieri potevano perire a distanza
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di ore o di giorni a causa di lesioni interne, pi profonde, che causavano
un'inarrestabile infiltrazione di sangue
(Plut., Artax. 11.6), o di un danno pi grave a una vena maggiore che non
consentiva di arrestare l'emorragia.
Naturalmente, lo spettro pi terribile era l'infezione: gran parte delle armi
degli opliti erano un buon ricettacolo
di batteri - che popolavano il suolo e le feci degli animali sul terreno - che
scatenano in particolare le infezioni
clostridiali quali il tetano o la cancrena, di quelle affezioni cio che possono
nascere da una lesione anche
superficiale in cui stata arrestata l'iniziale perdita di sangue. In questi
casi la morte era inevitabile, data
l'assenza di antibiotici o di antitossine adeguate. Diodoro commenta spesso la
morte inattesa di un soldato a
giorni e perfino a settimane di distanza dalla battaglia, in molti casi a
seguito di una ferita che non era stata
giudicata affatto grave (per esempio 20.23.2-8). Forse fu questa la causa della
morte del re persiano Cambise, il
quale non si riprese pi da una ferita apparentemente non letale e accidentale
che si era inflitto con la propria
lancia; anche Milziade fu vittima della cancrena settimane dopo essere stato
ferito alla coscia a Paro (Erod.,
3.64.3; 6.136). Anche Annibale sarebbe morto a causa di un leggero graffio che
si era fatto con la spada, in
quanto intervenne un'infezione (Paus., 8.11.11). Un quadro a tinte vivaci del
corso degli eventi formato
dagli episodi descritti nel corpus ippocratico. Un paziente vittima di una
ferita da freccia per niente degna di nota
cadde successivamente in preda alle convulsioni del tetano, al punto che le
mascelle si serrarono; se cercava
di inghiottire qualcosa di liquido, gli fuoriusciva dalle narici (Majno, p.
199). In quel caso la medicina antica
era disgraziatamente impotente, dato che i medici greci non conoscevano
l'infezione e i pericoli mortali che
poteva comportare un trauma anche minimo. Il medico antico non praticava la
detersione antisettica della lesione
n cercava di arrestare immediatamente ulteriori perdite di sangue, ma si basava
sulla nota teoria dell"equilibrio
dei quattro umori, una nozione della salute che produceva quasi invariabilmente
la terapia sbagliata per le ferite
riportate in battaglia." come consigliava Ippocrate nel suo trattato sulle
ferite, da ogni ferita recente opportuno
far sgorgare il sangue in abbondanza (2.796). Majno ha riassunto perfettamente
il successo del medico antico
sul campo di battaglia: Tutto sommato, la terapia greca per la ferita in s
probabilmente non produceva seri
danni, al contrario. Tutt'altra storia invece per ci che concerne le cure
generali, volte a "sanare la ferita" pi
indirettamente, tanto nocive da far drizzare i capelli (p. 188). Queste lente
agonie spiegano forse perch ogni
tanto alle liste annuali delle vittime delle battaglie, incise su pietra,
venissero aggiunti da una mano diversa altri
nomi (per esempio IG, I2 929 62-70).
19. Epilogo
Ci troviamo qui, come in un'oscura pianura, spazzata da confusi allarmi di lotte
e di fuga, in cui eserciti ignari si scontrano di
notte.
Matthew Arnold
Ils ne passeront pas.
Maresciallo Ptain, Verdun 1916
Il cittadino e il campo di battaglia
A un certo punto delle Leggi, Platone fa dire al legislatore cretese che per i
greci pace non che un nome;
di fatto ogni stato, per sua stessa natura, si trova sempre con tutti gli altri
in guerra non proclamata (626 A).
Se il continuo stato di guerra che si riscontra nelle tragedie, nei poemi epici
e nella storia greca
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un'indicazione degli interessi degli autori oppure di quelli pi generali del
loro pubblico, allora quella
riflessione del cretese rispecchia esattamente l'atteggiamento diffuso dei greci
sul conflitto armato che
osservavano nel loro piccolo mondo. Dobbiamo per guardarci da un errore di
fondo: lo stato di ostilit
pressoch perpetua tra le cittstato, di cui sono consapevoli sia gli antichi
che i moderni, aveva poco a che
vedere con gli scontri reali di fanteria sul campo di battaglia; guerra e
battaglia erano per i greci due
concetti ben diversi. Anche durante il periodo buio della guerra del
Peloponneso, un conflitto che dur per
ventisette anni ininterrotti su terra e su mare, quell'ora di massacro brutale e
di morte nella battaglia su terra
tra falangi era per la maggior parte degli uomini ancora un fenomeno raro. I due
soli scontri di fanteria di
una certa entit durante quella guerra furono le battaglie terribili di Delio
(424) e di Mantinea (418). Per gli
ateniesi e i peloponnesiaci che persero quegli scontri il totale dei morti e dei
feriti in battaglia in un solo giorno
fu un fatto sconvolgente, ma probabilmente era insignificante a paragone sia con
la grande peste di Atene, sia
con la successiva catastrofe militare ateniese in Sicilia. E in effetti, se
dovessimo sommare tutti i momenti nella
vita di un uomo in cui egli era impegnato ad attaccare un nemico con la lancia e
lo scudo all'interno della
falange, arriveremmo sicuramente a un totale quanto mai basso: sessanta,
trecento, seicento minuti, un dato
che non paragonabile neppure a una settimana di combattimenti di un fante di
stanza in Vietnam. Anche nel
periodo in cui era lontano da casa per il servizio l'oplite, alle prese con la
routine della campagna, in marcia con
il sacco delle provviste e il servitore al fianco, sapeva con certezza che
c'erano scarse probabilit di dover
combattere finch non si allineava in colonna per affrontare un nemico schierato
in modo simile dall'altra
parte del campo.
I greci maturarono un interesse tanto profondo per la guerra proprio perch il
combattimento per falangi era
cos breve. La battaglia diventava un'idea ossessiva nella mente di coloro che
vedevano ben pochi
combattimenti. L'esperienza della battaglia infatti sempre qualitativa - se
possiamo usare un aggettivo del
genere in tale contesto -e non semplicemente quantitativa. Il cittadino di una
cittstato greca capiva che la
semplicit, la chiarezza e la brevit dello scontro tra opliti definivano
l'insieme dei rapporti con la famiglia e
con la comunit: l'unico giorno, in data indefinita, che poteva mettere fine
alla sua vita ma che senza dubbio
dava un senso a tutta la sua esistenza. La forza dell'esclamazione di Medea
nella tragedia di Euripide, che
preferirebbe trovarsi in battaglia tre volte invece di partorire una sola, non
nasce solo dalla sua novit e
neppure dalla sua emotivit, ma sicuramente, per il pubblico maschile ateniese,
dalla sua assurdit: la corazza
pesante e scomoda che rimaneva appesa sopra il focolare, inutilizzata e
ossidata, serviva a ricordare giorno
dopo giorno che quei pochi minuti di combattimento terribile e selvaggio erano
comunque infrequenti e tali
sarebbero rimasti nelle inestirpabili guerre del futuro.
Anche il numero di parenti coinvolti in quel dramma personale - padri, figli,
nipoti, cugini, zii e gli amici di
tutta una vita - contribuisce a spiegare l'importanza data alla guerra nella
societ greca: tutti gli uomini erano
iniziati del pi terribile tra i tanti rituali della loro cultura, e i vincoli
che si creavano in quei pochi minuti di
combattimento collettivo definivano in modo nuovo la vecchia idea di famiglia
e di amico. Poich le
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esercitazioni quotidiane con le armi erano ridotte al minimo, al pari della
mensa comune, con l'eccezione di
Sparta, nella maggior parte degli stati greci il militarismo era una realt
trascurabile nella vita del cittadino.
Invece, indossare la panoplia e mettersi in marcia significava solo che era
giunto il momento di uccidere e
morire nel mondo da incubo della falange; non si invocava qualche mistica del
culto del guerriero.
Nonostante i recenti tentativi degli antropologi di interpretare almeno in parte
la battaglia greca classica come
un rito iniziatico di passaggio dall'adolescenza all'et adulta, non ci sono
molte indicazioni, perlomeno nella
letteratura greca, che i greci stessi la giudicassero tale, visto che molti di
loro combattevano per gran parte della
vita e fino a un'et avanzata. L'interesse in tempo di pace per l'uso dello
scudo e della lancia, la danza rituale
dell'oplite, la corsa con la corazza - e l'interesse del pittore su vaso, dello
scultore, del poeta - era, a mio
giudizio, sintomatico dei timori e dell'aspettativa che tormentavano il cuore di
ogni uomo, occupando uno
spazio inversamente proporzionale ai pochi attimi di combattimento effettivo sul
campo di battaglia. Poich, in
ultima analisi, i greci classici consideravano economico e pratico il loro modo
di combattere - un modo che
solo le generazioni successive avrebbero trovato romantico - nella loro eredit
presente una morale: l'idea che
l'immagine della guerra non debba essere mai altro che quella di corpi che
cadono e di ferite che sanguinano.
Le condizioni concrete della battaglia per gli uomini schierati nella falange
erano pressoch identiche
ovunque e ogni qual volta combattevano, ed per questo che il cittadinosoldato
capiva perfettamente perch il
poeta aveva definito la guerra greca una cosa paurosa. La semplicit e
l'ordine del combattimento oplite
assicuravano che lo scontro si svolgesse pi o meno allo stesso modo in
qualunque punto o momento della
battaglia: conoscerne una significava conoscerle tutte. Quest'inconsueta
uniformit di armi e di tattiche, in una
dimensione pi generale, faceva s che uccisioni e ferimenti fossero familiari a
numerose generazioni, che
avessero combattuto in un giorno d'estate a met del V secolo in una valle della
Beozia o in un altopiano del
Peloponneso centrale un centinaio di anni prima. Per gli uomini dai venti ai
sessantanni - sia i novellini sia i
veterani - la carica, la collisione delle lance, la pressione, le cadute, le
ferite, il panico, la confusione e perfino il
mucchio di morti sul campo di battaglia erano tutti eventi simili che avrebbero
conosciuto in un'unica
occasione, spaventosa e fatale, oppure fino a quando non erano pi in grado di
combattere. Soprattutto la
presenza dei vecchi tra i ranghi garantiva che la battaglia non fosse vissuta
come scherzo da ragazzi in cui le
due parti si schieravano per qualche strano gioco. Al contrario, i pi anziani
insegnavano ai giovani che quello
scontro decisivo era il solo modo per mettere fine il pi rapidamente possibile
all'ordalia. A differenza di
quanto sarebbe accaduto tra le generazioni successive di veterani di fanteria in
Occidente, non si parlava mai di
teatri vasti e distinti di guerra, di campagne che si trascinavano per mesi e
mesi, di storie differenti (e quasi
sempre in competizione) di audacia di cui si era stati testimoni in artiglieria,
nei reparti corazzati e in fanteria
in qualit di ricognitori, genieri, fucilieri, lanciafiamme, mitraglieri o
messaggeri. Per il cittadino greco di
ogni et esisteva soltanto l'immagine dell'oplite armato di lancia, impressa
nella mente come i guerrieri sui
fregi di tanti templi greci, un quadro che ciascuno condivideva con tutti coloro
che conosceva.
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L'evoluzione della battaglia greca
Il costante progresso economico e sociale che si verific in tutta la Grecia
dal VII secolo fino alla fine del V
a. C. conferma la peculiarit dello spirito della guerra oplite: un sistema
grazie al quale i continui e inevitabili
conflitti distruttivi non ebbero un'influenza negativa duratura sulla cultura
della cittstato greca. Tuttavia, il
sistema adottato per limitare le perdite tra i civili e la distruzione di
propriet a causa dell'incessante stato di
guerra richiedeva che la battaglia fosse decisiva al di l di ogni dubbio per
tutti coloro che vi erano coinvolti,
e che fosse perci a volte eccezionalmente brutale. La corazza dell'oplite era
tanto pesante, tanto inadatta al
clima estivo e tanto scomoda da indossare che oggi la sua stessa esistenza ci
sembra un'assurdit. Ma la
panoplia assolveva uno e un solo compito cruciale: concedeva trenta o pi minuti
di protezione relativa,
durante i quali il combattente poteva battersi corpo a corpo con l'avversario e
colpire ferocemente con la
lancia, e spesso permetteva almeno al guerriero di esporsi e uccidere prima di
morire. La protezione
dell'oplite, a differenza della corazza del cavaliere o delle difese pi leggere
del soldato armato di scudo a
rotella, era spesso pi offensiva che difensiva, e aveva lo scopo di
permettergli di aprire un varco per coloro
che stavano dietro di lui nella falange prima di essere sopraffatto dallo sciame
di nemici che lo circondavano.
Talvolta gli uomini si scagliavano gli uni contro gli altri con l'armatura
difensiva costituita da scudo, elmo e
corazza, quando le file dietro spingevano inesorabilmente in avanti questi
arieti umani. La tattica di un
combattimento del genere era altrettanto brutale, poich si risolveva in
sostanza in una collisione frontale
volta a una reciproca distruzione.
Il fatto che i cavalieri, gli arcieri e i soldati armati alla leggera fossero
relegati in un ruolo minore nel
combattimento dimostra chiaramente che, per la prima volta nella storia del
conflitto armato, la loro
importanza era secondaria nella guerra, che si risolveva esclusivamente in uno
scontro di fanteria. N erano
gradite le manovre e l'utilizzazione di una forza preponderante contro un nemico
pi debole, perch la
battaglia avveniva per convenzione, era un accordo bilaterale in base al quale
le due parti facevano
scendere dalle colline e uscire dalle mura tutti i loro uomini, che si
affrontavano in una battaglia che avrebbe
avuto un esito decisivo. Sebbene significasse morte certa per centinaia di
uomini che vi prendevano parte, l'intento era perlomeno quello di limitare la
guerra, non gi glorificarla, di salvare invece di distruggere vite
umane. La visita ai morti sul campo, lo scambio dei caduti, l'erezione del
trofeo sul campo di battaglia,
l'assenza di un inseguimento organizzato con ulteriore carneficina e soprattutto
l'impegno comune a
conformarsi alla decisione conseguita sul campo di battaglia erano tutti rituali
volti a rafforzare la
convinzione che un massacro maggiore non era soltanto insensato ma anche
inutile. Prolungare lo scontro
sarebbe stato senza dubbio un affronto ai valori tradizionali e a coloro che
erano caduti ore prima e giacevano
ancora sul campo di battaglia.
Nella cittstato greca durante la grande et della battaglia oplite non
esistevano obiettori di coscienza, poche
erano le autolesioni e nessuno era esentato per l'et o per qualche menomazione
fisica. Cose del genere
sarebbero state assurde per i greci e infatti non furono mai dibattute n dai
filosofi, n dagli strateghi.
Spiegamento tattico e arte di schierare gli uomini servivano esclusivamente a
radunare in fretta e in modo
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efficiente la massa di uomini da entrambe le parti in vista della carneficina.
Vincere una battaglia prima
ancora che fosse cominciata significava concedere a un comandante troppa
influenza sui fanti sul campo,
innalzare il singolo al di sopra della massa e permettere cos a una parte di
ottenere la vittoria con l'inganno, con mezzi che non erano il coraggio.
La successione di innovazioni e di modifiche incessanti al modo di combattere
dell'et classica, a partire dal
IV secolo a. C, non dovrebbe essere considerata un progresso rispetto a un modo
di combattere obsoleto e
inefficiente. L'introduzione di forze di cavalleria e soldati armati alla
leggera, di un genio per gli assedi, di
corpi organizzati di arcieri bene addestrati non dimostra che in passato gli
opliti fossero inadatti alla guerra,
ma anzi indicativa del loro successo; per gli uomini nuovi del periodo
ellenistico e romano la collisione
tradizionale era troppo efficiente, troppo prevedibilmente brutale; ritenevano
(a torto) che una percentuale
troppo alta di vincitori nella battaglia greca classica morisse per conseguire
la vittoria (una volta liberatisi della
corazza dei loro avi, impararono fin troppo bene che poteva morire un numero
assai maggiore di uomini nello
scontro tra eserciti pi numerosi). Venuto meno il fragile equilibrio tra le
piccole cittstato indipendenti, i pi
non erano disposti a partecipare alla battaglia oplite soltanto per conformarsi
a una decisione che giudicavano intrinsecamente arbitraria.
La battaglia campale tra opliti lasciava intatta la propriet e la cultura
degli sconfitti, che perdevano solo il
15 per cento dei cittadini maschi, molti dei quali non erano pi nel fiore degli
anni. I successori dei greci, nel
migliore spirito moderno, cercarono con tutto il loro ingegno di prolungare,
estendere, glorificare e
continuare il combattimento fino al punto di riprodurre sul campo di battaglia
la stessa struttura sociale.
Avevano dimenticato, o meglio non avevano capito, che il vecchio modo di
combattere degli opliti era
intenzionalmente artificiale, era volto a concentrare la brutalit su pochi
individui per risparmiare la
maggioranza. A partire dal VII secolo a. C. era maturata in Grecia l'idea che la
battaglia dovesse essere un
rituale particolarmente spaventoso per tutti i soldati che vi partecipavano,
uomini di tutte le et, se si voleva
bandire la guerra dalla vita quotidiana delle famiglie rimaste in patria. In
ultima analisi, non forse presente
in una concezione tanto schietta del conflitto, una presa di posizione morale?
In seguito gli occidentali
immisero nella guerra una maggiore complessit e la scienza, quasi che
introducendo tali elementi
potessero rendere in qualche modo pi controllabile o prevedibile la battaglia,
e pertanto forse anche pi
umana; ma quello che in realt ottennero fu di introdurre la carneficina nella
vita stessa dei cittadini o dei
sudditi che intendevano proteggere, trasformando un evento terreno tanto
semplice e brutale in un culto
dell'eroismo giovanile.
Ci che rimasto dell'eredit della battaglia greca classica in et ellenistica
e romana, e di l lungo l'intera storia
dell'Occidente, non tanto la forma o il principio morale quanto lo spirito
della guerra ellenica. La battaglia
campale di fanteria, con lo scontro frontale tra colonne di uomini in corazza,
non sempre si rivelava un mezzo
realistico per decidere con efficienza una guerra; nondimeno quel modo di
combattere conserv la sua utilit,
costituendo la conclusione decisiva (e gloriosa) di una serie di azioni in un
vasto teatro di operazioni o di una
campagna annuale tra eserciti intenzionati - se si profilava la possibilit di
una vittoria limpida - a radunare le
loro forze di fanteria per tale soluzione finale. Il tipo di combattimento greco
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di fanteria, nella sua forma
fondamentale, aveva sempre fornito un mezzo efficace per concentrare la guerra e
quindi per uccidere o ferire
con la massima efficienza, dati i limiti di tempo e di spazio. Rispetto all'et
classica non era cambiato l'ingrediente basilare: il rischio di uno scontro
brutale in cambio dell'opportunit singola di eliminare un gran numero
di nemici. Lo scopo di quegli uomini era allora di risolvere l'intera faccenda
almeno in modo decisivo se non
pulito.
Qualcuno potrebbe obiettare che, mettendo l'accento sulle sofferenze in una
battaglia oplite, io abbia
esagerato la ferocia del combattimento tra gli uomini in corazza dell'et
classica, un esperienza la cui brutalit
non trova riscontro nella moderna guerriglia nella giungla o nelle settimane di
bombardamento in trincea, vale a
dire in luoghi in cui i soldati sono costretti a sopportare una sofferenza
ancora peggiore. Naturalmente le
moderne campagne di fanteria sono oltremodo angoscianti: per un anno di servizio
attivo i combattenti sono
esposti di continuo al fuoco imprevedibile di soldati e civili di ogni et e
sesso, anche quando non si vede da
nessuna parte la fanteria nemica. Per i greci, al contrario, la battaglia era
spaventosa proprio perch la carneficina
non era casuale. Poich combattevano senza il fuoco di sbarramento, le sorprese
delle imboscate nelle giungle o
nelle citt, al riparo dalla pallottola anonima sparata da un cecchino, i greci
sapevano che tutto sommato in
battaglia ben poco era lasciato al caso. Conoscevano esattamente la successione
degli eventi all'orizzonte: carica,
collisione, corpo a corpo, pressione, crollo, rotta. Inoltre, l'uso di armi da
taglio da parte di uomini in corazza
comportava un'animalit primitiva, tanto pi quando lanciatori di giavellotto,
arcieri e frombolieri, con le loro
armi da lancio, erano esclusi dal macello, a differenza di quanto sarebbe
accaduto in seguito. Gli uomini che
uccidevano con strumenti impugnati con le mani e si guardavano dibattersi,
sanguinare e cadere tra i piedi gli
uni degli altri dovevano profondere nello scontro energie tanto fisiche quanto
psicologiche. Poich le perdite in
battaglia erano in generale prevedibili e costanti - dal 10 al 20 per cento tra
gli sconfitti, il 5 per cento o meno
per i vincitori - la battaglia diveniva sempre pi prevedibilmente spaventosa
per coloro che invecchiavano e continuavano a partecipare a quelle orribili
missioni. Un simile corso degli eventi costituiva una parte inevitabile
della loro vita; in un certo senso, per l'oplite la battaglia era una condanna a
morte pi che la sentenza incerta
del conflitto recente. Oggi il servizio militare contempla un inizio e una fine
del pericolo di morire.
La notificazione degli intenti - un precedente dei greci a un tempo
rivoluzionario e terribile, che
sopravvissuto nel moderno pensiero militare occidentale - contribuisce a
spiegare la loro paura: quando le
falangi avanzavano l'una contro l'altra, tutti gli uomini sapevano esattamente
che cosa stava per accadere e che
tanto la vittoria quanto la sconfitta dipendevano esclusivamente dagli uomini al
loro fianco. Non potevano
rifugiarsi nella speranza che giungessero rinforzi, fossero le riserve o un
battaglione di soccorso. Erano
ugualmente sconosciuti il bombardamento aereo preliminare e l"ammorbidimento
del nemico con
l'artiglieria. Al soldato greco mancava anche la fiducia che nasce dalla
possibilit di trovarsi in soverchiante
superiorit numerica o di potenza di fuoco o dal fatto di utilizzare una tattica
originale o una strategia
superiore. Il successo o la sconfitta dipendevano esclusivamente dalla capacit
dei guerrieri di resistere
nell'armatura di bronzo per l'ora successiva, vincendo la tentazione di voltare
le spalle o anche solo di schivare
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il colpo di lancia al volto o all'inguine. Inoltre gli uomini non ignoravano,
anzi immaginavano o prevedevano
come sarebbero morti: sapevano perfettamente come sarebbero caduti in battaglia,
trafitti da una lancia o da
una spada, schiacciati dagli scudi e dai piedi in mezzo ai loro familiari e
amici.
La fine dell'eredit greca
Il fatto che l'eredit della battaglia greca tra opliti sopravviva ancor oggi
in Occidente sorprende in maniera
particolare, in quanto la meccanica della battaglia campale di fanteria,
nonostante i progressi tecnologici, oggi
quasi obsoleta, e con essa i fondamenti stessi della dottrina che la
giustificava: la notificazione degli intenti, il
riconoscimento comune della collisione imminente tra le due forze, l'obbedienza
al verdetto del campo di
battaglia. Nell'et nucleare esiste un pericolo terribile, agli occhi di tutti
coloro che vedono sopravvivere e
perdurare l'eredit del modo greco di far guerra ben dopo la fine della vera
battaglia di fanteria e del clima
morale in cui nacque, un clima col quale era un tempo perfettamente integrata e
coincidente. E chiaro che
non siamo pi una societ agraria di piccoli proprietari fondiari indipendenti;
abbiamo ereditato soltanto l'idea
della battaglia greca come eroismo, separandola dal combattimento reale,
ignorandone le lezioni reali e
trasportando il modo di pensare dei greci in un insieme di circostanze
completamente diverso - e pericoloso - e in
un teatro delle operazioni del tutto differente.
Non dobbiamo, per esempio, ingannare noi stessi pensando che uno scambio di
armi nucleari (anche tattiche)
sia in un certo senso giustificato perch, al pari dei greci, non abbiamo in
sostanza altra risorsa che comunicare
le nostre intenzioni al nemico, segnalargli sia il momento sia le modalit del
nostro attacco, schierare le nostre
forze sul campo di battaglia e poi avanzare: come se il riconoscimento del
conflitto diretto, il fatto di dare e
subire colpi senza inganno, possa giustificare in qualche modo la mostruosit
del conflitto. A differenza dei
greci, non potremmo assolutamente conformarci all'esito di una battaglia del
genere e scambiarci i morti, con
la soddisfazione di sapere che affrontando e resistendo al nemico abbiamo
ridotto al minimo, e non aggravato,
la carneficina. La collisione tra i soldati armati alla luce del giorno fu per i
greci, in origine, una dura decisione
presa per condurre in modo rapido ed efficace il combattimento, riducendo al
minimo le perdite, non un
palcoscenico romantico per mettere in vetrina coraggio e risolutezza. Al
contrario, un conflitto nucleare sarebbe
ovviamente inappellabile e provocherebbe la fine della civilt cos come la
conosciamo. terribile pensare
che gli americani (i soli ad aver impiegato la bomba atomica in una guerra)
possano rivendicare in uno scenario
siffatto un fine eroico. Come possiamo dirci soddisfatti di essere arrivati alla
carneficina finale?
In conclusione, non abbiamo assistito nel corso della nostra vita alla fine del
modo occidentale di far
guerra?

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