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Pubblicazioni

IL MORGAGNI N° 37 - Anno 2018

RIFLESSIONI SUI PERCORSI FORMATIVI NELL’AMBITO DELLA CHIRURGIA VASCOLARE

Ospitiamo volentieri le riflessioni del prof.


Claudio Cinà maturate durante una vita di
attività clinica e di ricerca scientifica
nell’ambito della chirurgia vascolare
trascorsa tra le due sponde dell’Atlantico:
l’Europa, l’Italia, la Sicilia dove è nato e
dove ha trascorso i primi anni di studio e
gli Stati Uniti e il Canada, soprattutto il
Canada, dove ha perfezionato le
conoscenze di medicina, avviato studi di
ricerca e dove è stato, a Toronto, docente in
una delle università più importanti del
mondo. Il prof. Claudio Cinà è da quasi
otto anni nello staff del gruppo Morgagni,
nei due presidi di Catania e Pedara.

La nostra salute è nelle mani delle nuove


generazioni di medici. Per questo motivo la
formazione del medico è uno degli aspetti
più importanti della medicina
contemporanea. Ho insegnato in due
Università in Canada, alla McMaster University e all’Università di Toronto. La filosofia di insegnamento che è nata
all’Università di Mcmaster e sembra oggi essere quella accettata come la più adeguata alle esigenze moderne, trova la
sua essenza nel concetto “Problem based learning and small based groups”, ovvero l’educazione si fonda
sull’addestramento alla risoluzione di un problema, in un’organizzazione basata su piccoli gruppi di studenti, in genere
sette-otto. Gli studenti sono indotti a trovare una soluzione al problema che a loro è sottoposto, supportati da un
tutor che non è uno specialista nell’ambito del settore cui il problema si può ricondurre. In altri termini, si cerca di non
mettere un chirurgo, in qualità di tutor, se il problema sottoposto agli studenti è legato ad una appendicite. Si cercherà
un endocrinologo, uno psichiatra, o uno specialista di medicina interna… Insomma un non addetto ai lavori. Qual è la
finalità? Il concetto, che sta alla base di questo metodo educativo, parte dalla constatazione che quando un individuo
ha un problema e deve studiare per risolverlo, quello che imparerà rimarrà maggiormente impresso nella sua mente.

Il metodo di insegnamento non basta ed è importante anche la selezione dei candidati.


E’ chiaro che il numero chiuso è importante sia per proteggere l’apprendimento del futuro medico sia per assicurare
una migliore cura della popolazione. Il problema tuttavia risiede nella tecnica della selezione.
In Canada, dopo la scuola superiore, high school, non ci si può iscrivere in medicina. Bisogna dimostrare che è davvero
ciò che vuoi, puoi e sarai in grado di fare. Bisogna costruirsi un curriculum. Si deve dimostrare maturità per l’obiettivo.
Allora, per lo più, la maggior parte dei giovani si iscrive in un’altra facoltà della durata di quattro anni, durante i quali
dovrà dimostrare di essere un bravo studente. Sempre lungo questo percorso, si dovrà fare qualcosa che dimostri la
potenziale attitudine ad essere un bravo medico. Per intenderci: durante l’estate gli studenti svolgono attività di
volontariato, ad esempio in centri oncologici, oppure se si è scelta ingegneria ci si potrà impegnare in una ricerca di
biotecnologia e medicina, etc. Alla fine di questo percorso, lo studente farà i famosi test d’ingresso in Medicina, ma
questi valgono solo il 25% circa del punteggio globale che gli consentirà accesso alla facoltà. A questo punto lo
studente fa la domanda per iscriversi in medicina. Se il candidato viene considerato adeguato, gli si concede
un’intervista. Ad esempio alla McMaster University, su 3000 domande si concede l’intervista a circa duecento
candidati. L’intervista è un incontro tra il candidato e un gruppo di esaminatori che include uno studente di medicina,
uno psicologo o psichiatra, un altro medico, e individui significativi della società (un medico, un ingegnere, un
avvocato, etc) e si discuteranno aspetti medici, etici e pratici. Una volta selezionato il candidato diventa persona d’élite,
destinato a non fallire, e sarà affidato per quattro anni ad un ‘tutor”, nel cui ruolo mi sono ritrovato anche io, e che si
prenderà cura del candidato non solo dal punto di vista tecnico, ma soprattutto da quello umano. Non ci sono lezioni
magistrali, o sono molto limitate. Questi studenti si ritrovano in gruppi di sette-otto, e lungo tutto il percorso di studi
ricercano gli argomenti da imparare, si confrontano, si relazionano, insomma crescono insieme. Imparano a discutere
con i colleghi e a non prendere decisioni solitarie. Questo lavoro d’équipe, cui sono educati, diventerà un bagaglio
professionale. Questo si rifletterà anche sul modo di relazionarsi con il paziente e di sentire e mostrare per essi
empatia. Curare vuol dire far sentire bene il malato.
La formazione di un buon chirurgo richiede un programma disegnato per consentire l’apprendimento graduato e
supervisionato delle tecniche chirurgiche. Il chirurgo deve diventare indipendente intorno ai 35 anni; tra i 40-45 anni
deve aver contribuito in modo innovativo alla ricerca o all’attività clinica; tra i 55 anni e i 60, contribuirà alla medicina
grazie all’esperienza acquisita. Nel tempo, la crescita come chirurgo cederà il passo al ruolo di méntore, cioè una persona
che riesce a guidare altri individui più giovani. Uno degli errori che il chirurgo può fare, è quello di non realizzare la
complessità della chirurgia del XXI secolo. Il potenziale candidato deve aver chiaro che il periodo formativo è lungo:
per un chirurgo che non vuole fare attività accademica è di circa sette anni, per un chirurgo che vuole essere un leader
nel proprio campo e influire sullo sviluppo della propria disciplina, ne servono almeno dieci, perché bisognerà
conseguire un PhD o frequentare un master “serio” nel campo della ricerca di laboratorio o clinica. La migliore
struttura educativa, a mio avviso, è quella che associa al sistema di apprendimento graduato la figura del méntore.
Questo è l’individuo che rappresenta una forza educativa potente nella vita del discente, dal punto di vista tecnico,
umano e ispirativo-motivazionale. Quello che consiglio al giovane candidato è di avere ben chiara, fin dall’inizio, la
strada che si vuole seguire.

La chirurgia vascolare ha raggiunto, oggi, traguardi come non mai nella sua storia. Basti pensare alle ricostruzioni
estreme con sostituzione totale dell’aorta toracica e addominale e reimpianto di tutte le arterie principali del nostro
corpo. Certamente potremmo dire che questi traguardi rappresentano i giorni migliori. Eppure, questo ha portato a tutta
una serie di difficoltà e problemi che medici ed amministratori sono costretti a fronteggiare quotidianamente:
l’esplosione esponenziale ed inattesa dei costi che costringono ad un razionamento dei servizi; la necessità di
complesse risorse tecniche e strutturali che ospedali pubblici e privati hanno difficoltà a fornire; e la necessità di
trasferire le nuove scoperte dai laboratori di ricerca alla clinica applicata per assicurare una medicina basata
sull’evidenza e non su credenze magiche. A questo, si aggiunge il dilemma delle risorse umane rappresentato dal fatto
che i vecchi chirurghi, esperti nelle metodiche tradizionali, hanno difficoltà a reinventarsi come terapisti endovascolari
e che i giovani chirurghi, meno esposti alla chirurgia tradizionale, sono meno proficienti di quanto dovrebbero essere.
Certamente per molti versi questi sono i giorni peggiori.

Tra queste difficoltà una cosa, tuttavia, rimane stabile: il nostro impegno per la salute ed il benessere del malato. Noi
esistiamo per i nostri pazienti e non per il nostro beneficio. Il nostro sforzo deve essere quello di creare un’attività
clinica che sia all’avanguardia, umana, diversificata, basata sull’evidenza e con un equilibrato rapporto costo/beneficio.
Questo è quello che considero oggi costituire l’eccellenza in chirurgia vascolare. Senza dubbio, raggiungere questo
obiettivo è complesso, ed infatti, mi fa ricordare un evento altrettanto complesso nella storia dell’uomo: la conquista
dell’Everest...

La metafora dell’Everest e della sua scalata, può essere chiarificante. “Quali sono stati gli elementi che hanno consentito
di conquistarne la vetta? Un Consiglio di Amministrazione con vedute moderne, che ha finanziato adeguatamente la
spedizione e che ha scelto il manager giusto, per organizzare l’ascesa, e gli uomini giusti per scalare la montagna. Allo stesso
modo, un servizio di chirurgia vascolare per raggiungere l’eccellenza deve essere guidato da un’amministrazione visionaria,
utilizzare un team specializzato di professionisti ed avere a disposizione adeguate risorse strutturali. I requisiti tecnici devono
essere i seguenti: svolgere profilassi primaria e secondaria delle malattie cardiovascolari; fare diagnostica non invasiva e
delle immagini con apparecchiature d’avanguardia; essere capace di fare fronte alle emergenze vascolari con metodiche
chirurgiche tradizionali e minimamente invasive; prendersi cura non solo di pazienti con patologie semplici, fatto
incoraggiato dalla condizione umana e dal sistema remunerativo, ma anche di quei pazienti con condizioni rare e
complesse che spesso vengono abbandonati al loro destino che nel migliore dei casi trovano soluzione migrando. Infine,
le tecniche moderne di chirurgia endovascolare devono giocare un ruolo centrale nell’attività chirurgica, seguendo la
filosofia generale di riduzione del trauma e dell’invasività degli interventi. Ma pur godendo di una gestione oculata e
illuminata, i progetti hanno bisogno di fondi e di risorse umane all’altezza degli obiettivi. I due fattori sono inscindibili.
È oggettivo che si attraversa un periodo contrassegnato da difficoltà economiche le quali si traducono spesso in tagli ai
fondi per la sanità e alle risorse umane. Io ceramente non ho la soluzione ma mi sovviene un insegnamento che mi diede
diversi anni addietro, uno degli amministratori del Methodist Hospital, ossia che è meglio stringere la cinghia in tempi
di magra che trovarsi senza personale qualificato, una volta passata la crisi. L’attività clinica, alle cliniche riunite Morgagni,
è prestata da chirurghi vascolari i quali lavorano come parte di un team di medici con specialità interdipendente,
multidisciplinare e complementare. A questi si aggiunge un largo team di tecnici esperti in circolazione extracorporea,
radiologia e fisioterapia, ed infermieri con grande esperienza in sala operatoria, in terapia intensiva e nel decorso
postoperatorio di degenza. Infine, un personale specializzato in medicina di laboratorio e malattie infettive funziona da
complemento cementante delle funzioni delle strutture. Un rapporto di costante comunicazione tra tutti i membri del
team viene incoraggiato ed implementato, allo scopo di aumentare l’esperienza individuale e di migliorare i servizi. Tutto
questo si traduce in risultati d’avanguardia anche in questi giorni difficili. Guardando al futuro, dunque, l’obiettivo è di
rimanere all’avanguardia. Le limitazioni sono spesso solo economiche e determinate dalle metodiche di rimborso delle
prestazioni chirurgiche che favoriscono gli interventi minori e scoraggiano gli interventi maggiori, che se non vengono
resi accessibili, causano la migrazione dei nostri pazienti. Chi amministra i fondi nazionali e regionali deve chiedersi
come utilizzarli per favorire quelle strutture che ne possono fare un uso migliore in termini di costo-benefici e qualità.
Puntare all’avanguardia significa aver chiaro che nel XXI secolo le patologie vascolari rappresentano un fattore di
interesse sociale, dovuto sia all’aumento dei fattori di rischio che all’aspettativa di vita, ormai innalzata rispetto al passato.

PROF. CLAUDIO CINA’

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