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MACROBIO

COM M ENTO AL SOGNO


DI' SCIPIONE
Testo latino a fronte

Saggio introduttivo di Tlaria Ramelli

Traduzione, bibliografia,
note e apparati di Moreno Neri

In appendice:

M arco Tullio C icerone, II Sogno di Scipione


(con testo latino a fronte)

M oreno Neri, Sogni e magnanimità nelle arti


(con iconografia scipioniana)

Paolo Antonio Rolli, Scipione

Pietro M etastasio, il Sogno di Scipione

B O M P IA N I
IL PENSIERO OCCIDENTALE
© 2 0 0 7 R . C . S . Libri S .p .A ., M ila n o
I edizione B o m p ia n i
II P ensiero O c c i d e n ta l e aprile 2 0 0 7
SAGGIO INTRODUTTIVO

di
Ilaria Ramelli
S o m m a rio a n a l i t i c o
d el C o m m e n t o d i M a c r o b io
al S o g n o d i S c ip io n e

LIBRO PRIMO

CAPITOLO I
Preambolo: differenza e conformità tra la Repubblica di Platone e quel­
la di Cicerone. Perché essi hanno inserito in questi trattati, il primo,
l’episodio della rivelazione di Er; il secondo, quello del Sogno di
Scipione.

CAPITOLO II
Risposta alle critiche dell’epicureo Colote che pensa che a un filosofo sia
vietato ogni sorta di mito. Le diverse categorie dei miti in letteratu­
ra. I miti ammessi dalla filosofia e gli argomenti nei quali sono con­
sentiti.

CAPITOLO III
Tipologia dei sogni: i loro cinque generi. Quello di Scipione racchiude i
primi tre generi.

CAPITOLO IV
Natura e scopo del Sogno di Scipione.

CAPITOLO V
Breve riassunto del preambolo. Prima citazione del Sogno. Esposizione
aritmologica: la nozione di pienezza aritmetica. Benché tutti i
numeri siano perfetti, il sette e l’otto lo sono particolarmente. Virtù
del numero otto.

CAPITOLO VI
Virtù del numero sette. La combinazione di pari (otto) e di dispari
(sette). Le combinazioni che producono il sette, Uno più sei, virtù
dell’uno e virtù del sei. Due più cinque: virtù del due e virtù del cin­
que. Tre più quattro: capacità di legame di questi due numeri.
L’unione degli elementi secondo il Timeo di Platone. La doppia
capacità di legame del sette. Virtù specifiche del sette: ontologiche,
astronomiche (cicli lunari, solari e celesti), cicli delle maree, cicli
della vita umana (sviluppo dell’embrione, periodo post-natale,
infanzia e giovinezza, età adulta e vecchiaia), anatomia umana.
Conclusione dell’esposizione aritmologica. Le numerose proprietà
che fanno meritare al numero sette la qualifica di numero pieno.

CAPITOLO VII
Sulla divinazione. Ambiguità e mistero dei sogni e dei presagi relativi
alle avversità. In che modo racchiudano tuttavia circostanze che pos­
sono, comunque, condurre sulla strada della verità l ’investigatore
dotato di perspicacia.

CAPITOLO VIII
Sull’anima. Seconda citazione del Sogno. L e virtù filosofiche sono le
sole a dare la felicità? I quattro generi di virtù nel sistema di
Plotino: virtù politiche, virtù purificatrici, virtù dell’anima già puri­
ficata e virtù esemplari. Dato che la virtù costituisce la felicità e dato
che le virtù del primo genere appartengono a coloro che dirigono le
istituzioni politiche, ne consegue che le virtù politiche danno la feli­
cità.

CAPITOLO IX
La dimora celeste dell’anima. In che senso si deve intendere che i reg­
gitori delle istituzioni politiche sono scesi dal cielo e che lì ritorne­
ranno.

CAPITOLO X
Terza citazione del Sogno. Opinione degli antichi teologi sugli inferi e
quello che bisogna intendere, secondo essi, con vita o morte dell’a­
nima.
CAPITOLO X I
Opinione dei platonici sugli inferi e sulla loro dislocazione. In quale
modo concepiscono la vita o la morte dell'anima. La prima, la
seconda e la terza tesi platonica.

CAPITOLO X II
La strada che percorre l’anima, scendendo dalla parte più elevata del­
l’universo, attraverso le sfere celesti, verso la parte inferiore che noi
occupiamo.

CAPITOLO X III
Quarta citazione del Sogno. Sul suicidio. Suo divieto secondo Platone
e secondo Plotino. Vi sono per l’uomo due tipi d i morti: una ha
luogo quando l’anima lascia il corpo, la seconda, quando l’anima,
restando unita al corpo, rifiuta i piaceri dei sensi e compie la rinun­
cia ad ogni godimento e sensazione materiale. Quest’ultima morte
deve essere l’oggetto dei nostri voti; non dobbiamo affrettare la
prima, ma aspettare che Dio stesso rompa i vincoli che legano l’ani­
ma al corpo.

CAPITOLO XIV
Quinta citazione del Sogno. Natura dell’anima. Perché l’universo è
chiamato tempio di Dio. Delle diverse accezioni delle parole anima
e animus. L’emanazione delle ipostasi. La creazione delle anime
umane. Gli altri esseri viventi: animali e vegetali. Interpretazioni
allegoriche di Virgilio e di Omero (la catena aurea). Applicazione di
queste nozioni al testo di Cicerone e in che senso bisogna intendere
che la parte intelligente dell’uomo è della stessa natura di quella
degli astri. Diverse opinioni sulla natura dell’anima. Esposizione
astronomica e sua terminologia: in che cosa differisce una stella e un
astro; che cos’è una sfera, un cerchio, un circolo; da dove viene il
nome di corpo errante dato ai pianeti.

CAPITOLO XV
I circoli celesti: la Via Lattea; lo zodiaco; l’eclittica; i paralleli; i coluri;
il meridiano; l’orizzonte.
CAPITOLO XV I
Sesta citazione del Sogno. Le stelle: le stelle che non possiamo vedere
dell’emisfero australe; la loro dimensione in generale.

CAPITOLO XVII
Settima citazione del Sogno. L e sfere celesti. Sommario dell’esposizio­
ne. Perché il cielo si muove incessantemente e sempre in senso cir­
colare. La sfera stellata. In che modo va inteso chi sia il Dio supre­
mo. Se le stelle che si sono chiamate fisse hanno un movimento pro­
prio.

CAPITOLO XV III
Le sfere planetarie. Tesi da dimostrare: le stelle erranti hanno un movi­
mento propriocontrario a quello del cielo. Direzione dello sposta­
mento dei pianeti. Esempi del movimento della luna e di quello del
sole.

CAPITOLO X IX
Dell’opinione di Platone e di quella di Cicerone sul posto che occupa il
sole tra i corpi erranti. Della necessità in cui si trova la luna di pren­
dere in prestito la sua luce dal sole, in modo che illumini, ma non
riscaldi. Della ragione per la quale si dice che il sole non è esatta­
mente al centro, ma quasi al centro dei pianeti. Origine d ei nomi
dei pianeti. Le loro influenze astrologiche: perché vi sono dei piane­
ti che ci sono funesti e altri favorevoli.

CAPITOLO X X
Trattato sul sole: i differenti nomi del sole; le sue funzioni nell’univer­
so; la sua grandezza. M etodi fallaci per misurare il sole e il corretto
metodo “egiziano”. Il calcolo della circonferenza e la lunghezza del­
l’ombra della terra. Circonferenza e diametro terrestre. Lunghezza
dell’orbita solare. Misura del diametro solare.

CAPITOLO X X I
Lo zodiaco e i suoi segni. Perché si dice che i pianeti si spostino “nei”
segni dello zodiaco. Della causa della disuguaglianza di tempo nella
durata delle loro rivoluzioni. Dei mezzi che gli Egiziani hanno ado­
perato per dividere lo zodiaco in dodici parti. Perché l’Ariete è il
primo dei segni. I domicili zodiacali. Sommario degli ultimi cinque
capitoli. L ’aria: mondi supralunare e sublunare.

CAPITOLO X X II
Perché la terra è immobile al centro del mondo e perché tutti i corpi
gravitano verso di essa con il proprio peso. Dimostrazione: la cadu­
ta delle piogge.

LIBRO SECONDO

CAPITOLO I
Prima citazione del Sogno. Esposizione musicale. Princìpi dell’armonia
musicale: l'aria colpita emette un suono. Dell’armonia prodotta dal
movimento delle sfere. Mezzi adoperati da Pitagora per conoscere i
rapporti matematici dei suoni armonici. Dei valori numerici propri
agli accordi musicali e del numero di questi rapporti armonici.

CAPITOLO II
La musica delle sfere. In quale proporzione, secondo il Timeo di
Platone, Dio adoperò i numeri nella composizione dell’Anima del
Mondo. Preliminari: i solidi e i diversi corpi matematici. Da questa
organizzazione dell’anima universale risulta l’armonia dei corpi
celesti.

CAPITOLO III
Si possono apportare ancora altre prove e dare altre ragioni della neces­
sità dell’armonia delle sfere. Interpretazioni allegoriche: le Sirene;
le Muse; i riti religiosi; miti d ’Orfeo e d ’Amfione. Musica delle sfere
e intervalli planetari.

CAPITOLO IV
Descrizione dell’armonia che scaturisce dalle sfere planetarie. Della
causa per cui, tra le sfere celesti, ve ne sono alcune che danno dei
suoni bassi e altre dei suoni acuti. Larmonia celeste è costituita da
sette note. Limiti della presente esposizione musicale. Dei generi
deU’armonia. D el perché l’uomo non può sentire la musica delle
sfere.

CAPITOLO V
Seconda citazione del Sogno. Esposizione geografica e suo schema. Il
nostro emisfero è diviso in cinque zone. Zone terrestri e loro clima.
Delle fasce terrestri soltanto due sono abitabili (le zone temperate):
una di esse è occupata da noi, l’altra da uomini la cui specie ci è sco­
nosciuta. I nomi dei punti cardinali. I venti. L e zone abitate sulla
terra: l’emisfero opposto è simmetrico al nostro. Anche l’emisfero
australe è abitato dagli uomini. La teoria delle quattro regioni abi­
tate.

CAPITOLO VI
Della dimensione delle fasce della terra abitate e di quelle deserte.

CAPITOLO VII
Corrispondenza delle zone della terra e di quelle celesti. Il corso del
sole, cui dobbiamo il clima, ossia il caldo o il freddo, a seconda che
esso si avvicini o si allontani da noi, ha fatto immaginare queste dif­
ferenti zone.

CAPITOLO VIII
Dove si dà, per inciso, il modo d’interpretare un passo virgiliano delle
Georgiche, apparentemente sconcertante, che riguarda il circolo
dello zodiaco.

CAPITOLO IX
Il nostro globo è avvolto dall’oceano, non in un senso, ma in due diffe­
renti sensi. Oceano e regioni abitabili. La form a della parte che abi­
tiamo: ristretta verso ip o li e più larga verso il suo centro. Della scar­
sa superficie dell’oceano che ci sembra così grande e della terra.
CAPITOLO X
Terza citazione del Sogno. Esposizione astronomica: i cicli cosmici.
Benché il mondo sia eterno, l’uomo non può sperare di perpetuare,
tra i posteri, la sua gloria e la sua fam a; perché tutto ciò che contie­
ne questo mondo, la cui durata non avrà mai fine, è soggetto, come
dimostrano argomenti leggendari, storici e filosofici, a l periodico
alternarsi di distruzione e di riproduzione. La rinascita della civiltà.

CAPITOLO XI
Quarta citazione del Sogno. C’è più di un modo di valutare gli anni.
G li anni planetari. Hanno del mondo: sua definizione. Il grande
anno, l’anno veramente perfetto, comprende quindicimila dei nostri
anni.

CAPITOLO X II
Quinta citazione del Sogno. Il perché della citazione a questo punto del
Sogno. Esposizione metafisica: l’anima immortale è un dio; l’uomo
non è corpo, ma spirito. Dimostrazione della tesi sull’immortalità
dell’anima da parte di Plotino e opinione di Cicerone. In questo
mondo nulla muore, nulla si distrugge.

CAPITOLO X III
Sesta citazione del Sogno. L’anima autocinetica è immortale.
Definizione dell’immortalità e del movimento. Dei tre sillogismi
platonici che provano l’immortalità e l’autocinesi dell’anima.

CAPITOLO XIV
G li otto argomenti di Aristotele per dimostrare, contro il parere di
Platone, che l’anima non ha movimento di per sé. Prima obiezione.
Seconda obiezione. Terza obiezione. Quarta obiezione. Quinta obie­
zione. Sesta obiezione. Settima obiezione. Ottava obiezione.

CAPITOLO XV
Argomenti dei Platonici a favore del loro maestro per confutare
Aristotele. Metodo utilizzato dall’autore. Confutazione della prima
obiezione: dimostrazione dei platonici dell’esistenza di qualcosa che
si muove di per sé e che questa sostanza non è altro che l’anima.
Considerazioni grammaticali: l’attivo e il passivo. L e prove fornite
dai Platonici distruggono la prima obiezione di Aristotele.

CAPITOLO XVI
Nuovi argomenti dei platonici contro le altre sette obiezioni di
Aristotele. Conclusione generale della confutazione.

CAPITOLO XVII
Settima citazione del Sogno. Conclusioni: ricompensi e castighi dell'a­
nima dopo la morte; la pratica delle virtù assicura la felicità e i con­
sigli dell’Africano a suo nipote hanno avuto anche per oggetto le
virtù contemplative e le virtù attive. Il destino delle anime malva­
ge. Il Sogno di Scipione di Cicerone non ha trascurato nessuna
delle tre parti della filosofia: sua perfezione.
MACROBII AMBROSII TH EO D O SII
VIRI CLARISSIMI E T E T ILLVSTRIS

IN SOMNIVM SCIPIONIS

M ACROBIO AM BROGIO TEO D O SIO

COMMENTO
AL SOGNO DI SCIPIONE
1. 1. Inter Platonis et Ciceronis libros, quos de re publica
uterque constituit, Eustachi fili, uitae mihi dulcedo pariter et
gloria, hoc interesse prima fronte perspeximus quod ille rem
publicam ordinauit, hic retulit; alter qualis esse deberet, alter
qualis esset a maioribus instituta disseruit. 2 . In hoc tamen uel
maxime operis similitudinem seruauit imitatio quod, cum
Plato in uoluminis conclusione a quodam uitae reddito quam
reliquisse uidebatur indicari faciat qui sit exutarum corporibus
status animarum, adiecta quadam sphaerarum uel siderum non
otiosa descriptione, rerum facies non dissimilia significans a
Tulliano Scipione per quietem sibi ingesta narratur.
3. Sed quid uel illi commento tali uel huic tali somnio in his
potissimum libris opus fuerit, in quibus de rerum publicarum
statu loquebantur, quoue attinuerit inter gubernandarum
urbium constituta circulos orbes globosque describere, de stel­
larum modo de caeli conuersione tractare quaesitu dignum et
mihi uisum est et aliis fortasse uideatur, ne uiros sapientia prae­
cellentes nihilque in inuestigatione ueri nisi diuinum sentire
solitos aliquid castigato operi adiecisse superfluum suspice­
mur. De hoc ergo prius pauca dicenda sunt ut liquido mens
operis de quo loquimur innotescat.
4. Rerum omnium Plato et actuum naturam penitus inspi­
ciens aduertit in omni sermone de rei publicae institutione
proposito infundendum animis iustitiae amorem, sine qua non
solum res publica sed nec exiguus hominum coetus nec domus
quidem parua constabit. 5. Ad hunc porro iustitiae affectum
1. 1. Tra i due trattati sulla Repubblica, scritti uno da
Platone e l’altro da Cicerone, abbiamo in primo luogo consta­
tato, Eustazio, mio caro figlio, dolcezza e gloria insieme della
mia vita, la seguente differenza: l’organizzazione della repub­
blica del primo è ideale, quella del secondo è effettiva. Platone
discute su quali dovessero essere le istituzioni e Cicerone sul
modo in cui furono organizzate dai nostri antenati. 2 . C ’è tut­
tavia un punto in cui l’imitazione ha, senza dubbio, marcata-
mente mantenuto la somiglianza con il modello. Mentre
Platone, a conclusione del suo libro, si serve di un personag­
gio, richiamato alla vita che sembrava aver perduta, per fargli
indicare quale sia la condizione delle anime una volta liberate
dei loro corpi, con in più una descrizione non inutile delle sfere
celesti e degli astri, Cicerone fa raccontare al suo Scipione una
scena dello stesso genere, vista in sogno 1.
3. Ma, in quegli scritti dedicati alla politica, che necessità vi
era per Platone di una simile trovata e per Cicerone di un simi­
le sogno? E a che prò unire alle leggi fatte per governare le
società umane, quelle che determinano il cammino dei pianeti
nelle loro orbite e il sistema 2 delle stelle fisse, trascinate col
cielo in un movimento comune? La questione, che mi è parsa
degna d’indagine — e questo interesse sarà senza dubbio con­
diviso da altri — , assolverà due uomini, eminenti per sapienza
e che nella ricerca del vero non hanno avuto che ispirazioni
divine, dal sospetto d’avere aggiunto qualcosa di superfluo a
produzioni tanto perfette. Bisognerà prima di tutto dire alcune
cose, affinché risulti chiaro il succo dell’opera di cui si parla.
4. Osservatore profondo della natura di ogni cosa e del
movente delle azioni umane, Platone non perde mai l’opportu­
nità, in tutta l’esposizione che forma il codice della sua Re­
pubblica, di infondere nei nostri animi l’amore per la giustizia,
senza la quale non potrebbe esistere non solo lo Stato, ma
nemmeno la più piccola comunità di uomini, o addirittura reg­
gersi la più modesta famiglia3. 5. Giudicò dunque che il mezzo
pectoribus inoculandum nihil aeque patrocinaturum uidit
quam si fructus eius non uideretur cum uita hominis termina­
ri. Hunc uero superstitem durare post hominem qui poterat
ostendi nisi prius de animae immortalitate constaret? Fide
autem facta perpetuitatis animarum consequens esse anima-
duertit ut certa illis loca nexu corporis absolutis pro contem­
platu probi improbiue meriti deputata sint. 6 . Sic in Phaedone
inexpugnabilium luce rationum anima in ueram dignitatem
propriae immortalitatis adserta sequitur distinctio locorum
quae hanc uitam relinquentibus ea lege debentur quam sibi
quisque uiuendo sanxerunt. Sic in Gorgia post peractam pro
iustitia disputationem de habitu post corpus animarum morali
grauitate Socraticae dulcedinis admonemur. 7 . Idem igitur
obseruanter secutus est in illis praecipue uoluminibus quibus
statum rei publicae formandum recepit. Nam postquam prin­
cipatum iustitiae dedit docuitque animam post animal non
perire, per illam demum fabulam — sic enim quidam uocant
— quo anima post corpus euadat uel unde ad corpus ueniat in
fine operis adseruit ut iustitiae uel cultae praemium uel spretae
poenam animis quippe immortalibus subiturisque iudicium
seruari doceret.
8 . Hunc ordinem Tullius non minore iudicio reseruans
quam ingenio repertus est: postquam in omni rei publicae otio
ac negotio palmam iustitiae disputando dedit, sacras immorta­
lium animarum sedes et caelestium arcana regionum in ipso
consummati operis fastigio locauit indicans quo his peruenien-
dum uel potius reuertendum sit qui rem publicam cum pru­
dentia iustitia fortitudine ac moderatione tractauerint.
9. Sed ille Platonicus secretorum relator Er quidam nomine
fuit, natione Pamphylus, miles officio, qui cum uulneribus in
proelio acceptis uitam effudisse uisus duodecimo demum die
più efficace d’ispirarci nei petti questa inclinazione verso il giu­
sto fosse di persuaderci che i frutti della giustizia non hanno
termine con la vita umana. Ma chi era in grado di mostrare che
questo frutto sopravvive all’uomo, se non ci si fosse prima di
tutto resi conto dell’immortalità deH’anima? Una volta stabili­
ta l’eternità delle anime, Platone dovette assegnare, di conse­
guenza, delle dimore particolari alle anime liberate dai legami
del corpo, in ragione dei loro meriti o demeriti. 6 . Così, nel
Fedone, dopo avere dimostrato, alla luce di ragioni inconfuta­
bili, i diritti dell’anima al conseguimento dell’immortalità,
distingue le dimore, che saranno irrevocabilmente assegnate a
coloro che lasciano quest’esistenza, in funzione della legge che
ciascun individuo, secondo il modo in cui avrà vissuto, ha san­
cito per s é 4. Ancora del pari, nel Gorgia, dopo una dissertazio­
ne in favore della giustizia, prende a prestito la morale dolce e
grave di Socrate per esporci lo stato delle anime che hanno
lasciato il corpo 5. 7. Questo modo di procedere, che adotta
costantemente, si fa particolarmente notare in quei libri dedi­
cati all’organizzazione della repubblica. Comincia col dare alla
giustizia il primato tra le virtù, poi insegna che l’anima non
perisce con l’essere animato; poi, grazie a questo mito — è l’e­
spressione che adoperano certe persone — , determina, alla
fine del suo trattato i luoghi dove si reca l’anima dopo essere
uscita dal corpo e da dove venga quando viene ad abitarlo. Tali
sono i suoi mezzi per persuaderci che le nostre anime immor­
tali saranno giudicate, quindi ricompensate o punite, secondo
il nostro rispetto o il nostro disprezzo per la giustizia.
8. Cicerone, conservando quest’ordine, mostra un discerni­
mento non inferiore al genio, stabilendo dapprima, con una
ponderata discussione, che alla giustizia spetta la palma della
virtù, in ogni affare pubblico o privato dello Stato 6; poi collo­
ca nel punto culminante della sua opera che ha terminato 7 lo
sviluppo sulle sacre dimore delle anime immortali e sui miste­
ri delle regioni celesti, dove devono recarsi, o meglio ritornare,
le anime di coloro che hanno amministrato con prudenza, giù-
stizia, fortezza e temperanza 8.
9. Ma in Platone colui che racconta questi segreti è un uo-
mo di nome Er, pamfilo d’origine 9, soldato di mestiere; lascia­
to come morto in seguito alle ferite ricevute in combattimento,
inter ceteros una peremptos ultimo esset honorandus igne,
subito seu recepta anima seu retenta quicquid emensis inter
utramque uitam diebus egerat uideratue tamquam publicum
professus indicium humano generi enuntiauit. Hanc fabulam
Cicero licet ab indoctis quasi ipse ueri conscius doleat irrisam,
exemplum tamen stolidae reprehensionis uitans excitari narra­
turum quam reuiuiscere maluit.

2 . 1. Ac priusquam somnii uerba consulimus, enodandum


nobis est a quo genere hominum Tullius memoret uel irrisam
Platonis fabulam uel ne sibi idem eueniat non uereri. Nec enim
his uerbis uult inperitum uulgus intellegi sed genus hominum
ueri ignarum sub peritiae ostentatione quippe quos et legisse
talia et ad reprehendendum animatos constaret. 2. Dicemus
igitur et quos in tantum philosophum referat quandam censu­
rae exercuisse leuitatem, quisue eorum etiam scriptam relique­
rit accusationem et postremo quid pro ea dumtaxat parte quae
huic operi necessaria est responderi conueniat obiectis.
Quibus, quod factu facile est, eneruatis iam quicquid uel con­
tra Ciceronis opinionem etiam in Scipionis somnium seu iacu-
latus est umquam morsus liuoris seu forte iaculabitur dissolu­
tum erit.
3. Epicureorum tota factio aequo semper errore a uero
deuia et illa semper aestimans ridenda quae nesciat, sacrum
uolumen et augustissima irrisit naturae seria. Colotes uero,
inter Epicuri auditores loquacitate notabilior, etiam in librum
retulit quae de hoc amarius cauillatus est. Sed cetera quae iniu-
ria notauit — si quidem ad somnium de quo hic procedit
sermo non attinent — hoc loco nobis omittenda sunt: illam
calumniam persequemur quae nisi supplodetur manebit
Ciceroni cum Platone communis. 4. Ait a philosopho fabulam
nell’istante stesso in cui il suo corpo, disteso da dodici giorni 10
sul campo di battaglia, stava per ricevere gli ultimi onori della
pira, insieme a tutti gli altri suoi compagni con lui periti, all’im-
prowiso ricevette di nuovo o riprese la vita; e, come un araldo
incaricato di un rapporto ufficiale, riferì al genere umano tutto
quello che aveva fatto e veduto nei giorni trascorsi tra l’una e
l’altra esistenza. Ma Cicerone, che si duole nel vedere degli
ignoranti volgere in ridicolo questo mito 11 — consapevole,
però, della realtà delle cose — , non osò tuttavia consentir loro
stupidi commenti e preferì far risvegliare il suo narratore piut­
tosto che farlo resuscitare.

2. 1. Prima di commentare i termini del Sogno, dobbiamo


far conoscere la categoria di uomini che Cicerone segnala
come dileggiatori della finzione di Platone, e di cui non teme
per sé i medesimi sarcasmi. Infatti, con queste parole, egli non
ha in mente il volgo ignorante, bensì quel tipo di uomini che
non sono meno lontani della strada del vero, pur ostentando
competenza, in quanto risulta che hanno letto tali cose e sono
intenzionati a farne una critica spietata.
2. Diremo dunque chi, secondo Cicerone, abbia osato, con
superficialità, censurare un così grande filosofo, e chi, fra essi,
abbia lasciato anche per iscritto le sue critiche; infine diremo a
quali delle loro obiezioni occorre rispondere, essendo necessa­
rio confutarle anche nell’interesse solo di questo nostro lavoro.
Smantellate queste obiezioni — e lo saranno senza fatica — ,
tutto il veleno lanciato dall’invidia e quello che potrebbe anco­
ra scagliarsi, in contrasto con l’opinione di Cicerone 12, avrà
perso ogni sua efficacia.
3. La setta intera degli Epicurei, sempre costante nel suo
errore, allontanandosi dalla verità e prendendo come proprio
compito quello di ridicolizzare ciò che è sopra la sua portata,
si è beffata di un libro sacro e delle serie e maestosissime real­
tà della natura. 13 Colote 14 poi, il conversatore più brillante tra
i discepoli di Epicuro, ha lasciato in un libro un’aspra critica di
quest’opera. Devo qui tralasciare di confutare i suoi malevoli
cavilli, dato che il Sogno di Scipione non vi è interessato, ma
respingerò la calunnia, che se non verrà soffocata, essendo
diretta a Platone, raggiungerebbe Cicerone. 4. Sostiene Colote
non oportuisse confingi quoniam nullum figmenti genus ueri
professoribus conueniret. «Cur enim, inquit, si rerum caele­
stium notionem, si abitum nos animarum docere uoluisti, non
simplici et absoluta hoc insinuatione curatum est sed quaesita
persona casusque excogitata nouitas et composita aduocati
scaena figmenti ipsam quaerendi ueri ianuam mendacio pol­
luerunt?» 5. Haec quoniam, dum de Platonico Ere iactantur,
etiam quietem Africani nostri somniantis accusant — utraque
enim sub adposito argumento electa persona est quae accom­
moda enuntiandis haberetur — , resistamus urgenti et frustra
arguens refellatur, ut una calumnia dissoluta utriusque factum
incolumem, ut fas est, retineat dignitatem.
6 . Nec omnibus fabulis philosophia repugnat, nec omnibus
adquiescit; et ut facile secerni possit quae ex his a se abdicet ac
uelut profana ab ipso uestibulo sacrae disputationis excludat,
quae uero etiam saepe ac libenter admittat, diuisionum gradi­
bus explicandum est.
7. Fabulae, quarum nomen indicat falsi professionem, aut
tantum conciliandae auribus uoluptatis aut adhortationis quo­
que in bonam frugem gratia repertae sunt. 8 . Auditum mulcent
uel comoediae, quales Menander eiusue imitatores agendas
dederunt, uel argumenta fictis casibus amatorum referta, qui­
bus uel multum se Arbiter exercuit uel Apuleium non num-
quam lusisse miramur. Hoc totum fabularum genus quod solas
aurium delicias profitetur, e sacrario suo in nutricum cunas
sapientiae tractatus eliminat. 9, Ex his autem quae ad quandam
uirtutum speciem intellectum legentis hortantur fit secunda
discretio. In quibusdam enim et argumentum ex ficto locatur
et per mendacia ipse relationis ordo contexitur, ut sunt illae
Aesopi fabulae elegantia fictionis illustres, at in aliis argumen­
tum quidem fundatur ueri soliditate, sed haec ipsa ueritas per
quaedam composita et ficta profertur, et hoc iam uocatur nar-
che un filosofo deve vietarsi ogni specie di mito, perché non c ’è
nessun tipo d’invenzione che si addica a chi professa la verità.
«Perché infatti» aggiunge «se volevi darci una nozione dei
fenomeni celesti e rivelarci la natura dell’anima, non hai ado­
perato un’affermazione semplice e diretta? Perché escogitare
un personaggio, inventare una situazione straordinaria, la
messa in scena di una finzione presa da chissà dove, hanno
insozzato con la menzogna la porta stessa del tempio della veri­
tà?» 15 5. Poiché tali rimproveri, che hanno di mira l’Er di Pla­
tone, accusano nello stesso tempo il sognatore di Cicerone,
l’Africano, — entrambi, infatti, sono personaggi inseriti in una
trama adatta per enunciare una dottrina — , facciamo dunque
fronte all’assalto del nemico e respingiamo le sue vane argo­
mentazioni: ridurre al nulla d’un sol colpo la calunnia e rende­
re incolume una di queste invenzioni, restituirà entrambi i rac­
conti alla dignità che essi meritano.
6 . Vi sono miti che la filosofia rigetta, altri che accoglie.
Classificandoli nell’ordine che conviene loro, potremo più
comodamente distinguere quelli che esclude come cose profa­
ne dal vestibolo stesso dei venerabili soggetti di cui si occupa e
quelli che ammette spesso e volentieri16.
7. La favola, che è una falsità convenuta, come indica il suo
nome 17, fu inventata o per affascinare solamente i nostri orec­
chi o per esortarci al bene. 8 . Deliziano le orecchie degli ascol­
tatori, ad esempio, le commedie che Menandro e i suoi imita­
tori fecero rappresentare, cosi come quelle avventure romanze­
sche piene di vicende d’innamorati, su cui si è molto esercita­
to Petronio Arbitro e con cui talvolta si divertì, come leggiamo
stupiti, Apuleio 18. Tutte le finzioni di questo genere, il cui solo
scopo è dilettare chi le ascolta, sono bandite dal santuario della
filosofia e lasciate alle culle delle nutrici. 9. Invece di quelle che
offrono all’intelligenza del lettore una qualche immagine di
virtù, occorre farne due suddivisioni. Nella prima, metteremo
le favole in cui, oltre l’argomento che è immaginario, anche lo
sviluppo della narrazione è intessuto di menzogne: tali sono
quelle di Esopo, famose per l’eleganza dell’invenzione 19. Nella
seconda, porremo quelle il cui soggetto è fondato su una veri­
dica e solida base, anche se questa verità tuttavia si mostra
sotto una forma abbellita dall’immaginazione ed è perciò chia-
ratio fabulosa, non fabula, ut sunt cerimoniarum sacra, ut H e­
siodi et Orphei quae de deorum progenie actuue narrantur, ut
mystica Pythagoreorum sensa referuntur. 10. Ergo ex hac
secunda diuisione quam diximus, a philosophiae libris prior
species, quae concepta de falso per falsum narratur, aliena est.
Sequens in aliam rursum discretionem scissa diuiditur: nam
cum ueritas argumento subest solaque fit narratio fabulosa,
non unus repperitur modus per figmentum uera referendi. 1 1 .
Aut enim contextio narrationis per turpia et indigna numini­
bus ac monstro similia componitur, ut di adulteri, Saturnus
pudenda Caeli patris abscindens et ipse rursus a filio regno
potito in uincla coniectus — quod genus totum philosophi
nescire malunt — ; aut sacrarum rerum notio sub pio figmento­
rum uelamine honestis et tecta rebus et uestita nominibus
enuntiatur. Et hoc est solum figmenti genus quod cautio de
diuinis rebus philosophantis admittit. 12. Cum igitur nullam
disputationi pariat iniuriam uel Er index uel somnians Afri­
canus, sed rerum sacrarum enuntiatio integra sui dignitate his
sit tecta nominibus, accusator tandem edoctus a fabulis fabu­
losa secernere conquiescat.
13. Sciendum est tamen non in omnem disputationem phi­
losophos admittere fabulosa uel licita, sed his uti solent cum
uel de anima uel de aeriis aetheriisue potestatibus uel de cete­
ris dis locuntur. 14. Ceterum cum ad summum et principem
omnium deum, qui apud Graecos Tàya0òv, qui irpcòTov
aiT iov nuncupatur, tractatus se audet attollere, uel ad men­
tem, quem Graeci vouv appelant, originales rerum species,
quae 18éai dictae sunt, continentem, ex summo natam et pro­
fectam deo, cum de his inquam locuntur summo deo et mente,
nihil fabulosum penitus attingunt; sed, si quid de his adsigna-
mata racconto mitico e non favola: tra questi scritti collochere­
mo, ad esempio, i rituali sacri dei misteri, quello che Esiodo e
Orfeo narrano sulla genealogia e le imprese degli dèi o le arca­
ne massime dei Pitagorici20. 10. Di questa seconda divisione di
cui abbiamo detto, la prima specie, cioè le favole, quelle il cui
fondo non è meno immaginario della narrazione, è sconvenien­
te ai trattati di filosofia.
La seconda categoria vuole essere suddivisa ancora per con­
sentire un’ulteriore distinzione: infatti, quando la verità è alla
base di un soggetto e il solo sviluppo narrativo è favoloso, non
si riscontra un unico modo di esprimere la verità attraverso la
finzione. 11. Lo sviluppo del racconto può essere composto di
un tessuto d’azioni turpi e indegne degli dèi, di cose simili al
mostruoso, come quelle che ci rappresentano gli dèi adulteri,
Saturno che priva suo padre Cielo delle pudenda e lui stesso, a
sua volta, detronizzato e messo ai ferri da suo figlio — un gene­
re di cose che i filosofi preferiscono ignorare totalmente21. O p­
pure la nozione delle cose sacre può essere coperta da un casto
velo di invenzioni, protette e rivestite da nomi e fatti che non
fanno arrossire: è l’unico genere di invenzioni che la prudenza
permette al filosofo, quando si tratta di cose divine. 12. Ora, il
rivelatore Er e il sognatore Scipione, i cui nomi garantiscono,
anzi, un’intatta dignità nell’esposizione di dottrine sacre, non
offendono per niente l’argomento in discussione; così, l ’accu­
satore, che adesso deve aver imparato a distinguere tra favola
ed elemento mitico, deve soltanto starsene zitto.
13. E bene tuttavia sapere che i filosofi non ammettono
indistintamente in tutti gli argomenti l’elemento mitico, per
quanto esso sia lecito. E loro costume servirsene solamente in
quelli dove si tratta dell’Anima, delle potenze celesti o eteree e
di tutti gli altri d èi22. 14. Quando però, prendendo un volo più
ardito, si alzano fino alla divinità somma, sovrana universale,
chiamata dai Greci TàyaQòv [il Bene] e Ttpcorov a m o v [la
Causa Prima] 23, oppure all’intelletto, detto dai Greci vou$ 24,
che comprende in sé le forme originarie delle cose, dette iSéai
[Idee], Intelletto che è nato e proviene dalla divinità somma,
allora, come dicevo, quando parlano di questi argomenti, il
Dio Supremo e l’intelletto, evitano la benché minima finzione
e il loro genio, che si sforza di darci alcuni ragguagli su esseri
re conantur quae non sermonem tantummodo, sed cogitatio­
nem quoque humanam superant, ad similitudines et exempla
confugiunt. 15. Sic Plato cum de x à y a S cò loqui esset anima­
tus, dicere quid sit non ausus est, hoc solum de eo sciens, quod
sciri quale sit ab homine non possit, solum uero ei simillimum
de uisibilibus solem repperit, et per eius similitudinem uiam
sermoni suo attollendi se ad non comprehendenda patefecit.
16. Ideo et nullum eius simulacrum, cum dis aliis constitueren­
tur, finxit antiquitas, quia summus deus nataque ex eo mens,
sicut ultra animam, ita supra naturam sunt, quo nihil fas est de
fabulis peruenire.
17. De dis autem, ut dixi, ceteris et de anima non frustra se
nec ut oblectent ad fabulosa conuertunt, sed quia sciunt inimi­
cam esse naturae apertam nudamque expositionem sui, quae,
sicut uulgaribus hominum sensibus intellectum sui uario
rerum tegmine operimentoque subtraxit, ita a prudentibus
arcana sua uoluit per fabulosa tractari. 18. Sic ipsa mysteria
figurarum cuniculis operiuntur ne uel haec adeptis nudam
rerum talium se natura praebeat, sed, summatibus tantum uiris
sapientia interprete ueri arcani consciis, contenti sint reliqui ad
uenerationem figuris defendentibus a uilitate secretum. 19.
Numenio denique inter philosophos occultorum curiosiori
offensam numinum, quod Eleusinia sacra interpretando uul-
gauerit, somnia prodiderunt, uiso sibi ipsas Eleusinias deas
habitu meretricio ante apertum lupanar uidere prostantes, ad-
mirantique et causas non conuenientis numinibus turpitudinis
consulenti respondisse iratas ab ipso se de adyto pudicitiae
che la parola non può descrivere e che la stessa intelligenza
umana non può afferrare, è obbligato a ricorrere a immagini e
similitudini. 15. Questo è ciò che fa Platone: quando, trascina­
to dal suo argomento, vuole parlare del TàyocOòv, non osando
definirlo, si accontenta di dire che tutto ciò che sa di esso è sol­
tanto che è impossibile per l’uomo conoscere la sua essenza; e,
non trovando immagine più vicina di questo essere invisibile
del sole che illumina il mondo visibile 25, si servì di questa simi­
litudine per spiccare il volo verso le regioni più inaccessibili
della metafisica.
16. Gli antichi per questo non assegnarono alcun simulacro
ad esso, al contrario di quanto si faceva per gli altri dèi, dal mo­
mento che il dio supremo e l’intelletto nato da esso sono so­
stanze oltre l’anima e, di conseguenza, al di sopra della natu­
ra26: è perciò un sacrilegio awicinarvisi partendo dalla finzione.
17. Del resto, come stavo dicendo, quando si tratta
dell’Anima e degli altri dèi in sottordine, i filosofi ricorrono ad
elementi mitici non senza motivo, né coll’intenzione di diver­
tirsi, ma lo fanno sapendo bene che la natura detesta essere
esposta senza veli e nuda a tutti gli sguardi e che non solo essa
ama travestirsi con vari veli e coperture di cose per sfuggire ai
rozzi occhi degli uomini comuni, ma allo stesso modo esige dai
saggi che si occupino dei suoi segreti attraverso narrazioni sim­
boliche. 18. Ecco perché gli stessi misteri sono protetti dai
segreti meandri dei simboli, affinché neppure agli iniziati si
offra tutta nuda la natura di queste cose, ma affinché solo agli
uomini eminenti, in virtù dell’interpretazione fornita dalla
sapienza, possano giungere a conoscere l’arcano della verità,
mentre gli altri uomini devono accontentarsi di tributarle vene­
razione, perché le figure simboliche impediscono che il segre­
to possa diffondersi tra il volgo 27. 19. Si racconta a questo pro­
posito che Numenio 28, tra i filosofi uno dei più ardenti inve­
stigatori dell’esoterismo, si vide rimproverato in sogno di aver
offeso le divinità, avendo divulgato l’interpretazione dei miste­
ri eleusini. Sembrò al filosofo di vedere le stesse dee onorate ad
Eieusi rivestite dell’abito delle meretrici che si prostituivano
sulla soglia di un lupanare. Stupito, dopo aver chiesto loro la
ragione di un avvilimento così poco adatto alla loro divinità, si
sentì rispondere da esse, corrucciate, che lui stesso le aveva
suae ui abstractas et passim adeuntibus prostitutas. 2 0 . Adeo
semper ita se et sciri et coli numina maluerunt qualiter in uul-
gus antiquitas fabulata est, quae et imagines et simulacra for­
marum talium prorsus alienis, et aetates tam incrementi quam
diminutionis ignaris, et amictus ornatusque uarios corpus non
habentibus adsignauit. 2 1 . Secundum haec Pythagoras ipse
atque Empedocles, Parmenides quoque et Heraclitus de dis
fabulati sunt, nec secus Timaeus qui progenies eorum sicut tra­
ditum fuerat exsecutus est.

3 . 1 . His praelibatis antequam ipsa somnii uerba tractemus,


prius quot somniandi modos obseruatio deprehenderit, cum
licentiam figurarum quae passim quiescentibus ingeruntur sub
definitionem ac regulam uetustas mitteret, edisseramus, ut cui
eorum generi somnium quo de agimus adplicandum sit innote­
scat. 2 . Omnium quae uidere sibi dormientes uidentur quin­
que sunt principales et diuersitates et nomina. Aut enim est
òveipog secundum Graecos quod Latini somnium uocant, aut
est o p a jja quod uisio recte appellatur, aut est xpill-iocTicmos
quod oraculum nuncupatur, aut est èvùttviov quod insom­
nium dicitur, aut est cpavTaona quod Cicero quotiens opus
hoc nomine fuit uisum uocauit.
3. Vltima e x his duo cum uidentur, cura interpretationis
indigna sunt quia nihil diuinationis adportant, èvùttviov dico
et {pavxaotia.
4. Est enim èvùmnov quotiens cura oppressi animi corpo-
risue siue fortunae, qualis uigilantem fatigauerat, talem se inge­
rit dormienti: animi si amator deliciis suis aut fruentem se
uideat aut carentem, si metuens quis imminentem sibi uel insi­
diis uel potestate personam aut incurrisse hanc ex imagine
cogitationum suarum aut effugisse uideatur; corporis, si teme­
to ingurgitatus aut distentus cibo uel abundantia praefocari se
aestimet uel grauantibus exonerari, aut contra si esuriens
cibum aut potum sitiens desiderare quaerere uel etiam inuenis-
strappate dal santuario della loro pudicizia e le aveva prostitui­
te come donne pubbliche. 2 0 . Tanto è vero che le divinità
hanno sempre preferito essere conosciute e onorate sotto quel­
le forme che gli antichi avevano dato loro per rivelarle al volgo.
E per questa ragione che si prestarono immagini e simulacri di
forme ad esseri del tutto estranei a tali forme, ed età a chi non
conosceva né crescita né vecchiaia, e ricche vesti e ornamenti a
chi non aveva corpo. 2 1 . Sono su queste prime nozioni che
Pitagora ed Empedocle, Parmenide ed Eraclito hanno trattato
in forma mitica gli dèi e neppure Timeo, nella sua teogonia, si
è scostato da questa tradizione 29,

3. 1. Dopo questi preliminari, prima di passare all’analisi


del testo del Sogno, esponiamo la definizione dei vari generi di
sogni riconosciuti dall’Antichità, che ha posto regole e metodi
per interpretare tutte queste figure bizzarre e confuse che
vediamo dormendo. In questo modo ci sarà poi facile stabilire
in quale genere vada classificato il sogno che esaminiamo. 2 .
Tutto quello che ci sembra di vedere nel sonno, può essere
sistemato sotto cinque gruppi fondamentali, differenti per
genere e nom i30. Può trattarsi infatti di òveipos, come dicono
i Greci e che i Latini chiamano somnium [sogno], di òpa(ja
che può essere ben tradotto con visio [visione], di XP^W0 -
Tiopóg, ossia di oraculum [oracolo]; di èvùttviov, ossia di
insomnium {visione interna al sogno]; di cpàvTaoua che
Cicerone, ogni qual volta si trovò ad usare questo termine, tra­
dusse con visum [apparizione] 31.
3. I due ultimi generi, ossia I’èvùttviov e il <pàvTOcana,
quando si manifestano, non meritano di essere spiegati, perché
non si prestano alla divinazione.
4. L’évùttviov ha luogo, infatti, quando proviamo, dormen­
do, le stesse opprimenti ansie d’origine psichica, fisica ed ester­
na che ci assillano essendo svegli. Lo spirito è agitato nell’a­
mante che sogna di godere o di essere privato dell’oggetto
amato e anche in colui che, temendo le insidie o il potere di un
nemico, s’immagina sognando di incontrarlo inaspettatamente
o di sfuggire al suo inseguimento. Il corpo è agitato nell’uomo
che ha ecceduto nel vino o si è rimpinzato di cibo 32, quando
crede di provare dei soffocamenti o di sbarazzarsi di un fardel-
se uideatur; fortunae, cum se quis aestimat uel potentia uel
magistratu aut augeri pro desiderio aut exui pro timore. 5.
Haec et his similia, quoniam ex habitu mentis quietem sicut
praeuenerant ita et turbauerant dormientis, una cum somno
auolant et pariter euanescunt. Hinc et insomnio nomen est,
non quia per somnum uidetur — hoc enim est huic generi
commune cum ceteris — , sed quia in ipso somnio tantummo­
do esse creditur dum uidetur, post somnium nullam sui utilita­
tem uel significationem relinquit.
6. Falsa esse insomnia nec M aro tacuit:
sed falsa ad caelum mittunt insomnia manes,
caelum hic uiuorum regionem uocans quia sicut di nobis ita
nos defunctis superi habemur. Amorem quoque describens,
cuius curam semper secuntur insomnia, ait:
haerent infixi pectore uultus
uerbaque nec placidam membris dat cura quietem,
et post haec
Anna soror quae me suspensam insomnia terrent?
7. Oarimxana uero hoc est uisum, cum inter uigiliam et
adultam quietem in quadam, ut aiunt, prima somni nebula
adhuc se uigilare aestimans, qui dormire uix coepit, aspicere
uidetur irruentes in se uel passim uagantes formas a natura seu
magnitudine seu specie discrepantes uariasque tempestates
lo incomodo, o, al contrario, ha provato la fame o la sete e s’im­
magina di desiderare e di cercare cibo e bevande e anche di
trovare il mezzo per soddisfare i suoi bisogni. Si è turbati rela­
tivamente alle fortune esterne, quando, desiderando onori e
dignità, sogniamo che le nostre speranze si realizzino o che le
nostre paure di perderli si verifichino 33. 5. Questi tipi di agita­
zioni e altre simili, poiché derivano da uno stato della mente
che aveva preceduto e quindi turbato il riposo del dormiente,
spariscono con il sonno e svaniscono insieme ad esso. Donde il
nome d'insomnium e questo non è perché si veda qualcosa nel
sogno in un modo più particolare delle altre categorie enuncia­
te sopra, ma perché vi si dà credito soltanto per il tempo in cui
agisce su di noi: finito il sogno, esso non lascia alcuna traccia
d’interesse o di significato.
6 . La falsità di questo genere di sogni non è stata taciuta
neanche da Virgilio:
sed falsa ad caelum mittunt insommia manes,
[E di qui falsi sogni mandano i Mani su al c ie lo ]34

chiamando, qui, cielo la regione dei viventi, il poeta intende


che come gli dèi stanno sopra di noi, noi siamo sopra i defun­
ti. Anche quando descrive l’amore e le sue inquietudini sempre
seguite da insomnia, cioè da questi sogni, si esprime così:
haerent infixi pectore vultus
verbaque, nec placidam membris dat cura quietem,
[è fitto in cuore quel volto,
La voce: placido sonno non dà alle membra 0 tormento] 35

e in seguito:
Anna soror,
quae me suspensam insomnia terrent
[Anna, sorella,
Quali sogni mi han dato ansia e sgom ento!] 36

7. In quanto al 9 ÓVTaana, cioè l’«apparizione» 37, esso si


verifica in quegli istanti tra veglia e sonno profondo, nel
momento in cui, come si dice, si sta per cedere all’influenza dei
primi vapori soporiferi, quando il dormiente, che pensa di esse­
re ancora sveglio mentre invece ha appena cominciato a dormi­
re, si crede assalito da figure fantastiche le cui le forme e gran­
dezza non hanno niente d’analogo in natura o le vede errare qua
rerum uel laetas uel turbulentas. In hoc genere est etticiAtes ,
quem publica persuasio quiescentes opinatur inuadere et pon­
dere suo pressos ac sentientes grauare.
8 . His duobus modis ad nullam noscendi futuri opem
receptis, tribus ceteris in ingenium diuinationis instruimur.
Et est oraculum quidem cum in somnis parens uel alia sanc­
ta grauisue persona seu sacerdos uel etiam deus aperte euentu-
rum quid aut non euenturum, faciendum uitandumue denun­
tiat.
9. Visio est autem cum id quis uidet quod eodem modo quo
apparuerat eueniet. Amicum peregre commorantem quem non
cogitabat uisus sibi est reuersum uidere, et procedenti obuius
quem uiderat uenit in amplexus. Depositum in quiete suscepit
et matutinus ei precator occurrit mandans pecuniae tutelam et
fidae custodiae celanda committens.
10. Somnium proprie uocatur quod tegit figuris et uelat
ambagibus non nisi interpretatione intellegendam significatio­
nem rei quae demonstratur, quod quale sit non a nobis expo­
nendum est, cum hoc unus quisque ex usu quid sit agnoscat.
Huius quinque sunt species: aut enim proprium aut alienum
aut commune aut publicum aut generale est. 1 1 . Proprium est,
cum se quis facientem patientemue aliquid somniat, alienum
cum alium, commune cum se una cum alio; publicum est, cum
ciuitati foroue uel theatro seu quibuslibet publicis moenibus
actibusue triste uel laetum quid aestimat accidisse; generale
est, cum circa solis orbem lunaremue globum seu alia sidera
uel caelum omnesue terras aliquid somniat innouatum.
12. Hoc ergo quod Scipio uidisse se retulit et tria illa quae
sola probabilia sunt genera principalitatis amplectitur, et
e là intorno a sé, sotto situazioni diverse, ora liete ora turbolen­
te. L’ÉTnàÀTES [incubo] appartiene a questa categoria. Il volgo
è persuaso che s’impossessi di coloro che dormono e che gravi
col suo peso su di essi prostrandoli e facendoli soffrire 3S.
8 . Abbiamo detto che questi due generi di sogno non pos­
sono aiutarci a conoscere il futuro, ma gli altri tre ci offrono i
mezzi divinatori.
L'oracolo, in effetti, si manifesta quando ci appare durante
il sonno un parente o un personaggio venerabile ed importan­
te, come un sacerdote o una divinità stessa, per informarci di
ciò che ci accadrà o non ci accadrà e di ciò che dobbiamo fare
o dobbiamo evitare.
9. La visione ha luogo, quando le persone o le cose che
vedremo in realtà più tardi si sognano come saranno allora. Ho
un amico in viaggio in un paese straniero e al quale non penso
affatto; una visione me lo mostra di ritorno ed ecco che men­
tre passeggio sono davanti a lui che avevo visto in sogno e
cadiamo nelle braccia l’uno dell’altro. Mi sembra in sogno che
mi si affidi una somma in deposito ed ecco che la mattina una
persona viene a pregarmi di essere davvero depositario di una
somma di denaro che mette sotto la segreta salvaguardia della
mia lealtà 39.
1 0 . Il sogno propriamente detto nasconde ciò che ci comu­
nica sotto uno stile simbolico e velato di enigmi il cui significa­
to in comprensibile esige il soccorso dell’interpretazione 40.
Non ne definiremo le sue caratteristiche, perché non c’è nessu­
no che non le conosca per esperienza. Si suddivide in cinque
tipi, perché un sogno può essere particolare, estraneo, comune,
pubblico e universale. 1 1 . E personale, quando il sognatore si
vede mentre sta agendo o subendo; estraneo quando è un altro
a compiere o subire un’azione; comune, quando gli sembra che
altri condividano la sua stessa situazione; pubblico, quando
una città, il foro, il suo teatro, o qualche altra parte della sua
cinta o del suo territorio, ci sembrano essere il luogo della scena
di una disgrazia o di un lieto evento; è universale quando si
sogna qualcosa di nuovo che riguarda la sfera del sole o il globo
lunare, o altri corpi celesti o il cielo o tutta la Terra 41.
12. Ora, il sogno raccontato da Scipione comprende i soli
tre tipi di sognare da cui si possano trarre conseguenze proba'
omnes ipsius somnii species attingit. Est enim oraculum quia
Paulus et Africanus uterque parens, sancti grauesque ambo
nec alieni a sacerdotio, quid illi euenturum esset denuntiaue-
runt. Est uisio, quia loca ipsa in quibus post corpus uel qualis
futurus esset aspexit. Est somnium quia rerum quae illi narra­
tae sunt altitudo, tecta profunditate prudentiae, non potest
nobis nisi scientia interpretationis aperiri.
13. Ad ipsius quoque somnii species omnes refertur: est
proprium, quod ad supera ipse perductus est et de se futura
cognouit; est alienum, quod quem statum aliorum animae sor­
titae sint deprehendit; commune, quod eadem loca tam sibi
quam ceteris eiusdem meriti didicit praeparari; publicum,
quod uictoriam patriae et Carthaginis interitum et Capito­
linum triumphum ac sollicitudinem futurae seditionis agnouit;
generale, quod caelum caelique circulos conuersionisque con­
centum, uiuo adhuc homini noua et incognita, stellarum etiam
ac luminum motus terraeque omnis situm suspiciendo uel
despiciendo concepit.
14. Nec dici potest non aptum fuisse Scipionis personae
somnium quod et generale esset et publicum quia necdum illi
contigisset amplissimus magistratus, immo cum adhuc, ut ipse
dicit paene miles haberetur. Aiunt enim non habenda pro ueris
de statu duitatis somnia nisi quae rector eius magistratusue
uidisset, aut quae de plebe non unus sed multi similia somnias-
sent. 15. Ideo apud Homerum, cum in concilio Graecorum
Agamemnon somnium quod de instruendo proelio uiderat
publicaret, Nestor, qui non minus ipse prudentia quam omnis
iuuenta uiribus iuuit exercitum, concilians fidem relatis: «De
bili e, inoltre, è in relazione con tutte le cinque specie del sogno
propriamente detto. C ’è Yoracolo, poiché suo padre, Emilio
Paolo, e il suo avo, l’Africano, entrambi genitori di Scipione,
ambedue personaggi autorevoli e venerabili, tutti e due investi­
ti del sacerdozio 42, informano PEmiliano di ciò che gli acca­
drà. Vi si trova la visione, poiché gode della vista dei luoghi
stessi in cui dimorerà dopo aver lasciato il suo corpo e di quel­
la che sarà la sua condizione. C ’è il sogno, poiché l’altezza delle
cose narrate, protetta dalla profondità della prudenza, non ci
può essere svelata, senza la scienza dell’interpretazione.
13. In questo stesso sogno, inoltre, si trovano comprese le
cinque specie di cui abbiamo appena parlato. E personale, per­
ché il giovane Scipione è stato di persona trasportato nelle
regioni superiori e ha conosciuto il suo avvenire; è estraneo,
perché osserva la condizione delle anime di altri che non sono
più; è comune, perché apprende che i medesimi luoghi sono
destinati a lui così come ad altri di ugual merito; pubblico, poi­
ché la vittoria della patria e la distruzione di Cartagine sono
predette a Scipione, così come il suo trionfo in Campidoglio e
la sedizione successiva che gli causerà tante inquietudini 43 ;
universale, poiché il sognatore, sia alzando sia abbassando il
suo sguardo, comprese il cielo, le sfere e l’armonia della loro
rotazione — cose nuove e ignote ad un uomo ancora vivo — e
anche il moto delle stelle e dei luminari e la geografia della
Terra intera.
14. Non ci si obietterà che il sogno, essendo pubblico e uni­
versale, non possa convenire alla persona di Scipione, con il
pretesto che non aveva ancora rivestito la principale magistra­
tura e che, anzi, come egli stesso riferisce, il suo grado lo distin­
gueva appena da un semplice soldato 44. E vero che, secondo
l’opinione comune, non si possono considerare autorevoli quei
sogni, in rapporto alla condizione politica, se non quando sono
stati fatti dal capo dello stato o da un magistrato, o ancora
quando i sogni fatti non riguardano un semplice cittadino, ma
sono comuni a un gran numero di cittadini 45. 15. Effettiva­
mente, si legge in Omero che Agamennone avendo reso noto
ai Greci riuniti in consiglio il sogno che gli intimava l’ordine di
attaccare il nemico, Nestore, la cui prudenza non era meno
utile all’esercito della forza fisica dei suoi giovani guerrieri,
statu, inquit, publico credendum regio somnio, quod si alter
uidisset repudiaremus ut futile.» 16. Sed non ab re erat ut
Scipio, etsi necdum adeptus tunc fuerat consulatum nec erat
rector exercitus, Carthaginis somniaret interitum cuius erat
auctor futurus audiretque uictoriam beneficio suo publicam,
uideret etiam secreta naturae, uir non minus philosophia quam
uirtute praecellens.
17. His adsertis, quia superius falsitatis insomniorum Vergi­
lium testem citantes, uersus fecimus mentionem eruti de gemi­
narum somnii descriptione portarum, si quis forte quaerere
uelit cur porta ex ebore falsis et e cornu ueris sit deputata,
instruetur auctore Porphyrio, qui in commentariis suis haec in
eundem locum dicit ab Homero sub eadem diuisione descrip­
tum: 18. «Latet, inquit, omne uerum. Hoc tamen anima cum
ab officiis corporis somno eius paululum libera est, interdum
aspicit, nonnumquam tendit aciem nec tamen peruenit, et,
cum aspicit, tamen non libero et directo lumine uidet, sed inte-
riecto uelamine, quod nexus naturae caligantis obducit.» 19.
Et hoc in natura esse idem Vergilius asserit, dicens:
aspice — namque omnem quae nunc obducta tuenti
mortales hebetat uisus tibi et humida circum
caligat nubem eripiam ...

20. Hoc uelamen cum in quiete ad uerum usque aciem ani­


mae introspicientis admittit, de cornu creditur, cuius ista natu­
ra est ut tenuatum uisui peruium sit; cum autem a uero hebe­
tat ac repellit obtutum, ebur putatur, cuius corpus ita natura
densatum est ut ad quamuis extremitatem tenuitatis erasum
nullo uisu ad ulteriora tendente penetretur.

4. 1 . Tractatis generibus et modis ad quos somnium


Scipionis refertur, nunc ipsam eiusdem somnii mentem ipsum-
presta fede al racconto del re di Micene e dice: «Quando
riguarda la situazione pubblica, un sogno fatto dal re merita
ogni fiducia, ma se lo avesse fatto un altro sarebbe per noi di
poca importanza» 46. 16. Tuttavia si può supporre, senza con'
siderarlo assurdo, che Scipione, anche se non aveva ancora
ottenuto il consolato né era allora a capo dell’esercito, sognas­
se la distruzione di Cartagine di cui, più tardi, sarà artefice e
intendesse parlare della pubblica vittoria di cui Roma gli sarà
un giorno debitrice. Si può supporre anche che un personag­
gio così notevole per il suo sapere quanto per le sue virtù fosse
iniziato, durante il suo sonno, a tutti i segreti della natura.
17. Detto questo, ritorniamo al verso di Virgilio citato pre­
cedentemente a testimonianza dell’opinione del poeta sulla fal-
lacità degli imomnia e che abbiamo tratto dalla sua descrizio­
ne delle due porte che danno origine ai sogni47. Coloro che
fossero curiosi di sapere perché la porta d’avorio è riservata ai
sogni menzogneri e quella di corno ai sogni veritieri, possono
consultare Porfirio. Ecco ciò che dice nel suo Commento sullo
stesso passo di Omero 48 relativo a questa suddivisione: 18.
«Ogni verità si tiene nascosta. Tuttavia l’anima talvolta la intra­
vede, quando il corpo addormentato gli lascia più libertà; qual­
che volta l’anima vi tende lo sguardo, e tuttavia non riesce a
scoprirla, e quand’anche vi riesce, non la vede alla luce libera
e diretta, ma solamente dietro il velo che stende su di essa il
tessuto oscuro della natura» 49. 19. Tale è anche il sentimento
di Virgilio riguardo alla natura quando dice:
Guarda: tutta la nube che ti fascia la vista
E ottunde i tuoi occhi mortali e umida intorno
Vapora un velo di caligine, io toglierò... 50

20. Questo velo che, durante il sonno, lascia penetrare lo


sguardo dell’anima fin dentro la verità, è, si dice, della natura
del corno, materiale che può essere assottigliato fino alla tra­
sparenza; il velo, invece, che impedisce e respinge lo sguardo
verso la verità, si crede che sia della natura dell’avorio, talmen­
te opaco che, per quanto assottigliato sia, non si lascia mai
attraversare da nessuno sguardo che tenti di vedere oltre 51.

4. 1 . Abbiamo appena discusso le categorie e le specie di


sogni che rientrano in quello di Scipione. Cerchiamo adesso,
que propositum, quem Graeci okottóv uocant, antequam
uerba inspiciantur, temptemus aperire et eo pertinere proposi­
tum praesentis operis asseramus, sicut etiam in principio huius
sermonis adstruximus, ut animas bene de re publica merito­
rum post corpora caelo reddi et illic fruì beatitatis perpetuita­
te nos doceat.
2 . Nam Scipionem ipsum haec occasio ad narrandum som­
nium prouocauit, quod longo tempore se testatus est silentio
condidisse. Cum enim Laelius quereretur nullas Nasicae sta­
tuas in publico in interfecti tyranni remunerationem locatas,
respondit Scipio post alia in haec uerba: «Sed quamquam
sapientibus conscientia ipsa factorum egregiorum amplissimum
uirtutis est praemium, tamen illa diuina uirtus non statuas plum­
bo inhaerentes nec triumphos arescentibus laureis, sed stabiliora
quaedam et uiridiora praemiorum genera desiderat.» — «quae
tamen ista sunt?» inquit Laelius. 3. Tum Scipio: «Patimini me,
quoniam tertium diem iam feriati sumus,» et cetera quibus ad
narrationem somnii uenit, docens illa esse stabiliora et uiridio­
ra praemiorum genera quae ipse uidisset in caelo bonis rerum
publicarum seruata rectoribus, sicut his uerbis eius ostenditur:
4. «Sed quo sis, Africane, alacrior ad tutandam rem publicam, sic
habeto: omnibus qui patriam conseruarint, adiuuerint, auxerint,
certum esse in caelo definitum locum ubi beati aeuo sempiterno
fruantur.» E t paulo post hunc certum locum qui sit designans
ait: «Sed sic, Scipio, ut auus hic tuus, ut ego qui te genui, iusti-
tiam cole et pietatem quae cum magna in parentibus et propin­
quis tum in patria maxima est. Ea uita uia est in caelum et in
hunc coetum eorum qui iam uixere et corpore laxati illum inco­
lunt locum quem uides», significans y aX a^ia v .
5. Sciendum est enim quod locus in quo sibi uidetur esse
Scipio per quietem, lacteus circulus est, qui y a X a ^ ia s uoca-
tur, siquidem his uerbis in principio utitur: «Ostendebat autem
prima di esaminarne le parole, di farne conoscere lo spirito e il
proposito — quello che i Greci chiamano o k o ttós 52. Diciamo
chiaramente che questo scopo non è altro che quello già
annunciato al principio della nostra trattazione: insegnarci che
le anime dei benemeriti della cosa pubblica ritornano, una
volta abbandonato il corpo, in cielo per godervi una beatitudi­
ne eterna.
2 . Ciò è provato dalla circostanza stessa di cui approfittò
Scipione per narrare questo sogno di cui ci assicura di avere
custodito per lungo tempo il segreto. 53 A Lelio che si lamen­
tava che il popolo romano non avesse ancora innalzato in un
luogo pubblico una statua a Nasica per ricompensarlo d’aver
ucciso un tiranno54, Scipione alla fine gli rispose con le seguen­
ti parole 55: « f‘S ebbene i saggi trovino nella coscienza delle pro­
prie nobili azioni la più alta ricompensa per la loro virtù, nondi­
meno quella virtù, che è di origine divina, non aspira a statue dai
basamenti di vile piombo 56 né a trionfi in cui gli allori appassi­
scono, ma ad un genere di ricompense più stabile e più duratu­
ro." — “Ma quali sono?” domandò Lelio. 3. “Permettimi” ripre­
se allora Scipione “poiché siamo ancora liberi durante questo
terzo giorno di festa 57, di continuare la mia narrazione”». Pas­
sando quindi al racconto del sogno che aveva avuto, spiegò di
aver visto nel cielo quelle ricompense più stabili e durature,
riservate ai virtuosi reggitori della cosa pubblica. Ciò è mostra­
to dalle seguenti parole 58: 4. «Ma al fine, o Africano, d'ispirar-
ti maggior ardore nel difendere lo stato, sappi questo: per coloro
che avranno salvato, difeso, ingrandito la loro patria c’è nel cielo
un posto particolare e ben definito dove, beati, possono godere di
un eterna felicità» 59. Subito dopo per indicare chiaramente
quale fosse questo luogo, disse: «Orsù, Scipione, come questo
tuo avo, come me che ti ho generato, coltiva la giustizia e la pietà,
che come dev’essere grande verso i nostri genitori e parenti, così
soprattutto dev’essere grandissima verso la patria. Tale condotta
di vita è la strada che conduce al cielo e al consesso di quelli che
hanno già vissuto, e che, liberati dal corpo, abitano il luogo che
vedi» 60 intendendo con queste parole la y a X a ^ ia s [galassia].
5. Bisogna infatti sapere che il luogo in cui Scipione s’imma­
gina di essere durante il suo sogno era il circolo latteo, che
porta il nome di y a X a ^ ia s 61, poiché, all’inizio del racconto,
Carthaginem de excelso et pleno stellarum illustri et claro quo­
dam loco.» Et paulo post apertius dicit: «Erat autem is splendi­
dissimo candore inter flammas circus elucens, quem uos, ut a
Grais accepistis, orbem lacteum nuncupatis. Ex quo omnia mihi
contemplanti praeclara et mirabilia uidebantur.» Et de hoc qui­
dem y aA a^ig, cum de circulis loquemur, plenius disseremus.

5. 1. Sed iam quoniam, inter libros quos de re publica


Cicero quosque prius Plato scripserat, quae differentia, quae
similitudo habeatur expressimus, et cur operi suo uel Plato
Eris indicium uel Cicero somnium Scipionis adsciuerit, quidue
sit ab Epicureis obiectum Platoni uel quemadmodum debilis
calumnia refellatur, et quibus tractatibus philosophi admi­
sceant uel a quibus penitus excludant fabulosa retulimus, adie-
cimusque post haec necessario genera omnium imaginum quae
falso quaeque uero uidentur in somnis, ipsasque distinximus
species somniorum ad quas Africani somnium constaret refer­
ri, et si Scipioni conuenerit talia somniare, et de geminis som­
nii portis quae fuerit a ueteribus expressa sententia, super his
omnibus ipsius somnii de quo loquimur mentem propositum-
que signauimus, et partem caeli euidenter expressimus in qua
sibi Scipio per quietem haec uel uidisse uisus est uel audisse
quae rettulit, nunc iam discutienda nobis sunt ipsius somnii
uerba, non omnia, sed ut quaeque uidebuntur digna quaesitu.
2. Ac prima nobis tractandam se ingerit pars illa de nume­
ris in qua sic ait: «Nam cum aetas tua septenos octies solis
anfractus reditusque conuerterit, duoque hi numeri quorum uter­
que plenus, alter altera de causa habetur, circuitu naturali sum­
mam tibi fatalem confecerint, in te unum atque in tuum nomen
se tota conuertet ciuitas; te senatus, te omnes boni, te socii, te
Latini intuebuntur, tu eris unus in quo nitatur duitatis salus, ac,
ne multa, dictator rem publicam constituas oportet, si impias
propinquorum manus effugeris.»
viene detto: «Da un luogo elevato, cosparso di stelle e tutto
splendente di luce, mi mostrava poi Cartagine» 62. E, nel passo
che segue, si spiega ancor più chiaramente: «Vi era poi quel cir­
colo che risplende di luminosissimo candore tra i fuochi celesti, e
che voi, come avete appreso dai Greci, chiamate circolo latteo. Di
là, stendendo il mio sguardo sull’universo, mi si offrivano visio­
ni splendide e meravigliose» 63. Parlando dei circoli celesti, trat­
teremo più ampiamente della yaÀa£ta$. 64

5. 1 . Abbiamo fatto conoscere le differenze e le somiglianze


dei due trattati sulla Repubblica scritti da Cicerone e, prima di
lui, da Platone, così come il motivo per cui Platone, nella sua
opera, ha scelto la rivelazione di Er e Cicerone il sogno di
Scipione. Abbiamo poi riportato le obiezioni degli Epicurei
contro Platone e la confutazione di cui è suscettibile la loro
inconsistente critica; poi abbiamo detto quali sono gli scritti
filosofici che ammettono narrazioni favolose e quelli da cui
sono assolutamente bandite; di là siamo stati portati a definire
i diversi generi d’immagini che, vere o false, ci appaiono in
sogno, per riconoscere più comodamente le specie di sogni ai
quali appartiene quello dell’Africano. Abbiamo anche dovuto
discutere se conveniva prestare a Scipione un tale sogno ed
esporre il parere degli Antichi riguardo alle porte gemelle da
cui escono i sogni; infine, abbiamo sviluppato lo spirito e lo
scopo del sogno di cui qui si tratta, e determinato la parte del
cielo da cui Scipione, durante il sonno, ha visto e ha sentito
tutto ciò che riferisce. Adesso non ci resta che interpretare,
non la totalità di questo sogno, ma i passi che ci sembrano
avere un interesse ragguardevole. 65
2. Il primo che si presenta al nostro commento è quello rela­
tivo ai numeri 66 dove si dice: «Infatti, quando la tua età avrà per­
corso uno spazio di otto volte sette giri e ritorni del sole, e quando
il concorso di questi numeri, tutti e due reputati pieni ma per
ragioni differenti, avrà con questa rivoluzione naturale prodotto la
somma fatale che ti è assegnata, tutto lo stato si volgerà verso di te
e verso il tuo nome; verso di te il senato, i buoni cittadini, gli allea­
ti, i Latini volgeranno gli occhi, ti guarderanno come l’unico sul
quale possa appoggiarsi la salvezza dello Stato; in una parola, sarai
nominato dittatore e incaricato di riorganizzare la repubblica, se
riuscirai a sfuggire alle mani empie dei tuoi congiunti» 68.
3. Plenitudinem hic non frustra numeris adsignat. Pleni­
tudo enim proprie nisi diuinis rebus supernisque non conue-
nit, neque enim corpus proprie plenum dixeris quod, cum sui
sit inpatiens effluendo, aliena est appetens hauriendo. Quae si
metallicis corporibus non usu ueniunt, non tamen plena illa,
sed uasta dicenda sunt. 4. Haec est igitur communis numero­
rum omnium plenitudo, quod cogitationi a nobis ad superos
meanti occurrit prima perfectio incorporalitatis in numeris;
inter ipsos tamen proprie pleni uocantur, secundum hos
modos qui praesenti tractatui necessarii sunt, qui aut uim obti­
nent uinculorum [aut corpora rursus efficiuntur] aut corpus
efficiunt, sed corpus quod intellegendo, non sentiendo conci­
pias. Totum hoc, ut obscuritatis deprecetur offensam, paulo
altius repetita rerum luce pandendum est.
5. Omnia corpora superficie finiuntur et in ipsam eorum
pars ultima terminatur. Hi autem termini, cum sint semper
circa corpora quorum termini sunt, incorporei tamen intelle­
guntur. Nam quousque corpus esse dicetur, necdum terminus
intellegitur: cogitatio quae conceperit terminum corpus reli­
quit. 6 . Ergo primus a corporibus ad incorporea transitus
offendit corporum terminos, et haec est prima incorporea
natura post corpora, sed non pure nec ad integrum carens cor­
pore; nam licet extra corpus natura eius sit, tamen non nisi
circa corpus apparet. Cum totum denique corpus nominas,
etiam superficies hoc uocabulo continetur, de corporibus eam
tamen etsi non res sed intellectus sequestrat. 7. Haec superfi­
cies, sicut est corporum terminus, ita lineis terminatur, quas
suo nomine ypanneis Graecia nominauit. Punctis lineae
finiuntur, et haec sunt corpora quae mathematica uocantur, de
quibus sollerti industria geometriae disputatur.
8. Ergo haec superficies, cum ex aliqua parte corporis cogi­
tatur, pro forma subiecti corporis accipit numerum linearum.
3. È con ragione che Cicerone, in questo brano, attribuisce
ai numeri la pienezza. In effetti, la pienezza appartiene, per l’e­
sattezza, solo alle cose divine e di un ordine superiore, giacché
non si può propriamente dire che un corpo sia «pieno»: infat­
ti si mostra insieme insoddisfatto di sé lasciando sfuggire parte
della sua sostanza e avido di quella altrui assorbendola. E vero
che questo processo non si verifica nei corpi m etallici69, non si
può tuttavia dire che sono «pieni», ma semmai che sono «grez­
zi». 4. Ecco ciò in cui consiste la pienezza comune a tutti i
numeri indistintamente: alzandoci con il pensiero dalla natura
dell’uomo verso la natura degli dèi, i numeri ci offrono il primo
esempio di perfezione immateriale. Tuttavia tra i numeri che
presentano più propriamente il carattere di pienezza 70, secon­
do le modalità che dobbiamo attribuire qui nel trattato, vi sono
quelli che hanno la proprietà di legare insieme l ’uno con l ’altro
i corpi [o diventano nuovi corpi] oppure quelli che costituisco­
no un corpo che non cade sotto i sensi, ma che può essere con­
cepito soltanto con l’intelligibile 71. Ma, per evitare l’accusa di
essere oscuro, dobbiamo spiegarci chiaramente, riprendendo
le cose alla luce di semplici esempi.
5. Tutti i corpi sono delimitati da una superficie che serve
loro da limiti. E questi limiti, fissati immutabilmente intorno ai
corpi che delimitano, sono inoltre considerati come immateria­
li. Infatti, considerando un corpo, il pensiero può fare astrazio­
ne della sua superficie e reciprocamente può fare astrazione
del corpo. 6 . Perciò il primo passaggio della materia all’imma­
terialità incontra i limiti dei corpi e questa è la prima realtà di
natura incorporea dopo i corpi. Essa tuttavia non è assoluta né
interamente priva di corporalità: infatti, benché la natura del
corpo esista al suo esterno, essa si manifesta solamente intorno
al corpo. Per di più, non si può parlare di un corpo senza com­
prendere nella parola anche la sua superficie: dunque la loro
separazione non può essere effettuata realmente, ma solamen­
te per mezzo del pensiero 72. 7. Questa superficie, limite dei
corpi, è essa stessa limitata da linee che i Greci chiamarono
appunto y p an n ai. Le linee sono poi racchiuse dai punti 73.
Tali sono i corpi cosiddetti matematici su cui si esercita la saga­
ce tecnica della geometria 74.
8. Se consideriamo la superficie di una parte qualsiasi di un
corpo, il numero delle linee dipende dalla forma del corpo
Nam seu trium ut trigonum, seu quattuor ut quadratum, seu
plurium sit angulorum, totidem lineis sese ad extrema tangen­
tibus planities eius includitur. 9. H oc loco admonendi sumus
quod omne corpus longitudinis, latitudinis et altitudinis
dimensionibus constat. Ex his tribus in lineae ductu una
dimensio est: longitudo est enim sine latitudine. Planities uero,
quam Graeci èmcpaveiav uocant, longo latoque distenditur,
alto caret et haec planities quantis lineis contineatur expressi­
mus. Soliditas autem corporum constat cum his duabus addi­
tur altitudo: fit enim tribus dimensionibus impletis corpus soli­
dum quod OTEpeóu uocant, qualis est tessera quae kv(3os
uocatur.
1 0 . Si uero non unius partis, sed totius uelis corporis super­
ficiem cogitare, quod proponamus esse quadratum, ut de uno
quod exemplo sufficiet disputemus, iam non quattuor, sed
octo anguli colliguntur. Quod animaduertis si super unum
quadratum, quale prius diximus, alterum tale altius impositum
mente conspicias, ut altitudo quae illi plano deerat adiciatur
fiatque tribus dimensionibus impletis corpus solidum quod
OTepeóv uocant, ad imitationem tesserae quae KÙf3o$ uocatur.
11. Ex his apparet octonarium numerum solidum corpus et
esse et haberi. Si quidem unum apud geometras puncti locum
obtinet, duo lineae ductum faciunt quae duobus punctis, ut
supra diximus, coercetur; quattuor uero puncta aduersum se
in duobus ordinibus bina per ordinem posita exprimunt qua­
dri speciem, a singulis punctis in aduersum punctum eiecta
linea. Haec quattuor, ut diximus, duplicata et octo facta, duo
quadra similia describunt, quae sibi superposita additaque alti­
tudine formam cybi, quod est solidum corpus efficiunt.
12. Ex his apparet antiquiorem esse numerum superficie et
lineis ex quibus illam constare memorauimus formisque omni­
bus. A lineis enim ascenditur ad numerum tamquam ad prio-
considerato. Se questa parte di superficie è triangolare, è deli­
mitata da tre linee; da quattro, se è quadrata. Infine, il numero
di linee in cui è inclusa la superficie è uguale a quello dei suoi
angoli, e queste linee si toccano alle loro estremità. 9. D ob­
biamo ricordare qui al lettore che ogni corpo ha tre dimensio­
ni, lunghezza, larghezza e altezza. Di queste tre dimensioni,
quando si traccia una linea, se ne adopera solamente una: la
lunghezza, infatti, non ha larghezza. Il piano, che nella termi­
nologia dei Greci è étncpavEia, si estende in lunghezza e lar­
ghezza e manca dell’altezza (della quantità di linee da cui può
essere delimitato abbiamo appena parlato). La formazione di
un corpo solido esige, infine, oltre a queste due dimensioni,
l’aggiunta dell’altezza. Il corpo solido, infatti, è tale se si com­
pletano le tre dimensioni ed è chiamato OTEpeóv, tale ad esem­
pio è il dado da gioco, chiamato kù|3os 75.
10. Considerando la superficie non di una sola faccia, ma
quella del corpo intero — supponiamo di un quadrato (limi­
tando la discussione ad un solo corpo utilizzandolo come
esempio) — „ in esso troveremo otto angoli al posto di quattro.
E ciò si concepisce, se s’immagina di porre, sopra la superficie
quadrata di cui si è appena trattato, un’altra superficie identi­
ca affinché si aggiunga l’altezza che mancava al piano quadra­
to in modo che il corpo, riempite le tre dimensioni, divenga
allora un solido, chiamato OTepeóv, simile al dado detto
ku(3o s .
11. Ne deriva che il numero otto è ed è considerato un soli­
do. Difatti, presso gli studiosi di geometria, l’unità è il punto
geometrico; due unità permettono di tracciare la linea, che è,
come abbiamo detto, limitata da due punti. Quattro punti,
presi due a due e sistemati su due file, gli uni reciprocamente
di fronte agli altri a distanze uguali, diventano una superficie
quadrata, se da ciascuno di essi si traccia una linea che lo con­
giunga al punto opposto. Se, come abbiamo detto, si raddop­
piano questi quattro punti per farne otto, essi descrivono due
quadrati uguali che, sovrapposti e con l’aggiunta dell’altezza
adatta, realizzano il cubo, che è un corpo solido.
1 2 . Si vede con ciò che il numero è anteriore alla superficie
e alle linee da cui, come si è ricordato, si costituisce, così come
a tutte le figure76. Infatti bisogna risalire dalle linee al numero,
rem, ut intellegatur ex diuersis numeris linearum, quae formae
geometricae describantur. 13. Ipsam uero superficiem cum
lineis suis primam post corpora diximus incorpoream esse
naturam, nec tamen sequestrandam propter perpetuam cum
corporibus societatem. Ergo quod ab hac rursus recedit iam
pure incorporeum est; numeros autem hac superiores praece­
dens sermo patefecit. Prima est igitur perfectio incorporalitatis
in numeris; et haec est, ut diximus, numerorum omnium pleni­
tudo.
14. Seorsum illa, ut supra admonuimus, plenitudo est
eorum qui aut corpus efficiant aut uim obtineant uinculorum,
licet alias quoque causas quibus pleni numeri efficiantur esse
non ambigam.
15. Qualiter autem octonarius numeris solidum corpus effi­
ciat ante latis probatum est. Ergo singulariter quoque plenus
iure dicetur propter corporeae soliditatis effectum, sed et ad
ipsam caeli harmoniam, id est concinentiam, hunc numerum
magis aptum esse non dubium est, cum sphaerae ipsae octo
sint quae mouentur, de quibus secuturus sermo procedet.
16. Omnes quoque partes, de quibus constat hic numerus,
tales sunt ut ex earum compage plenitudo nascatur. Est enim
aut de his quae neque generantur neque generant, de monade
et septem, quae qualia sint suo loco plenius explicabitur; aut
de duplicato eo qui et generatur et generat id est quattuor —
nam hic numerus quattuor et nascitur de duobus et octo gene­
rat — ; aut conponitur de tribus et quinque, quorum alter pri­
mus omnium numerorum impar apparuit; quinarii autem
potentiam sequens tractatus adtinget. 17. Pythagorici uero
hunc numerum iustitiam uocauerunt, quia primus omnium ita
soluitur in numeros pariter pares, hoc est in bis quaterna, ut
nihilo minus in numeros aeque pariter pares diuisio quoque
ipsa soluatur, id est in bis bina. Eadem quoque qualitate con­
come ad una cosa preliminare, per determinare quale figura
geometrica sia stata rappresentata, specificandola dai diversi
numeri di linee. 13. Abbiamo tuttavia detto che la superficie
stessa con le sue linee è la prima realtà immateriale dopo i
corpi, ma che non la si può separare interamente dai corpi, a
causa della sua perpetua unione che ha con essi. Dunque, ciò
che a sua volta è al di sopra della superficie è già puramente
incorporeo. Ma abbiamo appena esposto che i numeri sono
anteriori alla superficie. Quindi la prima perfezione dell’imma-
terialità è nei numeri e questa è ciò che abbiamo chiamato la
pienezza di tutti i numeri.
14. Una cosa a parte è, come abbiamo osservato sopra, la
pienezza di quei numeri che realizzano un corpo o che hanno
il potere di legare i corpi insieme77, sebbene non si contesti che
esistano altre cause che consentono ai numeri di divenire
«pieni».
15. In quanto al modo, poi, in cui il numero otto genera un
solido, è stato provato con quanto addotto in precedenza 7S.
Questo numero, perciò, ha un particolare diritto ad essere
chiamato pieno, perché genera la solidità della materia.
Aggiungiamo che non c’è nessun numero che sia più adatto a
realizzare l’armonia, cioè l’accordo celeste, poiché sono otto le
sfere mobili, di cui parleremo in seguito.
16. Per di più, tutte le parti con cui l’otto si compone sono
tali che dalla loro unione nasce la pienezza 79. Si può, infatti,
formarlo dalla monade, o unità, e dal numero sette che non
sono né generatori né generati. Svilupperemo, a suo tempo 80,
la definizione e la proprietà di queste due quantità. Può essere
anche il risultato del raddoppiamento di quattro, numero che
è generatore e generato: questo numero, infatti, nasce dal due
e genera l ’otto. Può essere ancora la somma di tre e cinque;
uno di questi due componenti è il primo dei numeri dispari e
in quanto al numero cinque, le sue proprietà saranno dimostra­
te in seguito 81. 17. I Pitagorici definirono l’otto simbolo della
«giustizia» 82, perché questo numero è il primo fra tutti che si
scinde in due componenti parimenti pari 83, quattro più quat­
tro, che possono essere, a loro volta, scomposte in due quanti­
tà parimenti pari. Aggiungiamo che la sua ricomposizione può
avere luogo per mezzo della medesima proprietà, cioè moltipli-
texitur, id est bis bina bis. 18. Cum ergo et contextio ipsius pari
aequalitate procedat et resolutio aequaliter redeat usque ad
monadem, quae diuisionem arithmetica ratione non recipit,
merito propter aequalem diuisionem iustitiae nomen accepit;
et, quia ex supra dictis omnibus apparet quanta et partium sua­
rum et seorsum sua plenitudine nitatur, iure plenus uocatur.

6. 1. Superest ut septenarium quoque numerum plenum


iure uocitandum ratio in medio constituta persuadeat.
Ac primum hoc transire sine admiratione non possumus
quod duo numeri qui in se multiplicati uitale spatium uiri for­
tis includerent ex pari et impari constiterunt. Hoc enim uere
perfectum est quod ex horum numerorum permixtione gene­
ratur. Nam impar numerus mas et par femina uocatur. Item
arithmetici imparem patris et parem matris appellatione uene-
rantur.
2. Hinc et Timaeus Platonis fabricatorem mundanae ani­
mae deum partes eius ex pari et impari, id est duplari et tripla­
ri numero, intertexuisse memorauit, ita ut a duplari usque ad
octo, a triplari usque ad uiginti septem staret alternatio
mutuandi. 3. Hi enim primi cybi utrimque nascuntur, siquidem
a paribus bis bina, quae sunt quattuor, superficiem faciunt, bis
bina bis, quae sunt octo, corpus solidum fingunt, a dispari uero
ter terna, quae sunt nouem, superficiem reddunt, et ter terna
ter, id est ter nouena, quae sunt uiginti septem, primum aeque
cybum alterius partis efficiunt; unde intellegi datur hos duos
numeros, octo dico et septem, qui ad multiplicationem anno­
rum perfecti in re publica uiri conuenerunt, solos idoneos ad
efficiendam mundi animam iudicatos, qua nihil post auctorem
potest esse perfectius.
cando due volte due per due. 18. Un tale numero, la cui com­
posizione e scomposizione procede per fattori e divisori ugua­
li e pari fino alla monade, che non può essere aritmeticamente
scomposta, ottenne meritatamente, per questa uguaglianza
nella ripartizione, di essere considerato come emblema della
giustizia. E poiché, in conformità a ciò che abbiamo detto
sopra, risulta evidente la pienezza delle sue parti quanto quel­
la del suo intero, l’otto è a buon diritto definito «pieno».

6. 1 . Ci resta da provare i diritti del numero sette ad essere


definito numero «pieno» 84.
Ma innanzitutto non possiamo passare inavveduto, senza
meraviglia, il fatto che la durata della vita mortale di un illustre
personaggio sia stata espressa dal prodotto di due numeri, uno
pari e l’altro dispari. Il risultato dell’unione di questi due tipi
di numeri, infatti, è davvero perfetto. Il numero dispari è, in
effetti, detto «maschio», ed il pari «femmina». Allo stesso
modo gli studiosi di aritmetica venerano il numero dispari
sotto il nome di «padre» ed il numero pari sotto quello di
«madre».
2. Anche il Timeo di Platone ricorda che il dio artefice
dell’Anima del Mondo ne ha tessuto le parti con il numero pari
e con il numero dispari, vale a dire con numeri contenenti il
doppio e il triplo, alternando la duplicazione fino al numero
otto con la triplicazione fino al numero ventisette. 85 3. Ora
otto è il primo cubo della serie dei numeri pari e ventisette è il
primo dei dispari; perché tra i numeri pari due volte due, ossia
quattro, danno una superficie; due volte quattro, cioè otto, rea­
lizzano un solido 86; tra i numeri dispari poi tre volte tre, ossia
nove, fanno una superficie, e tre volte tre ripetuto tre volte,
cioè ventisette, formano similmente il primo cubo dell’altra
serie 87. Si può inferire da ciò perché questi due numeri —
intendo l’otto e il sette 88— che formano con il loro prodotto il
numero di anni dell’esistenza di un politico perfetto, sono stati
giudicati i soli adatti alla realizzazione della composizione
dell’Anima del Mondo, di cui non c’è niente di più perfetto se
non il suo autore.
2 3

4 9

16 27

Figg. 01 - 02 - 03 - 04
Alcuni esempi di raffigurazione dello schema a lambda o lambdo-
ma platonico.
Fig. 05
Altra illustrazione del lambda platonico. Frontespizio di Fran-
chinus Gafurius [Franchino Gaffuriol, Theorica musice, Milano,
1492.
4. Hoc quoque notandum est quod, superius adserentes
communem numerorum omnium dignitatem, antiquiores eos
superficie et lineis eius omnibusque corporibus ostendimus;
procedens autem tractatus inuenit numeros et ante animam
mundi fuisse, quibus illam contextam augustissima Timaei
ratio, naturae ipsius conscia testis, expressit. 5. Hinc est quod
pronuntiare non dubitauere sapientes animam esse numerum
se mouentem.
Nunc uideamus cur septenarius numerus suo seorsum
merito plenus habeatur; cuius ut expressius plenitudo nosca­
tur, primum merita partium de quibus constat, tum demum
quid ipse possit inuestigemus. 6 . Constat septenarius numerus
uel ex uno et sex, uel ex duobus et quinque, uel ex tribus et
quattuor. Singularum compagum membra tractemus, ex qui­
bus fatebimur nullum alium numerum tam uaria esse maiesta-
te fecundum.
7. Ex uno et sex compago prima conponitur. Vnum autem
quod monas, id est unitas, dicitur, et mas idem et femina est,
par idem atque impar, ipse non numerus sed fons et origo
numerorum. 8 . Haec monas, initium finisque omnium neque
ipsa principii aut finis sciens, ad summum refertur deum eius-
que intellectum a sequentium numero rerum et potestatum
sequestrat, nec in inferiore post deum gradu frustra eam desi-
deraueris. Haec illa est mens ex summo enata deo, quae, uices
temporum nesciens, in uno semper quod adest consistit aeuo,
cumque, utpote una, non sit ipsa numerabilis, innumeras
tamen generum species et de se creat et intra se continet. 9.
Inde quoque aciem paululum cogitationis inclinans, hanc
monadem reperies ad animam referri. Anima enim, aliena a
siluestris contagione materiae, tantum se auctori suo ac sibi
debens, simplicem sortita naturam, cum se animandae immen­
sitati uniuersitatis infundat, nullum init tamen cum sua unitate
diuortium. Vides ut haec monas, orta a prima rerum causa,
adusque animam ubique integra et semper indiuidua continua­
tionem potestatis obtineat.
4. Si può anche notare che, se, nel capitolo precedente,
mostrando l’eccellenza dei numeri in generale, abbiamo stabi­
lito che essi sono anteriori alla superficie e alle sue linee, così
come a tutti i co rp i89, proseguendo nella trattazione si è trova­
to che i numeri sono anche anteriori rispetto all’Anima del
Mondo, poiché è dalla loro tessitura che essa fu formata,
secondo la sublime testimonianza di Timeo, conoscitore dei
segreti della natura. 5. Perciò anche dei filosofi non esitarono
ad affermare che l’anima è un numero semovente 90.
Esaminiamo adesso perché il numero sette merita per virtù
propria di essere considerato «pieno». Per rendere più esplici­
ta questa pienezza, analizzeremo dapprima le proprietà delle
parti che lo compongono 91, poi le sue qualità specifiche. 6 . Il
numero sette è il risultato di uno e sei, di due e cinque, di tre e
quattro. Esaminando le parti di ciascuna di queste combinazio­
ni, ci convinceremo che nessun altro numero è tanto ricco di
proprietà diverse.
7. La prima coppia è quella dell’uno col sei. L’uno che è
chiamato pò va 9 , cioè unità, ed è allo stesso tempo maschio e
femmina 92, pari e dispari insieme 93, non è un vero e proprio
numero, ma la fonte e l’origine dei numeri. 8 . Questa monade,
principio e fine di tutte le cose e che non conosce di per sé
principio e fine, riconduce al Dio supremo e divide il suo intel­
letto dalla molteplicità delle cose e dalle potenze che lo seguo­
no e non la si cercherà invano se la si cerca immediatamente
dopo la divinità 94. E l’intelletto, nato dal Dio supremo, che,
affrancato dalle vicissitudini temporali, esiste sempre in un
presente unico, e quantunque non possa essere numerabile, in
quanto unità per sua natura, tuttavia genera da sé e contiene in
sé il numero indefinito delle specie di cose generate. 9. Riflet­
tendo un po’, si vedrà che la monade è in rapporto con l’Anima
universale. Difatti, questa Anima, esente dal contagio della
materia bruta, poiché dipende soltanto dal suo artefice e da se
stessa, dotata di una natura singola, quand’anche si espande
nell’immensità dell’universo che anima, non dà tuttavia luogo
ad alcuna separazione della sua unità. Così si vede come que­
sta monade, originata dalla causa prima delle cose, si conservi
sempre integra ed indivisibile fino all’Anima universale, senza
perdere niente delle sue proprietà 95.
10. Haec de monade castigatius quam se copia suggerebat.
Nec te remordeat quod, cum omni numero praeesse uideatur,
in coniunctione praecipue septenarii praedicetur: nulli enim
aptius iungitur monas incorrupta quam uirgini. 11. Huic
autem numero, id est septenario, adeo opinio uirginitatis ino-
leuit ut Pallas quoque uocitetur. Nam uirgo creditur quia nul­
lum ex se parit numerum duplicatus qui intra denarium coar­
tetur, quem primum limitem constat esse numerorum; Pallas
ideo quia ex solius monadis fetu et multiplicatione processit,
sicut Minerua sola ex uno parente nata perhibetur.
12. Senarius uero, qui cum uno coniunctus septenarium
facit, uariae ac multiplicis religionis et potentiae est, primum
quod, solus ex omnibus numeris qui intra decem sunt, de suis
partibus constat. 13. Habet enim medietatem et tertiam par­
tem et sextam partem, et est medietas tria, tertia pars duo,
sexta pars unum, quae omnia simul sex faciunt. Habet et alia
suae uenerationis indicia, sed, ne longior faciat sermo fasti­
dium, unum ex omnibus eius officium persequemur; quod
ideo praetulimus quia hoc commemorato non senarii tantum,
sed et septenarii pariter dignitas adstruetur.
14. Humano partui frequentiorem usum nouem mensium
certo numerorum modulamine natura constituit, sed ratio sub
adsciti senarii numeri multiplicatione procedens etiam septem
menses compulit usurpari. 15. Quam breviter absoluteque
dicemus. Duos esse primos omnium numerorum cybos, id est
a pari octo, ab impari uiginti septem, et esse imparem marem,
parem feminam superius expressimus. Horum uterque, si per
senarium numerum multiplicetur, efficiunt dierum numerum
qui septem mensibus explicantur. 16. Coeant enim numeri,
mas ille qui memoratur et femina, octo scilicet et uiginti sep­
tem, pariunt ex se quinque et triginta. Haec sexies multiplica­
ta creant decem et ducentos, qui numerus dierum mensem
septimum claudit. Ita est ergo natura fecundus hic numerus ut
10. Sulla monade siamo stati più succinti di quanto non
sembrava promettere l’abbondanza dell’argomento 96. Non
dispiacerà certo che ciò che sembra superiore ad ogni numero,
venga messo in rapporto soprattutto col numero sette; la
monade incorrotta si congiunge infatti con ciò che è vergine
nella maniera più conveniente. 1 1 . A questo numero sette si
addice a tal punto l’idea della verginità che ebbe anche l’appel­
lativo di «Pallade». E infatti ritenuto vergine perché se raddop­
piato non genera nessuno dei numeri compresi nella prima
decina, ritenuta primo limite dei numeri. In quanto al nome di
Pallade, gli viene per il fatto che procede per filiazione e mol­
tiplicazione dalla sola monade, come Minerva che si dice che
sia nata da un unico genitore 97.
12. Quanto al numero sei che, unito all’uno forma il sette, le
sue proprietà numeriche e sacre sono varie e molteplici, innan­
zi tutto perché è il solo dei numeri al di sotto del dieci che sia
il risultato delle proprie parti. 13. Infatti il suo mezzo, il suo
terzo e il suo sesto, ossia tre, due e uno, formano, sommati
insieme, il suo intero, cioè sei 98. Potremmo specificare pure
altre sue particolarità relative al culto che gli si rende; ma, per
timore di annoiare il lettore e per non dilungarci eccessivamen­
te " , parleremo di una sola di tutte le sue virtù. L’abbiamo pri­
vilegiata perché, una volta dimostrata, darà un’alta idea, non
solo della sua importanza, ma anche di quella del numero sette.
14. La natura ha stabilito, secondo un’armonia numerica
ben definita, il termine più ordinario della gestazione della
donna in nove mesi; ma, secondo una moltiplicazione che ha il
numero sei come fattore, questo termine può ridursi a sette
mesi. 15. Diremo ancora una volta qui, nella maniera più con­
cisa e completa, che i primi due cubi dei numeri, o pari o
dispari, sono otto e ventisette; e abbiamo detto in precedenza
che il numero dispari è maschio ed il numero pari femmina. Se
si moltiplicano per sei l’uno e l’altro di questi numeri, si ottie­
ne un prodotto equivalente al numero dei giorni contenuti in
sette mesi. 16. Infatti l’unione di questi numeri, ossia del
maschio con la femmina già menzionati, vale a dire del venti-
sette con l’otto, genera trentacinque. Questo numero moltipli­
cato per sei produce dueeentodieci, numero che è quello dei
giorni contenuti in sette mesi. Questo numero è dunque per
primam humani partus perfectionem, quasi arbiter quidam
maturitatis, absoluat. 17. Discretio uero sexus futuri, sicut
Hippocrates refert, sic in utero dinoscitur. Aut enim septuage­
simo aut nonagesimo die conceptus mouetur. Dies ergo motus,
qui cumque fuerit de duobus, ter multiplicatus aut septimum
aut nonum explicat mensem.
18. Haec de prima septenarii copulatione libata sint.
Secunda de duobus et quinque est. Ex his dyas, quia post
monada prima est, primus est numerus. Haec ab illa omnipo­
tentia solitaria in corporis intellegibilis lineam prima defluxit,
ideo et ad uagas stellarum et luminum sphaeras refertur quia
hae quoque ab illa quae ccrrXavris dicitur in numerum scissae
et in uarii motus contrarietatem retortae sunt. Hic ergo nume­
rus cum quinario aptissime iungitur, cum hic ad errantes, ut
diximus, ad caeli zonas ille referatur, sed ille ratione scissionis,
hic numero.
19. Illa uero quinario numero proprietas excepta potentiae
ultra ceteras eminentis euenit quod solus omnia quaeque sunt
quaeque uidentur esse complexus est (esse autem dicimus
intellegibilia, uideri esse corporalia omnia, seu diuinum corpus
habeant seu caducum. Hic ergo numerus simul omnia et supe­
ra et subiecta designat). 2 0 . Aut enim deus summus est aut
mens ex eo nata in qua rerum species continentur, aut mundi
anima quae animarum omnium fons est, aut caelestia sunt
usque ad nos, aut terrena natura est: et sic: quinarius rerum
omnium numerus impletur.
21. De secunda septenarii numeri coniunctione dicta haec
pro affectatae breuitatis necessitate sufficiant. Tertia est de tri­
bus et quattuor quae quantum ualeat reuoluamus.
2 2 . Geometrici corporis ab impari prima planities in tribus
lineis constat (his enim trigonalis forma concluditur); a pari
natura così fecondo, che, come se fosse arbitro del punto di
maturità del feto, completa il parto umano più precoce 10°. 17.
Ecco, secondo Ippocrate, come si può determinare, nell’utero,
il sesso del nascituro. Il feto si muove il settantesimo o il novan­
tesimo giorno della concezione: l’uno o l’altro di questi nume­
ri, moltiplicato per tre, darà un risultato equivalente al nume­
ro di giorni compresi in sette o nove mesi. 101
18. Tanto basti per le proprietà della prima combinazione
con cui si compone il numero sette. La seconda è quella forma­
ta da due e cinque. Occupiamoci della diade, che, poiché viene
subito dopo la monade, è il primo numero 102. Essa, scorrendo
dall’onnipotenza solitaria, passò per prima nella linea, che è
propria del corpo intelligibile 103. La sua relazione con le sfere
erranti dei pianeti e dei luminari è dunque evidente, poiché
anch’esse si sono separate, fino a formare un numero, dalla
sfera chiamata ànhavris [fìssa] e costrette ad ubbidire ad un
moto contrario, secondo la varietà dei loro moti 104. L’unione
di questo numero col cinque è di conseguenza ottima, visto,
come si è detto, i rapporti del primo con i corpi luminosi erran­
ti e quelli del numero cinque con le zone del cielo 105, questo
però, nel primo caso (il due), in funzione del processo di divi­
sione e, nel secondo (il cinque), in base al numero.
19. Tra le proprietà del numero cinque ce n’è una molto
importante: esso da solo abbraccia tutto ciò che esiste e tutto
ciò che sembra esistere (per ciò che esiste intendiamo tutte le
cose intelligibili e per ciò che sembra esistere tutto ciò che è
corporeo, che abbia un corpo divino o uno corruttibile). Ne
consegue che questo numero rappresenta l’insieme di tutte le
cose che esistono, sia superiori sia inferiori 106. 20. «Esistono»
infatti il Dio supremo, l’intelletto da lui generato che com­
prende tutte le idee delle cose, l’Anima del Mondo, fonte di
tutte le anime, le regioni celesti che giungono fino a noi e, infi­
ne, la natura terrestre: in questo modo si ottiene il numero cin­
que, che ingloba la totalità delle cose.
21. La concisione che ci siamo imposti come regola non ci
permette di dire altro rispetto a quello che abbiamo detto sulla
seconda coppia del numero sette 107. Passiamo ad esaminare il
potere della terza coppia, ossia dei numeri tre e quattro 108.
2 2 . La prima superficie di un corpo geometrico, a partire dal
numero dispari, è quella delimitata da tre linee (che racchiudo-
uero prima in quattuor inuenitur. 23. Item scimus secundum
Platonem, id est secundum ipsius ueritatis arcanum, illa forti
inter se uinculo conligari quibus interiecta medietas praestat
uinculi firmitatem. Cum uero medietas ipsa geminatur, ea quae
extima sunt non tenaciter tantum, sed etiam insolubiliter uin-
ciuntur. Primo ergo ternario contigit numero ut inter duo
summa medium quo uinciretur acciperet; quaternarius uero
duas medietates primus omnium nactus est.
24. Quas ab hoc numero deus mundanae molis artifex con-
ditorque mutuatus, insolubili inter se uinculo elementa deuin-
xit, sicut in Timaeo Platonis adsertum est, non aliter tam con-
trouersa sibi ac repugnantia et naturae communionem abnuen­
tia permisceri — terram dico et ignem — potuisse et per tam
iugabilem competentiam foederari, nisi duobus mediis aeris et
aquae nexibus uincirentur. 25. Ita enim elementa inter se
diuersissima opifex tamen deus ordinis oportunitate conexuit
ut facile iungerentur. Nam cum binae essent in singulis quali­
tates, talem unicuique de duabus alteram dedit ut in eo cui
adhaereret cognatam sibi et similem reperiret. 26. Terra est
sicca et frigida, aqua uero frigida et humecta est. Haec duo ele­
menta, licet sibi per siccum humectumque contraria sint, per
frigidum tamen commune iunguntur. Aer humectus et calidus
est, et cum aquae frigidae contrarius sit calore, conciliatione
tamen socii copulatur humoris. Super hunc ignis, cum sit cali­
dus et siccus, humorem quidem aeris respuit siccitate, sed
conectitur per societatem caloris. 27. Et ita fit ut singula quae­
que elementorum duo sibi hinc inde uicina singulis qualitati­
bus uelut quibusdam amplectantur ulnis: aqua terram frigore,
aerem sibi nectit humore; aer aquae humecto simili et igni calo­
re sociatur; ignis aeri miscetur ut calido, terrae iungitur siccità-
no, infatti, la forma triangolare); mentre la prima, sul versante
del numero pari, risulta di quattro linee 109. 23. Nondimeno
apprendiamo da Platone n0, cioè dagli arcani della verità stes­
sa, che quei corpi sono uniti tra essi da una potente catena,
quando la loro congiunzione si opera con l’aiuto di un medio
comune che funge da solida catena. Quando poi questo medio
è duplicato, quest’unione dei due estremi è non solamente
salda, ma indissolubile. Il numero tre è dunque il primo ad
aver ricevuto un elemento medio tra due estremi dal quale è
legato, invece il quattro è il primo di tutti i numeri ad essere
dotato di due medi.
24. E di questi due medi del numero quattro che fece uso
l’architetto e fondatore della massa del mondo per legare indis­
solubilmente gli elementi tra essi, come Platone afferma nel
suo Timeo. Mai, infatti, degli elementi così opposti, così discor­
danti e refrattari ad unirsi naturalmente — sto parlando della
terra e del fuoco — , si sarebbero potuti mescolare e avrebbe­
ro potuto costituire un rapporto proporzionale 111 tale da faci­
litarne l’unione, se non fossero state collegate da due nessi
intermedi come l’aria e l’acqua. 25. Infatti, elementi così diver­
si tra essi sono stati connessi dal dio artefice in un ordine che
facilitasse la loro congiunzione. Siccome ciascuno di essi era
dotato di due qualità proprie, il dio ha fatto in modo che si tro­
vasse nell’elemento col quale era in contatto una qualità affine
e simile ad una di queste sue due proprietà. 26. La terra è secca
e fredda, l’acqua, a sua volta, fredda ed umida. Questi due ele­
menti, benché siano incompatibili per il secco e l’umido, sono
uniti dal freddo che hanno in comune. L’aria è umida e calda
ed essendo quest’ultima proprietà in opposizione al freddo
dell’acqua, l’umidità è il punto di congiunzione di questi due
elementi. Al di sopra dell’aria è posto il fuoco che è secco e
caldo e quindi la sua secchezza e l’umidità dell’aria si respingo­
no reciprocamente, ma il caldo che condividono ne cementa
l’unione. 27. E così che ogni elemento dà per così dire il brac­
cio ai due vicini che lo affiancano attraverso una delle sue qua­
lità. L’acqua si unisce alla terra con il freddo, all’aria con l’umi­
dità; l ’aria si unisce all’acqua con l’umido, al fuoco con il calo­
re. Il fuoco si mette in contatto con l’aria con il caldo e si uni­
sce alla terra per la sua secchezza; infine, la terra che aderisce
te; terra ignem sicco patitur, aquam frigore non respuit. 28.
Haec tamen uarietas uinculorum, si elementa duo forent, nihil
inter ipsa firmitatis habuisset; si tria, minus quidem ualido, ali­
quo tamen nexu uincienda nodaret; inter quattuor uero inso­
lubilis conligatio est cum duae summitates duabus interiectio-
nibus uinciuntur.
Quod erit manifestius si in medio posuerimus ipsam conti­
nentiam sensus de Timaeo Platonis excerptam. 29. «Divini
decoris, inquit, ratio postulabat talem fieri mundum qui et
uisum pateretur et tactum. Constabat autem neque uideri ali­
quid posse sine ignis beneficio, neque tangi sine solido et soli­
dum nihil esse sine terra. 30. Vnde omne mundi corpus de igne
et terra instituere fabricator incipiens uidit duo conuenire sine
medio colligante non posse, et hoc esse optimum uinculum
quod et se pariter et a se liganda deuinciat; unam uero interlec­
tionem tunc solum posse sufficere cum superficies sine altitu­
dine uincienda est; at ubi artanda uinculis est alta dimensio,
nodum nisi gemina interiectione non necti. 31. Inde aerem et
aquam inter ignem terramque contexuit, et ita per omnia una
et sibi conueniens iugabilis competentia cucurrit, elemento­
rum diuersitatem ipsa differentiarum aequalitate consocians.»
32. Nam quantum interest inter aquam et aerem causa densita­
tis et ponderis, tantundem inter aerem et ignem est. Et rursus
quod interest inter aerem et aquam causa leuitatis et raritatis,
hoc interest inter aquam et terram. Item quod interest inter
terram et aquam causa densitatis et ponderis, hoc interest inter
aquam et aerem, et quod inter aquam et aerem, hoc inter
aerem et ignem. Et contra quod interest inter ignem et aerem
tenuitatis leuitatisque causa, hoc inter aerem et aquam est, et
quod est inter aerem et aquam, hoc inter aquam intellegitur et
terram. 33. Nec solum sibi uicina et cohaerentia comparantur,
al fuoco con il secco, non respinge l’abbraccio dell’acqua a
causa del freddo. 28. Eppure, se non ci fossero stati che due
elementi, questa diversità di legami non avrebbe apportato alla
loro unione alcuna solidità; se fossero stati tre, avrebbe certa­
mente allacciato un legame tra gli elementi da unire, ma meno
resistente; tra quattro elementi, invece, si forma un collega­
mento indissolubile, dal momento che le due estremità sono
legate dai due intermedi.
Tutto ciò apparirà più chiaramente se esamineremo il con­
tenuto stesso del pensiero attraverso un passo estratto dal
Timeo di Platone 112. 29. «La ragione della maestà divina» dice
questo filosofo «postulava la produzione di un mondo visibile
e tattile. Ora, senza il dono del fuoco, era evidente che niente
sarebbe stato visibile; senza la solidità che niente si sarebbe
potuto toccare e che senza la terra niente avrebbe potuto esi­
stere di solido. 30. Il demiurgo così, disponendosi a formare
l’intero corpo dell’universo per mezzo del fuoco e della terra,
vide che questi due elementi non si sarebbero potuti unire se
non con l’aiuto di un termine medio che facesse da legamento
e che il miglior vincolo sarebbe stato quello che tenesse uniti se
stesso e gli elementi da collegare. Quindi vide che un solo
intermedio sarebbe bastato a legare delle superfici senza altez­
za, ma che, occorrendo legare anche la dimensione dell’altez­
za, il legamento non sarebbe riuscito se non vi fossero stati due
intermedi. 31. Perciò, inserì l’aria e l’acqua tra il fuoco e la
terra; così quest’accostamento è percorso da un rapporto pro­
porzionale tra il tutto e le sue parti, che mantiene l’insieme di
elementi dissimili utilizzando l’uguaglianza stessa delle loro
differenze». 32. Difatti, c e tra l ’acqua e l ’aria la stessa differen­
za di peso e di densità che c’è tra l’aria e il fuoco. D ’altra parte,
tra l’aria e l’acqua esiste la stessa differenza di rarefazione e di
leggerezza che si ritrova tra l’acqua e la terra. Ugualmente, esi­
ste tra la terra e l’acqua una differenza di peso e di densità
uguale a quella che si trova tra l’acqua e l’aria, e, sotto questi
due aspetti, questa differenza è la stessa tra l’acqua e l’aria
come tra l’aria e il fuoco. All’opposto, la differenza che c ’è per
rarefazione e leggerezza tra il fuoco e l’aria è come quella tra
l’aria e l’acqua e la stessa differenza tra l’aria e l’acqua si rico­
nosce tra l’acqua e la terra. 33. Questi rapporti non si verifica-
sed eadem alternis saltibus custoditur aequalitas. Nam quod
est terra ad aerem, hoc est aqua ad ignem, et quotiens uerteris,
eandem reperies iugabilem competentiam. Ita ex ipso quo
inter se sunt aequabiliter diuersa sociantur.
34. Haec eo dicta sunt ut aperta ratione constaret neque
planitiem sine tribus neque soliditatem sine quattuor posse
uinciri. Ergo septenarius numerus geminam uim obtinet uin-
ciendi, quia ambae partes eius uincula prima sortitae sunt, ter­
narius cum una medietate, quaternarius cum duabus. Hinc in
alio loco eiusdem somnii Cicero de septenario dicit: «qui
numerus rerum omnium fere nodus est.»
35. Item omnia corpora aut mathematica sunt alumna geo­
metriae aut talia quae uisum tactumue patiantur. Horum prio­
ra tribus incrementorum gradibus constant. Aut enim linea
crescit ex puncto, aut ex linea superficies, aut ex planitie soli­
ditas. Altera uero corpora quattuor elementorum conlato teno­
re in robur substande corpulentae concordi concretione coale­
scunt. 36. Nec non omnium corporum tres sunt dimensiones:
longitudo, latitudo, profunditas; termini adnumerato effectu
ultimo, quattuor: punctum, linea, superficies et ipsa soliditas.
Item, cum quattuor sint elementa ex quibus constant cor­
pora — terra, aqua, aer et ignis — , tribus sine dubio interstitiis
separantur, quorum unum est a terra usque ad aquam, ab aqua
usque ad aerem sequens, tertium ab aere usque ad ignem. 37.
Et a terra quidem usque ad aquam spatium Necessitas a physi­
cis dicitur, quia uincire et solidare creditur quod est in corpo­
ribus lutulentum; unde Homericus censor, cum Graecis impre­
caretur: «uos omnes, inquit, in terram et aquam resoluamini»,
in id dicens quod est in natura humana turbidum, quo facta est
homini prima concretio. 38. Illud uero quod est inter aquam et
aerem Harmonia dicitur, id est apta et consonans conuenien-
tia, quia hoc spatium est quod superioribus inferiora conciliat
no soltanto tra gli elementi vicini e contigui, ma la stessa sim­
metria si mantiene anche negli elementi alterni. Il medesimo
rapporto di proporzione della terra nei confronti dell’aria è
come quello dell’acqua nei confronti del fuoco e, in senso
inverso, si otterrà la stessa proporzione che li collega tra loro.
In questo modo gli elementi risultano associati grazie alla sim­
metria delle loro differenze.
34. Quanto è appena stato detto, mostra chiaramente che
una superficie non può essere legata senza tre elementi, né un
solido senza quattro. Il numero sette ha in sé, perciò, una dop­
pia capacità coercitiva, perché i suoi due componenti sono
stati dotati per primi della facoltà di legare le loro parti, il tre
con un solo medio e il quattro con due. Per questo Cicerone in
un altro passo sempre del Sogno, dice, a proposito del sette:
«numero che è il nodo di quasi tutte le cose» 113.
35. Ugualmente tutti i corpi sono matematici, figli della
geometria, o tali da essere sensibili alla vista e al tatto. I primi
risultano da tre gradi d’incremento. La linea, infatti, proviene
dal punto, la superficie dalla linea e il solido dalla superficie U4.
Gli altri corpi invece, a causa della capacità coesiva dei quattro
elementi, si fondono con un assemblaggio coerente in una
sostanza saldamente corporea. 36. Inoltre, tutti i corpi hanno
tre dimensioni, lunghezza, larghezza e profondità; hanno quat­
tro limiti, ivi compreso il risultato finale: il punto, la linea, la
superficie ed il solido vero e proprio 115.
Similmente, essendo gli elementi costitutivi dei corpi in
numero di quattro — terra, acqua, aria e fuoco — , essi sono
certamente separati da tre interstizi: uno tra la terra e l’acqua,
un altro tra l’acqua e l’aria ed un terzo tra l’aria e il fuoco. 37.
Lo spazio che intercorre tra la terra e l’acqua ha ricevuto dai
fisici il nome di «Necessità», perché ha, si crede, la facoltà di
legare e di solidificare la componente fangosa dei corpi, donde
quelle parole del censore omerico, quando copriva i Greci
d’imprecazioni: «Che voi tutti possiate dissolvervi in terra e in
acqua!» 116 con ciò intendendo quanto nella natura umana vi è
di torbido, con cui fu fatta la prima concrezione dell’uomo. 38.
L’intervallo tra l’acqua e l’aria si chiama, invece, «Armonia»,
cioè accordo giusto e consonante, perché è lo spazio che con­
giunge gli elementi inferiori e quelli superiori e che mette in
et facit dissona conuenire. 39. Inter aerem uero et ignem
Oboedientia dicitur quia, sicut lutulenta et grauia superioribus
Necessitate iunguntur, ita superiora lutulentis Oboedientia
copulantur, Harmonia media coniunctionem utriusque prae-
stante.
40. Ex quattuor igitur elementis et tribus eorum interstitiis
absolutionem corporum constare manifestum est. Ergo hi duo
numeri, tria dico et quattuor, tam multiplici inter se cognatio­
nis necessitate sociati, efficiendis utrisque corporibus consen­
su ministri foederis obsequuntur. 41. Nec solum explicandis
corporibus hi duo numeri conlatiuum praestant fauorem, sed
quaternarium quidem Pythagorei, quem T E T p a K T Ù v uocant,
adeo quasi ad perfectionem animae pertinentem inter arcana
uenerantur, ut ex eo et iuris iurandi religionem sibi fecerint:
ànerépa v y v x à napaSóvTa t e t p o c k t ù v
o ù nòe t ò v
«per qui nostrae animae numerum dedit ipse quaternum».
42. Ternarius uero adsignat animam tribus suis partibus
absolutam, quarum prima est ratio quam À o y iO T iK Ó v appel­
lant, secunda animositas quam 0 U | ìik ó v uocant, tertia cupidi­
tas quae ÈTTi0upr)TiKÓu nuncupatur.
43. Item nullus sapientum animam ex symphoniis quoque
musicis constitisse dubitauit. Inter has non paruae potentiae
est quae dicitur S ia u a a c o v . Haec constat ex duabus, id est
8 ict TEooàpcov et S ia t t e v t e . Fit autem Sia t t e v t e ex hemio-
lio et fit Sia T E o o à p c o v ex epitrito; et est primus hemiolius
tria et primus epitritus quattuor. Quod quale sit suo loco pla­
nius exsequemur. 44. Ergo ex his duobus numeris constat Sta
T E a a à p c o v et Sia t t e v t e , ex quibus Sia i r a a c b v symphonia
generatur; unde Vergilius, nullius disciplinae expers plene et
per omnia beatos exprimere uolens ait:
o terque quaterque beati.
45. Haec de partibus septenarii numeri sectantes compen­
dia diximus. De ipso quoque pauca dicemus.
accordo le parti dissonanti. 39. Si chiama «Obbedienza» l’in­
terstizio tra l’aria e il fuoco; poiché, come i corpi pesanti e fan­
gosi e i corpi più leggeri sono uniti per mezzo della Necessità,
così i corpi superiori sono legati a quelli fangosi per O bbe­
dienza, mentre l’Armonia è il giusto mezzo che garantisce la
congiunzione tra gli uni e gli altri.
40. E dunque chiaro che la perfezione dei corpi esige il con­
corso dei quattro elementi e dei loro tre interstizi. 117 Perciò
questi due numeri — intendo il tre e il quattro — , uniti tra loro
per vincoli necessari così complessi, si prestano, accordandosi
su un patto d’assistenza, alla formazione di entrambi i tipi di
corpi 11S. 41. Non solo questi due numeri si aiutano vicende­
volmente nel formare i corpi, ma i Pitagorici venerano a tal
punto tra i misteri il quattro, che chiamano TETpaKTÙg 1iy,
come se quel numero fosse pertinente alla perfezione dell’ani­
ma, che basano su di esso la formula sacra del loro giuramen­
to così concepito:
où u à t ò v à | i E T É p a i f ' u x ? f r a p a S ó v T a t e t p o c k t ù v
«no, per colui che diede alla nostra anima il numero quattro». 120
42. Il numero tre, poi, designa l’anima il cui insieme si divi­
de nelle sue tre parti: la prima delle quali è la ragione, chiama­
ta XoyiaTiKÓu, la seconda l’irascibilità, detta QupiKÓv, la terza
la concupiscenza, detta è t t i G u i ì t ì t i k ó v m .
43. Allo stesso modo, nessuno fra i sapienti ha mai dubita­
to che l’anima consista di accordi musicali 122. Tra questi ha
non poca importanza quello chiamato Sia T t a a c o v [ottava]
che risulta da questi due: dal Sia T E o o à p c o v e dal Sia t t e v t e ,
[quarta e quinta]. Il Sia t t e v t e deriva poi dalTemiolio e il Sia
T E a a à p c o v dall’epitrito: il primo emiolio è tre, il primo epitri­
to quattro. Vedremo in seguito quale sia e in cosa consista que­
sto rapporto. 44. Il Sia T E o o à p c o v e il Sia t t e v t e che genera­
no l’armonia del Sia T r a a c ò v si costituiscono quindi da questi
due numeri. 123 Così Virgilio, cui nessuna scienza è estranea,
quando vuole parlare di uomini pienamente e completamente
felici, dice:
Oh tre fiate fortunati e quattro! 124
45. Abbiamo appena trattato sommariamente le parti del
numero sette; diremo adesso qualche parola sul numero in sé.
Hic numerus e t t t c is nunc uocatur, antiquato usu primae
litterae ; apud ueteres enim oetttc^ uocitabatur, quod Graeco
nomine testabatur uenerationem debitam numero. Nam primo
omnium hoc numero anima mundana generata est, sicut
Timaeus Platonis edocuit. 46. Monade enim in uertice locata,
terni numeri ab eadem ex utraque parte fluxerunt, ab hac
pares, ab illa impares; id est post monadem a parte altera duo,
inde quattuor, deinde octo, ab altera uero parte tria, deinde
nouem, et inde uiginti septem: ex his numeris facta contextio
generationem animae imperio creatoris effecit, 47. Non parua
ergo hinc potentia numeri huius ostenditur quia mundanae
animae origo septem finibus continetur, septem quoque uagan-
tium sphaerarum ordinem illi stelliferae et omnes continenti
subiecit artifex fabricatoris prouidentia, quae et superioris
rapidis motibus obuiarent et inferiora omnia gubernarent.
48. Lunam quoque, quasi ex illis septimam, numerus septe­
narius mouet cursumque eius ipse dispensat. Quod cum mul­
tis modis probetur, ab hoc incipiat ostendi: 49. luna octo et
uiginti prope diebus totius zodiaci ambitum conficit. Nam etsi
per triginta dies ad solem a quo profecta est remeat, solos
tamen fere uiginti octo in tota zodiaci circumitione consumit,
reliquis solem qui de loco in quo eum reliquit accesserat, con-
prehendit. 50. Sol enim unum de duodecim signis integro
mense metitur. Ponamus ergo, sole in prima parte Arietis con­
stituto, ab ipsius, ut ita dicam, orbe emersisse lunam, quod
eam nasci uocamus. Haec post uiginti septem dies et horas fere
octo ad primam partem Arietis redit. Sed illic non inuenit
solem: interea enim et ipse, progressionis suae lege, ulterius
accessit, et ideo ipsa necdum putatur eo unde profecta fuerat
reuertisse, quia oculi nostri tunc non a prima parte Arietis, sed
a sole eam senserant processisse. Hunc ergo diebus reliquis, id
Questo numero è ora chiamato èirras, essendo ormai
arcaico Fuso della prima lettera; fra gli antichi infatti esso era
chiamato o e t t t c c $, il cui nome greco testimonia appunto la
venerazione tributata a questo numero 125. Infatti, come inse­
gna il Timeo di Platone I26, è da questo numero, il primo fra
tutti, che fu generata l’Anima del Mondo. 46. Difatti, posta la
monade al vertice, vediamo discendere da entrambe le parti di
essa, tre numeri, da una parte i numeri pari e dall’altra i dispa­
ri, ossia, dopo la monade, da un lato il due, poi il quattro e
quindi l’otto, dall’altro lato il tre, poi il nove e quindi il venti­
sette. E dall’accostamento di questi numeri che, secondo l’or­
dine del demiurgo, si generò l ’Anima. 47. Il fatto che l’origine
dell’Anima del Mondo è racchiusa da sette limiti manifesta
dunque l’eminente potenza di questo numero. Vediamo anche
che la provvidenza costruttrice, diretta dall’eterno Architetto,
ha posto in un ordine reciproco, al di sotto del mondo stellife­
ro che contiene tutti gli altri, sette sfere erranti, col compito di
temperare la velocità dei movimenti della sfera superiore e di
governare tutti i corpi inferiori 127.
48. Anche la luna, che occupa il settimo rango tra questi
pianeti, è sottomessa all’azione del numero sette che regola il
suo corso. Se ne possono dare innumerevoli prove, ma comin­
ciamo la dimostrazione da questa: 49. la luna utilizza circa ven-
totto giorni per percorrere lo zodiaco. Perché, sebbene ritorni
solamente in congiunzione col sole alla fine di trenta giorni,
tuttavia impiega solo circa ventotto giorni per fare un giro
completo dello zodiaco, e nel tempo rimanente essa raggiunge
il sole, perché quest’astro non si ritrova più nel punto dove l’a­
veva lasciato. 50. Il sole, infatti, impiega un mese intero per
attraversare uno solo dei dodici segni. Supponiamo dunque
che, essendo il sole al primo grado dell’Ariete, la luna sia emer­
sa per così dire dal cerchio di questo, o che, come diciamo,
«nasca». Circa ventisette giorni e otto ore dopo 128, la luna
ritorna di nuovo in questo primo grado dell’Ariete. Ma non
ritrova più il sole che, nel frattempo, è andato oltre nella sua
orbita, secondo le leggi che ne regolano la progressione e se
non ci accorgiamo che la luna è tornata nel punto da cui era
partita, è perché allora i nostri occhi non l’avevano vista proce­
dere dal primo grado dell’Ariete, ma dal sole. Le occorrono
est duobus plus minusue, consequitur, et tunc, orbi eius denuo
succedens ac denuo inde procedens, rursus dicitur nasci. 51.
Inde fere numquam in eodem signo bis continuo nascitur, nisi
in Geminis, ubi hoc non numquam euenit, quia dies in eo sol
duos supra triginta altitudine signi morante consumit; rarissi­
mo in aliis, si circa primam signi partem a sole procedat. 52.
Huius ergo uiginti octo dierum numeri septenarius origo est.
Nam si ab uno usque ad septem quantum singuli numeri expri­
munt tantum antecedentibus addendo procedas, inuenies
uiginti octo nata de septem.
53. Hunc etiam numerum, qui in quater septenos aequa
sorte digeritur, ad totam zodiaci latitudinem emetiendam
remetiendamque consumit. Nam septem diebus ad extremita­
te septemtrionalis orae oblique per latum meando ad medieta­
tem latitudinis peruenit — qui locus appellatur eclipticus — ,
septem sequentibus a medio ad imum australe delabitur, sep­
tem aliis rursus ad medium obliquata conscendit, ultimis sep­
tem septentrionali redditur summitati. Ita isdem quater septe­
nis diebus omnem zodiaci et longitudinem et latitudinem cir­
cum perque discurrit.
54. Similibus quoque dispensationibus hebdomadum lumi­
nis sui uices sempiterna lege uariando disponit. Primis enim
septem usque ad medietatem uelut diuisi orbis excrescit, et
5 ixótoho$ tunc uocatur; secundis orbem totum renascentes
ignes colligendo iam complet, et plena tunc dicitur; tertiis
S ixotomos rursus efficitur cum ad medietatem decrescendo
contrahitur, quartis ultima luminis sui diminutione tenuatur.
55. Septem quoque permutationibus quas cpaosis uocant
toto mense distinguitur: cum nascitur, cum fit S ixotouoc;, et
cum fit cinqHKupTos, cum plena, et rursus ànqnKupxos, ac
dunque ancora i giorni che restano, pressappoco due giorni,
per seguirlo e ritornare, in quel momento, in congiunzione
all’orbita di esso, da dove procede di nuovo da questo, dicen­
dosi ancora una volta che «nasce». 51. Ne consegue che la luna
non «nasce» quasi mai due volte di seguito nello stesso segno,
se non talvolta nei Gemelli, perché, ritardato a causa dell’alto
punto d’elevazione di questo segno, il sole impiega due giorni
in più dei trenta 129; ma ciò si verifica assai raramente negli altri
segni, quando la luna si allontana dalla congiunzione col sole
nel primo grado del segno. 52. Il sette è dunque l’origine di
questo numero di ventotto giorni. Infatti, se nei numeri dall’u­
no al sette si somma progressivamente il valore numerico di
ognuno di essi a quello che segue, si ha per risultato che il ven­
totto nasce dal sette. 1J0
53. E ancora di questo numero, diviso in quattro parti ugua­
li del valore di sette, che la luna ha bisogno per attraversare
avanti e indietro l’intera estensione dello zodiaco. Infatti, par­
tita dal punto più settentrionale dell’orizzonte, arriva, dopo un
moto obliquo di sette giorni, nella metà di questo percorso, nel
punto chiamato eclittica. Continuando a scendere durante altri
sette giorni, dal punto medio raggiunge l’estremità australe più
bassa; di là, per una linea ascendente e sempre obliqua, nei
sette giorni successivi, guadagna il punto medio, e, infine, negli
ultimi sette giorni, si ritrova al limite settentrionale. Così, in
quattro volte sette giorni, ha percorso tutto lo zodiaco in lun­
ghezza e in larghezza, in circolo e di traverso m .
54. E anche con simile ripartizione di sette giorni che la lu­
na ci presenta le fasi della sua luce, con modificazioni che se­
guono una legge invariabile. Durante i primi sette giorni essa
cresce progressivamente e si mostra sotto forma della metà di
un cerchio diviso ed è quindi chiamata Si^ÓTopo^ [tagliato in
due]; nella seconda ebdomade, dopo aver raccolto i suoi fuo­
chi rinascenti, completa l’intero suo disco e la chiamiamo allo­
ra piena; dopo tre volte, ridiviene 5ixÓTopo$, in quanto decre­
scendo ridiventa metà; infine, nel quarto periodo, la sua luce
diminuisce ulteriormente e finisce per sparire ai nostri o cch i1,2.
55. Nel corso di un mese intero, conosce così sette aspetti
diversi, chiamati cpdaeis [fasi]: quando nasce, quando diventa
S ixótohos, quando diventa àncpiKupxoj [con due corni],
denuo 5 ixótoho$, et cum ad nos luminis uniuersitate priuatur.
56. ’AucpiKUpfos est autem cum supra diametrum dichotomi
antequam orbis conclusione cingatur uel de orbe iam minuens
inter medietatem ac plenitudinem insuper mediam luminis
curuat eminentiam.
57. Sol quoque ipse de quo uitam omnia mutuantur, septi­
mo signo uices suas uariat. Nam a solstitio hiemali ad aestiuum
solstitium septimo peruenit signo, et a tropico uerno usque ad
auctumnale tropicum septimi signi peragratione perducitur.
58. Tres quoque conuersiones lucis aetheriae per hunc
numerum constat. Est autem prima maxima, secunda media,
minima est tertia; et maxima est anni secundum solem, media
mensis secundum lunam, minima diei secundum ortum et
occasum. 59. Est uero una quaeque conuersio quadripartita, et
ita constat septenarius numerus, id est ex tribus generibus
conuersionum et ex quattuor modis quibus una quaeque
conuertitur. Hi sunt autem quattuor modi: fit enim prima
humida, deinde calida, inde sicca et ad ultimum frigida. 60. Et
maxima conuersio, id est anni, humida est uerno tempore, cali­
da aestiuo, sicca autumno, frigida per hiemem. Media autem
conuersio, mensis per lunam, ita fit ut prima sit hebdomas
humida, quia nascens luna humorem adsolet concitare; secun­
da calida, adolescente in eadem luce de solis aspectu; tertia
sicca, quasi plus ab ortu remota; quarta frigida, deficiente iam
lumine. Tertia uero conuersio, quae est diei secundum ortum
et occasum, ita disponitur quod humida sit usque ad primam
de quattuor partibus partem diei, calida usque ad secundam,
sicca usque ad tertiam, quarta iam frigida.
61. Oceanus quoque in incremento suo hunc numerum
tenet. Nam primo nascentis lunae die fit copiosior solito,
minuitur paulisper secundo, minoremque eum uidet tertius
quando è piena, viceversa quando ridiventa cxuqnKupTOj, e
quindi di nuovo SixÓTopos e, infine, quando non c’invia più
alcuna luce. 56. La si chiama cxnqnKupTos, quando, essendo
crescente, supera il diametro del dichotomos pur non essendo
ancora divenuta piena, o quando, nella sua fase già calante, tra
la metà e la pienezza, s’incurva con una parte illuminata mag­
giore della sua metà 133.
57. Anche il sole, da cui tutto trae vita, regola le sue varia­
zioni periodiche ad ogni settimo segno. Infatti è arrivato al set­
timo segno, quando il solstizio d’estate succede a quello d’in­
verno e parimenti, durante la rivoluzione del settimo segno, l’e­
quinozio di autunno prende il posto di quello di primavera.
58. Questo numero influisce anche sui tre cicli della luce
eterea. Il primo è quello massimo, il secondo è quello medio e
il terzo è il minimo. Quello massimo è annuale, secondo il
corso del sole; il secondo o medio è mensile e secondo il corso
della luna; il terzo, che è anche il minimo, è la rivoluzione diur­
na, dal sorgere al tramonto del sole. 59. D ’altra parte, ciascuno
di questi tre cicli è quadripartito e così risulta il numero sette,
ossia dalla somma dei tre tipi di ciclo e delle quattro fasi in cui
avviene ogni ciclo. Le quattro fasi sono queste: un ciclo è al
principio umido, poi caldo, quindi secco e, per ultimo, freddo.
60. Il ciclo massimo, cioè annuo, è umido in primavera, caldo
in estate, secco in autunno e freddo in inverno. La prima ebdo­
made del ciclo mensile, quello medio regolato dalla luna, è
umida, perché la luna nascente mette sempre in movimento le
sostanze acquose; la seconda settimana è calda, perché la luna
riceve allora dal sole una parte maggiore di luce; la terza è
secca, perché la luna, durante questo periodo, si trova nella
parte opposta a quella che l’ha vista nascere; infine, la quarta
settimana è fredda, perché la luce della luna comincia ormai a
scemare. In quanto al terzo ciclo, quello della rivoluzione diur­
na dall’alba al tramonto, esso è disposto in modo che la prima
delle quattro parti del giorno sia umida, calda durante il secon­
do quarto, secca durante il terzo e, infine, fredda durante l’ul­
timo quarto.
61. Anche l’oceano tiene nel debito conto il numero sette.
Infatti, le sue acque, giunto il giorno della luna nuova, sono più
copiose del solito, nel secondo giorno diminuiscono un po’, nel
quam secundus, et ita decrescendo ad diem septimum perue-
nit. Rursus octauus dies manet septimo par et nonus fit similis
sexto, decimus quinto, et undecimus fit quarto par tertioque
duodecimus, et tertius decimus similis fit secundo, quartus
decimus primo. Tertia uero hebdomas eadem facit quae prima;
quarta, eadem quae secunda.
62. Hic denique est numerus qui hominem concipi, forma­
ri, edi, uiuere, ali ac per omnes aetatum gradus tradi senectae
atque omnino constare facit. Nam ut illud taceamus quod ute­
rum nulla ui seminis occupatum hoc dierum numero natura
constituit uelut decreto exonerandae mulieris uectigali mense
redeunte purgari, hoc tamen praetereundum non est quia
semen, quod post iactum sui intra horas septem non fuerit in
effusionem relapsum, haesisse in uitam pronuntiatur.
63. Verum semine semel intra formandi hominis monetam
locato, hoc primum artifex natura molitur ut die septimo folli­
culum genuinum circumdet humori ex membrana tam tenui
qualis in ouo ab exteriore testa clauditur et intra se claudit
liquorem. 64. H oc cum a physicis deprehensum sit, H ippo­
crates quoque ipse, qui tam fallere quam falli nescit, experi­
menti certus adseruit, referens in libro qui De natura pueri
inscribitur tale seminis receptaculum de utero eius eiectum
quam septimo post conceptum die intellexerat. Mulierem
enim, semine non effuso, ne grauida maneret orantem impe-
rauerat saltibus concitari aitque septimo die saltum septimum
eiciendo cum tali folliculo qualem supra rettulimus suffecisse
conceptui. Haec Hippocrates.
terzo sono ancora minori del secondo e la diminuzione prose­
gue così di seguito fino al settimo giorno. Viceversa, queste
acque, alzandosi allora di nuovo, sono alla fine dell’ottavo gior­
no ciò che erano al principio del settimo, alla fine del nono
sono simili a ciò che erano al principio del sesto, al decimo
sono corrispondenti al quinto, l’undicesimo è uguale al quarto
e il dodicesimo al terzo, e il tredicesimo è simile al secondo, in
modo che alla fine del quattordicesimo giorno sono alla stessa
altezza in cui erano al primo giorno. Questo fenomeno ripete,
durante la terza ebdomade, quello che avviene durante la
prima, e durante la quarta lo stesso che nella seconda.
62. È infine secondo il numero sette che sono regolati gli
stadi della vita dell’uomo: il suo concepimento, la sua forma­
zione, la sua nascita, il suo sviluppo e tutti i gradi d’età fino alla
vecchiaia: insomma la sua esistenza 154. Non parleremo del
fatto che, per una legge della natura, l’utero che non è occupa­
to da un liquido seminale efficace impiega questo numero di
giorni stabiliti al volgere d’ogni mese per sbarazzarsi del tribu­
to al quale la donna è assoggettata come per decreto, tuttavia
una circostanza che non dobbiamo omettere è questa: quando
sono trascorse sette ore dall’eiaculazione del seme ed esso non
si è riversato fuori dall’utero, si dichiara che esso si sia impian­
tato per formare la vita.
63. Ma, una volta posto il seme all’interno della matrice che
serve a formare l’uomo, la natura artefice comincia prima di
tutto, il settimo giorno, ad avvolgere il liquido seminale di un
involucro fatto di una membrana tanto sottile quanto quella
che nell’uovo è racchiusa dal guscio esterno e contiene il liqui­
do. 64. A sostegno di questo fatto, noto a tutti i fisici, Ippo-
crate per parte sua, tanto incapace di ingannare quanto di sba­
gliarsi, ne ha dato una prova sperimentale riferendo, nel suo
trattato intitolato La natura del fanciullo 135, l’espulsione di un
simile embrione dall’utero di una donna che aveva riconosciu­
to incinta al settimo giorno dopo il concepimento. Infatti, sic­
come il seme non si era riversato fuori, e poiché la donna lo
pregava di evitargli una gravidanza, Ippocrate, allora, le ordi­
nò di saltare energicamente e racconta che sette giorni dopo, il
settimo salto fu sufficiente a far staccare l’ovulo dalla matrice,
col tegumento che abbiamo appena descritto. Tale è il raccon­
to di Ippocrate.
65. Straton uero Peripateticus et Diocles Carystius per sep­
tenos dies concepti corporis fabricam hac obseruatione
dispensant, ut hebdomade secunda credant guttas sanguinis in
superficie folliculi de quo diximus apparere, tertia demergi eas
introrsum ad ipsum conceptionis humorem, quarta humorem
ipsum coagulari ut quiddam uelut inter carnem ac sanguinem
liquida adhuc soliditate conueniat, quinta uero interdum fingi
in ipsa substantia humoris humanam figuram, magnitudine
quidem apis, sed ut in illa breuitate membra omnia et designa­
ta totius corporis liniamenta consistant. 66. Ideo autem adieri­
mus ‘interdum’ quia constat quotiens quinta hebdomade fingi­
tur designatio ista membrorum, mense septimo maturari par­
tum. Cum autem nono mense absolutio futura est, si quidem
femina fabricatur, sexta hebdomade membra iam diuidi; si
masculus septima.
67. Post partum uero, utrum uicturum sit quod effusum est,
an in utero sic praemortuum ut tantum modo spirans nascatur,
septima hora discernit. Vitra hunc enim horarum numerum,
quae praemortua nascuntur aeris halitum ferre non possunt.
Quem quisquis ultra septem horas sustinuerit, intellegitur ad
uitam creatus, nisi alter forte, qualis perfectum potest, casus
eripiat. 68. Item post dies septem iactat reliquias umbilici, et
post bis septem incipit ad lumen uisus moueri eius, et post sep­
ties septem libere iam et pupulas et totam faciem uertit ad
motus singulos uidendorum.
69. Post septem uero menses dentes incipiunt mandibulis
emergere, et post bis septem sedet sine casus timore. Post ter
septem sonus eius in uerba prorumpit, et post quater septem
65. Il peripatetico Stratone e Diocle di Caristo 136 organiz­
zano il modo di formazione del corpo, dopo il concepimento,
in periodi di sette giorni, sulla base delle osservazioni seguen­
ti: durante la seconda ebdomade pensano che appaiano sulla
superficie dell’embrione sopra menzionato delle gocce di san­
gue; nel corso della terza, penetrano nell’interno per congiun­
gersi al liquido del concepimento; lo stesso liquido si coagula
durante la quarta settimana per prendere una consistenza
intermedia tra la carne e il sangue, ancora per metà liquida e
per metà solida; ma, durante la quinta settimana, capita talvol­
ta che all’interno di questa stessa sostanza umorale si pronun­
ci una forma umana, la cui dimensione è allora quella di un’a­
pe, ma tale che si possano distinguere, pur in quella piccolez­
za, tutte le membra e i contorni ben disegnati del corpo
umano. 66. Se abbiamo qui aggiunto il termine «talvolta», è
perché è un fatto risaputo che ogni qual volta si delinea questa
configurazione precoce, nella quinta ebdomade, è il pronosti­
co del parto a sette mesi. Perché, nel caso di una gestazione di
nove mesi, la forma esterna delle membra si distingue bene
solamente verso la fine della sesta settimana, se l’embrione è
femmina, e alla fine della settima, se si tratta di un maschio.
67. Solo sette ore dopo il parto, si può stabilire se il neona­
to vivrà, o se, essendo già morto nell’utero, il suo primo soffio
è stato il suo ultimo respiro. Infatti, oltre a questo numero di
ore, è noto che gli esseri che sono venuti alla luce agonizzanti
non possono sopportare la pressione dell’aria. Chi la sopporta
oltre alle sette ore, mostra di essere fatto per vivere, salvo che
non lo porti via uno di quegli altri accidenti, sempre possibili
anche ad un bambino già completo. 68. E dopo il settimo gior­
no ancora che gli si staccano i resti del cordone ombelicale.
Dopo due volte sette giorni, i suoi occhi cominciano ad essere
sensibili all’azione della luce, e dopo sette volte sette giorni
volge infine liberamente le sue pupille e tutto quanto il suo
volto per seguire i diversi movimenti degli oggetti visibili.
69. A sette mesi compiuti, i suoi denti cominciano a spun­
tare dalle mandibole, e alla fine di due volte sette mesi si siede
senza timore di cadere. Dopo tre volte sette mesi, i suoni che
emette sono articolati in parole e, trascorsi quattro volte sette
mesi, il bambino non solo si tiene in piedi con sicurezza, ma
non solum stat firmiter, sed et incedit. Post quinquies septem
incipit lac nutricis horrescere, nisi forte ad patientiam longio­
ris usus continuata consuetudine protrahatur.
70. Post annos septem dentes qui primi emerserant aliis
aptioribus ad cibum solidum nascentibus cedunt, eodemque
anno, id est septimo, plene absoluitur integritas loquendi:
unde et septem uocales literae a natura dicuntur inuentae, licet
latinitas, easdem modo longas modo breues pronuntiando,
quinque pro septem tenere maluerit, apud quos tamen, si
sonos uocalium, non apices numeraueris, similiter septem
sunt.
71. Post annos autem bis septem ipsa aetatis necessitate
pubescit. Tunc enim moueri incipit uis generationis in mascu­
lis et purgatio feminarum. Ideo et tutela puerili quasi uirile iam
robur absoluitur, de qua tamen feminae, propter uotorum
festinationem, maturius biennio legibus liberantur.
72. Post ter septenos annos genas flore uestit iuuenta,
idemque annus finem in longum crescendi facit: et quarta
annorum hebdomas impleta in latum quoque crescere ultra
iam prohibet.
73. Quinta omne uirium, quantae inesse uni cuique pos­
sunt, complet augmentum, nulloque modo iam potest quis­
quam se fortior fieri. Inter pugiles denique haec consuetudo
seruatur ut, quos iam coronauere uictoriae, nihil de se amplius
in incremento uirium sperent, qui uero expertes huius gloriae
usque illo manserunt, a professione discedant.
74. Sexies uero septeni anni seruant uires ante collectas, nec
diminutionem nisi ex accidenti euenire patiuntur. Sed a sexta
usque ad septimam septimanam fit quidem diminutio, sed
occulta et quae detrimentum suum aperta defectione non pro­
dat. Ideo nonnullarum rerum publicarum hic mos est, ut post
sextam ad militiam nemo cogatur; in pluribus datur remissio
iusta post septimam.
anche i suoi passi sono decisi. Quando ha raggiunto cinque
volte sette mesi, il bimbo prova un principio di disgusto per il
latte della sua nutrice e se lo tollera per un più lungo periodo
di tempo è solamente per la forza dell’abitudine.
70. A sette anni compiuti, i suoi denti spuntati per primi
sono sostituiti da altri più adatti alla masticazione di cibi soli­
d i137 ed è anche a questa età, cioè nel settimo anno, che il
bimbo impara a parlare chiaramente. Ecco ciò che ha fatto dire
che le sette vocali sono state inventate dalla natura, sebbene il
numero sette si riduca a cinque tra i Latini che le pronunciano
ora brevi e ora lunghe. Tuttavia anche presso i Latini se ne tro­
verebbero sette, se si avesse riguardo al numero non delle let­
tere scritte, ma del suono delle vocali 138.
71. Alla fine di due volte sette anni, come la sua età esige, si
manifesta la pubertà. E allora, in effetti, che si mette in moto la
capacità di generare nel maschio e il flusso mestruale nella fem­
mina. E per ciò che questa forza, che è ormai quasi quella viri­
le, viene liberata dalla tutela della fanciullezza; ciononostante
le leggi hanno anticipato di due anni questa liberazione in favo­
re delle femmine, a causa della precocità in cui si sposano.
72. Compiuti tre volte sette anni, si vede la barba sostituire
la peluria sulle guance dei giovani che smettono, in quello stes­
so anno, anche di crescere in altezza e, compiuta la quarta
ebdomade in anni, non è più possibile crescere in robustezza.
73. La quinta ebdomade d’anni porta a termine la pienezza
della forza muscolare, ossia quella che può disporre un indivi­
duo, e in nessun modo può irrobustirsi ulteriormente. SÌ è
mantenuta tra i pugili questa consuetudine: quelli che la vitto­
ria ha incoronato non hanno la pretesa di diventare più robu­
sti e quelli che non sono stati ancora vincitori a quell’età
abbandonano questa professione.
74. Nei sei volte sette anni, si conserva la forza in preceden­
za accumulata e non vi è nessun declino, se non per accidente.
Ma, dalla sesta alla settima ebdomade, avviene un declino, in
un modo lento e impercettibile, tale da non rivelare aperta­
mente questa diminuzione di forze. Per questo c’è l’uso, in un
certo numero di stati, di non chiamare nessuno sotto le armi
dopo la sesta ebdomade, ma, in molte altre nazioni, non si
ottiene questo congedo se non dopo la settima ebdomade.
75. Notandum uero, quod, cum numerus septem se multi-
plicat, facit aetatem quae proprie perfecta et habetur et dicitur,
adeo ut illius aetatis homo, utpote qui perfectionem et adtige-
rit iam et necdum praeterierit, et consilio aptus sit nec ab exer­
citio uirium alienus habeatur.
76. Cum uero decas, qui et ipse perfectissimus numerus est
perfecto numero id est éirraSi, iungitur ut aut decies septeni
aut septies deni computentur anni, haec a physicis creditur
meta uiuendi, et hoc uitae humanae perfectum spatium termi­
natur. Quod quisquis excesserit, ab omni officio uacuus, soli
exercitio sapientiae uacat, .et omnem usum sui in suadendo
habet, aliorum munerum uacatione reuerendus: a septima
enim usque ad decimam septimanam, pro captu uirium quae
adhuc singulis perseuerant uariantur officia.
77. Idem numerus totius corporis membra disponit.
Septem sunt enim intra hominem quae a Graecis nigra mem­
bra uocitantur: lingua, cor, pulmo, iecur, lien, renes duo; et
septem alia, cum uenis ac meatibus quae adiacent singulis, ad
cibum et spiritum accipiendum reddendumque sunt deputata:
guttur, stomachus, aluus, uesica et intestina principalia tria,
quorum unum dissiptum uocatur, quod uentrem et cetera inte­
stina secernit, alterum medium, quod Graeci u e o e v x E p o v
dicunt, tertium, quod ueteres hiram uocarunt habeturque
praecipuum intestinorum omnium, et cibi retrimenta deducit.
78. De spiritu autem et cibo, quibus accipiendis, ut relatum
est, atque reddendis membra quae diximus cum meatibus sibi
adiacentibns obsequuntur, hoc obseruatum est quod sine hau­
stu spiritus ultra horas septem, sine cibi, ultra totidem dies uita
non durat.
79. Septem sunt quoque gradus in corpore qui dimensio­
nem altitudinis ab imo in superficiem complent, medulla, os,
neruus, uena, arteria, caro, cutis. Haec de interioribus.
75. Ma va qui osservato che quest’epoca della vita, prodot­
to di sette per sette, è la più perfetta di tutte e difatti l’uomo a
questa età ha raggiunto il più alto punto di perfezione di cui sia
suscettibile e le sue facoltà, non avendo ancora subito altera­
zioni, sono considerate mature nei ragionamenti, senza essere
ancora considerate inadatte all’azione fisica.
76. Ma quando la decade, numero esso stesso perfettissimo,
si congiunge ad un numero tanto perfetto, cioè l’ÉTrTas [ebdo­
made] , questo risultato di dieci volte sette o di sette volte dieci
anni, è, a giudizio dei fisici, il limite della nostra esistenza e il
numero che limita l’estensione perfetta della vita umana. Pas­
sata questa età, l’uomo è esonerato da ogni funzione pubblica
e si dedica esclusivamente all’esercizio della saggezza; tutto il
suo impegno sta nel convincere gli altri ed è onorato con l’e­
senzione da ogni altro dovere sociale. Infatti, dalla settima alla
decima ebdomade di anni, i compiti assegnati variano secondo
le forze fisiche di cui può disporre il singolo individuo.
77. Gli organi del corpo umano sono ugualmente ordinati
sulla base di questo numero. Vi sono, infatti, nell’interno del­
l’uomo, sette organi ‘neri’ come dicono i Greci, ossia: lingua,
cuore, polmone, fegato, milza e i due reni. Sette altri, compre­
so le vene e i canali attigui a ciascuno di essi, sono deputati a
ricevere ed espellere cibo e aria, cioè: gola, stomaco, ventre,
vescica e i tre principali intestini di cui uno si chiama dissiptum
[diaframma] e separa il ventre dal resto degli intestini, il secon­
do è il medium [intestino medio], chiamato dai Greci neaevre-
po$, il terzo è quello che gli antichi chiamarono hira [intestino
tenue] 139, considerato il più importante degli intestini che
espelle i residui dei cibi.
78. Al riguardo di aria e di cibo, di assorbimento e di espul­
sione dei quali, come abbiamo detto, sono adibiti gli organi in
precedenza menzionati con i condotti vascolari loro adiacenti,
si è osservato che, senza immissione d’aria, la vita non si pro­
lunga oltre le sette ore e che cessa anche quando il corpo è
stato privato di alimenti per un egual numero di giorni140.
79. Si contano ugualmente sette strati che formano lo spes­
sore del corpo dall’interno alla superficie e sono disposti nel
seguente ordine: midollo, ossa, nervi, vene, arterie, carne e
pelle. Questo quanto all’interno del corpo umano.
80. In aperto quoque septem sunt corporis partes, caput,
pectus, manus pedesque et pudendum. Item quae diuiduntur
non nisi septem compagibus iuncta sunt: ut in manibus est
humerus, brachium, cubitus, uola et digitorum nodi terni, in
pedibus uero femur, genu, tibia, pes ipse, sub quo uola est, et
digitorum similiter nodi terni.
81. Et quia sensus eorumque ministeria natura in capite
uelut in arce constituit, septem foraminibus sensuum celebran­
tur officia, id est oris ac deinde oculorum, narium et aurium
binis; unde non inmerito hic numerus, totius fabricae dispen­
sator et dominus, aegris quoque corporibus periculum sanita-
temue denuntiat. Immo ideo et septem motibus omne corpus
agitatur: aut enim accessio est aut recessio, aut in laeuam dex-
tramue deflexio, aut sursum quis seu deorsum mouetur aut in
orbem rotatur.
82. Tot uirtutibus insignitus septenarius, quas uel de parti­
bus suis mutuatur uel totus exercet, iure plenus et habetur et
dicitur. Et absoluta, ut arbitror, ratione iam constitit cur diuer-
sis ex causis octo et septem pleni uocentur. 83. Sensus autem
hic est: cum aetas tua quinquagesimum et sextum annum con-
pleuerit, quae summa tibi fatalis erit, spes quidem salutis
publicae te uidebit et pro remediis communis bonorum
omnium status uirtutibus tuis dictatura debebitur, sed si euase-
ris insidias propinquorum. Nam per «septenos octies solis
anfractus reditusque» quinquaginta et sex significat annos,
anfractum solis et reditum annum uocans: anfractum, propter
zodiaci ambitum, reditum, quia eadem signa per annos singu­
los certa lege metitur.
80. Quanto all’esterno del corpo, anche in esso si trovano
sette organi diversi: testa, tronco, mani, piedi e sesso. Si­
milmente gli organi che sono divisibili sono uniti da sette lega­
menti: nelle mani l’omero, il braccio, il gomito, il palmo e le tre
falangi; nei piedi, il femore, il ginocchio, la tibia, il piede stes­
so, sotto di cui si trova la pianta, e ugualmente le tre falangi.
81. E poiché la natura ha posto nella testa, come in una
rocca, i sensi e le loro funzioni, le operazioni dei sensi si svol­
gono attraverso sette orifizi: la bocca, i due occhi, le due nari­
ci e le due orecchie. E perciò meritatamente giusto che su que­
sto numero, governatore e signore di tutta la fabbrica del
corpo umano, si basino i pronostici dell’esito felice o funesto
delle malattie del corpo. Per di più, i movimenti esterni del
corpo umano sono in numero di sette: in avanti o indietro, a
destra o a sinistra, movimento dal basso verso l’alto o dall’alto
verso il basso, moto circolare 141.
82. Distinto da così tante proprietà, che trova nelle sue parti
o che esercita nella sua totalità, il sette è considerato e defini­
to, a buon diritto, numero «pieno». Credo che quanto detto, a
mio avviso, dimostri perfettamente perché, per motivi diversi,
l’otto e il sette siano chiamati «pieni». 83. Il senso del passo
citato è quindi questo: quando sarai giunto all’età di cinquan-
tasei anni, prodotto che ti porterà ad un inevitabile destino,
ogni speranza di salute pubblica sarà riposta in te e spetterà
alle tue virtù la dittatura affinché sia ristabilita la sicurezza del
bene generale, a condizione che tu riesca a sfuggire alle insidie
dei tuoi parenti. Difatti, «otto volte sette giri e ritorni del sole»
equivalgono a cinquantasei anni, poiché «giro e ritorno del
sole» designa l’anno: «giro» perché quest’astro fa il giro intero
dello zodiaco, «ritorno» perché è costretto, da una legge stabi­
lita, a percorrere ogni anno gli stessi segni.
Fig. 07
Incisione tratta dall’edizione la­ Diagramma ritraente i quattro
tina di Macrobius, In Somnium Sci­ elementi e le loro qualità, da M acro­
pionis, Angeli Britannici, Brixiae bius, Commentarii in Somnium Sci­
(Brescia), 1501. pionis (NKS 218 4°), manoscritto su
pergamena (ca, 1150, Francia m eri­
dionale?), particolare del fol. 3r,
Copenhagen, Det Kongelige Biblio-
tek.

E n orA O /L N Fig. 08
& Vili-Vini xn
Diagramma ritraente la tavola
mostrata dal giovinetto a Pitagora
nella Scuola d ’A tene di Raffaello,
tratto da Giovanni Battista Bellori,
Descrizione delle immagini dipinte
da Raffaello D ’Urbino. N el palazzo
Vaticano, e nella farnesina alla
Lungara, con alcuni ragionamenti in
onore delle sue opere, e della pittura,
e scultura , appresso gli eredi del q,
Gio. Lorenzo Barbiellini stampatori
e mercanti di libri a Pasquino, in
Roma, 1751,

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epogdoos

V..

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1 ]
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I 1 t

Fig. 09 Fig. 10
Particolare della Scuola d’A tene Diagramma dell’epogdo. In esso,
di Raffaello, 1509-1510, Roma, come si mostra con chiarezza nelle
Palazzo Vaticano, Stanza della Se­ figure precedenti, si propone la suddi­
gnatura. La lavagna nera che è visione tipicamente pitagorica dell’ot­
accanto a Pitagora mostra un dia­ tava, che prevede due intervalli di quar­
gramma con i rapporti musicali (dia- ta (tetracordi) separati da un tono detto
tessaron , diapente, diapason ) e con la tono di disgiunzione contrassegnato
cosiddetta tetraktys, cioè l’insieme con il piccolo arco nella parte superio­
dei numeri su cui doveva basarsi re. Il termine epogdoon indica in effetti
l’armonia dell’universo. il rapporto di 9/8 che caratterizza il
tono intero pitagorico. I numeri nella
parte superiore 6, 8, 9, 12 indicano la
forma in cui venivano caratterizzate nel
pitagorismo lottava, la quinta, la quar­
te e la fondamentale e com e variante ri­
spetto ai numeri 1, 2, 3,4, il cosiddetto
quaternario che viene proposto nella
forma simbolica della tetraktys traccia­
ta alla base del grafico.

Fig. I l e Fig. 12
Diagramma ritraente la monade
con la discesa dei numeri pari e dispari,
da Macrobius, Commentarii in Som­
nium Scipionis (NKS 218 4°), mano­
scritto su pergamena (ca. 1150, Francia
meridionale?), particolare del fol. 30v,
Copenhagen, Det KongeKge Bibliotek.
(in basso) Lo stesso diagramma
nell’incisione a stampa dell’edizione
latina di Macrobius, In Somnium Sci­
pionis, Angeli Britannici, Brixiae, 1501.
7. 1. Hic quidam mirantur quid sibi uelit ista dubitatio, «si
effugeris. .. ». Quasi potuerit diuina anima et olim caelo reddita
atque hinc maxime scientiam futuri professa nescire, possitne
nepos suus an non possit euadere! Sed non aduertunt hanc
habere legem omnia uel signa uel somnia, ut de aduersis obli­
que aut denuntient aut minentur aut moneant. 2. Et ideo quae­
dam cauendo transimus, alia exorando et litando uitantur.
Sunt ineluctabilia, quae nulla arte, nullo auertuntur ingenio.
Nam ubi admonitio est, uigilantia cautionis euaditur; quod
adportant minae, litatio propitiationis auertit; numquam
denuntiata uanescunt.
3. Hic subicies: unde igitur ista discernimus, ut possit
cauendumne an exorandum an uero patiendum sit deprehen­
di? Sed praesentis operis fuerit insinuare qualis soleat in diui-
nationibus esse affectata confusio, ut desinas de inserta uelut
dubitatione mirari; ceterum in suo quoque opere artificis erit
signa quaerere, quibus ista discernat, si hoc uis diuina non
inpedit. Nam illud:
... prohibent nam cetera Parcae
scire...

Maronis est ex intima disciplinae profunditate sententia.


4. Diuulgatis etiam docemur exemplis, quam paene semper,
cum praedicuntur futura, ita dubiis obserantur, ut tamen dili­
gens — nisi diuinitus, ut diximus, impeditur — subesse reppe-
riat apprehendendae uestigia ueritatis: ut ecce Homericum
somnium a Ioue, ut dicitur, missum ad conserendam futuro die
cum hostibus manum sub aperta promissione uictoriae spem
regis animauit; ille, uelut diuinum secutus oraculum, commis-
7. 1. Questa espressione dubitativa, «se riuscirai a sfuggire»,
è motivo di meraviglia per alcuni. Come concepire che un’ani­
ma divina, già da tempo ritornata al celeste soggiorno e di con­
seguenza con una perfetta conoscenza del futuro, potesse igno­
rare se suo nipote sarebbe riuscito a sfuggire o no alle insidie
dei suoi avversari! Ma costoro non prestano attenzione al fatto
che di regola tutti i presagi, segni e sogni annunciano, minac­
ciano o avvertono in forma equivoca quando si tratta di avver­
sità. 2. Per questo schiviamo alcuni pericoli, o stando in guar­
dia, o evitandoli con preghiere e offerte. Sono invece inelutta­
bili quelli che nessuna arte e nessuna astuzia riesce a stornare.
Difatti, se siamo avvertiti, una vigile circospezione ci può sal­
vare. Il pericolo arrecato dalle minacce può essere allontanato
con un sacrificio propiziatorio; ma le predizioni hanno sempre
il loro effetto.
3. Come distinguere dunque i segni, mi dirai allora, dai
quali possiamo riconoscere se bisogna stare in guardia o rende­
re gli dèi propizi o rassegnarci? Ma il nostro compito qui è di
fare cessare la meraviglia cui dà luogo l’ambiguità delle parole
comunemente e di proposito usata nelle profezie, dimostrando
che l’oscurità è, per così dire, intrinseca nella divinazione. Del
resto, in ogni opera del demiurgo saranno da ricercare quei
segni, che rendono possibile la soluzione degli enigmi, purché
la volontà divina non vi si opponga. Infatti questa espressione
di Virgilio:
... altro le Parche non vogliono
che sappia... 142

è una sentenza che appartiene alla più intima profondità della


dottrina.
4. Tuttavia non manchiamo d’esempi noti che c’insegnano
che, nel linguaggio equivoco della predizione del futuro, un
osservatore attento scopre quasi sempre le tracce che lo porta­
no alla strada della verità, a meno che, come abbiamo detto,
non sia ostacolato dal volere divino. Ricordiamoci quel sogno
che, in Omero, Giove inviò ad Agamennone, animandone le
speranze, affinché s’impegnasse a combattere i troiani il giorno
dopo, con un’esplicita promessa di vittoria. 143 Seguendo que­
st’oracolo che credeva divino, il re degli Achei attaccò batta-
so proelio, amissis suorum plurimis, uix aegreque in castra
remeauit. 5. Num dicendum est deum mandasse mendacium?
Non ita est, sed quia illum casum Graecis fata decreuerant,
latuit in uerbis somnii, quod animaduersum uel ad uere uin-
cendum uel ad cauendum saltem potuisset instruere. 6. Habuit
enim praeceptio ut uniuersus produceretur exercitus; at ille,
sola pugnandi hortatione contentus, non uidit quid de produ­
cenda uniuersitate praeceptum sit, praetermissoque Achille,
qui tunc recenti lacessitus iniuria ab armis cum suo milite feria­
batur, rex progressus in proelium et casum qui debebatur
excepit et absoluit somnium inuidia mentiendi non omnia de
imperatis sequendo.
7. Parem obseruantiae diligentiam Homericae per omnia
perfectionis imitator Maro in talibus quoque rebus obtinuit.
Nam apud illum Aeneas, ad regionem instruendo regno fatali­
ter eligendam satis abundeque Delio instructus oraculo, in
errorem tamen unius uerbi neglegentia relapsus est. 8. Non
quidem fuerat locorum quae petere deberet nomen insertum,
sed cum origo uetus parentum sequenda diceretur, fuit in uer­
bis, quod inter Cretam et Italiam, quae ipsius gentis auctores
utraque produxerant, magis ostenderet et, quod aiunt, digito
demonstraret Italiam. Nam cum fuissent inde Teucer, hinc
Dardanus, uox sacra, sic adloquendo «Dardanidae duri»,
aperte consulentibus Italiam, de qua Dardanus profectus esset,
obiecit, appellando eos parentis illius nomine, cuius erat origo
rectius eligenda.
9. Et hic certae quidem denuntiationis est quod de
Scipionis fine praedicitur, sed gratia conciliandae obscuritatis
inserta dubitatio dicto tamen quod initio somnii continetur
absoluitur. Nam cum dicitur «circuitu naturali summam tibi
fatalem confecerint», uitari hunc finem non posse pronuntiat.
glia, perse un gran numero dei suoi e ritornò di misura e a sten­
to nell’accampamento. 5. Accuseremo la divinità di menzo­
gna? Certamente no; ma siccome era nel decreto dei fati che
questa disfatta accadesse ai Greci, le parole del sogno doveva­
no offrire un senso nascosto che, se fosse stato afferrato bene,
li avrebbe resi vincitori, o almeno più circospetti. 6. Infatti nel­
l’ingiunzione che gli era stata fatta di riunire tutto il suo eserci­
to fuori dell’accampamento, il re vide solamente l’incoraggia­
mento a combattere e, invece di farlo con tutte le schiere del­
l’esercito, trascurò Achille che, offeso in quel tempo da un
affronto recente, aveva con i suoi soldati deposte le armi, non
prese alcuna parte ai movimenti del campo, e l’esito del com­
battimento per il re fu quello che doveva essere ed il sogno non
potè essere considerato come menzognero, poiché non era
stata seguita la totalità delle indicazioni ricevute 144.
7. Virgilio, non meno perfetto di Omero, suo modello 145, ha
mostrato un’osservanza altrettanto scrupolosa in questi argo­
menti. Presso di lui, infatti, Enea aveva ricevuto dall’oracolo di
Deio sufficienti ed esaurienti istruzioni sulla terra che gli aveva
assegnato il fato per fondare il suo regno, ma un’unica parola
trascurata lo fece cadere in errore. 8. Questa terra da raggiun­
gere, è vero, non era stata esplicitamente nominata dall’oraco­
lo; ma, siccome gli si era prescritto di tornare ai luoghi d’origi­
ne degli antenati, vi era in queste parole un indizio che, tra
Creta e l’Italia, le due terre, cioè, da cui provenivano i fondato­
ri della stirpe troiana, lasciava intendere di più e, come si dice,
«additava» l’Italia. Infatti, dei due fondatori Teucro proveniva
da Creta e Dardano era originario dell’Italia; la voce sacra, con
il dire «duri Dardanidi», suggeriva chiaramente a chi la consul­
tava l’Italia, da cui Dardano era partito; infatti, chiamandoli col
nome di quello dei loro antenati che era originario dell’Italia, si
designava evidentemente il paese da scegliere 146.
9. Parimenti, nel sogno di Scipione, la predizione della sua
fine gli è annunciata in modo chiaro e il dubbio, inserito per
lasciare alla predizione ciò che deve avere di oscuro, è sciolto
fin dal principio di questo sogno con una formula. Infatti con
le parole: «{.quando questi due numeri] avranno realizzato con il
loro naturale percorso la somma fatale a te assegnata», il sogno
annuncia chiaramente che quel termine era inevitabile. Così,
Quod autem Scipioni reliquos uitae actus sine offensa dubitan­
di per ordinem rettulit et de sola morte similis uisus est ambi­
genti, haec ratio est quod, siue dum humano uel maerori par­
citur uel timori, seu quia utile est hoc maxime latere, pronius
cetera oraculis quam uitae finis exprimitur; aut, cum dicitur,
non sine aliqua obscuritate profertur.

8. 1. His aliqua ex parte tractatis progrediamur ad reliqua:


«Sed quo sis, Africane, alacrior ad tutandam rem publicam, sic
habeto: omnibus, qui patriam conseruarint, adiuuerint, auxerint,
certum esse in caelo definitum locum ubi beati aeuo sempiterno
fruantur. Nihil est enim illi principi deo, qui omnem mundum
regit, quod quidem in terris fiat, acceptius quam concilia coetus-
que hominum iure sociati, quae duitates appellantur. Earum rec­
tores et seruatores hinc profecti huc reuertuntur.»
2. Bene et oportune, postquam de morte praedixit, mox
praemia bonis post obitum speranda subierit. Quibus adeo a
metu praedicti interitus cogitatio uiuentis erepta est ut ad
moriendi desiderium ultro animaretur maiestate promissae
beatitudinis et caelestis habitaculi. Sed de beatitate quae debe­
tur conseruatoribus patriae pauca dicenda sunt, ut postea
locum omnem, quem hic tractandum recepimus, resoluamus.
3. Solae faciunt uirtutes beatum, nullaque alia quisquam uia
hoc nomen adipiscitur: unde qui aestimant nullis nisi philoso-
phantibus inesse uirtutes, nullos praeter philosophos beatos
esse pronuntiant. Agnitionem enim rerum diuinarum sapien­
tiam proprie uocantes, eos tantummodo dicunt esse sapientes
qui superna et acie mentis requirunt et quaerendi sagaci dili­
gentia comprehendunt et, quantum uiuendi perspicuitas prae­
stat, imitantur; et in hoc sola esse aiunt exercitia uirtutum, qua-
nella rivelazione che a Scipione viene fatta degli altri avvenir
menti della sua vita, secondo l’ordine in cui avranno luogo,
senza dar luogo a dubbi, e se la sola espressione vaga è quella
relativa alla sua morte, la ragione è perché gli oracoli sono
inclini sì a rivelare ogni cosa, ma non la fine della vita, sia per
risparmiare all’uomo dolori e paure, sia perché è utile che
soprattutto ciò resti nascosto; oppure, nel caso che gli oracoli
ce l’annuncino, la predizione avviene non senza una qualche
oscurità.

8. 1. Dopo questo parziale commento, esaminiamo ora il


resto del discorso di Scipione: «Ma alfine, o Africano, d ’ispirar­
ti maggior ardore nel difendere lo stato, sappi questo: per coloro
che avranno salvato, difeso, ingrandito la loro patria c’è nel cielo
un posto particolare e ben definito dove, beati, possono godere di
un’eterna felicità. A l sommo dio che regge tutto l’universo, nulla
di ciò che accade in terra è infatti più caro delle comunità e aggre­
gazioni di uomini, legate sulla base del diritto, che vanno sotto il
nome di Stati. Coloro che li reggono e ne custodiscono gli ordi­
namenti come sono partiti di qui, così poi vi ritornano» 147.
2. Di proposito e al momento opportuno, fa immediata­
mente seguire alla predizione della morte quella delle ricom­
pense in cui devono sperare i buoni cittadini dopo il trapasso.
Questo produsse sul pensiero del vivente un tale effetto che,
lungi dal temere l’istante fatale predettogli, davanti all’immen­
sità della felicità promessa e del soggiorno celeste, arse sponta­
neamente del desiderio di morire. Ma la felicità riservata a chi
salva la patria merita alcune parole, che ci permetteranno in
seguito di dare al passo qui discusso tutto il suo sviluppo 148.
3. Non c’è felicità che nelle virtù e merita il nome di felice
solo chi non si scosta dalla via che gli tracciano: ecco perché
coloro che sono persuasi che la virtù appartenga solamente ai
filosofi, sostengono che nessuno, salvo i filosofi, è felice.
Riservando, infatti, il nome di sapienza alla conoscenza delie
cose divine, affermano che sono saggi solo coloro i quali ricer­
cano con l’acume dell’intelletto le realtà superne, giungono,
dopo una ricerca sagace e ostinata, a comprenderle e, per
quanto è dato agli uomini intravederle, le imitano; in ciò, dico­
no, risiede il solo modo di praticare le virtù, le cui funzioni si
rum sic officia dispensant. 4. Prudentiae esse mundum istum
et omnia quae in mundo insunt diuinorum contemplatione
despicere omnemque animae cogitationem in sola diuina diri­
gere; temperantiae, omnia relinquere, in quantum natura pati­
tur, quae corporis usus requirit; fortitudinis, non terreri ani­
mam a corpore quodam modo ductu philosophiae receden­
tem, nec altitudinem perfectae ad superna ascensionis horrere;
iustitiae, ad unam sibi huius propositi consentire uiam unius
cuiusque uirtutis obsequium. Atque ita fit ut, secundum hoc
tam rigidae definitionis abruptum, rerum publicarum rectores
beati esse non possint.
5. Sed Plotinus, inter philosophiae professores cum Platone
princeps, libro De uirtutibus gradus earum uera et naturali
diuisionis ratione conpositos per ordinem digerit. Quattuor
sunt, inquit, quaternarum genera uirtutum. Ex his primae poli­
ticae uocantur, secundae purgatoriae, tertiae animi iam purga­
ti, quartae exemplares. 6. Et sunt politicae hominis, qua socia­
le animal est. His boni uiri rei publicae consulunt, urbes tuen­
tur; his parentes uenerantur, liberos amant, proximos diligunt;
his ciuium salutem gubernant; his socios circumspecta proui-
dentia protegunt, iusta liberalitate deuinciunt: hisque
... sui memores alios fecere merendo.

7. Et est politici prudentiae ad rationis normam quae cogi­


tat quaeque agit uniuersa dirigere ac nihil praeter rectum uelle
uel facere, humanisque actibus tamquam diuinis arbitris proui-
dere; prudentiae insunt ratio, intellectus, circumspectio, proui-
dentia, docilitas, cautio; fortitudinis, animum supra periculi
metum agere nihilque nisi turpia timere, tolerare fortiter uel
aduersa uel prospera; fortitudo praestat magnanimitatem,
fiduciam, securitatem, magnificentiam, constantiam, toleran­
tiam, firmitatem; temperantiae, nihil adpetere paenitendum, in
distinguono nell’ordine che segue 149. 4. La prudenza consiste
nel disdegnare questo mondo e tutto ciò che vi è racchiuso,
grazie alla contemplazione del divino, e nel concentrare tutta la
riflessione dell’anima verso il solo divino; la temperanza vuole
che si abbandoni, per quanto lo permette la natura, tutto ciò
che i bisogni del corpo reclamano; la fortezza consiste nel non
avere timore se la nostra anima si separa, in qualche modo,
sotto gli auspici della filosofia, dal corpo e a non spaventarci
dell’altezza immensa di questa ascensione verso le regioni
superne; è compito della giustizia, seguendo la sola via che
conduce verso la meta proposta, realizzare l’obbedienza a cia­
scuna di queste virtù. Secondo questa rigida classificazione,
risulta evidente che i governanti non possono essere fe lic i150.
5. Ma Plotino, che è principe con Platone tra i filosofi, ci ha
lasciato un trattato Sulle virtù 151 in cui classifica i loro gradi
successivi, secondo un sistema di suddivisione più esatto e più
naturale. Ognuna delle quattro virtù, dice, si suddivide in
quattro generi. Il primo genere è costituito dalle cosiddette
virtù politiche, il secondo dalle virtù purificatrici, il terzo da
quelle dell’anima già purificata ed il quarto dalle virtù esempla­
ri. 6. Le virtù politiche sono proprie dell’uomo, in quanto ani­
male sociale. Sono esse che fanno sì che gli uomini onesti vegli­
no sullo Stato e proteggano le città; è grazie ad esse che essi
rispettano i genitori, amano i figli e vogliono bene ai parenti;
grazie ad esse assicurano la salute pubblica; grazie ad esse pro­
teggono gli alleati con accorta previdenza e li vincolano con
una giusta generosità; grazie ad esse
... lasciarono di sé buon ricordo agli altri ben oprando. 152

7. La prudenza politica consiste neU’indirizzare ogni pen­


siero e ogni azione secondo una norma razionale, a non volere
e a non fare niente che non sia giusto e a comportarsi in ogni
azione umana come se si fosse in presenza degli dèi; la pruden­
za comprende in sé la ragione, l’intelligenza, la circospezione,
la previdenza, la dolcezza di carattere e la cautela; la fortezza
consiste nell’elevare l’animo sopra il timore dei pericoli, a
temere solamente ciò che è vergognoso, a sostenere con un’e­
guale fermezza le prove deH’awersità e quelle della buona
sorte; la fortezza comporta magnanimità, fiducia in se stessi,
sicurezza, dignità d’animo, costanza, tolleranza e fermezza; la
nullo legem moderationis excedere, sub iugum rationis cupidi­
tatem domare; temperantiam secuntur modestia, uerecundia,
abstinentia, castitas, honestas, moderatio, parcitas, sobrietas,
pudicitia; iustitiae, seruare unicuique quod suum est; de iusti-
tia ueniunt innocentia, amicitia, concordia, pietas, religio,
affectus, humanitas. 8. His uirtutibus uir bonus primum sui
atque inde rei publicae rector efficitur, iuste ac prouide guber­
nans, humana non deserens.
Secundae, quas purgatorias uocant, hominis sunt qui diuini
capax est, solumque animum eius expediunt qui decreuit se a
corporis contagione purgare et quadam humanorum fuga solis
se inserere diuinis. Hae sunt otiosorum qui a rerum publica­
rum actibus se sequestrant. Harum quid singulae uelint, supe­
rius expressimus, cum de uirtutibus philosophantium dicere­
mus, quas solas quidem aestimauerunt esse uirtutes.
9. Tertiae sunt purgati iam defaecatique animi et ab omni
mundi huius aspergine presse pureque detersi. Illic prudentiae
est diuina non quasi in electione praeferre sed sola nosse, et
haec tamquam nihil sit aliud intueri; temperantiae, terrenas
cupiditates non reprimere, sed penitus obliuisci; fortitudinis,
passiones ignorare, non uincere, ut
nesciat irasci, cupiat n ih il...;

iustitiae, ita cum supera et diuina mente sociari ut seruet per­


petuum cum ea foedus imitando.
10. Quartae sunt quae in ipsa diuina mente consistunt,
quam diximus voOv uocari, a quarum exemplo reliquae omnes
per ordinem defluunt. Nam si rerum aliarum, multo magis uir-
tutum ideas esse in mente credendum est. Illic prudentia est
temperanza consiste nel non aspirare a niente di cui ci si possa
pentire, nel non superare i limiti della moderazione, nell’assog-
gettare le proprie passioni al giogo della ragione; la temperan­
za ha per corteo la modestia, la delicatezza dei sentimenti, l’a­
stinenza, la castità, l’onestà, la moderazione, la frugalità, la
sobrietà, il pudore; è compito della giustizia politica conserva­
re a ciascuno ciò che gli appartiene; dalla giustizia provengono
l’innocenza, l’amicizia, la concordia, la pietà verso i nostri geni­
tori e verso gli dèi, i sentimenti affettuosi e l’umanità. 8. E
applicando, dapprima, a se stesso l’uso di queste virtù che l’uo­
mo onesto riesce poi ad applicarle nell’uso degli affari pubbli­
ci, amministrando con giustizia e previdenza, senza trascurare
le cose umane. 153
Le virtù del secondo genere, dette purificatrici 154, sono
quelle dell’uomo giunto all’intelligenza del divino e convengo­
no solo all’animo di chi ha preso la risoluzione di purificarsi
dal contagio del corpo e di fuggire, se così si può dire, da ogni
cura umana per unirsi esclusivamente al divino. Questo stato è
proprio di chi ha escluso ogni impegno e si sottrae ad ogni
occupazione pubblica. Di quanto valga ciascuna di queste
virtù abbiamo parlato prima 155 ricordando quelle del filosofo,
le uniche che meritano questo nome, stando a quel che dicono.
9. Le virtù del terzo genere sono quelle dell’animo già puri­
ficato e libero, interamente e accuratamente ripulito da ogni
macchia di questo mondo 156. Qui la prudenza consiste non nel
preferire le cose divine come per effetto di una scelta, ma nel
conoscere e contemplare solamente esse, come se fossero le
uniche al mondo; la temperanza non nel reprimere le passioni
terrene, ma nell’obliarle completamente; la fortezza, non nel
vincerle, ma nell’ignorarle, in modo da
non conoscere né collera né desiderio 157;

infine, la giustizia consiste nell’unirsi all'intelletto supremo e


divino, per mantenere con esso il patto eterno che abbiamo
assunto imitandolo.
10. Le virtù del quarto genere sono quelle che risiedono
nello stesso Intelletto divino, che abbiamo detto chiamarsi
voù<r158; dal loro modello derivano, per ordine successivo e
graduato, tutte le altre virtù. Infatti, se l’intelletto contiene le
idee originarie di tutto ciò che è, a maggior ragione è da crede-
mens ipsa diuina; temperantia, quod in se perpetua intentione
conuersa est; fortitudo, quod semper idem est nec aliquando
mutatur; iustitia, quod perenni lege a sempiterna operis sui
continuatione non flectitur.
11. Haec sunt quaternarum quattuor genera uirtutum, quae
praeter cetera maximam in passionibus habent differentiam
sui. Passiones autem, ut scimus uocantur quod homines
...m etuunt cupiuntque, dolent gaudentque...

Has primae molliunt, secundae auferunt, tertiae obliuiscuntur,


in quartis nefas est nominari.
12. Si ergo hoc est officium et effectus uirtutum, beare, con­
stat autem et politicas esse uirtutes, igitur et politicis efficiun­
tur beati. Iure ergo Tullius de rerum publicarum rectoribus
dixit: «ubi beati aeuo sempiterno fruantur»\ qui, ut ostenderet
alios otiosis, alios negotiosis uirtutibus fieri beatos, non dixit
absolute nihil esse illi principi deo acceptius quam duitates,
sed adiecit: «quod quidem in terris fiat», ut eos qui ab ipsis cae­
lestibus incipiunt discerneret a rectoribus ciuitatum, quibus
per terrenos actus iter paratur ad caelum. 13. Illa autem defi­
nitione quid pressius potest esse, quid cautius de nomine ciui­
tatum? «Quam concilia, inquit, coetusque hominum iure socia­
ti, quae duitates appellantur». Nam et seruilis quondam et gla-
ditoria manus «concilia hominum et coetus» fuerunt, sed non
«iure sociati». Illa autem sola iusta est multitudo, cuius uniuer-
sitas in legum consentit obsequium.
re che contenga le idee delle virtù. Lo stesso Intelletto divino è
qui la prudenza; è la temperanza poiché con un’eterna atten­
zione è volto su se stesso; è la fortezza, poiché è sempre iden­
tico e non muta mai; è la giustizia per il fatto che, per una legge
eterna, non si discosta mai dalla perpetua continuazione della
sua opera.
11. Questi sono i quattro generi, di quattro virtù ciascuno;
generi che, oltre al resto, hanno effetti differenti soprattutto
riguardo alle passioni, Le passioni, poi, come sappiamo, sono
così chiamate, perché gli uomini
... temono e bramano, soffrono e godono... 159

Le prime leniscono queste passioni, le seconde le annientano,


quelle del terzo genere le fanno dimenticare, quelle del quar­
to è addirittura empio nominarle.
12. Se dunque è compito ed effetto delle virtù quello di ren­
derci felici, e si sa che esistono anche delle virtù politiche, è
chiaro che anche le virtù politiche conducono alla felicità.
Cicerone ha dunque ragione, quando, parlando dei governan­
ti della cosa pubblica, si esprime così: «dove da beati godono di
un’eterna felicità». Per farci capire che si può pretendere que­
sta felicità sia con le virtù attive e sia con le virtù contemplati­
ve, invece di dire in senso assoluto che niente è più gradito al
dio supremo delle comunità dei cittadini, aggiunge «nulla di
ciò che accade in terra», per stabilire con ciò una distinzione tra
coloro che cominciano dedicandosi proprio alle cose divine e
tra i governanti di stato che, con le azioni terrene, si preparano
una strada per il cielo. 13. Che cosa può esserci di più esatto e
di più preciso di questa definizione degli stati, che chiama
«comunità e aggregazioni di uomini, legate sulla base del dirit­
to»? Si sono viste, infatti, un tempo «comunità e aggregazioni di
uomini» che erano bande di schiavi e di gladiatori, ma esse non
erano «legate sulla base del diritto». Vi è giustizia solo in quel
gruppo di uomini che, nella sua totalità, presta il suo consenso
nell’obbedire alle leggi.
Fig. 13
13. Le Quattro virtù cardinali, miniatura, Commentarii in
Somnium Scipionis, Mss. lat. 6371, particolare del fol. 16, (IX sec.,
Scuola francese del Nord), Paris, Bibliothèque nationale de France.
9. 1. Quod uero ait: «harum rectores et seruatores hinc pro­
fecti huc reuertuntur», hoc modo accipiendum est. Animarum
originem manare de caelo inter recte philosophantes indubita­
tae constat esse sententiae: et animae, dum corpore utitur, haec
est perfecta sapientia ut, unde orta sit, de quo fonte uenerit,
recognoscat. 2. Hinc illud a quodam inter alia seu festiua seu
mordacia serio tamen usurpatum est:
de caelo descendit yvcù0i cjecxutov.
Nam et Delphici uox haec fertur oraculi. Consulenti ad beati-
tudinem quo itinere perueniret: «si te inquit agnoueris.» Sed et
ipsius fronti templi haec inscripta sententia est. 3. Homini
autem, ut diximus, una est agnitio sui: si originis natalisque
principii exordia prima respexerit, nec se
quaesiuerit extra.

Sic enim anima uirtutes ipsas conscientia nobilitatis induitur,


quibus post corpus euecta eo unde descenderat reportatur,
quia nec corporea sordescit uel oneratur eluuie, quae puro ac
leui fomite uirtutum rigatur, nec deseruisse umquam caelum
uidetur, quod respectu et cogitationibus possidebat.
4. Hinc anima, quam in se pronam corporis usus efficit
atque in pecudem quodam modo reformauit ex homine, et
absolutionem corporis perhorrescit et, cum necesse est, non
nisi
cum gemitu fugit indignata sub umbras.

5. Sed nec post mortem facile corpus relinquit, quia non


funditus <omnes>
corporeae excedunt pestes,

sed aut suum oberrat cadauer aut noui corporis ambit habita­
culum, non humani tantummodo, sed ferini quoque, electo
9. 1. Al riguardo della frase di Cicerone «coloro che reggo­
no gli Stati e ne custodiscono gli ordinamenti come sono partiti
di qui’ così poi vi ritornano» essa va interpretata in questo
modo. E opinione costante, tra i veri filosofi, che l ’anima trae
la sua origine dal cielo 160; la perfetta sapienza dell’anima, fin­
ché è unita al corpo, consiste nel riconoscere da dove sia nata
e da quale fonte è venuta. 2. Perciò un poeta, in un contesto di
detti allegri e satirici, ha inserito come sentenza seria la frase
seguente:
dal cielo discese il yvcòOi oectutóv. ^1

Questo responso fu dato, si dice, dall’oracolo di Delfi. A chi lo


consultava circa la strada che conduceva alla felicità, l’oracolo
rispose: «se avrai conosciuto te stesso». E questa massima fu
incisa anche sul frontone del tempio stesso. 3. L’uomo acquista
dunque, così come si è appena detto, la conoscenza di se stes­
so, volgendosi indietro ai primi luoghi della sua origine e della
sua nascita, e non
cercandosi al di fuori di sé 162.

Solo allora l’anima, avendo coscienza della sua nobiltà, s’im­


pregna delle virtù che, dopo l’uscita dal corpo, la fanno risali­
re da dove era discesa; l’anima, infatti, diviene pura di ogni
macchia materiale di cui si è liberata nel canale limpido delle
virtù, e torna al cielo, che sembra non aver mai abbandonato,
rimasto suo con la nostalgia e il pensiero.
4. Perciò l’anima, che la frequentazione del corpo ha reso
schiava dei suoi bisogni e, in un certo modo, ha trasformato
l’uomo in una bestia, freme all’idea di separarsi dal corpo e,
quando ciò diviene inevitabile, non senza un
gemito fugge angosciata fra l’ombre 1^ .

5. E neppure dopo la morte abbandona facilmente il corpo


perché
non <tutti> radicalmente
i contagi del corpo se n ’escono 164

ma, o continua a vagare intorno al suo cadavere, oppure cerca


un nuovo domicilio, che sia un corpo umano o quello di una
bestia poco gli importa, la sua scelta va verso una specie le cui
genere moribus congruo quos in homine libenter exercuit,
mauultque omnia perpeti, ut caelum, quod uel ignorando uel
dissimulando uel potius prodendo deseruit, euadat.
6. Ciuitatum uero rectores ceterique sapientes caelum
respectu, uel cum adhuc corpore tenentur, habitantes, facile
post corpus caelestem, quam paene non reliquerant, sedem
reposcunt. Nec enim de nihilo aut de uana adulatione uenie-
bat, quod quosdam urbium conditores aut claros in re publica
uiros in numerum deorum consecrauit antiquitas; sed
Hesiodus quoque, diuinae subolis adsertor, priscos reges cum
dis aliis enumerat, hisque exemplo ueteris potestatis etiam in
caelo regendi res humanas adsignat officium. 7. Et ne cui fasti­
diosum sit si uersus ipsos ut poeta Graecus protulit inseramus,
referemus eos ut ex uerbis suis in Latina uerba conuersi sunt:
Indigetes diui fato summi Iouis hi sunt:
quondam homines, m odo cum superis humana tuentes,
largi ac munifici, ius regum nunc quoque nacti.

8. H oc et Vergilius non ignorat, qui, licet argumento suo


seruiens heroas in inferos relegauerit, non tamen eos abducit a
caelo, sed aethera his deputat largiorem, et nosse eos solem
suum ac sua sidera profitetur, ut geminae doctrinae obserua-
tiones praestiterit et poeticae figmentum et philosophiae ueri-
tatem.
9. Et si secundum illum res quoque leuiores quas uiui exer­
cuerant, etiam post corpus exercent,
...quae gratia currum
armorumque fuit uiuis, quae cura nitentis
pascere equos, eadem sequitur tellure repostos,

multo magis rectores quondam urbium recepti in caelum


curam regendorum hominum non relinquunt.
10. Hae autem animae in ultimam sphaeram recipi credun­
tur quae àirÀavris uocatur, nec frustra hoc usurpatum est si
quidem inde profectae sunt. Animis enim necdum desiderio
corporis inretitis siderea pars mundi praestat habitaculum et
inclinazioni si avvicinano ai costumi che aveva prediletto quan-
d’era nell’uomo e l’anima si rassegna a soffrire tutto pur di
sfuggire al cielo, al quale ha rinunciato per ignoranza, per oblio
volontario, o piuttosto per tradimento 165.
6. Ma coloro che governano le nazioni insieme a tutti gli
altri saggi, quando sono ancora trattenuti dal corpo, abitano il
cielo con il pensiero rivolto ad esso e, pertanto, dopo la loro
morte, è per loro naturale aspirare al soggiorno celeste che non
avevano praticamente mai abbandonato. Non è senza motivo,
né per una vana adulazione, che l’Antichità ammise nel novero
degli dèi alcuni fondatori di città e altri uomini di stato illustri;
lo stesso Esiodo, autore della genealogia degli dèi, enumera re
arcaici, associandoli agli altri dèi, e conserva ad essi, anche in
cielo, la funzione, ispirata dal loro antico potere, di direzione
degli affari umani. 7. Per non tediare nessuno con una citazio­
ne nel testo di versi del poeta greco, li riporteremo qui dando­
ne la traduzione latina:
Questi sono, per volontà del sommo Giove, gli dèi indigeti:
un tempo mortali, adesso han cura assieme ai celesti degli affari umani,
generosi e munifici, esercitano anche ora il privilegio regale l66.

8. Neppure Virgilio ignorava tutto questo, ma conveniva al


suo soggetto che gli eroi fossero relegati negli inferi, tuttavia
non li esclude dal cielo, perché assegna ad essi un più vasto
etere e afferma che essi conoscono il loro sole e le loro stelle 167;
e così, rispettando le due dottrine, aveva soddisfatto tanto la
finzione poetica quanto la verità filosofica.
9. E sempre secondo Virgilio, anche dopo la morte, essi
mantengono quelle attività, anche le più futili, che esercitava­
no da vivi:
... quell’amore di carri,
d ’armi, ch’ebbero vivi, quella passione di pascere
puledri belli, ancora li segue, sotto terra ormai posti 168,

e a maggior ragione i reggitori delle città, una volta accolti in


cielo, non rinunciano alla cura del governo degli uomini.
10. Queste anime, a quanto si crede, sono accolte nell’ulti­
ma sfera, detta àirAavris [fissa], e questa opinione è fondata,
se è vero che è da là che provengono. Le anime, difatti, che non
sono ancora state intrappolate dal desiderio del corpo, sono
inde labuntur in corpora. Ideo his illo est reditio, qui meren­
tur. Rectissime ergo dictum est, cum in galaxia, quem
òtirAavris continet, sermo iste procedat: «hinc profecti huc
reuertuntur».

10. 1. Ad sequentia transeamus: «Hic ego etsi eram perterri­


tus, non tamen mortis metu quam insidiarum a meis, quaesiui
tamen uiueretne ipse et Paulus pater et alii quos nos extinctos
esse arbitraremur.»
2. Vel fortuitis et inter fabulas elucent semina infixa uirtu-
tum: quae nunc uideas licet ut e pectore Scipionis uel somnian­
tis emineant. In re enim una politicarum uirtutum omnium
pariter exercet officium. 3. Quod non labitur animo praedicta
morte perterritus, fortitudo est. Quod suorum terretur insidiis
magisque alienum facinus quam suum horrescit exitium, de
pietate et nimio in suos amore procedit; haec autem diximus
ad iustitiam referri, quae seruat uni cuique quod suum est.
Quod ea quae arbitratur non pro compertis habet, sed, spreta
opinione, quae minus cautis animis pro uero inolescit, quaerit
discere certiora, indubitata prudentia est. 4. Quod cum perfec­
ta beatitas et caelestis habitatio humanae naturae, in qua se
nouerat esse, promittitur, audiendi tamen talia desiderium fre­
nat, temperat et sequestrat ut de uita aui et patris interroget,
quid nisi temperantia est? Vt iam tum liqueret Africanum per
quietem ad ea loca quae sibi deberentur abductum.
5. In hac autem interrogatione de animae inmortalitate trac­
tatur. Ipsius enim consultationis hic sensus est: nos, inquit,
arbitramur animam cum fine morientis extingui nec ulterius
esse post hominem. Ait enim: «quos extinctos esse arbitrare­
mur». Quod autem extinguitur, esse iam desinit. Ergo uelim
dicas, inquit, si et pater Paulus tecum et alii supersunt. 6. Ad
ospitate in quella zona siderea dell’universo ed e da lì che scen­
dono nei corp il69. E lassù, dunque, che vi ritornano quelle che
se ne sono rese degne. Ora, dato che il colloquio tra i due Sci-
pioni ha luogo nella yaX a^ia, che è contenuta neU’àTTÀa-
vris 170, è del tutto esatto dire: «come sono partiti di qui, così poi
vi ritornano».

10.1. Passiamo al brano successivo: «a questo punto, benché


fossi rimasto atterrito non tanto dal timore della morte, quanto
dall’idea delle insidie dei miei parenti, gli chiesi tuttavia se fos­
sero ancora in vita lui stesso, mio padre Paolo e gli altri che noi
ritenevamo estinti»171.
2. In eventi fortuiti e nelle stesse finzioni narrative, i semi
della virtù in noi piantati emergono 172: vedi con quale fulgore
spuntano dal cuore di Scipione anche quando sogna! Una sola
circostanza gli dà l’opportunità di sviluppare simultaneamente
le funzioni di tutte le virtù politiche. 3. Si mostra fermo in
quanto non si perde d’animo e non si spaventa per la predizio­
ne della sua morte, dando prova di fortezza. Teme le insidie dei
suoi parenti e trema più per il crimine altrui che per la propria
morte: è l ’effetto della pietà e del suo estremo affetto verso i
suoi. Ora, queste disposizioni derivano, come abbiamo detto,
dalla giustizia che assicura a ciascuno ciò che gli appartiene.
Non considerando le sue opinioni come certezze e incurante
dell’opinione che a spiriti meno prudenti apparirebbe come
veridica, cerca una conoscenza più sicura, dando una prova
incontestabile della sua prudenza. 4. Non mostra forse la sua
temperanza 173, quando, moderando, reprimendo e facendo
tacere il desiderio che ha di saperne di più sulla perfetta felici­
tà e sulla dimora celeste promesse a quel genere d’uomini cui
sapeva di appartenere, s’informa se il suo avo e suo padre vivo­
no ancora? Era ormai chiaro che l’Africano, durante il suo son­
no, era stato condotto in quei luoghi che gli erano destinati.
5. D ’altronde il suo interrogativo riguarda l’immortalità del­
l ’anima. Infatti il senso della domanda è questo: noi, dice Sci­
pione, pensiamo che l’anima si estingua al termine dell’agonia
e che niente sopravviva all’uomo. E infatti usa questa espres­
sione: «che noi ritenevamo estinti». Ora ciò che è estinto, impli­
ca l’idea di un annientamento totale. Vorrei dunque che tu mi
dica, chiede al suo avo, se mio padre Paolo e tutti gli altri con-
hanc interrogationem, quae et de parentibus ut a pio filio, et de
ceteris ut a sapiente ac naturam ipsam discutiente processit,
quid ille respondit? «Immo uero, inquit, hi uiuunt, qui e corpo­
rum uinclis tamquam e carcere euolauerunt: uestra uero quae
dicitur esse uita mors est.» 7. Si ad inferos meare mors est et
uita est esse cum superis, facile discernis quae mors animae,
quae uita credenda sit, si constiterit qui locus habendus sit
inferorum, ut anima, dum ad hunc truditur, mori, cum ab hoc
procul est, uita frui et uere superesse credatur. 8. Et quia totum
tractatum, quem ueterum sapientia de inuestigatione huius
quaestionis agitauit, in hac latentem uerborum paucitate repe-
ries, ex omnibus aliqua, quibus nos de rei quam quaerimus
absolutione sufficiet admoneri, amore breuitatis excerpsimus.
9. Antequam studium philosophiae circa naturae inquisitio­
nem ad tantum uigoris adolesceret, qui per diuersas gentes
auctores constituendis sacris caerimoniarum fuerunt, aliud
esse inferos negauerunt quam ipsa corpora, quibus inclusae
animae carcerem foedum tenebris horridum sordibus et cruo­
re patiuntur. 10. Hoc animae sepulcrum, hoc Ditis concaua,
hoc inferos uocauerunt, et omnia, quae illic esse credidit fabu­
losa persuasio, in nobismet ipsis et in ipsis humanis corporibus
adsignare conati sunt, obliuionis fluuium aliud non esse adse-
rentes quam errorem animae obliuiscentis maiestatem uitae
prioris qua, antequam in corpus truderetur, potita est, solam-
que esse in corpore uitam putantis. 11. Pari interpretatione
Phlegethontem ardores irarum et cupiditatum putarunt, Ache­
rontem quidquid fecisse dixisseue usque aci tristitiam humanae
uarietatis more nos paenitet, Cocytum quidquid homines in
luctum lacrimasque compellit, Stygem quidquid inter se huma­
nos animos in gurgitem mergit odiorum.
dividono con te la sopravvivenza. 6, A questa domanda, che è
quella di un figlio pio a proposito della sorte dei suoi genitori
e di un saggio indagatore della natura stessa a proposito della
sorte degli altri, che cosa risponde il suo avo? «Anzi» fu la
risposta «sono costoro i veri vivi, coloro che sono sfuggiti con un
colpo d’ala 174 dai vincoli del corpo come da una prigione, men­
tre la vostra, che ha nome vita, è in realtà una morte» 175. 7. Se
la morte consiste nell’essere relegati negli inferi e se la vita è
stare insieme ai Superi, è facile capire che cosa vada considera­
to come la morte e come la vita dell’anima; occorrerà determi­
nare solamente che cosa si deve intendere per regioni infere
nelle quali l’anima che vi è cacciata muore, mentre quella che
si tiene lontana da questi luoghi gode di tutta la pienezza della
vita e realmente sopravvive. 8. E poiché il risultato di tutte le
ricerche, che la saggezza degli Antichi ha consacrato nel risol­
vere questo problema, lo troverai dissimulato in queste poche
parole di Scipione, così noi, per amore di concisione, abbiamo
tratto da tutto questo insieme alcuni elementi sufficienti a
risolvere il problema che ci siamo p o sti176.
9. Prima che gli studi di filosofia sui problemi della natura
si sviluppassero fino a raggiungere quel vigore che gli è pro­
prio, coloro che s’incaricarono di organizzare i sacri rituali, tra
le diverse nazioni, affermarono che gli inferi non erano altro
che gli stessi corpi umani, in cui le anime, trattenute, patisco­
no un carcere 177 che le tenebre rendono spaventoso, il fetore e
il sangue, orribile. 10. Davano a questo corpo i nomi di «sepol­
cro dell’anima» 178, «cavità di Dite» 179, «inferi», e si sforzava­
no di attribuire a noi stessi e ai nostri stessi corpi umani tutto
ciò che le credenze nei miti ritiene esistere laggiù, sostenendo
che il fiume dell’oblio 180 non era altro che l’errore dell’anima,
che ha obliato la maestà della sua vita precedente, quella di cui
godeva prima di essere gettata nel corpo, e che si è convinta
che la sola vita sia quella in un corpo. 11. Un’uguale interpre­
tazione faceva loro ritenere che il Flegetonte rappresentasse gli
ardori delle collere e delle passioni; l’Acheronte, tutto ciò che,
secondo quell’incostanza tipicamente umana, rimpiangiamo
d ’aver fatto o detto fino a produrre la tristezza; il Cocito, tutti
gli avvenimenti che spingono l’uomo al lutto e alle lacrime; lo
Stige, infine, era creduto che rappresentasse tutto ciò che
inghiotte gli animi umani nel gorgo degli odi reciproci 181.
12. Ipsam quoque poenarum descriptionem de ipso usu
conuersationis humanae sumptam crediderunt, uulturem iecur
immortale tondentem nihil aliud intellegi uolentes quam tor­
menta conscientiae, obnoxia flagitio uiscera interiora rimantis,
et ipsa uitalia indefessa admissi sceleris admonitione laniantis,
semperque curas, si requiescere forte temptauerint, excitantis
tamquam fibris renascentibus inhaerendo, nec ulla sibi misera­
tione parcentis, lege hac qua «se iudice nemo nocens ab solui-
tur», nec de se suam potest uitare sententiam. 13. Illos aiunt,
epulis ante ora positis, excruciari fame et inedia tabescere,
quos magis magisque adquirendi desiderium cogit praesentem
copiam non uidere; et, in affluentia inopes, egestatis mala in
ubertate patiuntur, nescientes parta respicere, dum egent
habendis. 14. Illos radiis rotarum pendere districtos qui, nihil
consilio praeuidentes, nihil ratione moderantes, nihil uirtuti­
bus explicantes, seque et actus omnes suos fortunae permitten­
tes, casibus et fortuitis semper rotantur. 15. Saxum ingens
uoluere inefficacibus laboriosisque conatibus uitam terentes;
atram silicem lapsuram semper et cadenti similem illorum
capitibus imminere qui arduas potestates et infaustam ambiunt
tyrannidem, numquam sine timore uicturi, et, cogentes subiec-
tum uulgus odisse dum metuat, semper sibi uidentur exitium
quod merentur excipere.
16. Nec frustra hoc theologi suspicati sunt. Nam et Diony­
sius aulae Siculae inclementissimus incubator, familiari quon­
dam suo solam beatam existimanti uitam tyranni uolens, quam
perpetuo metu misera quamque inpendentium semper pericu­
lorum plena esset ostendere, gladium uagina raptum et a capu-
12. Erano persuasi che la descrizione dei castighi fosse
desunta dall’esperienza stessa delle relazioni umane e volevano
che «l’avvoltoio che divora il fegato immortale» 182 non fosse
altro che l’immagine dei tormenti della coscienza, che scava
nelle viscere più profonde dell’anima del colpevole di azioni
vergognose, e la lacera negli organi vitali col ricordo instanca­
bile del crimine commesso, ridestando senza posa gli affanni,
per poco che tentassero di trovar requie, restando avvinta
come «alle fibre che rinascono» 183 e non mostrandosi indul­
gente verso se stessa per un sentimento di pietà, in conformità
a quella legge per cui «nessun colpevole è assolto se egli stesso
è suo giudice» 184, né può sottrarre se stesso alla sua propria
sentenza. 13. Coloro che, avendo di fronte agli occhi tavole
imbandite di pietanze, sono tormentati dalla fame e si consu­
mano d’inedia, sono gli uomini, dicono, cui l’ansia di un sem­
pre maggior guadagno non fa vedere i beni presenti: indigenti
nell’abbondanza, soffrono in mezzo all’opulenza tutti i mali
dell’indigenza, non considerando ciò che hanno, perché non
hanno tutto ciò che desidererebbero avere. 185 14. Coloro i
quali stanno «legati appesi ai raggi delle ruote» 186, sono gli
uomini che non prevedono alcunché col giudizio, nulla
dispongono con la ragione, nulla risolvono con le virtù, abban­
donando al caso se stessi e la cura dei loro affari: il caso e il for­
tuito li tiene in balia d’una rotazione perpetua. 15. Sono
costretti incessantemente a rotolare «un masso enorme» colo­
ro che consumano la loro vita in imprese faticose e infruttuo­
se 187; la nera pietra, sempre sul punto di scivolare e che sem­
pre minaccia e sembra pronta ad abbattersi, è sospesa sul capo
degli ambiziosi che brigano per ottenere ardui incarichi e fune­
ste tirannidi 188, destinati a non vivere mai privi di paura; e
costringono la massa dei loro sudditi «ad odiarli purché li
tema» 189, avendo sempre l’impressione di stare per subire
quella fine che meritano.
16. Queste congetture dei teologi sono fondate. Infatti,
anche Dionigi, il più crudele degli usurpatori di palazzo della
Sicilia, volendo un giorno disilludere uno dei suoi cortigiani190
che credeva la vita del tiranno l’unica felice e dargli invece un’i­
dea giusta di quanto quell’esistenza fosse infelice per il conti­
nuo timore e sempre piena di pericoli incombenti, sguainata
lo de filo tenui pendentem mucrone demisso iussit familiaris
illius capiti inter epulas imminere; cumque ille et Siculas et
tyrannicas copias praesentis mortis periculo grauaretur, «Talis
est» inquit Dionysius «uita quam beatam putabas: sic semper
mortem nobis imminentem uidemus. Aestima quando esse
felix poterit qui timere non desinit.»
17. Secundum haec igitur quae a theologis adseruntur, si
uere
quisque suos patim ur manes

et inferos in his corporibus esse credimus, quid aliud intelle­


gendum est quam mori animam cum ad corporis inferna
demergitur, uiuere autem cum ad supera post corpus euadit?

11. 1. Dicendum est quid his postea ueri sollicitior inquisi­


tor philosophiae cultus adiecerit. Nam et qui primum
Pythagoram et qui postea Platonem secuti sunt, duas esse mor­
tes, unam animae, animalis alteram prodiderunt, mori animal
cum anima discedit e corpore, ipsam uero animam mori adse-
rentes cum a simplici et indiuiduo fonte naturae in membra
corporea dissipatur. 2. Et quia una ex his manifesta et omnibus
nota est, altera non nisi a sapientibus deprehensa, ceteris eam
uitam esse credentibus, ideo hoc ignoratur a plurimis cur eun­
dem mortis deum modo Ditem, modo immitem uocemus, cum
per alteram, id est animalis mortem, absolui animam et ad
ueras naturae diuitias atque ad propriam libertatem remitti
faustum nomen indicio sit; per alteram uero, quae uulgo uita
existimatur, animam de inmortalitatis suae luce ad quasdam
tenebras mortis inpelli uocabuli testemur horrore. 3. Nam ut
constet animal, necesse est ut in corpore anima uinciatur. Ideo
corpus 5éuas, hoc est uinculum, nuncupatur, et acopa, quasi
dal fodero una spada e fattala appendere per 11 pomo ad un
sottile filo con la punta rivolta in basso, comandò di sospen­
derla al di sopra della testa del cortigiano durante un festino; e
siccome questi, pur avendo di fronte a sé tutta l’abbondanza
della Sicilia e della tirannia, non l’apprezzava a causa dell’in­
combenza del pericolo mortale, Dionigi gli disse: «Tale è la vita
che credevi così felice: vediamo sempre la morte a noi vicina.
Pensa perciò quanto possa essere felice chi non può mai smet­
tere di temere!».
17. Quindi, secondo queste asserzioni dei teologi, se è vero
che
ognuno i Mani suoi soffre 191
e se crediamo che gli inferi siano in questo corpo, che cosa
bisogna intendere per morte deH’anima, se non la sua immer­
sione negli inferi del corpo, e, per sua vita, il suo ritorno alle
regioni superne, dopo che è uscita dal corpo?

11. 1. Alle opinioni appena esposte, va aggiunta quella for­


mulata successivamente dalla ricerca filosofica, più scrupolosa
nell’investigazione della verità. I discepoli di Pitagora, infatti, e
poi quelli di Platone hanno sostenuto che esistano due morti,
quella dell’anima e quella dell’essere animato, dichiarando che
l’essere animato muore quando l’anima esce dal corpo, ma che
l’anima muore quando abbandona la fonte unica e indivisibile
della natura per distribuirsi nelle membra del corpo. 2. La
prima asserzione è evidente e nota a tutti, l’altra non è cono­
sciuta se non dai sapienti, perché gli altri s’immaginano che
questa morte costituisca la vita; perciò la maggior parte delle
persone ignora perché il dio dei morti sia invocato talora sotto
il nome di Dite 192 e talora sotto quello di «Crudele». Non
sanno che il primo epiteto, di felice augurio, indica che la
prima morte, quella dell’essere animato, libera l ’anima e la
restituisce alle vere ricchezze della natura e alla propria liber­
tà; quanto alla seconda morte — quella che il volgo ritiene vita
— , usando un termine terrificante, testimoniamo che essa
strappa l’anima dalla luce splendente dell’immortalità per pre­
cipitarla, per così dire, nelle tenebre della morte. 3. Infatti,
affinché un essere animato esista, occorre che l’anima sia inca­
tenata nel corpo. Per questo il corpo è chiamato SÉ[ìoc$, cioè
quoddam ofjpa, id est animae sepulcrum. Vnde Cicero, pari­
ter utrumque significans, corpus esse uinculum, corpus esse
sepulcrum, quod carcer est sepultorum, ait: «qui e corporum
uinclis tamquam e carcere euolauerunt.»
4. Inferos autem Platonici non in corporibus esse, id est non
a corporibus incipere, dixerunt, sed certam mundi istius par­
tem Ditis sedem, id est inferos, uocauerunt; de loci uero ipsius
finibus inter se dissona publicarunt et in tres sectas diuisa sen­
tentia est.
5. Alii enim mundum in duo diuiserunt, quorum alterum
facit, alterum patitur; et illud facere dixerunt quod, cum sit
immutabile, alteri causas et necessitatem permutationis inpo-
nit, hoc pati quod permutationem uariatur. 6. Et immutabilem
quidem mundi partem a sphaera, quae ànÀavris dicitur,
usque ad globi lunaris exordium, mutabilem uero a luna ad
terras usque dixerunt; et uiuere animas dum in immutabili
parte consistunt, mori autem cum ad partem ceciderint permu­
tationis capacem; atque ideo inter lunam terrasque locum mor­
tis et inferorum uocari; ipsamque lunam uitae esse mortisque
confinium; et animas inde in terram fluentes mori, inde ad
supera meantes in uitam reuerti nec immerito aestimatum est.
A luna enim deorsum natura incipit caducorum: ab hac animae
sub numerum dierum cadere et sub tempus incipiunt. 7.
Denique illam aetheriam terram physici uocauerunt, et habita­
tores eius lunares populos nuncuparunt. Quod ita esse pluri­
mis argumentis, quae nunc longum est enumerare, docuerunt.
Nec dubium est quin ipsa sit mortalium corporum et auctor et
conditrix, adeo ut nonnulla corpora sub luminis eius accessu
patiantur augmenta et hac decrescente minuantur. Sed ne de re
manifesta fastidium prolixa adsertione generetur, ad ea quae
de inferorum loco alii definiunt transeamus.
8. Maluerunt enim mundum alii in elementa ter quaterna
diuidere, ut in primo numerentur ordine terra, aqua, aer, ignis,
«catena», e acopa, che ha molta analogia con orina, vale a dire
«sepolcro dell'anima». Ecco perché Cicerone, volendo espri­
mere insieme l’una e l’altra cosa, ossia che il corpo è una cate­
na e un sepolcro, essendo la tomba la prigione dei morti 193,
parla di «coloro che sono sfuggiti con un colpo d’ala dai vincoli
del corpo come da una prigione».
4. Tuttavia Ì Platonici dissero che gli inferi non si trovano
nei corpi, cioè che non cominciavano dai corpi; essi chiamaro­
no «dimora di Dite», cioè inferi, una parte ben definita del
mondo, ma non furono concordi tra loro sui confini di questo
luogo e si ebbero, su questo argomento, tre scuole diverse.
5. Infatti alcuni194 divisero il mondo in due parti, una atti­
va e l’altra passiva, e definirono come parte attiva quella che,
essendo immutabile, impone all’altra la necessità e le cause del
mutamento, mentre la parte passiva è quella soggetta al muta­
mento. 6, Sostennero che la parte immutabile del mondo si
distende dalla sfera detta àiTÀavris fino all’inizio del globo
lunare, mentre la seconda, soggetta al mutamento, va dalla
luna fino alla terra 195; è solamente finché restano nella parte
immutabile che le anime possono vivere e muoiono nel
momento in cui cadono nella parte idonea al mutamento; e
dunque la regione tra la luna e la terra fu chiamata «luogo di
morte e degli inferi»; la luna stessa è la frontiera tra la vita e la
morte e non a torto si credette che le anime che da lassù scen­
dono in terra muoiano, mentre quelle che da lassù risalgono
verso le regioni superne ritornino in vita. Difatti, nello spazio
sublunare, comincia la zona abitata dagli esseri perituri: qui le
anime cominciano ad essere soggette alla misura del tempo e al
numero dei giorni. 7. Infine, i fisici hanno dato alla luna il
nome di «terra eterea» 196 e ai suoi abitanti quello di «popoli
lunari» 197. Insegnano tutto questo basandosi su vari argomen­
ti che qui sarebbe troppo lungo enumerare. Non si può dubi­
tare poi che la luna è autrice e cooperatrice dei corpi mortali,
al punto che alcuni di essi aumentano o diminuiscono, a secon­
da che la sua luce cresca o decresca. Ma ora, per non generar
fastidio con una prolissa discussione su una materia nota, pas­
siamo alle altre definizioni circa l’area degli inferi.
8. Altri m , infatti, preferirono dividere il mondo in tre ordi­
ni di quattro elementi, inserendo nella prima serie la terra, l’ac­
qui est pars liquidior aeris uicina lunae: supra haec rursum toti-
dem numero, sed naturae purioris elementa, ut sit luna pro
terra, quam aetheriam terram a physicis diximus nominatam,
aqua sit sphaera Mercurii, aer Veneris, ignis in sole, tertius
uero elementorum ordo ita ad nos conuersus habeatur ut ter­
ram ultimam faciat, et, ceteris in medium redactis, in terras
desinat tam ima quam summa postremitas, igitur sphaera
Martia ignis habeatur, aer Iouis, Saturni aqua, terra uero
cxTrXavris, in qua Elysios esse campos puris animis deputatos
antiquitas nobis intellegendum reliquit. 9. De his campis
anima, cum in corpus emittitur, per tres elementorum ordines
trina morte ad corpus usque descendit. Haec est inter
Platonicos de morte animae, cum in corpus truditur, secunda
sententia.
10. Alii uero — nam tres esse inter eos sententiarum diuer-
sitates ante signauimus — in duas quidem et ipsi partes, sicut
primi faciunt, sed non isdem terminis diuidunt mundum. Hi
enim caelum, quod cxTrAavrig sphaera uocitatur, partem unam,
septem uero sphaeras quae uagae uocantur et quod inter illas
ac terram est terramque ipsam, alteram partem esse uoluerunt.
11. Secundum hos ergo, quorum sectae amicior est ratio, ani­
mae beatae, ab omni cuiuscumque contagione corporis liberae,
caelum possident. Quae uero appetentiam corporis et huius
quam in terris uitam uocamus, ab illa specula altissima et per­
petua luce despiciens, desiderio latenti cogitauerit, pondere
ipso terrenae cogitationis, paulatim in inferiora delabitur. 12.
Nec subito a perfecta incorporalitate luteum corpus induitur,
sed sensim, per tacita detrimenta et longiorem simplicis et
absolutissimae puritatis recessum, in quaedam siderei corporis
incrementa turgescit. In singulis enim sphaeris quae caelo sub-
iectae sunt aetheria obuolutione uestitur, ut per eas gradatim
qua, l’aria e il fuoco, che è la parte più limpida dell’aria vicina
alla luna; sopra quest’ordine ce n ’è un altro, con lo stesso
numero di elementi ma di natura più pura, cosicché la luna
rappresenta la terra — che i fisici denominarono, come abbia­
mo detto, «terra eterea» — , l’acqua è la sfera di Mercurio,
viene poi Venere o l’aria, e il fuoco è nel sole; nel terzo ordine
la serie degli elementi si ritiene che sia inversa rispetto a noi,
nel senso che la terra occupa l’ultima regione e, con il raggrup­
pamento degli altri elementi nelle aree intermedie, essi termi­
nano con la terra alle due estremità inferiore e superiore; così
si considera che la sfera di Marte è il fuoco, quella di Giove l’a­
ria, quella di Saturno l’acqua ed infine l’cxTrXavrjs è la terra,
che racchiude i Campi Elisi, riservati alle anime pure, secondo
quanto ci ha trasmesso la tradizione dell’Antichità. 9. L’anima
che lascia questi campi per essere inviata in un corpo discende
dunque attraverso tre ordini di elementi subendo una triplice
morte. Tale è l’opinione del secondo gruppo di Platonici
riguardo alla morte dell’anima esiliata in un corpo.
10. Altri ancora 199— come abbiamo segnalato in preceden­
za esistono tre diverse scuole — dividono, come quelli del
primo gruppo, il mondo in due parti, ma non con gli stessi con­
fini. Difatti sostengono che una parte sia costituita dal cielo, la
sfera detta ccTrXavris, e che la seconda sia costituita dalle sette
sfere cosiddette erranti, da tutto ciò che esiste tra esse e la terra,
oltre la terra stessa. 11. Secondo costoro, che appartengono alla
setta cui la ragione è più amica, le anime beate, liberate da ogni
contaminazione materiale, possiedono il cielo. Ma quelle che,
sotto l’effetto di un segreto desiderio, da quella dimora vertigi­
nosa e da quella luce perpetua hanno gettato uno sguardo in
basso verso i corpi e verso ciò che chiamiamo quaggiù la vita si
sono a poco a poco trascinate verso le regioni inferiori, per il
solo peso di questo pensiero terreno. 12. Quando abbandona lo
stato di perfetta immaterialità, questa vestizione del corpo fan­
goso non è tuttavia, per l’anima, improvvisa, ma graduale, ed
essa si impoverisce impercettibilmente e con un lento degrado
dalla sua purezza uniforme e assoluta, mentre s’ingrossa con
certi accrescimenti di sostanza siderale. Infatti, in ciascuna delle
sfere situate al di sotto del cielo, l’anima si riveste di un involu­
cro etereo 200, di modo che attraverso tali involucri si adatta,
societati huius indumenti testei concilietur, et ideo, totidem
mortibus quot sphaeras transit, ad hanc peruenit quae in terris
ulta uocitatur.

12, 1. Descensus uero ipsius, quo anima de caelo in huius


uitae inferna delabitur, sic ordo digeritur.
Zodiacum ita lacteus circulus obliquae circumflexionis
occursu ambiendo complectitur ut eum qua duo tropica signa,
Capricornus et Cancer, feruntur, intersecet. Has solis portas
physici uocauerunt, quia in utraque obuiante solstitio ulterius
solis inhibetur accessio, et fit ei regressus ad zonae uiam cuius
terminos numquam relinquit. 2. Per has portas animae de
caelo in terras meare et de terris in caelum remeare creduntur.
Ideo hominum una, altera deorum uocatur: hominum, Cancer,
quia per hunc in inferiora descensus est; Capricornus, deorum,
quia per illum animae in propriae inmortalitatis sedem et in
deorum numerum reuertuntur. 3. Et hoc est quod Homeri
diuina prudentia in antri Ithacensis descriptione significat.
Hinc et Pythagoras putat a lacteo circulo deorsum incipere
Ditis imperium, quia animae inde lapsae uidentur iam a supe­
ris recessisse. Ideo primam nascentibus offerri ait lactis alimo­
niam, quia primus eis motus a lacteo incipit in corpora terrena
labentibus. Vnde et Scipioni de animis beatorum ostenso lac­
teo dictum est: «hinc profecti huc reuertuntur.»
4. Ergo descensurae cum adhuc in Cancro sunt, quoniam
illic positae necdum lacteum reliquerunt, adhuc in numero
sunt deorum. Cum uero ad Leonem labendo peruenerint, illic
condicionis futurae auspicantur exordium. Et quia in Leone
sunt rudimenta nascendi et quaedam humanae naturae tiroci-
progressivamente, ad unirsi a questo nostro rivestimento di
sostanza terrena e pertanto, per un numero di morti pari a quel­
lo delle sfere che attraversa, l’anima perviene a quello stato che
quaggiù in terra è chiamato vita,

12. 1. Quanto alla vera e propria discesa, nel corso della


quale l’anima si lascia cadere dal cielo fino alle regioni inferna­
li di questa vita, ecco l’ordine del suo svolgimento.
Il circolo latteo abbraccia talmente lo zodiaco con l’orbita
obliqua che ha nei cieli, che lo interseca in due punti, là dove
si muovono i due segni tropicali, il Capricorno e il Cancro 201.
I fisici chiamano questi due segni le «porte del Sole», perché,
nell’uno e nell’altro, il punto solstiziale impedisce al sole, sbar­
randogli la strada, di proseguire il suo corso e ne provoca il
ritorno sui suoi passi verso la zona di cui non abbandona mai i
confini. 2. È attraverso queste porte, si crede, che le anime
scendono dal cielo sulla terra e risalgono verso il cielo dalla
terra. Una, perciò, è chiamata «porta degli uomini» e l’altra
«porta degli dèi»: la «porta degli uomini» è il Cancro, poiché
la discesa verso le regioni inferiori avviene attraverso di essa; la
«porta degli dèi» è il Capricorno, perché attraverso di esso le
anime risalgono verso la sede della loro propria immortalità e
nel novero degli dèi. 3. E questo è quanto Omero con la sua
divina sapienza ha voluto simboleggiare nella descrizione del­
l ’antro d ’Itaca 202. Così anche Pitagora pensa che l’impero di
Dite cominci al di sotto del circolo latteo: perché le anime,
cadendo di là, sembrano ormai essersi scisse dalle regioni
superne. Questo spiega, secondo lui, perché il primo alimento
che si offre ai neonati sia il latte: perché il primo movimento
che spinge le anime verso i corpi terreni parte dal circolo lat­
teo. Perciò, anche a Scipione, mostrandogli il circolo latteo,
viene detto parlando delle anime dei beati «come sono partite
di qui, così poi vi ritornano» 203.
4. Così quelle che sono destinate a scendere, finché sono nel
Cancro, non hanno ancora lasciato il circolo latteo e di conse­
guenza sono ancora nel novero degli dèi. Ma quando sono
scese fino al Leone, entrano nell’apprendistato della loro con­
dizione futura. Nel Leone 204, infatti, comincia il noviziato della
loro nascita e in un certo senso il tirocinio della natura umana;
nia, Aquarius autem aduersus Leoni est et illo oriente mox
occidit, ideo, cum sol Aquarium tenet, Manibus parentatur,
utpote in signo quod humanae uitae contrarium uel aduersum
feratur.
5. Illinc ergo, id est a confinio quo se zodiacus lacteusque
contingunt, anima descendens a tereti, quae sola forma diuina
est, in conum defluendo producitur, sicut a puncto nascitur
linea et in longum ex indiuiduo procedit, ibique a puncto suo,
quod est monas, uenit in dyadem, quae est prima protractio. 6.
Et haec est essentia quam indiuiduam eandemque diuiduam
Plato in Timaeo, cum de mundanae animae fabrica loqueretur,
expressit. Animae enim, sicut mundi, ita et hominis unius,
modo diuisionis repperientur ignarae, si diuinae naturae sim­
plicitas cogitetur, modo capaces cum illa per mundi, haec per
hominis membra diffunditur.
7. Anima ergo, cum trahitur ad corpus, in hac prima sui
productione siluestrem tumultum, id est ,uA,r|v influentem sibi,
incipit experiri, et hoc est quod Plato notauit in Phaedone, ani­
mam in corpus trahi noua ebrietate trepidantem, uolens
nouum potum materialis alluuionis intellegi, quo delibuta et
grauata deducitur. 8. Arcani huius indicium est et Crater Liberi
patris ille sidereus, in regione quae inter Cancrum est et
Leonem locatus, ebrietatem illic primum descensuris animis
euenire silua influente significans, unde et comes ebrietatis,
obliuio, illic animis incipit iam latenter obrepere. 9. Nam si
animae memoriam rerum diuinarum, quarum in caelo erant
consciae, ad corpora usque deferrent, nulla inter homines foret
de diuinitate dissensio; sed obliuionem quidem omnes descen­
dendo hauriunt, aliae uero magis, minus aliae. Et ideo in terris
uerum cum non omnibus liqueat, tamen opinantur omnes,
quia opinionis ortus est memoriae defectus. 10. Hi tamen hoc
invece siccome l ’Acquario è in opposizione al Leone e subito
tramonta quando quello si leva, perciò si sacrifica ai Mani 205
quando il sole occupa l’Acquario e cioè durante un segno, con­
siderato come contrario e avverso alla vita umana 206.
5. Da lì dunque, cioè dal confine in cui lo zodiaco e il circo­
lo latteo si toccano, l’anima che scende passa allungandosi da
una forma sferica, la sola divina 207, a una forma conica, come
la linea nasce dal punto e procede dall’entità indivisibile alla
lunghezza e qui dal suo punto, che è emblema della monade,
diventa, con la sua prima estensione, diade208. 6. Tale è l’essen­
za a cui Platone, nel Timeo 209, dà insieme i nomi di indivisibi­
le e di divisibile, quando parla della formazione dell’Anima del
Mondo. Infatti le anime, tanto quella del mondo come quella
del singolo uomo, risultano non essere suscettibili di divisione,
quando si considera solamente l’unicità della natura divina, ma
talvolta ne sembrano suscettibili, quando si diffondono e si
dividono, l’una nelle membra del mondo, l’altra in quelle del­
l’uomo.
7. Quando pertanto l ’anima è trascinata verso il corpo, in
questo suo primo prolungamento comincia a sperimentare il
tumulto silvestre, cioè l’vÀ.ri210 che affluisce in essa. E ciò che
ha osservato Platone nel Fedone 211, quando descrive l’anima
trascinata nel corpo che vacilla per un’ebbrezza mai prima
sperimentata, volendo con ciò alludere all’inusitato flusso di
materia corporea che la impregna e l’appesantisce nel corso
della sua discesa. 8. Un simbolo di questo mistero è anche «il
Cratere del Padre Libero», costellazione che si vede collocata
tra il Cancro e il L eone212, che designa lo stato d’ebbrezza che
lassù, per la prima volta, sotto l’influsso della materia, s’impos­
sessa delle anime che devono scendere quaggiù; ne consegue
anche che l’oblio, compagno dell’ebbrezza, comincia ad insi­
nuarsi surrettiziamente nelle anime. 9. Infatti se le anime
recassero giù fin nei corpi la memoria delle cose divine, di cui
nel cielo erano a conoscenza, non vi sarebbe tra gli uomini nes­
sun disaccordo a proposito della Divinità; 213 ma tutte, discen­
dendo, bevono alla coppa dell’oblio, chi più e chi meno. Ne
deriva che, anche se sulla terra la verità non è comprensibile a
tutti, tutti nondimeno possiedono un’opinione, giacché l’opi­
nione sorge dal difetto di memoria. 10. Tuttavia quanto meno
magis inueniunt qui minus obliuionis hauserunt, quia facile
reminiscuntur quod illic ante cognouerint. Hinc est quod,
quae apud Latinos lectio, apud Graecos uocatur repetita
cognitio, quia, cum uera discimus, ea recognoscimus quae
naturaliter noueramus, priusquam materialis influxio in corpus
uenientes animas ebriaret.
11. Haec est autem hyle, quae omne corpus mundi quod
ubicumque cernimus, ideis inpressa, formauit. Sed altissima et
purissima pars eius, qua uel sustentantur diuina uel constant,
nectar uocatur et creditur esse potus deorum, inferior uero
atque turbidior potus animarum, et hoc est quod ueteres
Lethaeum fluuium uocauerunt.
12. Ipsum autem Liberum Patrem Orphaici vo vv ùXikóv
suspicantur intellegi, qui ab illo indiuiduo natus in singulos
ipse diuiditur. Ideo in illorum sacris traditur Titanio furore in
membra discerptus et frustis sepultis, rursus unus et integer
emersisse quia U0O5, quem diximus mentem uocari, ex indiui­
duo praebendo se diuidendum, et rursus ex diuiso ad indiui-
duum reuertendo et mundi implet officia et naturae suae arca­
na non deserit.
13. Hoc ergo primo pondere de zodiaco et lacteo ad subiec-
tas usque sphaeras anima delapsa, dum et per illas labitur, in
singulis non solum, ut iam diximus, luminosi corporis amicitur
accessu, sed et singulos motus, quos in exercitio est habitura,
producit: 14. in Saturni ratiocinationem et intellegentiam,
quod ÀoyicmKÓv et 6ecopr|TiK0v uocant; in Iouis, uim agen­
di, quod TTpaTiKÓv dicitur; in Martis, animositatis ardorem,
quod 0u |_ukóv nuncupatur; in Solis, sentiendi opinandique
naturam, quod aia0r(TiK0v et (pavTccoTiKÓv appellant; desi­
derii uero motum, quod éui0u|ir)TiKÓv uocatur, in Veneris;
pronuntiandi et interpretandi quae sentiat, quod èpuqueu-
l’uomo ha bevuto l’oblio tanto più la verità gli è manifesta,
perché facilmente si rammenta ciò che lassù ha conosciuto
anteriormente. Questa facoltà dell’anima, che i Latini chiama­
no lectio [apprendimento], presso i Greci si dice «conoscenza
ritrovata»214, perché, nel momento in cui apprendiamo delle
verità, riconosciamo quanto sapevamo naturalmente, prima
che il flusso della materia ubriacasse le anime discendenti nei
corpi.
11. E questa la «hyle» [materia], che, con la segnatura delle
idee, ha formato ogni corpo dell’universo, fra quanti ci è dato
scorgere. Ma la parte più elevata e più pura di questa sostanza,
quella che nutre e costituisce gli esseri divini, è chiamata netta­
re e si reputa che sia la bevanda degli dèi 215; mentre la parte
inferiore e più torbida si crede che sia la bevanda delle anime
ed è ciò che gli Antichi hanno designato sotto il nome di fiume
L ete216.
12. Con lo stesso Padre Libero gli Orfici simboleggiano il
vous ù Àikós [la mente materiale], che nato dall’uno indivisibi­
le si divide in singole parti. Perciò nei loro sacri riti si traman­
da che questo dio, straziato dai Titani furiosi che seppellirono
poi i brani del suo corpo, rinacque unico ed integro; il che
significa che il voùs — che dicemmo chiamarsi anche intellet­
to — suscitando la modifica del suo stato di indivisibilità verso
la divisione e, successivamente, ritornando dalla divisione
all’indivisibile, compie i suoi uffici nel mondo e non abbando­
na i misteri della sua natura 217.
13. L’anima, quindi, trascinata giù, sotto questo primo peso,
dallo zodiaco e dal circolo latteo fino alle sfere sottostanti,
mentre passa tra quest’uldme, non solo prende in ognuna di
esse, come s’è detto in precedenza, nuove vesti della materia
del corpo luminoso 218, ma riceve anche le differenti facoltà che
dovrà poi mettere in pratica: 14. acquista, nella sfera di
Saturno, il raziocinio e l’intelligenza, o ciò che si chiama Aoyi-
o t i k ó v e 0 e c o p r )T iK Ó v ; riceve da Giove la forza d’agire, o T r p a -
t i k ó v ; Marte gli dà l’ardore d’animo, detto O u u i k ó v ; riceve dal
Sole le facoltà senzienti e dell’immaginazione, chiamate
aia0r]TiKÓv e < p a v T a c m K Ó v ; nella sfera dì Venere, il moto dei
desideri, detto è t t i 0 u |j t ì t i k Ó v ; nella sfera di Mercurio prende
la facoltà di esprimere e di interpretare ciò che sente, detta
T tK Ó vdicitur, in orbe Mercurii; q n rriK Ó v uero, id est naturam
plantandi et augendi corpora, in ingressu globi lunaris exercet.
15. Et est haec, sicut a diuinis ultima, ita in nostris terrenisque
omnibus prima. Corpus enim hoc, sicut faex rerum diuinarum
est, ita animalis est prima substantia.
16. Et haec est differentia inter terrena corpora et supera,
caeli dico et siderum aliorumque elementorum, quod illa qui­
dem sursum arcessita sunt ad animae sedem, et immortalitatem
ex ipsa natura regionis et sublimatis imitatione meruerunt. Ad
haec uero terrena corpora anima ipsa deducitur et ideo mori
creditur, cum in caducam regionem et in sedem mortalitatis
includitur. 17. Nec te moueat quod de anima, quam esse
immortalem dicimus, mortem totiens nominamus. Et enim sua
morte anima non extinguitur, sed ad tempus obruitur, nec tem­
porali demersione beneficium perpetuitatis eximitur, cum rur­
sus e corpore, ubi meruerit contagione uitiorum penitus elima­
ta purgari, ad perennis uitae lucem restituta in integrum reuer-
tatur.
18. Plene, ut arbitror, de uita et morte animae definitio
liquet, quam de adytis philosophiae doctrina et sapientia Cice­
ronis elicuit.

13. 1. Sed Scipio per quietem, et caelo, quod in praemium


cedit beatis, et promissione immortalitatis animatus, tam glo­
riosam spem tamque inclitam magis magisque firmauit uiso
patre, de quo utrum uiueret, cum adhuc uideretur dubitare,
quaesiuerat. 2. Mortem igitur malle coepit, ut uiueret, nec fles­
se contentus uiso parente quem crediderat extinctum, ubi
loqui posse coepit, hoc primum probare uoluit, nihil se magis
desiderare quam ut cum eo iam moraretur. Nec tamen apud se
quae desiderabat facienda constituit ante quam consuleret:
quorum unum prudentiae, alterum pietatis adsertio est.
ÉpuTlVGUTiKÓv; infine, all’ingresso del globo lunare, l’anima
acquista il (puriKÓv, cioè la capacità di generare e di far cresce­
re i corpi.219 15. Quest’ultima facoltà 220, come è più distante
dagli dèi così è la prima in noi e in tutti i corpi terreni. Il corpo
infatti com’è la feccia delle cose divine, così si trova ad essere
la prima sostanza animale.
16. La differenza tra i corpi terreni e quelli superni — inten­
do quelli del cielo, delle stelle e degli altri elementi — consiste
nel fatto che quelli di lassù sono attirati in alto verso la sede
dell’anima, ove hanno guadagnato l’immortalità grazie alla
natura stessa di quella regione di cui imitano la sublimità che
vi regna. I corpi terreni, invece, vedono l’anima stessa raggiun­
gerli in basso e perciò si ritiene che muoia quando viene confi­
nata in una regione caduca, sede della mortalità. 17. E non ti
sorprenda il fatto che a proposito dell’anima, che, come abbia­
mo detto, è immortale, si sia parlato così spesso di morte.
L’anima non è annientata da questa sua morte, è solamente
prostrata per un certo periodo di tem po221, e questo tempora­
neo seppellimento non la priva affatto delle prerogative dell’e­
ternità, poiché, abbandonato di nuovo il corpo, dopo avere
meritato di esserne purificata, appena liberatasi completamen­
te dal contagio dei vizi, essa è restituita allo splendore della vita
eterna e ristabilita nella sua integrità.
18. Abbiamo ora, mi sembra, determinato chiaramente il
senso di questa distinzione, vita e morte dell’anima, che la dot­
trina e la sapienza di Cicerone hanno tratto dai penetrali della
filosofia.

13. 1. Ma nel suo sonno Scipione, esaltato dalla prospettiva


del cielo che tocca in premio ai beati e dalla promessa dell’im­
mortalità, raffermò ancor più la sua speranza così brillante e glo­
riosa alla vista del padre, di cui aveva chiesto perché sembrava
ancora dubitarne, se era ancora in vita. 2. Si mise dunque a pre­
ferire la morte, al fine di vivere, e lungi dal trattenere le lacrime
che gli arrecava la vista del genitore, che aveva creduto morto,
appena potè di nuovo parlare, volle, innanzi tutto, esprimergli il
suo desiderio più caro di poter restare insieme a lui. E tuttavia
non determinò nel suo intimo di dar compimento al suo deside­
rio senza prima aver ascoltato i consigli del padre: bella dimo­
strazione di prudenza da una parte e di pietà filiale dall’altra.
Nunc ipsa uel consulentis uel praecipientis uerba tracte­
mus, 3. « “Quaeso”, inquam, “pater sanctissime atque optime,
quoniam haec est uita, ut Africanum audio dicere, quid moror in
terris? Quin huc ad uos uenire propero?” — "Non est ita” inquit
ille. “Nisi enim cum deus is, cuius hoc templum est omne quod
conspicis, istis te corporis custodiis liherauerit, huc tibi aditus
patere non potest. 4. Homines enim sunt hac lege generati qui
tuerentur illum globum, quem in templo hoc medium uides,
quae terra dicitur, hisque animus datus est ex illis sempiternis
ignibus, quae sidera et stellas uocatis, quae, globosae et rotundae,
diuinis animatae mentibus, circulos suos orbesque conficiunt
celeritate mirabili. Quare et tibi, Publi, et piis omnibus retinen­
dus animus est in custodia corporis nec iniussu eius, a quo ille est
uobis d a tu se x hominum uita migrandum est, ne munus adsi-
gnatum a deo defugisse uideamini.”»
5. Haec secta et praeceptio Platonis est, qui in Phaedone
definit homini non esse sua sponte moriendum. Sed in eodem
tamen dialogo idem dicit mortem philosophantibus adpeten-
dam et ipsam philosophiam meditationem esse moriendi. Haec
sibi ergo contraria uidentur, sed non ita est. Nam Plato duas
mortes hominis nouit. Nec hoc nunc repeto, quod superius
dictum est, duas esse mortes, unam animae, animalis alteram.
Sed ipsius quoque animalis, hoc est hominis, duas adserit mor­
tes, quarum unam natura, uirtutes alteram praestant. 6. Homo
enim moritur cum anima corpus relinquit solutum lege natu­
rae. Mori etiam dicitur cum anima, adhuc in corpore constitu­
ta, corporeas illecebras philosophia docente contemnit, et
cupiditatum dulces insidias reliquasque omnes exuitur passio­
nes. Et hoc est quod superius ex secundo uirtutum ordine,
quae solis philosophantibus aptae sunt, euenire signauimus. 7.
Hanc ergo mortem dicit Plato sapientibus esse adpetendam,
illam uero quam omnibus natura constituit cogi uel inferri uel
Ma adesso analizziamo le parole stesse di chi si consiglia e
di chi raccomanda. 3. « “Tiprego" dissi “padre mio santissimo e
ottimo: se qui è la vita, a quanto sento dire dall’Africano, perché
mai indugio sulla terra? Perché invece non mi affretto a raggiun­
gervi quassù?” — “Non è così” rispose il padre “Se non ti avrà
liberato da questi legami corporei quel dio che governa tutto il
tempio celeste che vedi, non può accadere che a te sia permesso
l’accesso quassù. 4. Gli uomini sono infatti generati in base a
questa legge: che veglino su quel globo, chiamato terra, che tu
scorgi al centro di questo tempio celeste; ad essi viene fornita
un’anima presa dai fuochi sempiterni cui voi date nome di astri
e stelle, quei solidi sferici che, animati da intelligenze divine,
compiono le loro circonvoluzioni e orbite con un ammirevole
velocità. Anche tu, perciò, Publio, come tutti gli uomini pii, devi
conservare l’anima sotto la custodia del corpo, né è permesso
abbandonare la vita umana senza il consenso di colui che ve l’ha
data, perché non sembri che intendiate sottrarvi al compito asse­
gnatovi dalla divinità”» 222.
5. Tale è la dottrina e l’insegnamento di Platone che stabili­
sce, nel Fedone, che l’uomo non deve morire di sua volontà 223.
Ma, nello stesso dialogo, dice anche che i filosofi devono desi­
derare la morte e che la stessa filosofia è una meditazione a
morire 224. Queste due asserzioni sembrerebbero contradditto­
rie, ma non lo sono. Infatti Platone distingue nell’uomo due
tipi di morte. Non sto qui a ripetere quanto ho detto prima,
ossia che esistono due morti, una dell’anima e l’altra dell’esse­
re animato 225. Ma trattandosi dell’essere animato stesso, cioè
dell’uomo, Platone asserisce che esistono due morti, di cui una
è causata dalla natura e l’altra è risultato delle virtù. 6. L’uomo,
infatti, muore quando l’anima abbandona il corpo, da cui si
scioglie per una legge di natura. Si dice però che muoia, altre­
sì, quando l’anima, ancora installata nel corpo, ligia all’insegna­
mento della filosofia, rinuncia alle lusinghe del corpo e si spo­
glia delle dolci insidie dei piaceri e di tutte le altre passioni.
Questo stato si verifica per effetto della seconda serie di virtù,
segnalate in precedenza 226, che sono appannaggio dei soli filo­
sofi. 7. Ecco il tipo di morte cui, secondo Platone, i saggi devo­
no aspirare; quanto all’altra, cui tutti siamo assoggettati per
una legge naturale, egli vieta che sia ottenuta per forza, provo-
accersiri uetat, docens expectandam esse naturam, et has cau­
sas huius aperiens sanctionis quas ex usu rerum quae in coti­
diana conuersatione sunt mutuatur. 8. Ait enim eos qui pote­
statis imperio truduntur in carcerem non oportere inde diffu­
gere prius quam potestas ipsa quae clausit abire permiserit:
non enim uitari poenam furtiua discessione, sed crescere. Hoc
quoque addit nos esse in dominio dei, cuius tutela et prouiden-
tia gubernamur; nihil autem esse inuito domino de his quae
possidet ex eo loco in quo suum constituerat auferendum; et
sicut qui uitam mancipio extorquet alieno, crimine non care-
bit, ita eum qui finem sibi domino necdum iubente quaesiue-
rit, non absolutionem consequi sed reatum.
9. Haec Platonicae sectae semina altius Plotinus exsequitur.
Oportet, inquit, animam post hominem liberam corporeis pas­
sionibus inueniri. Quam qui de corpore uiolenter extrudit,
liberam esse non patitur. Qui enim sibi sua sponte necem com­
parat, aut pertaesus necessitatis aut metu cuiusquam ad hoc
descendit aut odio, quae omnia inter passiones habentur. Ergo
etsi ante fuit his sordibus pura, hoc ipso tamen quod exit
extorta sordescit.
Deinde mortem debere ait animae a corpore solutionem
esse, non uinculum; exitu autem coacto animam circa corpus
magis magisque uinciri. 10. Et re uera ideo sic extortae animae
diu circa corpus eiusue sepulturam uel locum in quo iniecta
manus est peruagantur, cum contra illae animae, quae se in hac
uita a uinculis corporis philosophiae morte dissoluunt, adhuc
extante corpore caelo et sideribus inserantur. Et ideo illam
solam de uoluntariis mortibus significat esse laudabilem, quae
comparatur, ut diximus, philosophiae ratione, non ferro; pru­
dentia, non ueneno.
11. Addit etiam illam solam esse naturalem mortem ubi cor­
pus animam, non anima corpus relinquit. Constat enim nume-
cata o cercata; ci insegna che occorre lasciar agire la natura e ci
spiega le ragioni di questa interdizione con esempi mutuati dal­
l ’esperienza concreta di tutti i giorni. 8. Dice infatti che coloro
che sono detenuti in carcere per ordine di un’autorità, non
devono uscire di là, se non prima che il potere stesso, che li ha
rinchiusi, non li autorizzi ad andarsene: infatti non si evita un
castigo con una furtiva evasione, ma lo si aggrava solamente.
Per di più, aggiunge che noi siamo sotto il dominio della divi­
nità, la cui tutela e provvidenza ci governano; inoltre, non si
deve sottrarre al proprio signore, contro la sua volontà, alcun-
ché di quello che possiede fuori di quel luogo dove egli lo ha
posto; e allo stesso modo in cui si sarà dichiarati criminali ucci­
dendo uno schiavo altrui, è evidente che chi si è dato la morte,
senza l’ordine del suo signore, non otterrà l’assoluzione, bensì
una condanna.
9. Questi principi della scuola platonica sono stati ancor più
approfonditi da Plotino 227. E necessario, dichiara, che l’anima,
lasciando il corpo, si trovi liberata dalle passioni del corpo. Chi
scaccia l’anima dal corpo con violenza, non le permette di esse­
re libera. Infatti, chi si procura spontaneamente la morte è con­
dotto a far ciò o perché stanco delle costrizioni dell’esistenza,
o per effetto di qualche paura, o per odio, tutte cose che si
annoverano fra le passioni 228. Anche se l’anima fosse stata in
precedenza pura di queste sozzure, per il fatto stesso che la si
fa uscire forzatamente dal corpo, diviene sudicia.
La morte, continua, deve quindi essere per l’anima uno
scioglimento dal corpo, non una catena; l’anima, invece, per la
sua uscita forzata, resta ancor più legata intorno al corpo. 10.
E veramente, perciò, le anime strappate così violentemente
vagano a lungo intorno al corpo o alla sua tomba, o nei luoghi
in cui si è perpetrato il suicidio; al contrario, quelle che in que­
sta vita si sciolgono dalle catene del corpo con la morte filoso­
fica, sono ammesse in cielo e nelle stelle, pur esistendo ancora
il corpo. Per questo Plotino dichiara che, tra le morti volonta­
rie, Tunica degna d’elogi è quella che si realizza, come abbia­
mo detto, con le armi della filosofia, non con il ferro, con la
saggezza, non con il veleno 229.
11. Aggiunge anche che l’unica morte naturale è quella in cui
il corpo abbandona l’anima, e non quando l’anima lascia il
rorum certam constitutamque rationem animas sociare corpo­
ribus. Hi numeri dum supersunt, perseuerat corpus animari;
cum uero deficiunt, mox arcana illa uis soluitur qua societas
ipsa constabat, et hoc est quod fatum et fatalia uitae tempora
uocamus. 12. Anima ergo ipsa non deficit quippe quae immor­
talis atque perpetua est, sed inpletis numeris corpus fatiscit;
nec anima lassatur animando, sed officium suum deserit cor­
pus cum iam non possit animari. Hinc illud est doctissimi
uatis:
...explebo numerum reddarque tenebris.

13. Haec est igitur naturalis uere mors, cum finem corporis
solus numerorum suorum defectus adportat, non cum extor­
quetur uita corpori adhuc idoneo ad continuationem ferendi.
Nec leuis est differentia uitam uel natura uel sponte soluendi.
14. Anima enim, cum a corpore deseritur, potest in se nihil
retinere corporeum, si se pure, cum in hac uita esset, instituit.
Cum uero ipsa de corpore uiolenter extruditur, quia exit rupto
uinculo, non soluto, fit ei ipsa necessitas occasio passionis, et
malis uinculi, dum rumpit, inficitur.
15. Hanc quoque superioribus adicit rationem non sponte
pereundi: cum constet, inquit, remunerationem animis illic
esse tribuendam pro modo perfectionis ad quam in hac uita
una quaeque peruenit, non est praecipitandus uitae finis cum
adhuc proficiendi esse possit accessio. 16. Nec frustra hoc dic­
tum est. Nam in arcanis de animae reditu disputationibus fer­
tur in hac uita delinquentes similes esse super aequale solum
cadentibus, quibus denuo sine difficultate praesto sit surgere;
animas uero ex hac uita cum delictorum sordibus recedentes
aequandas his qui in abruptum ex alto praecipitique delapsi
sint, unde numquam facultas fit resurgendi. Ideo ergo uten­
dum concessis uitae spatiis ut sit perfectae purgationis maior
facultas.
corpo 230. È difatti risaputo che è un rapporto numerico preciso
e determinato che associa le anime ai corpi231. Finché sussisto­
no questi numeri, il corpo continua ad essere animato, ma quan­
do questi fanno difetto, subito si dissolve quell’arcana forza che
tiene in vita quest’associazione stessa: è ciò a cui diamo il nome
di «fato» o «momento fatale per la vita». 12. L’anima in sé, quin­
di, non viene mai meno, essendo immortale e sempiterna, ma il
corpo si dissolve quando si compie il ciclo dei numeri; non è l’a­
nima che si stanca di animarlo, è il corpo, bensì, che abbando­
na il suo compito, quando non può ormai più essere a lungo ani­
mato. Donde l’espressione del sapientissimo vate:
... compirò il numero, scomparirò nelle tenebre. 232

13. Tale è dunque la vera morte naturale: quando l’esauri­


mento dei numeri, ed esso solo, arreca la fine del corpo, e non
quando si strappa la vita ad un corpo ancora capace di conti­
nuare a sopportarla. Né la differenza è lieve tra lo scioglimen­
to naturale e quello volontario. 14. L’anima, infatti, quando è
abbandonata dal corpo, non può conservare in sé niente di
materiale, se, in questa vita, si è comportata con purezza. Ma
quando è espulsa violentemente dal corpo, poiché esce rom­
pendo le catene invece di scioglierle, la necessità subita divie­
ne per essa causa di passione e l’anima si contamina dei mali
Ìnsiti nella catena fin dall’istante in cui la spezza.
15. A queste considerazioni precedenti, Plotino aggiunge
un altro argomento, dicendo: poiché, com’è risaputo, le ricom­
pense promesse all’anima sono lassù attribuite in proporzione
ai gradi di perfezione a cui ognuno è pervenuto in questa vita,
non è il caso di affrettare la fine della nostra vita, poiché si pos­
sono ancora fare dei progressi 233. 16. Ciò non è stato detto
invano. Infatti, nelle dispute esoteriche sul ritorno dell’ani­
ma234, si trova l’idea che le anime che si macchiano di colpe in
questa vita siano paragonabili a coloro i quali, cadendo su un
terreno uniforme, possono rialzarsi prontamente e senza diffi­
coltà; le anime che invece lasciano questa vita con le sozzure
delle loro colpe sono assimilabili a coloro i quali, piombati da
un luogo elevato e scosceso in un precipizio, non hanno più la
possibilità di sollevarsene. Per questo motivo va adoperato
tutto lo spazio della vita che ci è concesso, affinché sia maggio­
re la possibilità di una perfetta purificazione.
17. Ergo, inquies, qui iam perfecte purgatus est, manum
sibi debet inferre, cum non sit ei causa remanendi, quia profec­
tum uJterius non requirit qui ad supera peruenit. Sed hoc ipso
quo sibi celerem finem spe fruendae beatitatis accersit, inreti-
tur laqueo passionis, quia spes, sicut timor, passio est, sed et
cetera quae superior ratio disseruit incurrit. 18. Et hoc est
quod Paulus filium spe uitae uerioris ad se uenire properantem
prohibet ac repellit, ne festinatum absolutionis ascensionisque
desiderium magis eum hac ipsa passione uinciat ac retardet,
nec dicit quod nisi mors naturalis aduenerit «emori non pote­
ris», sed «huc uenire non poteris». 19. «i\Vi/ enim cum deus»
inquit, «istis te corporis custodiis liberauerit, huc tibi aditus pate­
re non potest», quia scit, iam receptus in caelum, nisi perfectae
puritati caelestis habitaculi aditum non patere. Pari autem con­
stantia mors nec ueniens per naturam timenda est, nec contra
ordinem cogenda naturae.
20. Ex his quae Platonem quaeque Plotinum de uoluntaria
morte pronuntiasse rettulimus, nihil in uerbis Ciceronis quibus
hanc prohibet remanebit obscurum.

14. 1 . Sed illa uerba quae praeter hoc sunt inserta repeta­
mus. «Homines enim sunt hac lege generati qui tuerentur illum
globum, quem in templo hoc medium uides, quae terra dicitur;
hisque animus datus est ex illis sempiternis ignibus, quae sidera
et stellas uocatis; quae globosae et rotundae, diuinis animatae
mentibus, circos suos orbesque conficiunt celeritate mirabili.»
2. De terra cur globus dicatur in medio mundo positus, ple­
nius disseremus cum de nouem sphaeris loquemur. Bene
autem uniuersus mundus dei templum uocatur, propter illos
17. Allora, dirai, chi si è ormai perfettamente purificato,
deve uccidersi, poiché non ha più motivi per restare sulla terra,
perché chi ha già raggiunto uno stato superiore non può aspi­
rare a un ulteriore miglioramento. Ma il fatto stesso di darsi
una fine rapida nella speranza di assaporare la beatitudine, lo
avvince alla trappola della passione, giacché la speranza, come
il timore, è nondimeno una passione; perciò ne consegue che
questo uomo va incontro agli altri inconvenienti di cui si è fatto
sopra menzione. 18. Ecco perché Paolo Emilio dissuade e
respinge il figlio che, nella speranza di una vita più autentica,
ha fretta di raggiungerlo: non vuole che questo prematuro
desiderio di liberazione e di ascensione lo incateni o lo tratten­
ga ancor di più per questa stessa passione. Non dice, inoltre, a
Scipione che, «a meno che non sopravvenga una morte natura­
le, non potrà morire», ma gli dice che senza di essa «non potrà
essere ammesso in quel luogo». 19. «Se non ti avrà liberato da
questi legami corporei quel dio che governa tutto il tempio cele­
ste che vedi, non può accadere che a te sia permesso l’accesso
quassù», dice perché egli sa, per essere già stato ricevuto in
cielo, che l’accesso a questa dimora celeste non è aperto se non
alla perfetta purezza. Con uguale fermezza, non bisogna teme­
re la morte che sopraggiunge secondo natura, né si deve farla
venire forzatamente, contro l’ordine naturale.
20. Grazie a ciò che abbiamo appena esposto delle dottrine
di Platone e di Plotino sul suicidio, nessuna delle espressioni
con cui Cicerone lo proibisce resterà oscura.

14. 1 . Ma ritorniamo alle parole che seguono immediata­


mente il brano appena esaminato: «Gli uomini sono infatti
generati in base a questa legge: che veglino su quel globo, chia­
mato terra, che tu scorgi al centro di questo tempio celeste; ad
essi viene fornita un’anima presa dai fuochi sempiterni cui voi
date nome di astri e stelle, quei solidi sferici che, animati da
intelligenze divine, compiono le loro circonvoluzioni e orbite con
un’ammirevole velocità» 235.
2. Perché la terra sia considerata come un globo posto al
centro dell’universo, lo discuteremo con maggior completezza,
quando tratteremo delle nove sfere 236. E ben appropriato asse­
gnare il nome di tempio di Dio a tutto quanto l’universo 237,
qui aestimant nihil esse aliud deum nisi caelum ipsum et caele­
stia ista quae cernimus. Ideo ut summi omnipotentiam dei
ostenderet posse uix intellegi, numquam uideri, quidquid
humano subicitur aspectui templum eius uocauit qui sola
mente concipitur, ut qui haec ueneratur ut templa, cultum
tamen maximum debeat conditori, sciatque quisquis in usum
templi huius inducitur ritu sibi uiuendum sacerdotis; unde, et
quasi quodam publico praeconio, tantam humano generi diui-
nitatem inesse testatur ut uniuersos siderei animi cognatione
nobilitet.
3. Notandum est quod hoc loco animum et ut proprie et ut
abusiue dicitur posuit. Animus enim proprie mens est, quam
diuiniorem anima nemo dubitauit; sed non numquam sic et
animam usurpantes uocamus. 4. Cum ergo dicit: «hisque ani­
mus datus est ex illis sempiternis ignibus», mentem praestat
intellegi, quae nobis proprie cum caelo sideribusque commu­
nis est. Cum uero ait: «retinendus animus est in custodia corpo­
ris», ipsam tunc animam nominat, quae uincitur custodia cor­
porali, cui mens diuina non subditur.
5. Nunc qualiter nobis animus, id est mens, cum sideribus
communis sit secundum theologos disseramus. 6 . Deus, qui
prima causa et est et uocatur, unus omnium quaeque sunt
quaeque uidentur esse princeps et origo est. Hic superabun-
danti maiestatis fecunditate de se mentem creauit. Haec mens,
quae vo 0 $ uocatur, qua patrem inspicit, plenam similitudinem
seruat auctoris, animam uero de se creat posteriora respiciens.
7. Rursum anima patrem qua intuetur, induitur, ac paulatim
regrediente respectu in fabricam corporum incorporea ipsa
degenerat. Habet ergo et purissimam ex mente, de qua est
nata, rationem quod ÀoyiKÓv uocatur, et ex sua natura accipit
praebendi sensus praebendique incrementi seminarium, quo-
seguendo in ciò l’opinione di coloro che credono che nient’al­
tro sia Dio se non il cielo stesso e i corpi celesti che vediamo.
E dunque per farci capire che l’onnipotenza del dio supremo
può essere solo a stento intelligibile e mai visibile, che Paolo ha
designato tutto ciò che lo sguardo umano vede «tempio dell’es­
sere che solo l’intelletto concepisce», affinché chi venera que­
ste cose come templi debba tuttavia il massimo culto al loro
fondatore e affinché chiunque è ammesso a frequentare i privi­
legi rituali di questo «tempio» sappia che deve vivere come un
sacerdote. In questo brano si afferma dunque, a mo’ di pubbli­
co proclama, che nel genere umano è insita una parte di Divi­
nità, tale da nobilitare l’umanità intera grazie alla parentela con
l’anima astrale.
3. Notiamo che, in questo passo, Cicerone adopera la paro­
la animus nel suo senso proprio e figurato, \lanimus infatti è
esattamente l’intelletto, che nessuno ha mai dubitato che fosse
più divino del soffio vitale, sebbene talvolta, con un uso impro­
prio, designiamo con la stessa parola anche il soffio vitale
[anima], 4. Così con l’espressione: «ad essi viene fornita un’a­
nima presa dai fuochi sempiterni» si deve comprendere che si
tratta di quell’intelletto che noi, in particolare, abbiamo in
comune col cielo e gli astri. Ma quando dice: «conservare l’ani­
ma [animus] sotto la custodia del corpo» allude allora al vero e
proprio soffio vitale [anima] incatenato nella prigione corpo­
rea, a cui l ’intelletto divino non è sottoposto 238.
5. Vediamo adesso come noi possediamo l’animo, cioè l ’in­
telletto, in comune con gli astri, secondo i teologi 239. 6 . Il Dio,
che è ed è chiamato causa prima, è il principio e l’origine di
tutto ciò che esiste e sembra esistere. Ha generato da sé, grazie
alla fecondità sovrabbondante della sua maestà, l’intelletto.
Questo Intelletto, che chiamano voù$, in quanto contempla il
padre, conserva una completa somiglianza con il suo autore;
ma, guardando indietro, produce di per sé l’Anima. 7. L’Ani­
ma, a sua volta, in quanto guarda suo padre, riveste tutti i suoi
tratti, ma a poco a poco, volgendo il suo sguardo, degenera, da
incorporea qual è, fabbricando i corpi. Perciò essa prende
dall’intelletto, da cui è nata, la ragione perfettamente pura che
si chiama ÀoyiKÓv, inoltre, dalla sua natura, riceve le prime
facoltà di percezione sensoriale e di crescita dei corpi, rispetti-
rum unum aia0r|TiKÓv, alterum cpimKÓv nuncupatur. Sed ex
his primum, id est ÀoytKÓv, quod innatum sibi ex mente
sumpsit, sicut uere diuinum est, ita solis diuinis aptum; reliqua
duo, aio0r|TiKÓv et cpuTiKÓv, ut a diuinis recedunt, ita conue-
nientia sunt caducis.
8 . Anima ergo, creans sibi condensque corpora — nam ideo
ab anima natura incipit quam sapientes de deo et mente voOv
nominant — ex illo mero ac purissimo fonte mentis, quem
nascendo de originis suae hauserat copia, corpora illa diuina
uel supera — caeli dico et siderum — quae prima condebat,
animauit, diuinaeque mentes omnibus corporibus quae in for­
mam teretem, id est in sphaerae modum, formabantur, infusae
sunt; et hoc est quod, cum de stellis loqueretur, ait: «quae diui­
nis animatae mentibus.» 9. In inferiora uero ac terrena degene­
rans, fragilitatem corporum caducorum deprehendit meram
diuinitatem mentis sustinere non posse, immo partem eius uix
solis humanis corporibus conuenire, quia et sola uidentur erec­
ta, tamquam quae ad supera ab imis recedant, et sola caelum
facile, tamquam semper erecta, suspiciunt, solisque inest uel in
capite sphaerae similitudo, quam formam diximus solam men­
tis capacem. 1 0 . Soli ergo homini rationem, id est uim mentis,
infudit, cui sedes in capite est, sed et geminam illam sentiendi
crescendique naturam, quia caducum est corpus, inseruit.
11. Et hinc est quod homo et rationis compos est et sentit
et crescit, solaque ratione meruit praestare ceteris animalibus,
quae, quia semper prona sunt et ex ipsa quoque suspiciendi
difficultate a superis recesserunt nec ullam diuinorum corpo­
rum similitudinem aliqua sui parte meruerunt, nihil ex mente
sortita sunt et ideo ratione caruerunt, duoque tantum adepta
vamente dette ocic0r|TiKÓv e cpuxiKÓv 240. Ma la prima di esse,
cioè il ÀoyiKÓv, in quanto tratto innato che ha assunto
daH’Intelletto, siccome è assolutamente divino, così conviene
solamente agli esseri divini. In quanto alle altre due facoltà,
l’aioQriTiKÓv e il cpuTiKÓv, siccome si allontanano dal divino,
così si addicono agli esseri effimeri.
8 . L’Anima dunque, creando per sé ed organizzando i corpi
— ecco perché si fa cominciare dall’Anima quella natura, che
i sapienti che si occupano di Dio e dell’intelletto chiamano
V0 O5 — attingendo a questa fonte dell’intelletto, di una purez­
za assoluta e schietta, in cui aveva bevuto alla sua nascita, e
prendendosi la responsabilità della sovrabbondanza della sua
origine, ha animato quei corpi divini o superni — intendo dire
il cielo e gli astri — che per primi aveva prodotto; e gli intellet­
ti divini furono infusi in tutti i corpi di forma rotonda e, cioè,
sferici. Ecco perché, parlando delle stelle, dice che sono «ani­
mate da intelligenze divine». 9. Ma degenerando per guadagna­
re le regioni inferiori e terrene, l’Anima constata che la fragili­
tà dei corpi caduchi non può sostenere la divinità pura
dell’intelletto e, anzi, che i soli corpi umani gli paiono meritar­
ne una parte, perché li vede i soli dotati della posizione eretta,
come per allontanarsi, in qualche modo, dalle regioni inferiori
e tendere verso ciò che è in alto, perché solo essi, in quanto
sempre eretti241, alzano facilmente lo sguardo al cielo e perché
solo essi possiedono una testa a immagine di una sfera, la sola
forma che è, come abbiamo detto, adatta a ricevere l’intellet­
to 242. 1 0 . Solo nell’uomo, dunque, essa ha infuso la ragione,
cioè la forza dell’intelligenza, la cui sede è nella testa, ma ha
anche introdotto in lui, poiché il suo corpo è effimero, le due
facoltà della percezione sensoriale e della crescita.
11. E per questo che l’uomo è dotato di ragione, sente e cre­
sce e per cui, grazie esclusivamente alla ragione, merita d’esse­
re superiore agli altri animali. Questi, dato che sono sempre
proni, proprio perché questa difficoltà a levare il loro sguardo
verso il mondo di lassù 243 li ha allontanati dalle cose superne e
poiché non hanno meritato in alcuna loro parte di somigliare
ai corpi divini, così non hanno potuto ottenere neanche una
minima porzione dell’intelletto e perciò sono dunque privi di
ragione e hanno ottenuto solo due facoltà, sentire e crescere244.
sunt, sentire uel crescere. 12. Nam si quid in illis similitudinem
rationis imitatur, non ratio sed memoria est, et memoria non
illa ratione mixta, sed quae hebetudinem sensuum quinque
comitatur; de qua plura nunc dicere, quoniam ad praesens
opus non adtinet, omittemus.
13. Terrenorum corporum tertius ordo in arboribus et her­
bis est, quae carent tam ratione quam sensu, et quia crescendi
tantummodo usus in his uiget, hac sola uiuere parte dicuntur.
14. Hunc rerum ordinem et Vergilius expressit. Nam et
mundo animam dedit et, ut puritati eius adtestaretur, mentem
uocauit. Caelum enim, ait, et terras et maria et sidera
spiritus intus alit...

id est anima sicut alibi pro spiramento animam dicit:


quantum ignes animaeque ualent...

Et ut illius mundanae animae adsereret dignitatem, mentem


esse testatus est:
mens agitat m olem ...

Nec non ut ostenderet ex ipsa anima constare et animari


uniuersa quae uiuunt, addidit
inde hominum pecudum que genus...

et cetera; utque adsereret eundem esse in anima semper uigo-


rem, sed usum eius hebescere in animalibus corporis densita­
te, adiecit:
.. .quantum non noxia corpora tardant

et reliqua.
15. Secundum haec ergo, cum ex summo deo mens, ex
mente anima sit, anima uero et condat et uita compleat omnia
quae sequuntur, cunctaque hic unus fulgor illuminet et uniuer-
sis appareat, ut in multis speculis per ordinem positis uultus
12. Giacché se in essi vi è alcunché che sembra presentare
qualche somiglianza con la ragione, non di essa si tratta, ma di
memoria, e non di quella mescolata alla ragione, ma di memo­
ria che si accompagna all'ottusità dei cinque sensi. Ma qui non
aggiungiamo altro, perché esula dal nostro argomento.
13. La terza categoria dei corpi terrestri è quella delle pian­
te e dei vegetali che, privi sia della ragione sia della percezione,
dispongono soltanto della facoltà di crescere e per questa sola
parte dell’anima si dice che vivano.
14. E questa stessa gerarchia degli esseri anche Virgilio l’ha
evocata. Egli infatti attribuì l ’anima al mondo e, per affermar­
ne la purezza, la chiamò intelletto. Infatti dice che il cielo, le
terre, i mari e gli astri
vivifica l’intimo soffio ,. 245

vale a dire l’anima, come anche altrove chiama anima il soffio


vitale:
... per quanto fuochi e anime valgano... 246

E per ben mostrare la maestà dell’anima del mondo, afferma


che essa è intelletto:
l’intelletto muove tutta la mole del m o n d o ... 247

e aggiunge, per far vedere che tutto ciò che esiste risulta da
questa stessa anima e ne è animato:
di qui la razza degli uomini e gli arm enti... 248

e tutto quanto il resto; infine, per affermare che nell’anima è


presente sempre la stessa energia vivificatrice, ma che la sua
capacità di esercizio è limitata negli animali a causa della den­
sità del loro corpo, aggiunge:
se non che la ritarda il corpo ostile 249

e così via.
15. Di conseguenza, poiché, in base a questa ipotesi, l’intel­
letto procede dal Dio supremo e l’Anima dall’intelletto e poi­
ché, inoltre, l’Anima organizza e riempie di vita l’insieme degli
esseri che vengono dopo di essa e poiché quest’unico splendo­
re le illumina tutte e si riflette in questo insieme, come un’uni­
ca figura sembra moltiplicarsi in una serie di specchi 250 posti
unus, cumque omnia continuis successionibus se sequantur
degenerantia per ordinem ad imum meandi, inuenietur pres­
sius intuenti a summo deo usque ad ultimam rerum faecem
una mutuis se uinculis religans et nusquam interrupta conexio;
et haec est Homeri catena aurea, quam pendere de caelo in ter­
ras deum iussisse commemorat.
16. His ergo dictis, solum hominem constat ex terrenis
omnibus mentis, id est animi, societatem cum caelo et sideri­
bus habere communem. Et hoc est quod ait: «hisque animus
datus est ex illis sempiternis ignibus, quae sidera et stellas uoca-
tis.» 17. Nec tamen ex ipsis caelestibus et sempiternis ignibus
nos dicit animatos — ignis enim ille, licet diuinum, tamen cor­
pus est, nec ex corpore quamuis diuino possemus animari —
sed unde ipsa illa corpora, quae diuina et sunt et uidentur, ani­
mata sunt, id est ex ea mundanae animae parte quam diximus
de pura mente constare. 18. Et ideo postquam dixit: «hisque
animus datus est ex illis sempiternis ignibus, quae sidera et stel­
las uocatis», mox adiecit: «quae diuinis animatae mentibus», ut
per sempiternos ignes corpus stellarum, per diuinas uero men­
tes earum animas manifesta discretione significet, et ex illis in
nostras uenire animas uim mentis ostendat.
19. Non ab re est ut haec de anima disputatio in fine sen­
tentias omnium qui de anima uidentur pronuntiasse contineat.
Platon dixit animam essentiam se mouentem, Xenocrates
numerum se mouentem, Aristoteles èvteàéxeiocv, Pythagoras
et Philolaus apuoviav, Posidonius ideam, Asclepiades quin­
que sensuum exercitium sibi consonum, Hippocrates spiritum
tenuem per corpus omne dispersum, Heraclides Ponticus
lucem, Heraclitus physicus scintillam stellaris essentiae, Zenon
concretum corpori spiritum, Democritus spiritum insertum
uno dietro l’altro per ripeterne l’immagine, e poiché tutto si
sussegue in una sequenza non interrotta di esseri, che vanno
degradandosi sempre di più discendendo verso il basso, si sco­
prirà, osservando più attentamente, che, a partire dal Dio
supremo fino alla più infima feccia dell’universo, tutto si tiene,
si unisce e si abbraccia con legami vicendevoli ed indissolubi­
li. E la catena aurea di Omero che il dio ha ordinato di far pen­
dere dal cielo alla terra, come narra il poeta 251.
16. Da questa esposizione risulta dunque che l ’uomo è il
solo essere sulla terra a condividere col cielo e con gli astri l’in­
telletto, cioè l’«animo». E ciò che fa dire a Paolo le seguenti
parole: «ad essi viene fornita un’anima presa dai fuochi sempi­
terni cui voi date nome di astri e stelle» 252. 17. Questo modo di
parlare non significa tuttavia che noi siamo animati «da» que­
gli stessi fuochi celesti e sempiterni — perché il fuoco, benché
divino, è pur sempre un corpo, e noi non possiamo essere ani­
mati da alcun corpo, per quanto divino — , ma bisogna inten­
dere con ciò che abbiamo ricevuto l’anima «da là dove» quei
corpi stessi, che sono e appaiono divini, hanno preso la loro,
cioè da quella parte dell’Anima cosmica che abbiamo detto
essere costituita di puro intelletto. 18. Per questo, dopo le
parole: «ad essi viene fornita un’anima presa dai fuochi sempi­
terni cui voi date nome di astri e stelle», aggiunge: «animati da
intelligenze divine», volendo così, attraverso questa chiara
distinzione, designare con fuochi sempiterni, i corpi delle stelle
e, con intelligenze divine, le loro anime, e mostrare che il pote­
re dell’intelletto di cui dispongono le nostre anime emana da
queste ultime 253.
19. Non è inopportuno in questa dissertazione sull’anima,
terminare con le teorie di tutti coloro che, a quanto è risaputo,
hanno trattato questo argomento. Platone ha affermato che l’a­
nima è un’essenza automoventesi 254; Senocrate 255, un numero
automoventesi; Aristotele la chiama èvteàéxeicx 256; Pitagora e
Filolao 257 la chiamano àpuovia; è un’idea, secondo Posido­
nio 258; Asclepiade 259 dice che è l’esercizio armonioso dei cin­
que sensi; per Ippocrate 260 è un soffio sottile diffuso in tutto il
corpo; l’anima, a detta di Eraclide Pontico 261, è una luce;
secondo Eraclito 262 il fisico, è una scintilla dell’essenza stella-
re; Zenone 263 la ritiene un soffio condensatosi nel corpo; De-
atomis hac facilitate motus ut corpus illi omne sit peruium, 2 0 .
Critolaus Peripateticus constare eam de quinta essentia, Hip­
parchus ignem, Anaximenes aera, Empedocles et Critias san­
guinem, Parmenides ex terra et igne, Xenophanes ex terra et
aqua, Boethos ex aere et igne, Epicurus speciem ex igne et aere
et spiritu mixtam. Obtinuit tamen non minus de incorporalita­
te eius quam de immortalitate sententia.
2 1 . Nunc uideamus quae sint haec duo nomina quorum
pariter meminit, cum dicit: «quae sidera et stellas uocatis».
Neque enim hic res una gemina appellatione monstratur, ut
ensis et gladius, sed sunt stellae quidem singulares, ut erraticae
quinque, ut ceterae quae non admixtae aliis solae feruntur;
sidera uero, quae in aliquod signum stellarum plurium compo­
sitione formantur, ut Aries, Taurus, ut Andromeda, Perseus uel
Corona, et quaecumque uariarum genera formarum in caelum
recepta creduntur. Sic et apud Graecos à o T r i p et à a T p o v
diuersa significant, et à c n f | p stella una est, a c r r p o v signum
stellis coactum, quod nos sidus uocamus.
2 2 . Cum uero stellas globosas et rotundas dicat, non singu­
larium tantum exprimit speciem, sed et earum quae in signa
formanda conueniunt. Omnes enim stellae inter se, etsi in
magnitudine aliquam, nullam tamen habent in specie differen­
tiam. Per haec autem duo nomina solida sphaera describitur,
quae nec ex globo, si rotunditas desiteretur, nec ex rotundita­
te, si globus desit, efficitur, cum alterum forma, alterum solidi­
tate corporis deseratur.
23. Sphaeras autem hic dicimus ipsarum stellarum corpora,
quae omnia hac specie formata sunt. Dicuntur praeterea
sphaerae et ÓTTÀavris illa, quae maxima est, et subiectae sep­
tem, per quas duo lumina et uagae quinque discurrunt.
mocrito ZM, un soffio inserito negli atomi e dotato di una mobi­
lità che gli consente d’insinuarsi in ogni corpo; 2 0 il peripateti­
co Critolao 265 ha sostenuto che essa era composta d’una quin­
tessenza; Ipparco la vede composta di fuoco 266; Anassime-
ne267, d’aria; Empedocle 268 e Crizia 269, di sangue; Parmeni-
de270, un composto di terra e di fuoco; Senofane 271, di terra e
d’acqua; Boeto 272, d’aria e di fuoco; è, secondo Epicuro 273,
una forma mista, composta di fuoco, aria e spirito. Tuttavia l’o ­
pinione che è prevalsa la ritiene non meno immateriale che
immortale.
21. Consideriamo adesso 274 i due termini che Cicerone
menziona insieme quando dice: «cui voi date nome di astri e
stelle». Non si tratta, infatti, qui di una sola e medesima cosa
designata con due sinonimi, come «spada» e «gladio» 275.
Infatti, le stelle sono a sé stanti, come i cinque pianeti e come
tutti gli altri corpi erranti che si muovono solitariamente senza
essere in combinazione con altri; gli astri, invece, sono quelli
disposti in modo da formare qualche costellazione con il rag­
gruppamento di più stelle, come l’Ariete e il Toro, come An­
dromeda, Perseo e la Corona 27é, e tanti altri tipi di figure di­
verse, che si crede siano state accolte in cielo. Così anche pres­
so i Greci cxoTrip e àoTpov hanno un diverso significato: oc-
OTTjp indica una sola stella, à o T p o v un segno formato dall’ac­
costamento di più stelle, che noi chiamiamo costellazione 277.
2 2 . Denominando le stelle come solidi sferici, il padre di
Scipione non intende soltanto la forma delle stelle isolate, ma
anche di quelle che si uniscono per formare i segni. Tutte le
stelle, infatti, anche se differiscono un po’ tra loro per grandez­
za, hanno tutte la stessa forma. Queste due qualifiche designa­
no invece il solido di forma sferica, che non può essere defini­
to semplicemente con la parola «solido» se manca la sfericità,
né dalla parola «sferico» se manca la solidità, perché nel primo
caso mancherebbe al corpo la forma, e, nell’altro, la consisten­
za del corpo.
23. Diamo dunque qui il nome di «sfere» ai corpi delle stel­
le stesse, che sono tutte formate con questa figura. Sono poi
indicate col termine «sfera», la sfera à T T À c c v ris , che è la più
grande di tutte, e le sette sfere interiori ad essa 278, dove percor­
rono la loro corsa i due luminari 279 e i cinque pianeti erranti.
24. Circi uero et orbes duarum sunt rerum duo nomina; et
his nominibus quidem alibi aliter est usus. Nam et orbem pro
circulo posuit, ut «orbem lacteum», et orbem pro sphaera, ut
«nouem tibi orbibus uel potius globis». Sed et circi uocantur qui
sphaeram maximam cingunt, ut eos sequens tractatus inueniet;
quorum unus est lacteus, de quo ait: «inter flammas circus elu­
cens». 25. Sed hic horum nihil neque circi neque orbis nomine
uoluit intellegi, sed est orbis in hoc loco stellae una integra et
peracta conuersio, id est ab eodem loco post emensum sphae­
rae per quam mouetur ambitum in eundem locum regressus.
Circus est autem hic linea ambiens sphaeram ac ueluti semitam
faciens per quam lumen utrumque discurrit, et intra quam
uagantium stellarum error legitimus coercetur.
26. Quas ideo ueteres errare dixerunt quia et cursu suo
feruntur et contra sphaerae maximae, id est ipsius caeli, impe­
tum contrario motu ad orientem ab occidente uoluuntur. Et
omnium quidem par celeritas, motus similis, et idem est modus
meandi, sed non omnes eodem tempore circos suos orbesque
conficiunt. 27. E t ideo est celeritas ipsa mirabilis quia, cum sit
eadem omnium nec ulla ex illis aut concitatior esse possit aut
segnior, non eodem tamen temporis spatio omnes ambitum
suum peragunt. Causam uero sub eadem celeritate disparis
spatii aptius nos sequentia docebunt.

15. 1. His de siderum natura et siderea hominum mente


narratis, rursus filium pater ut in deos pius, ut in homines
iustus esset hortatus, praemium rursus adiecit, ostendens lac­
teum circulum uirtutibus debitum et beatorum coetu refer­
tum, cuius meminit his uerbis: «erat autem is splendidissimo
candore inter flammas circus elucens, quem uos, ut a Grais acce­
pistis, orbem lacteum nuncupatis.»
24. Quanto a «circoli» e «orbite» sono due nomi che espri­
mono due cose diverse e Cicerone ne fa un uso che varia da
caso a caso. Infatti adopera «orbita» per «circolo» quando scri­
ve di «orbita lattea» e «orbita» in luogo di «sfera» come in
«nove orbite, o piuttosto globi» 280. Ma dà anche il nome di «cir­
coli» a quelli che cingono la sfera più grande, come vedremo
nel seguito del trattato; uno di essi è quello latteo che definisce
come «il circolo che risplende tra i fuochi celesti» 281. 25. Ma qui
con i termini di «circolo» e «orbita» non ha voluto intendere
nessuno di questi significati; in questo brano, «orbita» si appli­
ca all’intera e completa rivoluzione di una stella, cioè al suo
ritorno nello stesso punto da cui è partita, dopo aver descritto
tutto il giro della sfera su cui si muove. Il «circolo» è invece,
qui, la linea che circonda la sfera e che, a mo' di sentiero, segna
i limiti del percorso dei due luminari e all’interno del quale è
contenuta la regolare erranza 282 dei pianeti.
26. E se gli Antichi hanno usato per i pianeti il termine
«errare», è perché si muovono lungo un loro percorso partico­
lare e procedono in senso contrario al moto della sfera più
grande, cioè al cielo stesso, da occidente ad oriente. Tutte que­
ste stelle hanno una velocità uguale, un moto simile e anche un
identico modo di spostarsi 283; ma non tutte descrivono i loro
cerchi e le loro orbite nel medesimo tempo. 27. Per questo la
loro stessa velocità è definita «ammirevole», perché, pur iden­
tica per tutte e pur non potendo nessuna di queste stelle esse­
re più rapida o più lenta, tutte tuttavia non percorrono nello
stesso lasso di tempo il loro percorso. La ragione del perché,
con la stessa velocità, lo spazio di tempo è ineguale, ce lo inse­
gneranno con più precisione le pagine seguenti 284.

1 5 .1 . Dopo questa esposizione sulla natura degli astri e sul­


l’origine astrale dell’intelletto umano, il padre, avendo esorta­
to di nuovo suo figlio alla pietà verso gli dèi e alla giustizia
verso i suoi simili, aggiunse, ancora una volta, una ricompensa,
mostrandogli il circolo latteo, soggiorno dovuto alle virtù e
colmo dei beati che vi si raccolgono, che evoca in questi termi­
ni: «vi era poi quel circolo che risplende di un abbagliante can­
dore tra i fuochi celesti e che voi avete appreso dai Greci a chia­
mare circolo latteo» 285.
2. Orbis hic idem quod circus in lactei appellatione signifi­
cat. Est autem lacteus unus e circis qui ambiunt caelum. Et
sunt praeter eum numero decem, de quibus quae dicenda sunt
proferemus, cum de hoc competens sermo processerit. Solus
ex omnibus hic subiectus est oculis, ceteris circulis magis cogi­
tatione quam uisu conprehendendis.
3. De hoc lacteo multi inter se diuersa senserunt, causasque
eius alii fabulosas, naturales alii protulerunt; sed nos, fabulosa
reticentes, ea tantum quae ad naturam eius uisa sunt pertinere
dicemus. 4. Theophrastus lacteum dixit esse compagem qua de
duobus hemisphaeriis caeli sphaera solidata est, et ideo ubi
orae utrimque conuenerant, notabilem claritatem uideri. 5.
Diodorus, ignem esse densetae con cretaeque naturae in unam
curui limitis semitam discretione mundanae fabricae coace-
ruante concretum, et ideo uisum intuentis admittere, reliquo
igne caelesti lucem suam nimia subtilitate diffusam non sub-
iciente conspectui. 6 . Democritus, innumeras stellas breuesque
omnes, quae spisso tractu in unum coactae, spatiis quae angu­
stissima interiacent opertis, uicinae sibi undique et ideo passim
diffusae lucis aspergine, continuum iuncti luminis corpus
ostendunt. 7. Sed Posidonius, cuius definitioni plurium con­
sensus accessit, ait lacteum caloris esse siderei infusionem,
quam ideo aduersa zodiaco curuitas obliquauit ut, quoniam sol
numquam zodiaci excedendo terminos expertem feruoris sui
partem caeli reliquam deserebat, hic circus, a uia solis in obli­
quum recedens, uniuersitatem flexu calido temperaret. Quibus
autem partibus zodiacum intersecet, superius iam relatum est.
Haec de lacteo.
8 . Decem autem alii, ut diximus, circi sunt, quorum unus
est ipse zodiacus, qui ex his decem solus potuit latitudinem
hoc modo quem referemus adipisci. 9. Natura caelestium cir-
2. Qui il termine orbis, con l’aggettivo lacteus, ha la stessa
accezione di circus, cioè «circolo». Vi è infatti un solo circolo
latteo tra quelli che cingono il cielo. Oltre ad esso, ve ne sono
dieci m \ di cui riveleremo ciò che c’è da dire quando la nostra
esposizione sarà opportunamente venuta in tema. E il solo che
si offra all’occhio umano, gli altri circoli si intuiscono più con
il pensiero che con lo sguardo.
3. Riguardo questo circolo latteo vi sono state opinioni
molto diverse e alcuni hanno proposto spiegazioni mitiche,
altri spiegazioni naturali; quanto a noi, passando sotto silenzio
le interpretazioni favolose, ci atterremo solamente a quelle che
sembrano pertinenti alla sua natura 287 . 4 . Teofrasto 288 disse
che il circolo latteo era la sutura con cui la sfera celeste, forma­
ta da due emisferi, è stata riunita: per questo motivo il punto
in cui i bordi, da una parte e dall’altra, sono stati congiunti,
appare d’una brillantezza notevole. 5. Diodoro 289 asserì che si
trattasse di un fuoco di una natura densa, concentrato in un
sentiero unico di forma curvilinea, e che si accumula sulla linea
di demarcazione della struttura cosmica: questa la ragione per
cui è visibile, mentre il resto del fuoco celeste sottrae alla vista
la sua luce, troppo rarefatta e tenue. 6 . Democrito 290 ritiene
che si tratti d’innumerevoli piccole stelle che, concentrate in
uno spazio così esiguo che gli intervalli ridottissimi che le sepa­
rano si trovano occultati, essendo tra di loro contigue, e per
questa ragione, diffondendo in tutte le direzioni la loro asper­
sione di luce, offrono allo sguardo l’aspetto di un unico corpo
dalla luminosità ininterrotta. 7. Posidonio 291, la cui opinione
ha ottenuto la maggioranza dei consensi, sostiene invece che la
Via Lattea sia un travaso del calore astrale, la cui curvatura,
opposta allo zodiaco, è su un piano obliquo; di modo che, poi­
ché il sole non esce mai dai limiti dello zodiaco, lasciando le
regioni restanti del cielo prive del suo calore, questo circolo,
allontanandosi obliquamente dal tragitto del sole, riscalda l’u­
niverso con la sua calda curva. Quanto ai punti in cui il circo­
lo latteo interseca lo zodiaco, lo si è già indicato in preceden­
za 292. Questo è quanto occorre sapere sulla Via Lattea.
8 . Vi sono, come abbiamo detto, altri dieci circoli, uno dei
quali è lo zodiaco stesso e che è l’unico di questi dieci che abbia
potuto giungere ad avere una larghezza, nel modo che spieghe­
remo. 9. I circoli celesti sono per natura linee immateriali, che
culorum incorporalis est linea, quae ita mente concipitur ut
sola longitudine censeatur, latum habere non possit; sed in
zodiaco latitudinem signorum capacitas exigebat.
10. Quantum igitur spatii lata dimensio porrectis sideribus
occupabat, duabus lineis limitatum est; et tertia ducta per
medium ecliptica uocatur, quia, cum cursum suum in eadem
linea pariter sol et luna conficiunt, alterius eorum necesse est
euenire defectum: solis, si ei tunc luna succedat; lunae, si tunc
aduersa sit soli. 11. Ideo nec sol umquam deficit nisi cum tri­
cesimus lunae dies est, et nisi quinto decimo cursus sui die
nescit luna defectum. Sic enim euenit ut aut lunae contra solem
positae ad mutuandum ab eo solitum lumen sub eadem inuen-
tus linea terrae conus obsistat, aut soli ipsa succedens obiectu
suo ab humano aspectu lumen eius repellat. 1 2 . In defectu
ergo sol ipse nil patitur, sed noster fraudatur aspectus, luna
uero circa proprium defectum laborat non accipiendo solis
lumen, cuius beneficio noctem colorat. Quod sciens Vergilius,
disciplinarum omnium peritissimus, ait:
defectus solis uarios lunaeque labores.

Quamuis igitur trium linearum ductus zodiacum et claudat


et diuidat, unum tamen circum auctor uocabulorum dici uoluit
antiquitas.
13. Quinque alii circuli paralleli uocantur. Horum medius
et maximus est aequinoctialis, duo extremitatibus uicini atque
ideo breues, quorum unus septentrionalis dicitur, alter austra­
lis. Inter hos et medium duo sunt tropici maiores ultimis,
medio minores, et ipsi ex utraque parte zonae ustae terminum
faciunt.
14. Praeter hos alii duo sunt coluri, quibus nomen dedit
inperfecta conuersio. Ambientes enim septentrionalem uerti-
cem atque inde in diuersa diffusi, et se in summo intersecant,
vengono concepite mentalmente come aventi la sola lunghezza
e mancanti d’ampiezza; ma, nel caso dello zodiaco, il fatto che
contenesse i segni esigeva che avesse una larghezza 293.
10. Si è dunque delimitato lo spazio occupato in larghezza
da questo circolo con le sue vaste costellazioni con due linee;
inoltre una terza linea, condotta attraverso il mezzo, è chiama­
ta eclittica 294, perché c’è eclissi di sole o di luna tutte le volte
che questi due astri compiono il loro percorso nello stesso
tempo lungo questa medesima linea: se la luna è in congiunzio­
ne, c’è eclissi di sole; quando è in opposizione, c’è eclissi di
luna. 1 1 . Ne consegue che il sole non può avere eclissi se non
quando la luna finisce la sua rivoluzione di trenta giorni e che
la luna non può subire un’eclissi se non nel quindicesimo gior­
no del suo corso. Difatti, in quest’ultimo caso, la luna, opposta
al sole da cui chiede in prestito la sua consueta luce, si trova
oscurata dal cono d’ombra 295 della terra che si trova sulla
medesima linea; o, nel primo caso, nel passare sotto al sole, la
sua interposizione tra la terra e il sole ci priva della vista della
luce di quest’ultimo. 1 2 . Quindi, durante un’eclissi, il sole non
perde nessuno dei suoi attributi, ma siamo noi ad essere priva­
ti della sua luce; mentre la luna, al momento della sua eclissi,
soffre nel non ricevere la luce del sole grazie al quale dà colo­
re alle nostre notti. Sapendo ciò, Virgilio, dottissimo in ogni
scienza, dice:
le molte eclissi del sole e le fasi della luna. 296

Sebbene lo zodiaco sia delimitato e diviso da tre linee,


l ’Antichità, inventrice di tutti i vocaboli, volle che se ne parlas­
se come di un circolo solo.
13. Cinque altri circoli sono chiamati paralleli. Quello di
mezzo che è anche il più grande è il circolo equinoziale; due
sono vicini ai poli e perciò piccoli; uno di essi è chiamato cir­
colo settentrionale e l’altro australe. Tra questi e quello di
mezzo vi sono i due tropici, più ampi dei circoli estremi e più
piccoli di quello mediano; essi servono da limite da una parte
e dall’altra alla zona torrida 297.
14. Oltre a questi, ce sono altri due, i coluri, il cui nome
deriva dal fatto che descrivono una circonferenza incompleta.
Infatti, cingendo il polo settentrionale e allontanandosi in dire­
zioni opposte, s’intersecano al vertice e determinano su ciascu-
et quinque parallelos in quaternas partes aequaliter diuidunt,
zodiacum ita intesecantes ut unus eorum per Arietem et
Libram, alter per Cancrum atque Capricornum meando decur­
rat; sed ad australem uerticem non peruenire creduntur.
15. Duo qui ad numerum praedictum supersunt, meridia­
nus et horizon, non scribuntur in sphaera, quia certum locum
habere non possunt, sed pro diuersitate circumspicientis habi-
tantisue uariantur.
16. Meridianus est enim quem sol, cum super hominum
uerticem uenerit, ipsum diem medium efficiendo designat. Et
quia globositas terrae habitationes omnium aequales sibi esse
non patitur, non eadem pars caeli omnium uerticem despicit;
et ideo unus omnibus meridianus esse non poterit, sed singulis
gentibus super uerticem suum proprius meridianus efficitur.
17. Similiter sibi horizontem facit circumspectio singulo­
rum. Horizon est enim, uelut quodam circo designatus, termi­
nus caeii quod super terram uidetur. Et quia ad ipsum uere
finem non potest humana acies peruenire, quantum quisque
oculos circumferendo conspexerit, proprium sibi caeli quod
super terram est terminum facit. 18. Hic horizon, quem sibi
unius cuiusque circumscribit aspectus, ultra trecentos et sexa-
ginta stadios longitudinem intra se continere non poterit.
Centum enim et octoginta stadios non excedit acies contra
uidentis; sed uisus, cum ad hoc spatium uenerit, accessu defi­
ciens in rotunditatem recurrendo curuatur, atque ita fit ut hic
numerus, ex utraque parte geminatus, trecentorum sexaginta
stadiorum spatium quod intra horizontem suum continetur
efficiat, semperque, quantum ex huius spatii parte postera pro­
cedendo dimiseris, tantum tibi de anteriore sumetur; et ideo
horizon semper quantacumque locorum transgressione muta­
tur. 19. Hunc autem, quem diximus, admittit aspectum aut in
terris aequa planities aut pelagi tranquilla libertas, qua nullam
oculis obicit offensam. Nec te moueat quod saepe in longissi-
no dei cinque circoli paralleli quattro parti uguali, intersecan­
do lo zodiaco così da incontrare nel loro tracciato, uno PAriete
e la Bilancia e l’altro il Cancro e il Capricorno; ma non si crede
che giungano fino al polo australe 298.
15. I due ultimi circoli che rimangono per completare il
numero annunciato, il meridiano e l’orizzonte, non sono iscrit­
ti sulla sfera celeste, perché non possono avere una posizione
fissa, ma sono variabili secondo le differenti posizioni dell’os­
servatore o dell’abitante.
16. Il meridiano è, infatti, il circolo determinato dal sole,
quando è giunto sulla perpendicolare della testa di ciascuno e
segna esattamente il mezzogiorno. E poiché la sfericità della
terra si oppone al fatto che l’aspetto dei luoghi sia lo stesso
ovunque e che sopra le teste degli uomini vi sia la stessa parte
di cielo, ne consegue che non ci potrà essere uno stesso meri­
diano allo zenit, ma ogni persona avrà allo zenit un proprio
meridiano 299.
17. Allo stesso modo è lo sguardo circolare d’ogni individuo
che definisce per esso l’orizzonte. L’orizzonte, infatti, è il limi­
te, sotto forma di una sorta di circolo, della porzione di cielo
visibile sopra la terra. E siccome l’occhio umano non può vera­
mente raggiungerne il limite, l’estensione che comprende
quanto ciascuno riesce ad osservare volgendo attorno il pro­
prio sguardo, fissa per ciascuno di noi la linea di confine per­
sonale della porzione di cielo che sovrasta la terra 30°. 18.
Quest’orizzonte, che lo sguardo di ognuno circoscrive per pro­
prio conto, non potrà superare la distanza di trecentosessanta
stadi301. Infatti, quando si guarda dritto di fronte a sé, la vista
non va aldilà di centottanta stadi 302; ma, una volta giunti a que­
sta distanza, la vista, che non può andare oltre sulla rotondità
terrestre, ritorna indietro e si curva 303, di modo che questo
numero, raddoppiato poiché vi sono due parti, realizza una
lunghezza di trecentosessanta stadi, ossia lo spazio contenuto
all’interno dell’orizzonte individuale; e non possiamo procede­
re, guadagnando in avanti dello spazio, senza vederlo accor­
ciarsi nella stessa proporzione in quello che ci è retrostante;
perciò l’orizzonte si modifica continuamente in funzione dei
nostri spostamenti. 19. Ma questa estensione della vista che ho
descritto può avere luogo solo nel mezzo di una vasta pianura,
o sulla superficie di un mare calmo, quando nessun ostacolo si
mo positum montem uidemus aut quod ipsa caeli superna
suspicimus. Aliud est enim cum se oculis ingerit altitudo, aliud
cum per planum se porrigit et extendit intuitus, in quo solo
horizontis circus efficitur.
Haec de circis omnibus quibus caelum cingitur dicta suffi­
ciant.

16. 1 . Tractatum ad sequentia transferamus: «Ex quo mihi


omnia contemplanti praeclara cetera et mirabilia uidebantur.
Erant autem eae stellae quas numquam ex hoc loco uidimus, et
eae magnitudines omnium quas esse numquam suspicati sumus,
ex quibus erat ea minima, quae ultima a caelo, citima terris luce
lucebat aliena: stellarum autem globi terrae magnitudinem faci­
le uincebant.»
2. Dicendo: «ex quo mihi omnia contemplanti», id quod
supra rettulimus adfirmat: in ipso lacteo Scipionis et parentum
per somnium contigisse conuentum. Duo sunt autem praeci­
pua quae in stellis se admiratum refert, aliquarum nouitatem et
omnium magnitudinem. Ac prius de nouitate, post de magni­
tudine disseremus.
3. Plene et docte adiciendo: «quas numquam ex hoc loco
uidimus», causam cur a nobis non uideantur ostendit. Locus
enim nostrae habitationis ita positus est ut quaedam stellae ex
ipso numquam possint uideri, quia ipsa pars caeli, in qua sunt,
numquam potest hic habitantibus apparere. 4. Pars enim haec
terrae, quae incolitur ab uniuersis hominibus — quos quidem
scire nos possumus — , ad septentrionalem uerticem surgit, et
sphaeralis conuexitas australem nobis uerticem in ima demer­
git. Cum ergo semper circa terram ab ortu in occasum caeli
sphaera uoluatur, uertex hic qui septentriones habet, quo-
quouersum mundana uolubilitate uertatur, quoniam super nos
est, semper a nobis uidetur ac semper ostendit
Arctos Oceani metuentes aequore tingui.
frappone ai nostri occhi. Non deve influenzarti il fatto che
spesso noi vediamo la distante cima di un’alta montagna o
leviamo lo sguardo alla superna volta celeste. Una cosa infatti
è quando si presenta alla vista un’altitudine, un’altra quando la
vista si protende e si estende su un terreno piano, perché è solo
quest’ultimo caso che costituisce il circolo dell’orizzonte.
Ma a questo punto pensiamo di aver parlato abbastanza dei
circoli di cui il cielo è cinto.

16. 1. Passiamo al commento del brano seguente: «Da quel


luogo, mentre contemplavo tutto l’universo, tutto mi appariva
magnifico e meraviglioso. C’erano, tra l’altro, certe stelle che da
qui non abbiamo mai visto e tutte erano di una grandezza che
non avremmo mai pensato possibile; fra esse la più piccola, che è
la più lontana dalla volta celeste e la più vicina alla terra, brilla­
va di luce riflessa: i globi stellari, poi, superavano nettamente la
grandezza della terra» 304.
2. Dicendo «da quel luogo, mentre contemplavo tutto l’uni­
verso» si conferma quanto abbiamo segnalato sopra: è proprio
nella Via Lattea che ebbe luogo, nel sogno, il colloquio di
Scipione con i suoi avi 305. Due cose suscitano in particolare la
sua ammirazione: di alcune stelle la novità nel vederle, di tutte
la loro grandezza. Cominciamo parlando di queste nuove stel­
le, in seguito ci occuperemo della grandezza degli astri.
3. Con l’aggiungere l’esatta ed esauriente precisazione: «che
da qui non abbiamo mai visto» mostra il motivo per cui questi
astri non ci sono visibili. Infatti il luogo da noi abitato occupa
una posizione tale che alcune stelle non possono mai essere visi­
bili, perché la regione del cielo in cui si trovano non può mai
offrirsi ai nostri sguardi. 4. Questa parte della terra, abitata dal­
l’insieme degli uomini — quelli almeno che c’è dato conosce­
re 306 — , si volge difatti verso il polo settentrionale e per noi la
convessità della sfera inabissa in profondità il polo australe.
Quindi, siccome il movimento della sfera celeste intorno alla ter­
ra ha luogo sempre da oriente ad occidente 307, questo polo che
comprende i «sette buoi» 308, qualunque sia la direzione verso la
quale lo volge il movimento rotatorio cosmico, trovandosi sopra
di noi, è sempre visibile e sempre presente al nostro sguardo
le Orse che temono d’immergersi nell’acqua delTOceano. 309
5. Australis contra quasi semel nobis pro habitationis
nostrae positione demersus, nec ipse nobis umquam uidetur
nec sidera sua, quibus et ipse sine dubio insignitur, ostendit. Et
hoc est quod poeta naturae ipsius conscius dixit:
hic uertex nobis semper sublimis; at illum
sub pedibus Styx atra uidet Manesque profundi.

6. Sed cum hanc diuersitatem caelestibus partibus uel sem­


per uel numquam apparendi terrae globositas habitantibus
faciat, ab eo qui in caelo est omne sine dubio caelum uidetur,
non impediente aliqua parte terrae, quae tota puncti locum pro
caeli magnitudine uix obtinet. 7. Cui ergo australis uerticis stel­
las numquam de terris uidere contigerat, ubi circumspectu
libero sine offensa terreni obicis uisae sunt, iure quasi nouae
admirationem dederunt, et quia intellexit causam propter
quam eas numquam ante uidisset, ait: «erant autem eae stellae
quas numquam ex hoc loco uidimus», hunc locum demonstra-
tiue terram dicens in qua erat dum ista narraret.
8 . Sequitur illa discussio, quid sit quod adiecit: «et eae
magnitudines omnium quas esse numquam suspicati sumus».
Cur autem magnitudines quas uidit in stellis numquam homi­
nes suspicati sint, ipse patefecit addendo: «stellatum autem
globi terrae magnitudinem facile uincehant». 9. Nam quando
homo, nisi quem doctrina philosophiae supra hominem, immo
uere hominem fecit, suspicari potest stellam unam omni terra
esse maiorem, cum uulgo singulae uix facis unius flammam
aequare posse uideantur? Ergo tunc earum uere magnitudo
adserta credetur, si maiores singulas quam est omnis terra esse
constiterit. Quod hoc modo licet recognoscas.
5. Il polo australe, invece, che per noi è, in un certo senso,
sommerso una volta per sempre, a causa della posizione del
luogo da noi abitato, sfugge in permanenza al nostro sguardo,
né ci mostra i suoi astri che pure, senza dubbio, possiede.
Questo è quanto esprime il poeta, sapiente conoscitore della
natura, nei seguenti versi:
questo vertice settentrionale è sempre immanente su di noi; ma quello
antipode è visibile soltanto al tetro Stige e ai profondi Mani. 310

6 . Ma siccome la diversità che fa sì che alcune parti del cielo


siano sempre visibili e altre sempre invisibili è dovuta, per i
suoi abitanti, alla sfericità della terra, non c’è dubbio che per
chi si trova in cielo la volta celeste è interamente visibile, senza
che s’interponga alcuna parte della terra, la cui totalità occupa
solamente lo spazio di un punto 311, a paragone dell’immensità
del cielo. 7. Si comprende dunque perché a chi non era mai
stato dato di vedere dalla terra le stelle del polo australe, e che,
gettando liberamente uno sguardo circolare senza incontrare
l’ostacolo della terra, le ha vedute, sia stato preso da ammira­
zione di fronte a queste stelle che erano per lui nuove, e per­
ché, riconoscendo allora il motivo per cui non le aveva mai
scorte in precedenza, dice: «C ’erano, tra l’altro, certe stelle che
da qui non abbiamo mai visto», intendendo indicare con «qui»
la terra in cui si trovava mentre narrava il suo sogno.
8 . Resta adesso da esaminare che cosa significhi l’espressio­
ne che segue: «tutte erano di una grandezza che non avremmo
mai pensato possibile». Il motivo per cui gli uomini non aveva­
no mai potuto sospettare le dimensioni che ha constatato, lo
rivela egli stesso, aggiungendo: «i globi stellari, poi, superavano
nettamente la grandezza della terra»3I2. 9. Effettivamente, quan­
do mai un uomo — se non quello che la conoscenza della filo­
sofia abbia elevato al di sopra dell’umanità, o meglio non l’ab­
bia reso un vero uomo — può supporre che una sola stella
possa essere più grande di tutta la terra, dal momento che agli
occhi del volgo le stelle possono a malapena uguagliare la fiam­
ma di una sola face 313? L’affermàzione della loro reale gran­
dezza potrà essere creduta solo se si dimostrerà che ciascuna di
esse è maggiore di tutta quanta la terra. Lo si può dimostrare
nel seguente modo.
10. Punctum dixerunt esse geometrae quod ob incompre­
hensibilem breuitatem sui in partes diuidi non possit, nec
ipsum pars aliqua, sed tantummodo signum esse dicatur.
Physici terram ad magnitudinem circi per quem sol uoluitur
puncti modum obtinere docuerunt. Sol autem quanto minor
sit circo proprio, deprehensum est. Manifestissimis enim
dimensionum rationibus constitit mensuram solis ducentesi­
mam sextam decimam partem habere magnitudinis circi per
quem sol ipse discurrit. 1 1 . Cum ergo sol ad circum suum pars
certa sit, terra uero ad circum solis punctum sit, quod pars esse
non possit, sine cunctatione iudicii solem constat terra esse
maiorem, si maior est pars eo quod partis nomen nimia sui
breuitate non capiat.
1 2 . Verum solis circo superiorum stellarum circos certum
est esse maiores, si eo quod continetur id quod continet maius
est, cum hic sit caelestium sphaerarum ordo, ut a superiore una
quaeque inferior ambiatur. Vnde et lunae sphaeram, quasi a
caelo ultimam et uicinam terrae, minimam dixit, cum terra ipsa
in punctum quasi uere iam postrema deficiat. 13. Si ergo stel­
larum superiorum circi, ut diximus, circo solis sunt grandiores,
singulae autem huius sunt magnitudinis ut ad circum una
quaeque suum modum partis obtineant, sine dubio singulae
terra sunt ampliores, quam ad solis circum qui superioribus
minor est, punctum esse praediximus.
De luna, si uere luce lucet aliena, sequentia docebunt.

17. 1 . Haec cum Scipionis obtutus non sine admiratione


percurrens ad terras usque fluxisset et illic familiarius haesis­
set, rursus aui monitu ad superiora reuocatus est, ipsum a caeli
10. Gli studiosi di geometria hanno definito il punto come
ciò che, a causa della sua inimmaginabile piccolezza, non può
essere diviso in parti; né esso stesso si può dire una parte, ma
lo definiscono semplicemente un segno. I fisici ci hanno inse­
gnato che la terra equivale ad un punto, se la si paragona alla
grandezza dell’orbita solare 314. Si è poi riusciti a determinare
di quanto il sole sia più piccolo della sua orbita. Secondo i cal­
coli più esatti di misurazione, si è infatti dimostrato che la
grandezza del sole equivale alla duecento sedicesima parte
della lunghezza della sua orbita . 315 11. Perciò se il sole, rappor­
tato alla sua orbita, rappresenta una frazione di quest’ultima e
se la terra, in rapporto all’orbita del sole, è solamente un
punto, cioè non può essere una frazione, se ne conclude senza
esitazioni che il sole è più grande della terra, in quanto la fra­
zione è più grande di ciò che, per la sua eccessiva piccolezza,
non ammette il nome di frazione.
12. Ora è evidente che le orbite delle stelle superiori sono
più grandi dell’orbita del sole, secondo l’assioma che ciò che
contiene è più grande del contenuto, poiché l’ordine delle
sfere celesti è tale che ogni sfera inferiore è avvolta da quella
che le è superiore. E per questo che Scipione afferma anche
che la sfera lunare, essendo situata nel punto più lontano dalla
sfera celeste e nel punto più vicino alla terra, è «la più picco­
la», mentre la terra stessa, in quanto è l’ultima, sembra quasi
svanire in un punto. 13. Se, dunque, le orbite delle stelle supe­
riori sono, come abbiamo detto, più grandi di quella del sole e
se, d’altra parte, la grandezza di ciascuna di queste stelle è tale
da potersi considerare una parte in rapporto alla misura del­
l’orbita che descrive, è incontestabile che uno qualsiasi di que­
sti corpi luminosi è più grande della terra che, come abbiamo
già detto, è solamente un punto in confronto all’orbita solare,
più piccola essa stessa delle orbite superiori.
Se è vero che la luna brilli di luce altrui, lo sapremo tra poco
nelle pagine che seguono 316.

17. 1 . Scipione, dopo avere fatto vagare il suo sguardo, non


senza ammirazione, su tutte queste meraviglie, lo indirizzò fino
alla terra e si attardò su quello spettacolo a lui famigliare, ma il
suo avo lo ammonì di nuovo richiamandolo alle realtà superne
exordio sphaerarum ordinem in haec uerba monstrantis: 2 .
«Nouem tibi orbibus uel potius globis conexa sunt omnia, quo­
rum unus est caelestis extimus, qui reliquos omnes conplectitur,
summus ipse deus, arcens et continens ceteros, in quo sunt infixi
illi qui uoluuntur stellarum cursus sempiterni. 3. Huic subiecti
sunt septem qui uersantur retro contrario motu atque caelum. E
quibus unum globum possidet illa quam in terris Saturniam
nominant; deinde est hominum generi prosperus et salutaris ille
fulgor qui dicitur Iouis; tum rutilus horribilisque terris quem
Martium dicitis; deinde de septem mediam fere regionem sol
obtinet, dux et princeps et moderator luminum reliquorum,
mens mundi et temperatio, tanta magnitudine ut cuncta sua luce
lustret et compleat. Hunc ut comites consecuntur Veneris alter,
alter Mercurii cursus; in infimoque orbe luna radiis solis accensa
conuertitur. 4. Infra autem eam nihil est nisi mortale et cadu­
cum, praeter animos munere deorum hominum generi datos;
supra lunam sunt aeterna omnia. Nam ea quae est media et
nona, tellus, neque mouetur et infima est et in eam feruntur
omnia nutu suo pondera.»
5. Totius mundi a summo in imum diligens in hunc locum
collecta descriptio est, et integrum quoddam uniuersitatis cor­
pus effingitur, quod quidem xò ttcxv, id est omne, dixerunt;
unde et hic dicit: «conexa sunt omnia». Vergilius uero
«magnum corpus» uocauit:
... et magno se corpore miscet.

6 . Hoc autem loco Cicero, rerum quaerendarum iactis


seminibus, multa nobis excolenda legauit. De septem subiectis
globis ait: «qui uersantur retro contrario motu atque caelum». 7.
Quod cum dicit, admonet ut quaeramus si uersatur caelum, et
si illi septem et uersantur et contrario motu mouentur, aut si
e gli svelò, cominciando dalla volta stellata, l’ordine stesso
delle sfere, in questi termini: 2. «Davanti a te tutto l'universo è
compaginato in nove orbite, anzi, in nove sfere. Una sola di esse
è la sfera celeste, la più estrema, che abbraccia tutte le altre, essa
stessa divinità suprema che racchiude e contiene in sé tutte le
restanti sfere, in cui sono confitti i sempiterni moti circolari delle
stelle. 3. A questa sfera sottostanno sette sfere che ruotano in
direzione opposta, con moto contrario all’orbita del cielo. Di tali
sfere un globo è quel pianeta chiamato sulla terra Saturno; quin­
di si trova quella fulgida stella — propizia e salutare per il gene­
re umano — che è detta Giove; poi, rutilante e terrificante per la
terra, c’è il pianeta che chiamate Marte; sotto, ecco, il Sole che
occupa la regione a un dipresso nel mezzo: è guida, sovrano e
regolatore di tutti gli altri astri, mente e moderatore dell’univer­
so, di tale grandezza che colma con la sua luminosità ogni cosa.
Gli vanno appresso, come compagni di viaggio, ciascuno secondo
il proprio corso, Venere e Mercurio, mentre nell’orbita più bassa
ruota la Luna, illuminata dai raggi del Sole. 4. A l di sotto di essa,
poi, non c’è ormai più nulla, se non mortale e caduco, eccetto le
anime, assegnate per dono degli dèi al genere umano; al di sopra
della Luna tutto è eterno. La sfera che è centrale e nona, ossia la
Terra, non è infatti soggetta a movimento, rappresenta la zona
più bassa delle sfere e verso di essa sono attratti tutti i gravi, per
una forza che è loro propria» M7.
5. Ecco condensata in questo brano una descrizione accu­
rata di tutto quanto l’universo, dal punto più elevato fino alla
regione più bassa; è, in qualche modo, l’effige dell’intero corpo
dell’universo, che alcuni hanno chiamato t ò ttcxv , vale a dire
«il tutto» 318. Per questo anche l ’Africano dice «tutto l’univer­
so è compaginato», mentre Virgilio lo chiama «il grande
corpo»;
... e al grande corpo s’unisce. 319

6 . In questo brano Cicerone, dopo aver gettato Ì semi di ciò


che si offre alle nostre ricerche, ci ha lasciato numerosi campi
da coltivare. Parlando dei sette globi sottostanti dice «che ruo­
tano in direzione opposta, con moto contrario all’orbita del
cielo». 7. Con questa affermazione Cicerone ci invita ad indaga­
re sul movimento di rotazione del cielo e se i sette pianeti giri­
no e quest’ultimo movimento abbia luogo in senso contrario;
hunc esse sphaerarum ordinem quem Cicero refert Platonica
consentit auctoritas, et si uere subiectae sint; quo pacto stellae
earum omnium zodiacum lustrare dicantur, cum zodiacus et
unus et in summo caelo sit; quaeue ratio in uno zodiaco alia­
rum cursus breuiores, aliarum faciat longiores — haec enim
omnia in exponendo earum ordine necesse est adserantur — ;
et postremo, qua ratione in terram ferantur, sicut ait, «omnia
nutu suo pondera».
8 . Versari caelum mundanae animae natura et uis et ratio
docet, cuius aeternitas in motu est, quia numquam motus relin­
quit quod uita non deserit, nec ab eo uita discedit in quo uiget
semper agitatus. Igitur et caeleste corpus, quod mundi anima
futurum sibi immortalitatis particeps fabricata est, ne umquam
uiuendo deficiat, semper in motu est et stare nescit, quia nec
ipsa stat anima qua impellitur. 9. Nam cum animae, quae incor­
porea est, essentia sit in motu, primum autem omnium caeli
corpus anima fabricata sit, sine dubio in corpus hoc primum
ex incorporeis motus natura migrauit, cuius uis integra et
incorrupta non deserit quod primum coepit mouere.
1 0 . Ideo uero caeli motus necessario uolubilis est quia, cum
semper moueri necesse sit, ultra autem locus nullus sit quo se
tendat accessio, continuatione perpetuae in se reditionis agita­
tur. Ergo in quo potest uel habet, currit; et accedere eius reuo-
lui est, quia sphaerae spatia et loca complectentis omnia unus
est cursus, rotari. Sed et sic animam sequi semper uidetur, quae
in ipsa uniuersitate discurrit. 11. Dicemus ergo quod eam
numquam reperiat, si semper hanc sequitur? Immo semper
eam reperit, quia ubique tota, ubique perfecta est. Cur ergo, si
quam quaerit reperit, non quiescit? Quia et illa requietis est
inscia. Staret enim, si umquam stantem animam reperiret; cum
se l’autorità di Platone si accorda con l’ordine delle sfere rife­
rito da Cicerone 32°; se esse occupano veramente una posizio­
ne inferiore; in qual modo si dica che le stelle di tutte queste
sfere percorrano lo zodiaco, mentre lo zodiaco è insieme unico
e nel più alto del cielo; per quale legge, in un unico zodiaco, il
tragitto di alcune stelle sia più lungo e di altre più breve —
giacché tutte queste cose sono necessariamente implicate nel-
l’esporre l’ordine delle sfere — ; infine per quale legge «tutti i
gravi, per una forza che è loro propria» siano attratti verso la
terra, come afferma Cicerone321.
8. La natura, l’essenza e la ragione dell’Anima del Mon­
do 322, la cui eternità è nel movimento, c’insegnano che il cielo
si muove in senso circolare, poiché il movimento non lascia
mai ciò che la vita non abbandona, e la vita non si allontana
mai da ciò che è sempre animato. Così, anche il corpo celeste
che l’Anima cosmica ha foggiato affinché potesse partecipare
della sua immortalità, per non cessare mai di vivere, è sempre
in movimento e non può star mai fermo, perché neppure
l’Anima stessa che lo sospinge resta immobile 323. 9. Difatti,
l’essenza dell’Anima, che è incorporea, essendo insita nel
movimento e avendo quest’ultima senza dubbio foggiato,
primo fra tutte le cose, il corpo del cielo, è indiscutibile che, in
questo corpo, per prima migrò dalle sostanze immateriali la
natura del moto, la cui potenza integra e incorruttibile non
abbandona ciò che per primo ha cominciato a muovere.
10. Questo movimento del cielo è perciò necessariamente
un movimento circolare; perché, siccome è necessario che si
muova senza sosta e siccome non esiste per di più alcun punto
verso cui possa dirigersi, il cielo è continuamente animato da
un movimento continuo di perpetuo ritorno su se stesso 324.
Dunque corre dove può e dove trova posto; e di conseguenza
il suo procedere è un ruotare all’indietro, perché il moto rota­
torio è l’unico tragitto possibile per una sfera che contiene tutti
gli spazi e tutti i luoghi. Sembra così seguire sempre l’Anima
che percorre l’universo intero. 11. Dovremo allora dire, se la
segue continuamente, che non la trova mai? Tutt’altro, la trova
sempre, perché essa è in ogni luogo, nella sua totalità e nella
sua perfezione. Ma perché allora, se trova ciò che cerca, non si
ferma? Perché quello non sa cosa sia la quiete. Infatti si ferme-
uero illa ad cuius appetentiam trahitur, semper in uniuersa, se
fundat, semper et corpus se in ipsam et per ipsam retorquet.
Haec de caelestis uolubilitatis arcano pauca de multis
Plotino auctore reperta sufficiant.
12. Quod autem hunc iste extimum globum, qui ita uolui-
tur, summum deum uocauit, non ita accipiendum est, ut ipse
prima causa et deus ille omnipotentissimus aestimetur, cum
globus ipse, quod caelum est, animae sit fabrica, anima ex
mente processerit, mens ex deo, qui uere summus est, procrea­
ta sit. 13. Sed summum quidem dixit ad ceterorum ordinem,
qui subiecti sunt, unde mox subiecit: «arcem et continens cete­
ros»', deum uero, quod non modo immortale animal ac diui-
num sit et plenum inditae ex illa purissima mente rationis, sed
quod et uirtutes omnes, quae illam primae omnipotentiam
summitatis secuntur, aut ipse faciat aut ipse contineat. 14.
Ipsum denique Iouem ueteres uocauerunt, et apud theologos
luppiter est mundi anima. Hinc illud est:
ab Ioue principium, Musae, Iouis omnia plena,

quod de Arato poetae alii mutuati sunt, qui, de sideribus locu­


turus, a caelo, in quo sunt sidera, exordium sumendum esse
decernens, ab Ioue incipiendum esse memorauit. 15. Hinc et
luno soror eius et coniunx uocatur. Est autem luno aer; et dici­
tur soror, quia isdem seminibus quibus caelum etiam aer pro­
creatus est; coniunx, quia aer subiectus est caelo.
16. His illud adiciendum est quod, praeter duo lumina et
stellas quinque quae appellantur uagae, reliquas omnes alii
infixas caelo nec nisi cum caelo moueri, alii, quorum adsertio
uero proprior est, has quoque dixerunt suo motu, praeter
quod cum caeli conuersione feruntur accedere; sed propter
rebbe, se trovasse in qualche luogo l’Anima immobile; invece
quella, alla cui ricerca esso tende interamente, si spande conti­
nuamente nell’universalità degli esseri, e sempre il corpo si
rivolge ad essa, per essa 325.
Sul mistero della rotazione celeste, questa breve esposizio­
ne, tra le molte di cui è autore Plotino, sarà sufficiente.
12. Ma il fatto che questa più lontana sfera, animata da una
tale rotazione, sia chiamata da Cicerone «divinità suprema»,
non deve far pensare che essa vada intesa come la causa prima
e la divinità onnipotentissima in persona: infatti la sfera, in
altre parole il cielo, è opera dell’Anima, l’Anima procede
dall'intelletto e l’intelletto è generato da quello che è realmen­
te il Dio «supremo» 326. 13. E in questo senso che la sfera cele­
ste viene detta «suprema», vale a dire in relazione solamente
alla sua posizione che domina tutti gli altri globi, come testimo­
niano le parole che Cicerone aggiunge subito dopo: «che rac­
chiude e contiene in sé tutte le restanti sfere»; e l’ha detta «divi­
nità» non solo perché è un essere vivente immortale e divino,
pieno di una ragione che proviene dall’intelletto purissimo, ma
anche perché realizza o contiene essa stessa tutte le virtù che
sono gli attributi dell’onnipotenza della sommità prima. 14.
Tanto è vero che gli Antichi chiamarono la sfera celeste G io­
ve 327 e, presso i teologi 328, Giove è l’Anima del Mondo. Donde
l’espressione:
da Giove è il principio, o Muse: tutto è pervaso da Giove 329,

ripresa da altri poeti e che deriva da Arato, il quale, accingen­


dosi a parlare degli astri e stabilendo che il cielo, cui essi sem­
brano affìssi, doveva fornire l’esordio, ricordò che si doveva
cominciare da Giove 33°. 15. Di qui viene che Giunone è detta
sua sorella e sua sposa. Giunone rappresenta poi l ’aria 331 ed è
detta sorella, perché l’aria è stata generata dagli stessi semi del
cielo, sposa, perché l’aria sta sotto il cielo.
16. Ci resta da aggiungere che alcuni affermano che tutte le
stelle, eccetto i due luminari e i cinque corpi celesti chiamati
erranti, sono infisse nel cielo e non hanno altro movimento se
non quello con il cielo 332, e altri, la cui opinione sembra più
prossima alla verità, che, oltre alla rivoluzione del cielo cui è
associato il loro spostamento, anche questi astri avanzino con
un loro movimento proprio 333; ma che, data l ’immensità della
inmensitatem extimi globi excedentia credibilem numerum
saecula in una eas cursus sui ambitione consumere, et ideo nul­
lum earum motum ab homine sentiri, cum non sufficiat huma­
nae uitae spatium ad breue saltem punctum tam tardae acces­
sionis deprehendendum. 17. Hinc Tullius, nullius sectae
inscius ueteribus approbatae, simul attigit utramque senten­
tiam dicendo «in quo sunt infixi illi qui uoluuntur stellarum
cursus sempiterni»: nam et infixos dixit et cursus habere non
tacuit.

18. 1. Nunc utrum illi septem globi qui subiecti sunt con­
trario, ut ait, quam caelum uertitur motu ferantur, argumentis
ad uerum ducentibus requiramus.
2. Solem ac lunam et stellas quinque quibus ab errore
nomen est, praeter quod secum trahit ab ortu in occasum caeli
diurna conuersio, ipsa suo motu in orientem ab occidente pro­
cedere, non solis literarum profanis, sed multis quoque doctri­
na initiatis, abhorrere a fide ac monstro simile iudicatum est;
sed apud pressius intuentes ita uerum esse constabit ut non
solum mente concipi, sed oculis quoque ipsis possit probari. 3.
Tamen ut nobis de hoc sit cum pertinaciter negante tractatus,
age, quisquis tibi hoc liquere dissimulas, simul omnia quae uel
contentio tibi fingit detractans fidem, uel quae ipsa ueritas sug­
gerit, in diuisionis membra mittamus.
4. Has erraticas, cum luminibus duobus, aut infixas caelo,
ut alia sidera, nullum sui motum nostris oculis indicare, sed
ferri mundanae conuersionis impetu, aut moueri sua quoque
accessione dicemus. Rursus, si mouentur, aut caeli uiam secun-
tur ab ortu in occasum, et communi et suo motu meantes, aut
sfera più esterna 334, impiegano un numero di secoli che supe­
ra ogni nostra immaginazione per ritornare nel punto da cui
sono partiti; ed è ciò che fa sì che il loro movimento non possa
essere percepito dall’uomo, la cui intera vita non gli è sufficien­
te a cogliere nemmeno il più leggero spostamento di una prò-
gressione così lenta 335. 17. Perciò Cicerone, che non ignora
nessuna dottrina approvata dagli Antichi, ha accennato insie­
me ad entrambe le opinioni, quando dice «in cui sono confitti
i sempiterni moti circolari delle stelle»-, in questo modo afferma
che sono fisse e tuttavia non tace il fatto che abbiano un loro
movimento.

18. 1. Cerchiamo adesso di stabilire, con argomentazioni


che conducano alla verità, se le sette sfere sottostanti abbiano,
come si dice nel Sogno, un movimento retrogrado rispetto alla
sfera celeste 336.
2. La tesi secondo la quale il sole, la luna e i cinque astri, il
cui nome deriva dal loro errare 337, procedono con un loro pro­
prio movimento da occidente ad oriente, oltre a quello della
rotazione diurna della sfera celeste che li trascina con essa da
oriente ad occidente 338, è stata giudicata incredibile e come
mostruosa non solo dai profani ignoranti, ma anche da molte
persone iniziate alla dottrina; ma, tra quanti lo esamineranno
più da vicino, si constaterà che il fatto è talmente vero che non
solo si riesce a concepire col pensiero, ma che si può verificare
anche con gli occhi. 3. Ciononostante, per discutere dell’argo-
mento con uno che nega tutto questo con tenacia, consentici,
tu, chiunque tu sia, che rifiuti di vedere ciò che è evidente 339,
di esaminare, articolandoli, tutti gli argomenti, quelli che
inventano gli avversari della tesi per toglierle credibilità e quel­
li che la verità stessa suggerisce.
4. Di questi corpi erranti, con due luminari, diremo o che,
infissi nel cielo come le altre costellazioni, non rivelano ai
nostri occhi alcun movimento proprio, ma sono trascinati dallo
slancio della rotazione cosmica, oppure che essi si muovono
anche con una progressione propria. In quest’ultimo caso, se si
muovono o seguono il tragitto del cielo da oriente ad occiden­
te, spostandosi insieme con un movimento comune e con un
movimento proprio, oppure, seguendo una direzione opposta
contrario recessu in orientem ab occidentis parte uersantur.
Praeter haec, ut opinor, nihil potest uel esse uel fingi. Nunc
uideamus quid ex his poterit uerum probari.
5. Si infixae essent, numquam ab eadem statione discede­
rent, sed in isdem locis semper, ut aliae, uiderentur. Ecce enim,
de infixis, Vergiliae: nec a sui umquam se copulatione disper­
gunt, nec Hyadas, quae uicinae sunt, deserunt aut Orionis pro­
ximam regionem relinquunt. Septentrionum compago non
soluitur; Anguis, qui inter eos labitur, semel circumfusum non
mutat amplexum. 6 . Hae uero modo in hac, modo in illa caeli
regione uisuntur, et saepe, cum in unum locum duae pluresue
conuenerint, et a loco tamen in quo simul uisae sunt et a se
postea separantur. Ex hoc eas non esse caelo infixas oculis
quoque approbantibus constat. Igitur mouentur, nec negare
hoc quisquam poterit quod uisus adfirmat.
7. Quaerendum est ergo utrum ab ortu ad occasum an in
contrarium motu proprio reuoluantur. Sed et hoc quaerentibus
nobis non solum manifestissima ratio, sed uisus quoque ipse
monstrabit. Consideremus ergo signorum ordinem quibus
zodiacum diuisum uel distinctum uidemus, et ab uno signo
quolibet ordinis eius sumamus exordium. 8 . Cum Aries exori­
tur, post ipsum Taurus emergit. Hunc Gemini secuntur, hos
Cancer, et per ordinem reliqua. Si istae ergo in occidentem ab
oriente procederent, non ab Ariete in Taurum, qui retro loca­
tus est, nec a Tauro in Geminos, signum posterius, uolueren-
tur, sed a Geminis in Taurum, et a Tauro in Arietem recta et
mundanae uolubilitatis consona accessione prodirent. 9. Cum
uero a primo in signum secundum, a secundo in tertium, et
inde ad reliqua, quae posteriora sunt, reuoluantur, signa autem
infixa caelo <cum c a e lo ferantur, sine dubio constat has stel­
las non cum caelo, sed contra caelum moueri.
all’orbita del cielo, si muovono da occidente ad oriente. Oltre
a queste possibilità, penso che non esista e non se ne possa
immaginare nessuna 340. Adesso vediamo quale tra esse potrà
essere dimostrata come vera.
5. Se questi astri fossero fissi, non si allontanerebbero mai
dalla stessa posizione, ma sarebbero sempre visibili negli stessi
punti del cielo, così come gli altri. Prendiamo, infatti, ad esem­
pio, tra le stelle fisse, le Virgilie [Pleiadi]: non si allontanano
mai dal loro gruppo, e anzi non si scostano dalle vicine Iadi, né
abbandonano la zona adiacente ad Orione. La compagine delle
due Orse non si scioglie mai; il Serpente [Dragone], che scivo­
la tra queste due costellazioni, avviluppatosi intorno ad esse
una volta per sempre, non muta il suo abbraccio . 341 6 . Ma, al
contrario, i pianeti sono visibili ora in una regione del cielo e
ora in un’altra e spesso, quando due o più di essi entrano in
congiunzione in uno stesso luogo, poi si allontano contempo­
raneamente dal punto in cui erano visibili insieme e dalle loro
reciproche posizioni. Ciò dimostra, e la testimonianza oculare
lo prova, che quei pianeti non sono infissi nel cielo. Dunque si
muovono, giacché nessuno potrà negare ciò che conferma l’e­
sperienza visiva.
7. C ’è quindi da chiedersi se il moto particolare di questi
pianeti si operi dal sorgere al tramontare del sole, o viceversa.
Orbene, risolverà la questione non solo un ragionamento irre­
futabile, ma anche l’osservazione stessa. Consideriamo infatti
la serie dei segni che divide o contraddistingue lo zodiaco,
cominciando da uno qualunque di essi. 8 . All’ascendente
dell’Ariete, dopo di esso emerge il Toro. È seguito dai Gemelli
che sono sostituiti dal Cancro, e così via. Se dunque queste
stelle mobili eseguissero il loro movimento da oriente ad occi­
dente, esse non si recherebbero dall’Ariete nel Toro, situato
dietro al primo, né dal Toro nella costellazione seguente dei
Gemelli; ma passerebbero dai Gemelli nel Toro e dal Toro
nell’Ariete, con una progressione diretta e conforme alla rota­
zione cosmica. 9. Ma, poiché la loro rivoluzione li riporta dalla
prima alla seconda costellazione, dalla seconda alla terza e
quindi verso tutte le altre che seguono e siccome, d’altra parte,
i segni infissi nel cielo si spostano <insieme ad esso>, non si
può dubitare che questi astri si muovano non con il cielo, ma
con un movimento contrario a quello della sfera celeste.
Hoc ut plene liqueat, astruamus de lunae cursu, quia et cla­
ritate sui et uelocitate notabilior est. 1 0 . Luna, postquam a sole
discedens nouata est, secundo fere die circa occasum uidetur,
et quasi uicina soli quem nuper reliquit; postquam ille demer­
sus est, ipsa caeli marginem tenet, antecedenti superoccidens.
Tertio die tardius occidit quam secundo, et ita cotidie longius
ab occasu recedit, ut septimo die circa solis occasum in medio
caelo ipsa uideatur. Post alios uero septem cum ille mergit,
haec oritur. 11. Adeo media parte mensis dimidium caelum, id
est unum hemisphaerium, ab occasu in orientem recedendo
metitur. Rursus post septem alios circa solis occasum latentis
hemisphaerii uerticem tenet, et huius rei indicium est quod
medio noctis exoritur. Postremo, totidem diebus exemptis, so­
lem denuo comprehendit, et uicinus uidetur ortus amborum,
quamdiu, soli succedens, rursus nouetur et rursus recedens
paulatim semper in orientem regrediendo relinquat occasum.
1 2 . Sol quoque ipse non aliter quam ab occasu in orientem
mouetur, et, licet tardius recessum suum quam luna conficiat,
quippe qui tanto tempore signum unum emetiatur quanto
totum zodiacum luna discurrit, manifesta tamen et subiecta
oculis motus sui praestat indicia. 13. Hunc enim in Ariete esse
ponamus, quod, quia aequinoctiale signum est, pares horas
somni et diei facit. In hoc signo cum occidit, Libram, id est
Scorpii chelas, mox oriri uidemus, et apparet Taurus uicinus
occasui: nam Vergilias et Hyadas, partes Tauri clariores, non
multo post solem mergentes uidemus. 14. Sequenti mense sol
in signum posterius, id est in Taurum, recedit, et ita fit ut
neque Vergiliae neque alia pars Tauri illo mense uideatur.
Affinché il fatto sia assolutamente evidente, basiamoci sul
corso della luna, la più facile da osservare per la sua luminosi­
tà e la sua velocità 342. 10. La luna, dopo essersi rinnovata
abbandonando il sole, dopo circa due giorni è visibile verso il
tramonto e quasi a ridosso di quest’astro che ha appena lascia­
to; dopo il tramonto del sole, la stessa luna occupa il bordo del
cielo e tramonta proprio dopo questo che la precede. Il terzo
giorno essa tramonta più tardi del secondo, e così ciascuno dei
seguenti giorni si allontana sempre più dal tramonto, cosicché
il settimo giorno la luna, a un dipresso del tramonto del sole, è
visibile nel mezzo del cielo. Sette giorni dopo, essa si alza nel­
l’istante in cui il sole tramonta. 11. In questo modo ha adope­
rato la metà di un mese per percorrere la metà del cielo, ossia
un emisfero, retrocedendo da occidente ad oriente. Viceversa,
dopo altri sette giorni, occupa, verso il tramonto del sole, il
punto più basso dell’emisfero nascosto e indizio di ciò è che
essa nasce nel mezzo della notte. Infine, passato un identico
numero di giorni, essa ritorna in congiunzione col sole ed
entrambi si vedono sorgere in prossimità luna dell’altro, fin­
ché, venendo dopo il sole, la luna ritorna nuova ancora una
volta e, ancora una volta, spostandosi un po’ per volta con un
tragitto sempre retrogrado in direzione dell’oriente, abbando­
na l’occidente.
1 2 . Anche lo stesso sole non si sposta altrimenti che da occi­
dente a levante e, sebbene completi la sua retrogradazione più
lentamente della luna — poiché per attraversare un segno ci
mette lo stesso tempo che la luna impiega per percorrere tutto
quanto lo zodiaco — offre tuttavia chiare e osservabili prove
del suo movimento. 13. Supponiamo che il sole si trovi
nell’Ariete, che, poiché è un segno equinoziale, rende le ore del
giorno uguali a quelle della notte. Appena esso tramonta in
questo segno, vediamo subito nascere nella regione opposta
dell’emisfero la Bilancia, o piuttosto le Chele dello Scorpio­
n e 343, ed il Toro si fa vedere nelle vicinanze del punto dove il
sole è tramontato: si vedono le Pleiadi e le Iadi, brillante cor­
teo del Toro, sparire non molto tempo dopo il sole. 14. Il
seguente mese, il sole retrograda nel segno seguente, cioè nel
Toro, e così accade che né le Virgilie [Pleiadi] né un’altra parte
del Toro siano visibili in questo mese. Infatti un segno, che
Signum enim quod cum sole oritur et cum sole occidit semper
occulitur, adeo ut et uicina astra solis propinquitate celentur.
15. Nam et Canis tunc, quia uicinus Tauro est, non uidetur,
tectus lucis propinquitate. Et hoc est quod Vergilius ait:
candidus auratis aperit cum cornibus annum
Taurus et aduerso cedens Canis occidit astro.
Non enim uult intellegi, Tauro oriente cum sole, mox in occa­
sum ferri Canem, qui proximus Tauro est, sed occidere eum
dixit Tauro gestante solem, quia tunc incipit non uideri sole
uicino. 16. Tunc tamen occidente sole, Libra adeo superior
inuenitur ut totus Scorpius ortus appareat, Gemini uero uicini
tunc uidentur occasui. Rursus, post Tauri mensem, Gemini
non uidentur, quod in eos solem migrasse significat. Post
Geminos recedit in Cancrum, et tunc, cum occidit, mox Libra
in medio caelo uidetur. 17. Adeo constat solem tribus signis
peractis, id est Ariete et Tauro et Geminis, ad medietatem
hemisphaerii recessisse. Denique, post tres menses sequentes,
tribus signis quae secuntur emensis — Cancrum dico, Leonem
et Virginem — , inuenitur in Libra, quae rursus aequat noctem
diei, et dum in ipso signo occidit, mox oritur Aries, in quo sol
ante sex menses occidere solebat. 18. Ideo autem occasum
magis eius quam ortum elegimus proponendum, quia signa
posteriora post occasum uidentur, et, dum ad haec quae sole
mergente uideri solent solem redire monstramus, sine dubio
eum contrario motu recedere quam caelum mouetur ostendi­
mus.
19. Haec autem quae de sole ac luna diximus, etiam quin­
que stellarum recessum adsignare sufficient. Pari enim ratione
in posteriora signa migrando semper mundanae uolubilitati
contraria recessione uersantur.
nasce e tramonta contemporaneamente al sole, è sempre occul­
tato, al punto che anche gli astri vicini sono celati dalla prossi­
mità del sole. 15 Infatti in quel momento anche il Cane 344, poi­
ché è vicino al Toro, non è visibile: la prossimità della luce lo
copre. Parlando di questo fenomeno, Virgilio si esprime così:

quando, splendente per l’oro delle sue corna, apre Tanno


il Toro e il Cane tramonta cedendo all’astro che l’affronta. 345

Il poeta non vuol dire che, mentre il Toro sorge insieme al


sole, il Cane, che è accanto al Toro, si trovi a occidente; il
poeta dice che il Cane «tramonta» quando il Toro ospita il
sole perché in quel momento esso comincia a non essere più
visibile a causa della prossimità del sole. 16. In quel momento
tuttavia, al tramonto del sole, la Bilancia viene a trovarsi così
in alto che tutto quanto lo Scorpione ormai sorto appare,
quanto ai Gemelli sono allora visibili vicino aH’occidente. A
loro volta, passato il mese del Toro, i Gemelli diventano invi­
sibili, il che significa che il sole è migrato nel loro segno. Dai
Gemelli recede nel Cancro e allora, quando tramonta, la
Bilancia è subito visibile in mezzo al cielo. 17. Ciò prova
appunto che il sole, dopo aver percorso tre costellazioni —
FAriete, il Toro e i Gemelli — , si è riportato verso la metà del­
l’emisfero. Alla fine del trimestre seguente e percorsi i segni
successivi — intendo il Cancro, il Leone e la Vergine — , il sole
è accolto nella Bilancia che di nuovo rende la notte uguale al
giorno, e mentre il sole tramonta in questo segno, subito sorge
l’Ariete, nel quale il sole, sei mesi prima, tramontava. 18.
Abbiamo scelto di riferirci al tramonto del sole piuttosto che
al suo sorgere, perché i segni che lo seguono sono immediata­
mente visibili dopo il tramonto e mostrando che il sole ritor­
na verso quelli che sono visibili nel momento in cui cala, pro­
viamo, senza il minimo dubbio, che il suo movimento è retro­
grado rispetto a quello del cielo 346.
19. Ciò che abbiamo appena detto del sole e della luna
basterà a provare anche il moto retrogrado dei cinque piane­
ti. Con un processo eguale, passando nei segni che seguono,
compiono sempre una rivoluzione contraria alla rotazione
cosmica 347.
19. 1 . His adsertis, de sphaerarum ordine pauca dicenda
sunt, in quo dissentire a Platone Cicero uideri potest, cum hic
solis sphaeram quartam de septem, id est in medio locatam,
dicat, Plato a luna sursum secundam, hoc est inter septem a
summo locum sextum tenere commemoret. 2. Ciceroni
Archimedes et Chaldaeorum ratio consentit, Plato Aegyptios,
omnium philosophiae disciplinarum parentes, secutus est, qui
ita solem inter lunam et Mercurium locatum uolunt ut ratio­
nem tamen et deprehenderint et edixerint cur a non nullis sol
supra Mercurium supraque Venerem esse credatur: nam nec
illi qui ita aestimant a specie ueri procul aberrant. Opinionem
uero istius permutationis huius modi ratio persuasit.
3. A Saturni sphaera, quae est prima de septem, usque ad
sphaeram Iouis, a summo secundam, interiecti spatii tanta
distantia est ut zodiaci ambitum superior triginta annis, duode­
cim uero annis subiecta conficiat. Rursus tantum a Ioue sphae­
ra Martis recedit ut eundem cursum biennio peragat. 4. Venus
autem tanto est regione Martis inferior ut ei annus satis sit ad
zodiacum peragrandum. Iam uero ita Veneri proxima est stel­
la Mercurii, et Mercurio sol propinquus, ut hi tres caelum
suum pari temporis spatio, id est anno plus minusue, circu­
meant. Ideo et Cicero hos duos cursus comites solis uocauit,
quia in spatio pari longe a se numquam recedunt. 5. Luna
autem tantum ab his deorsum recessit ut, quod illi anno, uigin-
ti octo diebus ipsa conficiat. Ideo neque de trium superiorum
ordine, quem manifeste clareque distinguit inmensa distantia,
neque de lunae regione, quae ab omnibus multum recessit,
inter ueteres aliqua fuit dissensio. Horum uero trium sibi pro­
ximorum, Veneris, Mercurii et solis, ordinem uicinia confudit,
sed apud alios: nam Aegyptiorum sollertiam ratio non fugit,
quae talis est.
19. 1 . Dimostrata questa tesi, bisogna ora esporre in poche
parole l'ordine delle sfere 348; qui l’opinione di Cicerone sem­
bra differire da quella di Platone, poiché il primo dà alla sfera
del Sole il quarto posto dei sette, vale a dire che la pone al cen­
tro, mentre Platone sostiene che essa è la seconda verso l’alto a
partire dalla Luna, cioè occupa il sesto posto scendendo. 2 .
Cicerone ha dalla sua Archimede 349 e i calcoli dei Caldei, men­
tre l’opinione di Platone segue quella degli Egizi, padri di tutte
le discipline che formano la filosofia; secondo essi, il Sole è
posto tra la Luna e Mercurio 35°, pur comprendendo e spiegan­
do perché alcuni ritengono che il sole si trovi sopra Mercurio
e Venere: infatti anche coloro che così opinano non sono lungi
dalla verosimiglianza. Ciò che li ha persuasi a prestar fede a
questo scambio di posizione che essi compiono, è il genere di
ragionamento che segue 351.
3. Dalla sfera di Saturno, che è la prima delle sette, fino alla
sfera di Giove, la seconda a partire dall’alto, la distanza inter­
corrente è tale che il pianeta superiore adopera trent’anni per
completare il circuito dello zodiaco, mentre il pianeta inferio­
re non ne impiega che dodici. La sfera di Marte è, a sua volta,
così distante da Giove che questo pianeta finisce il medesimo
percorso in un biennio. 4. Venere, poi, è talmente al di sotto
della regione di Marte che un anno gli basta per percorrere lo
zodiaco. Invece, la stella di Mercurio è così vicina a Venere e il
Sole così prossimo a Mercurio, che tutti e tre percorrono il loro
giro celeste in un periodo di tempo uguale, cioè pressappoco
un anno 352. Cicerone ha così chiamato questi due pianeti nella
loro corsa «compagni» del sole perché, percorrendo una
distanza uguale, non si allontanano mai troppo l’uno dall’al­
tro 353. 5. Quanto alla Luna si trova tanto più in basso rispetto
a questi ultimi che effettua in ventotto giorni 354 il tragitto che
essi compiono in un anno. Per questo motivo né sull’ordine dei
tre pianeti superiori, reso chiaro ed evidente dalla prodigiosa
distanza che li separa, né sulla posizione della luna, che è tal­
mente al di sotto degli altri, c’è mai stato alcun dissenso tra gli
Antichi. Invece nel caso dei tre che sono vicinissimi tra loro —
Venere, Mercurio e il Sole — , la reciproca vicinanza ha getta­
to confusione nella loro disposizione, ma solo presso alcuni:
infatti la vera spiegazione, che è la seguente, non sfuggì alla
solerte sagacia degli Egizi.
6. Circulus per quem sol discurrit a Mercurii circulo ut infe­
rior ambitur; illum quoque superior circulus Veneris includit,
atque ita fit ut hae duae stellae, cum per superiores circulorum
suorum uertices currunt, intellegantur supra solem locatae,
cum uero per inferiora commeant circulorum, sol eis superior
aestimetur. 7. Illis ergo qui sphaeras earum sub sole dixerunt,
hoc uisum est ex illo stellarum cursu, qui nonnumquam, ut
diximus, uidetur inferior, qui et uere notabilior est quia tunc
liberius apparent. Nam, cum superiora tenent, magis radiis
occuluntur; et ideo persuasio ista conualuit, et ab omnibus
paene hic ordo in usum receptus est.
8, Perspicacior tamen obseruatio ueriorem ordinem depre­
hendit, quem praeter indaginem uisus haec quoque ratio com­
mendat quod lunam, quae luce propria caret et de sole mutua­
tur, necesse est fonti luminis sui esse subiectam. 9. Haec enim
ratio facit lunam non habere lumen proprium, ceteras omnes
stellas lucere suo, quod illae, supra solem locatae, in ipso puris­
simo aethere sunt, in quo omni quicquid est, lux naturalis et
sua est, quae tota cum igne suo ita sphaerae solis incumbit, ut
caeli zonae quae procul a sole sunt perpetuo frigore oppressae
sint, sicut infra ostendetur. 10. Luna uero, quia sola ipsa sub
sole est et caducorum iam regioni luce sua carenti proxima,
lucem nisi de superposito sole, cui resplendet, habere non
potuit. Denique quia totius mundi ima pars terra est, aetheris
autem ima pars luna est, lunam quoque terram, sed aetheriam
uocauerunt. 11. Immobilis tamen, ut terra, esse non potuit,
quia in sphaera quae uoluitur nihil manet inmobile praeter
centrum; mundanae autem sphaerae terra centrum est; ideo
sola immobilis perseuerat.
12. Rursus terra accepto solis lumine clarescit tantummodo,
non relucet, luna speculi instar lumen quo illustratur emittit,
6. L’orbita lungo la quale il Sole si muove si trova inscritta
all’interno del circolo di Mercurio, al di sotto del quale si trova;
questo, a sua volta, è racchiuso dal circolo di Venere, che è più
alto; di conseguenza quando questi due pianeti descrivono i
vertici superiori delle loro orbite, si considera che si situino al
di sopra del sole, ma quando si spostano negli estremi inferio­
ri del loro circolo, è al sole che si attribuisce la posizione supe­
riore. 7. Quelli che sostennero che le loro sfere sono più in
basso del Sole ricavarono quest’impressione dall’orbita dei due
pianeti che, come abbiamo detto, talora sembra più bassa; e
queste orbite si osservano maggiormente in quanto allora i due
pianeti appaiono più liberamente. Infatti quando occupano la
posizione superiore, i raggi solari li mascherano di più 355; e per
questo motivo questa opinione divenne più forte e da quasi
tutti fu adottato l’ordine che vuole il sole al centro dei pianeti.
8. Un’osservazione più perspicace fa tuttavia intuire l’ordi­
ne più vero 356 dei pianeti, che, oltre l’indagine visiva fa valere
il fatto che la luna, che manca di luce propria e la prende a pre­
stito dal sole, deve necessariamente essere al di sotto della sua
sorgente di luce 357 . 9. La ragione che fa sì che la luna non
abbia luce propria, mentre tutte le altre stelle brillano della
loro, è che, situate al di sopra del sole, si trovano nell’etere
purissimo, in cui ogni cosa, qualunque sia, ha luce naturale e
propria; questa luce, tutta quanta, col suo fuoco grava sulla
sfera del Sole di modo che le zone del cielo che sono lontane
dal sole sono oppresse da un freddo perpetuo, come si mostre­
rà tra poco 358. 1 0 . Ma poiché la Luna è l’unica a trovarsi sotto
il Sole ed è già prossima alla regione corruttibile priva di luce
propria, non ha potuto ricevere altra luce che quella del sole
che le sta immediatamente sopra e di cui riflette lo splendore.
Infine, siccome la terra è la parte più bassa di tutto quanto l’u­
niverso e la luna occupa la parte più bassa dell’etere, anche la
Luna è stata chiamata «terra eterea» 359. 1 1 . Tuttavia la Luna
non ha potuto essere immobile come la Terra, perché in una
sfera in rotazione niente rimane immobile tranne il centro e
siccome la terra è il centro della sfera del mondo essa sola rima­
ne immobile 36°.
12. La terra a sua volta è soltanto illuminata dalla luce che
riceve dal sole, ma non può rinviarla; mentre la luna ha la pro­
prietà di uno specchio, cioè quella di riflettere la luce da cui
quia illa aeris et aquae, quae per se concreta et densa sunt, faex
habetur et ideo extrema uastitate densata est, nec ultra super­
ficiem quauis luce penetratur; haec licet et ipsa finis sit, sed
liquidissimae lucis et ignis aetherii, ideo, quamuis densius cor­
pus sit quam cetera caelestia, ut multo tamen terreno purius, fit
acceptae luci penetrabile, adeo ut eam de se rursus emittat,
nullum tamen ad nos perferentem sensum caloris: 13. quia
lucis radius, cum ad nos de origine sua, id est de sole, perue-
nit, naturam secum ignis de quo nascitur deuehit; cum uero in
lunae corpus infunditur et inde resplendet, solam refundit cla­
ritudinem, non calorem. Nam et speculum, cum splendorem
de se ui oppositi eminus ignis emittit, solam ignis similitudi­
nem, carentem sensu caloris, ostendit.
14. Quem soli ordinem Plato dederit uel eius auctores, quo-
sue Cicero secutus quartum locum globo eius adsignauerit, uel
quae ratio persuasionem huius diuersitatis induxerit et cur
dixerit Tullius «in infimoque orbe luna radiis solis accensa
conuertitur», satis dictum est; sed his hoc adiciendum est cur
Cicero, cum quartum de septem solem uelit, quartus autem
inter septem non fere medius, sed omni modo medius et sit et
habeatur, non abrupte medium solem, sed «fere» medium
dixerit his uerbis: «deinde de septem mediam fere regionem sol
optinet».
15. Sed non uacat adiectio qua haec pronuntiatio tempera­
tur. Nam sol quartum locum optinens mediam regionem tene­
bit numero, spatio non tenebit. Si inter ternos enim summos et
imos locatur, sine dubio medius est numero, sed, totius spatii
quod septem sphaerae occupant dimensione perspecta, regio
viene illuminata. La terra, difatti, è considerata come un sedi­
mento d’aria e d’acqua, elementi in sé spessi e densi 361, e di
conseguenza, sulla sua vasta estensione esterna, si è solidifica­
ta, e aldilà della sua superficie è impermeabile a qualsivoglia
luce; la luna, poi, è sicuramente un limite, ma il limite della
luce più pura e del fuoco etereo; così, pur essendo un corpo
più denso di tutti gli altri corpi celesti, è tuttavia assai più pura
della terra e perciò può essere a tal punto penetrata dalla luce
che riceve da rinviarla a sua volta. La luna non può però tra­
smetterci la sensazione del caldo: 13. questa prerogativa appar­
tiene solamente al raggio di luce che, partito dalla sua fonte,
cioè il sole, per arrivare fino a noi, trasporta con sé la natura
del fuoco dal quale è nato; ma quando penetra nel corpo della
luna e si trova riflesso da esso, restituisce soltanto il chiarore e
non il calore 562. E come uno specchio che riflette lo splendore
della potenza di un fuoco acceso di fronte a qualche distanza:
questo specchio offre soltanto l’immagine del fuoco, ma que­
sta immagine non è in grado di riprodurne il calore.
14. Il posto che hanno attribuito al sole Platone, o piuttosto
le sue fonti, gli autori cui attinse Cicerone per assegnare a que­
sto globo la quarta posizione, le considerazioni che hanno fatto
sorgere questa diversità di opinioni, il perché Cicerone scrisse
« nell’orbita più bassa ruota la Luna, illuminata dai raggi del
Sole», sono state sufficientemente esposte; ma dobbiamo anco­
ra aggiungere la spiegazione del perché Cicerone consideri il
sole il quarto dei sette pianeti; ora, in una serie di sette, il quat­
tro si trova e viene considerato trovarsi assolutamente nel
mezzo e non «a un dipresso»-, eppure Cicerone non ha detto
chiaramente che il sole era posto in mezzo, ma ha detto che era
«a un dipresso» nel mezzo, usando questa espressione: «ecco il
Sole che occupa la regione a un dipresso».
15. Ma questo elemento aggiuntivo, che tempera l’afferma­
zione, non è superfluo. Il sole, infatti, può occupare, numeri­
camente parlando, il quarto posto tra i pianeti 363, senza per
questo essere il punto centrale dello spazio nel quale essi si
muovono. Se ha al di sopra tre di questi corpi e tre ne ha di
sotto, è senza dubbio in una posizione mediana sotto il profilo
numerico; ma se si considera l’intera estensione dello spazio
occupato dalle sette sfere, la zona del sole non si trova colloca-
solis non inuenitur in medio spatio locata, quia magis a summo
ipse, quam ab ipso recessit ima postremitas: quod sine ulla
disceptationis ambage compendiosa probabit adsertio.
16. Saturni stella, quae summa est, zodiacum triginta annis
peragrat, sol medius anno uno, luna ultima uno mense non
integro. Tantum ergo interest inter solem et Saturnum quan­
tum inter unum et triginta, tantum inter lunam solemque
quantum inter duodecim et unum. 17. Ex his apparet totius a
summo in imum spatii certam ex media parte diuisionem solis
regione non fieri. Sed quia hic de numero loquebatur, in quo
uere qui quartus et medius est, ideo pronuntiauit quidem
medium, sed propter latentem spatiorum dimensionem uer-
bum quo hanc definitionem temperaret adiecit.
18. Notandum quod esse stellam Saturni et alteram Iouis,
Martis aliam, non naturae constitutio sed humana persuasio
est, quae
... stellis numeros et nomina fecit.
Non enim ait illa «quae Saturnia est» sed «quam in terris
Saturniam nominant» et «ille fulgor qui dicitur Iouis», et «quem
Martium dicitis»-, adeo expressit in singulis nomina haec non
esse inuenta ex natura, sed hominum commenta significationi
distinctionis accommoda.
19. Quod uero fulgorem Iouis humano generi prosperum et
salutarem, contra Martis rutilum et terribilem terris uocauit,
alterum tractum est ex stellarum colore — nam fulget Iouis,
rutilat Martis — , alterum ex tractatu eorum qui de his stellis ad
hominum uitam manare uolunt aduersa uel prospera. Nam
plerumque de Martis stella terribilia, de Iouis salutaria euenire
definiunt.
ta nel mezzo di questo spazio, perché esso è più distante dalla
sommità della sfera celeste di quanto non disti dal sole stesso il
limite inferiore. E ciò che proveremo succintamente e senza
dover ricorrere a tortuose dimostrazioni.
16. La stella di Saturno, che è la più alta, impiega trentan­
ni a percorrere lo zodiaco; il sole, che è nel mezzo, adopera un
anno per descrivere la sua orbita e la luna, che occupa l’estre­
mità inferiore, termina la sua corsa in poco meno d’un mese.
Così la distanza tra il sole e Saturno è la stessa che c’è fra uno
e trenta e quella tra la luna e il sole corrisponde a quella tra uno
e dodici 364. 17. Risulta da ciò che tutto quanto lo spazio, dalla
sommità fino al basso, non è diviso esattamente nel mezzo
dalla regione del sole. Ma, siccome nel passo esaminato Cice­
rone si riferiva al numero delle sette sfere e, siccome in termi­
ni numerici, davvero, la quarta sfera è nel mezzo, così ha giu­
stamente utilizzato l’espressione «nel mezzo», ma, essendo
implicita la distanza degli spazi dei sette corpi celesti, ha
aggiunto altre parole per riportare alle giuste dimensioni la sua
affermazione.
18. Va qui osservato che se tale stella è di Saturno, l’altra di
Giove, l’altra ancora di Marte, questo non ha niente a che fare
con la loro natura, ma è stata la credenza umana, che
numerò e nominò le stelle. 365
Ecco perché l’avo di Scipione, invece di dire «la stella
Saturno», adopera queste espressioni: «quel pianeta chiamato
sulla terra Saturno», «quella fulgida stella ... che è detta Giove»,
«il pianeta che chiamate Marte», con ciò esprimendo per ogni
singolo pianeta che le denominazioni non sono state rinvenute
nella natura, ma sono definizioni arbitrarie degli uomini, che
servono a distinguerli 366.
19. Se d’altronde Cicerone definisce lo splendore di Giove
«propizio e salutare per il genere umano» e, per contro, quello di
Marte «rutilante e terrificante per la terra», allude da una parte
al colore di queste stelle — quello di Giove è un biancore splen­
dente, quello di Marte è tinto di rosso — , dall’altra all’opinione
espressa nei trattati da coloro che pensano che queste stelle
influiscano, nel bene o nel male, sugli eventi della vita umana.
Secondo essi, generalmente è da Marte che provengono terribi­
li disgrazie e da Giove gli avvenimenti più favorevoli.
20. Causam si quis forte altius quaerat unde diuinis maliuo-
lentia, ut stella malefica esse dicatur, sicut de Martis et Saturni
stellis existimatur, aut cur notabilior benignitas louis et Veneris
inter genethlialogos habeatur, cum sit diuinorum una natura,
in medium proferam rationem, apud unum omnino, quod
sciam lectam. Nam Ptolomaeus in libris tribus quos De harmo­
nia conposuit patefecit causam, quam breuiter explicabo.
2 1 . Certi sunt numeri per quos inter omnia quae sibi conue-
niunt, iunguntur, aptantur, fit iugabilis conpetentia, nec quic-
quam potest alteri nisi per hos numeros conuenire. Sunt autem
hi epitritus, hemiolius, epogdous, duplaris, triplaris, quadru­
plus. 22. Quae hoc loco interim quasi nomina numerorum
accipias uolo; in sequentibus uero, cum de harmonia caeli
loquemur, quid sint hi numeri quidue possint oportunius ape­
riemus. Modo hoc nosse sufficiat quia sine his numeris nulla
colligatio, nulla potest esse concordia,
23. Vitam uero nostram praecipue sol et luna moderantur.
Nam cum sint caducorum corporum haec duo propria, sentire
uel crescere, a ìa 0 r|TiKÓv, id est sentiendi natura, de sole,
cpuTiKÓv autem, id est crescendi natura, de lunari ad nos glo­
bositate perueniunt. Sic utriusque luminis beneficio haec nobis
constat uita qua fruimur, 24. Conuersatio tamen nostra et
prouentus actuum tam ad ipsa duo lumina quam ad quinque
uagas stellas refertur; sed harum stellarum alias interuentus
numerorum quorum supra fecimus mentionem cum luminibus
bene iungit ac sociat, alias nullus applicat numeri nexus ad
lumina. 25. Ergo Veneria et Iouialis stella per hos numeros
lumini utrique sociantur, sed Iouialis soli per omnes, lunae
uero per plures, et Veneria lunae per omnes, soli per plures
numeros aggregatur. Hinc licet utraque benefica credatur,
louis tamen stella cum sole accommodatior est et Veneria cum
20. Se si ha la curiosità di conoscere meglio la causa che ha
fatto attribuire un carattere di malignità a degli esseri divini —
tale è l ’opinione che si ha di Marte e di Saturno — e che ha
meritato a Giove e a Venere questa particolare reputazione di
benignità da parte dei compilatori di oroscopi genediaci 3é7,
mentre la natura degli esseri divini è unica, ne farò vedere la
ragione, così come la si legge in un autore tra quelli a me noti.
E Tolomeo, nel suo trattato Sull'armonia in tre libri, che ne ha
rivelato la causa e che mi accingo a spiegare brevemente. 368
21. Esistono determinati numeri che permettono di stabili­
re un rapporto di proporzione 569 tra tutte le cose che concor­
dano, sono unite e ben disposte fra loro e niente può accordar­
si a qualcos’altro senza l’intermediazione di questi numeri. Essi
sono l’epitrito [4:3], l’emiolio [3:2], l’epogdo [9:8], la doppia
[2:1], la tripla [3:1] e la quadrupla [4:1]. 2 2 . Questi rapporti,
qui, e per il momento, desidero che tu l’intenda nel loro signi­
ficato numerico; nel prosieguo 370, parlando dell’armonia cele­
ste, avrò occasione di fare conoscere più adeguatamente la loro
natura e le loro proprietà. Basti, per il momento, sapere che
senza questi numeri non ci può essere né unione né armonia.
23. Certamente la nostra vita è principalmente influenzata
dal sole e la luna. Infatti, essendo la capacità sensoriale e la cre­
scita le due qualità inerenti a tutti gli esseri mortali, la prima,
l’aiaSriTiKÓv, cioè la facoltà di sentire, ci proviene dal sole, e
la seconda, il cpu T iK Ó v 371, vale a dire la facoltà di crescere, dal
globo lunare. Dobbiamo dunque a questi due luminari il bene­
ficio su cui si fonda la vita che godiamo. 24. Tuttavia il nostro
comportamento e i risultati delle nostre azioni dipendono
tanto dai due luminari stessi quanto dai cinque pianeti; ma fra
questi ultimi, alcuni sono convenientemente uniti e associati ai
luminari attraverso l’intervento mediatore dei numeri di cui ho
fatto sopra menzione; mentre altri non hanno alcun legame
numerico che li colleghi ai luminari. 25. Gli astri di Venere e
Giove sono dunque uniti da questi numeri all’uno e all’altro
luminare: Giove al sole per mezzo di tutti i rapporti numerici
e alla luna per maggior parte di essi; l’associazione di Venere
alla luna è garantita da tutti i rapporti numerici, e quella al sole
per buona parte di essi. Per questo entrambi Ì pianeti si sono
ritenuti benefici; tuttavia il pianeta di Giove ha più affinità col
luna, atque ideo uitae nostrae magis commodant, quasi lumini­
bus uitae nostrae auctoribus numerorum ratione concordes.
26. Saturni autem Martisque stellae ita non habent cum lumi­
nibus competentiam, ut tamen aliqua uel extrema numerorum
linea Saturnus ad solem, Mars adspiciat ad lunam. Ideo minus
commodi uitae humanae existimantur, quasi cum uitae aucto­
ribus arta numerorum ratione non iuncti. Cur tamen et ipsi
nonnumquam opes uel claritatem hominibus praestare credan­
tur, ad alterum debet pertinere tractatum, quia hic sufficit ape­
ruisse rationem cur alia terribilis, alia salutaris existimetur.
27. Et Plotinus quidem, in libro qui inscribitur Si faciunt
astra, pronuntiat nihil ui uel potestate eorum hominibus eueni-
re, sed ea quae decreti necessitas in singulos sancit, ita per
horum septem transitum, stationem recessumue monstrari, ut
aues, seu praeteruolando seu stando, futura pennis uel uoce
significant nescientes. Sic quoque tamen iure uocabitur hic
salutaris, ille terribilis, cum per hunc prospera, per illum signi-
ficentur incommoda.
sole e Venere con la luna e, quindi, influiscono più favorevol­
mente sulla nostra vita, accordati come sono in base ad una
relazione numerica con i luminari responsabili della nostra esi­
stenza. 26. Quanto ai pianeti di Saturno e di Marte non hanno
affatto rapporto con i due luminari, sebbene un legame nume­
rico 372, per quanto labile, faccia guardare Saturno verso il sole
e Marte verso la luna. Pertanto sono considerati meno propizi
alla vita umana, poiché si può dire che non siano legati da una
stretta relazione numerica con gli autori della nostra vita.
Quanto al perché si crede talvolta che anch’essi dispensino
potere e gloria agli uomini, dev’essere riservato a un altro trat­
tato 373, perché qui ci si deve accontentare della spiegazione
che abbiamo appena dato sul perché alcuni pianeti siano rite­
nuti temibili e altri salutari.
27. Plotino, comunque, nel suo trattato intitolato Hanno gli
astri un’influenza? 374, afferma che niente accade agli uomini
per loro influenza o potere: quello che una legge necessaria
rende per gli individui irrevocabile è sancito dal transito dei
sette pianeti, dalla loro stazione e dalla loro retrogradazione,
allo stesso modo in cui gli uccelli, che passano in volo o si posa­
no, annunciano con il loro piumaggio o con il loro canto il
futuro che essi stessi ignorano 375. E in questo senso che un pia­
neta merita il soprannome di benefico e un altro di funesto,
poiché il primo ci pronostica la felicità e l’altro la sventura.

Fig. 14 (nella pagina accanto)


Il modello di universo di Eraclide Pontico.
20. 1. In his autem tot nominibus quae de sole dicuntur,
non frustra nec ad laudis pompam lasciuit oratio, sed res uerae
uocabulis exprimuntur. «Dux et princeps», ait, «et moderator
luminum reliquorum, mens mundi et temperatio».
2 . Plato in Timaeo, cum de octo sphaeris loqueretur, sic ait.
«Vt autem per ipsos octo circuitus celeritatis et tarditatis certa
mensura et sit et noscatur, deus in ambitu supra terram secun­
do lumen accendit quod nunc solem uocamus». 3. Vides ut
haec definitio uult esse omnium sphaerarum lumen in sole; sed
Cicero, sciens etiam ceteras stellas habere lumen suum, solam-
que lunam, ut saepe iam diximus, proprio carere, obscuritatem
definitionis huius liquidius absoluens et ostendens in sole
maximum lumen esse, non solum ait «dux», sed «et princeps et
moderator luminum reliquorum». Adeo et ceteras stellas scit
esse lumina, sed hunc ducem et principem quem Heraclitus
fontem caelestis lucis appellat. 4. «Dux» ergo est, quia omnes
luminis maiestate praecedit; «princeps», quia ita eminet ut
propterea, quod talis solus appareat, sol uocetur; «moderator
reliquorum» dicitur, quia ipse cursus eorum recursusque
moderatur. 5. Nam certa spatii definitio est ad quam cum una­
quaeque erratica stella, recedens a sole, peruenerit, tamquam
ultra prohibeatur accedere, agi retro uidetur, et rursus, cum
certam partem recedendo contigerit, ad directi cursus consue­
ta reuocatur. Ita solis uis et potestas motus reliquorum lumi­
num constituta dimensione moderatur.
6. «Mens mundi» ita appellatur ut physici eum cor caeli
uocauerunt, inde nimirum quod omnia quae stata ratione per
caelum fieri uidemus, diem noctemque et migrantes inter
utrumque prolixitatis breuitatisque uices et certis temporibus
20 . 1 . 1 numerosi nomi con cui viene chiamato il sole, non
sono un abuso di parole, né una lode pomposa di cui Cicerone
si compiace; questi titoli sono, invece, l’espressione vera degli
attributi di questo astro. «Guida, sovrano — dice Cicerone —
e regolatore di tutti gli altri astri, mente e moderatore dell’uni­
verso» 376.
2. Ecco ciò che ha detto Platone nel suo Timeo 377, parlan­
do delle otto sfere: «Affinché esistesse e fosse conosciuta attra­
verso queste otto orbite una misura esatta della loro velocità e
della loro lentezza, il Dio, nella seconda regione circolare sopra
la terra, accese un lume che noi ora chiamiamo sole». 3. Vedi
come questa definizione implica che la luce di tutte le altre
sfere dipende dal sole. Ma Cicerone, sapendo che anche tutte
le altre stelle brillano di luce propria e che la luna sola, come
abbiamo detto più volte, ne è priva, e volendo dare un senso
più chiaro all’oscurità dell’enunciato di Platone e far capire
nello stesso tempo che nel sole si trova la luce più forte, non
solo dice che è «guida», ma anche «sovrano e regolatore di tutti
gli astri». Queste parole mostrano che sa che anche gli altri pia­
neti sono luminosi, ma che la loro guida e sovrano è l’astro che
Eraclito chiama «fonte della luce celeste» 378. 4. E dunque loro
«guida», perché il suo maestoso splendore gli assegna tra tutti
il rango più distinto; è il loro «sovrano», perché eccelle a tal
punto che, essendo il «solo» [solus] 379 a offrirsi in tal modo
allo sguardo per questo motivo è chiamato «sole» [sol] ; è detto
«regolatore dì tutti gli altri astri», perché fissa i loro moti diret­
ti e retrogradi. 5. Difatti, vi è un limite ben determinato nello
spazio: quando ogni pianeta l’ha raggiunto, al suo massimo
allontanamento del sole, dà l’impressione, come se gli fosse
vietato di superarlo, di retrocedere, e, viceversa, quando è
giunto al limite fissato per il suo movimento retrogrado,
riprende di nuovo la sua abituale traiettoria diretta. Così il
potere e l’influenza del sole regolano i movimenti degli altri
pianeti in funzione di misure stabilmente definite 38°.
6. E denominato « mente dell’universo» alla stregua della
denominazione di «cuore del cielo», assegnatagli dai fisici
indubbiamente perché tutti quei fenomeni che vediamo nel
cielo seguire delle leggi immutabili — questa vicissitudine dei
giorni e delle notti, la loro rispettiva durata, alternativamente
aequam utriusque mensuram, dein ueris clementem teporem,
torridum Cancri ac Leonis aestum, mollitiem auctumnalis
aurae, uim frigoris inter utramque temperiem, omnia haec solis
cursus et ratio dispensat. Iure ergo cor caeli dicitur, per quem
fiunt omnia quae diuina ratione fieri uidemus. 7. Est et haec
causa propter quam iure cor caeli uocetur, quod natura ignis
semper in motu perpetuoque agitatu est; solem autem ignis
aetherii fontem dictum esse retulimus; hoc est ergo sol in
aethere quod in animali cor, cuius ista natura est, ne umquam
cesset a motu; aut breuis eius quocumque casu ab agitatione
cessatio mox animal interimat. 8 . Haec de eo quod mundi
mentem uocauit.
Cur uero et «temperatio» mundi dictus sit, ratio in aperto
est. Ita enim non solum terram, sed ipsum quoque caelum,
quod uere mundus uocatur, temperari sole certissimum est, ut
extremitates eius, quae a uia solis longissime recesserunt, omni
careant beneficio caloris et una frigoris perpetuitate torpe­
scant. Quod sequentibus apertius explicabitur.
Restat ut et de magnitudine eius, quam uerissima praedica­
tione extulit, pauca et non praetereunda dicamus. 9. Physici
hoc maxime consequi in omni circa magnitudinem solis inqui­
sitione uoluerunt, quanto maior possit esse quam terra, et Era-
tosthenes in libris dimensionum sic ait: «mensura terrae septies
et uicies multiplicata mensuram solis efficiet»; Posidonius
multo multoque saepius, et uterque lunaris defectus argumen­
tum pro se aduocat. 10. Ita cum solem uolunt terra maiorem
probare, testimonio lunae deficientis utuntur, cum defectum
lunae conantur adserere, probationem de solis magnitudine
mutuantur, et sic euenit ut, dum utrumque de altero adstruitur,
più lunga o più breve, la loro perfetta uguaglianza in certi
periodi dell’anno e poi il mite tepore della primavera, la torri­
da arsura del Cancro e del Leone, la dolce brezza dei venti
autunnali, il freddo intenso che divide le due stagioni tempera­
te — tutto questo è il risultato della marcia regolare di un esse­
re intelligente. A buon diritto, dunque, si è chiamato «cuore
del cielo» l’astro grazie al quale si producono tutti i fenomeni
che vediamo improntati dalla ragione divina 381. 7. Questa
denominazione di «cuore del cielo» ha un’altra causa in quan­
to è nella natura del fuoco essere sempre in movimento e in
perpetua agitazione. Noi, poi, abbiamo detto in precedenza
come il sole abbia ricevuto il nome di «fonte del fuoco etereo»;
dunque il sole è per l’etere ciò che è per gli esseri animati il
cuore, la cui natura è di non smettere mai di essere in movi­
mento e, se per un caso qualunque, sospende anche per un
solo istante questo movimento, causa immediatamente la
morte dell’essere animato. 8 . Questo è quanto si può dire per
la qualifica di «mente dell’universo» adoperata da Cicerone.
Quanto al motivo per il quale è stato chiamato anche
«moderatore» dell’universo, è palese. Infatti è così certo che
non solo la terra, ma anche il cielo, chiamato giustamente
mondo 382, siano temperati dal sole, che le sue estremità, che
sono le più lontane dal tragitto del sole, sono totalmente prive
del beneficio del suo calore e languiscono in un continuo stato
di freddo torpore. Questo argomento sarà spiegato più esau­
rientemente in seguito 383.
Ci resta inoltre da dire qualche indispensabile parola sulla
grandezza del sole, sottolineata da Cicerone con un’esattissima
formulazione. 9. In tutte le ricerche sulla grandezza del sole, i
fisici hanno cercato innanzi tutto di conoscere quanto esso
fosse più grande della terra ed Eratostene, nei suoi libri Sulle
dimensionii84, così si esprime: «la dimensione della terra mol­
tiplicata per ventisette dà quella del sole»; Posidonio utilizza
un moltiplicatore di gran lunga maggiore; entrambi si appog­
giano, ognuno perla sua ipotesi, sull’eclissi di luna 385. 10. Così,
volendo dimostrare che il sole è più grande della terra, chiama­
no in causa l’eclissi lunare; ma tentando di spiegare l’eclissi di
luna, ricavano la loro dimostrazione dalla grandezza del sole;
di modo che, di queste due proposizioni che si fondano reci-
neutrum probabiliter adstruatur, semper in medio uicissim
nutante mutuo testimonio. 11. Quid enim per rem adhuc pro­
bandam probetur?
Sed Aegyptii, nihil ad coniecturam loquentes, sequestrato
ac libero argumento nec in patrocinium sibi lunae defectum
uocante, quanta mensura sol terra maior sit probare uoluerunt,
ut tum demum per magnitudinem eius ostenderent cur luna
deficiat. 1 2 . Hoc autem nequaquam dubitabatur, non posse ali­
ter deprehendi nisi mensura et terrae et solis inuenta, ut fieret
ex collatione discretio. Et terrena quidem dimensio oculis
rationem iuuantibus de facili constabat. Solis uero mensuram
aliter nisi per mensuram caeli per quod discurrit inueniri non
posse uiderunt. Ergo primum metiendum sibi caelum illud, id
est iter solis, constituerunt, ut per id possent modum solis
agnoscere.
13. Sed, quaeso, si quis umquam tam otiosus tamque ab
omni erit serio feriatus ut haec quoque in manus sumat, ne
talem ueterum promissionem, quasi insaniae proximam, aut
horrescat aut rideat. Et enim ad rem quae natura inconprehen-
sibilis uidebatur uiam sibi fecit ingenium, et per terram, qui
caeli modus sit reppererunt. Vt autem liquere possit ratio com­
menti, prius regulariter pauca dicenda sunt, ut sit rerum
sequentium aditus instructior.
14. In omni orbe uel sphaera, medietas centron uocatur,
nihilque aliud est centron nisi punctum quo sphaerae aut orbis
medium certissima obseruatione distinguitur. Item ducta linea
de quocumque loco circuli qui designat ambitum in quamcum-
que eiusdem circuli summitatem, orbis partem aliquam diuidat
necesse est. 15. Sed non omni modo medietas est orbis quam
separat ista diuisio. Illa enim tantum linea in partes aequales
orbem medium diuidit, quae a summo in summum ita ducitur
procamente una sull’altra, nessuna delle due si trova dimostra­
ta pienamente, restando sempre indecisa e oscillante a metà
strada per siffatta reciproca testimonianza 386. 11. Infatti, cosa
si può dimostrare con l’aiuto di un dato ancora da dimostrare?
Ma gli Egizi, che non si accontentavano mai di congetture,
hanno voluto, con una prova a sé stante e indipendente, senza
chiamare in aiuto l’eclissi di luna, verificare quanto fosse più
grande la dimensione del sole rispetto alla terra, in modo da
dimostrare, soltanto in un secondo tempo, servendosi di que­
sta grandezza, perché la luna s’eclissa. 12. Ora, non c’era dub­
bio che questo fenomeno non poteva essere compreso senza
aver prima scoperto le misure della terra e del sole, in modo
che il loro confronto divenisse decisivo. La misura della terra,
certamente, poteva essere determinata comodamente dal cal­
colo, aiutato dal senso della vista. Ma la dimensione del sole
non poteva essere scoperta con il calcolo che tramite la misura
dello spazio di cielo che esso percorre. Stabilirono dunque,
dapprima, di misurare questo spazio celeste, cioè il tragitto del
sole, per giungere, partendo da questa stima, alla conoscenza
di quella del sole.
13. Ma, se ci sarà mai un uomo abbastanza disimpegnato e
libero da qualsiasi occupazione seria per prendere in mano
queste ricerche, lo prego di non indignarsi né di ridere di fron­
te a una tale pretesa degli Antichi, dicendo che sfiora la follia.
Infatti il loro ingegno seppe aprirsi la strada verso ciò che sem­
brava incomprensibile per natura e giunsero a scoprire, per
mezzo della terra, la misura del cielo. Ma affinché il loro modo
di ragionare possa apparire chiaro, s’impongono di buona
regola poche nozioni preliminari che metteranno in grado di
facilitare la comprensione di quanto verrà detto in seguito.
14. In ogni cerchio o sfera il punto di mezzo si chiama cen­
tro, e questo centro non è altro che il punto che, con assoluta
precisione, serve a determinare la metà della sfera o del cer­
chio. Inoltre, ogni linea condotta da un punto qualsiasi della
circonferenza del cerchio ad un altro punto di questa stessa cir­
conferenza divide necessariamente il cerchio in due parti. 15.
Ma questa divisione non sempre divide il cerchio a metà. Il cer­
chio è diviso a metà in due parti uguali, soltanto dalla linea
tracciata da un punto della circonferenza al punto opposto,
ut necesse sit eam transire per centron; et haec linea quae
orbem sic aequaliter diuidit diametros nuncupatur. 16. Item
omnis diametros cuiuscumque orbis, triplicata cum adiectione
septimae partis suae, mensuram facit circuli quo orbis includi­
tur; id est, si uncias septem teneat diametri longitudo, et uelis
ex ea nosse quot uncias orbis ipsius circulus teneat, triplicabis
septem, et faciunt uiginti unum; his adicies septimam partem,
hoc est unum, et pronuntiabis uiginti et duabus unciis huius
circuli esse mensuram cuius diametros septem unciis extendi­
tur. 17. Haec omnia geometricis euidentissimisque rationibus
probare possemus, nisi et neminem de ipsis dubitare arbitrare­
mur et caueremus iusto prolixius uolumen extendere.
18. Sciendum et hoc, quod umbra terrae quam sol post
occasum in inferiore hemisphaerio currens sursum cogit emit­
ti, ex qua super terram fit obscuritas quae nox uocatur, sexa­
gies in altum multiplicatur ab ea mensura quam terrae diame­
tros habet, et hac longitudine ad ipsum circulum per quem sol
currit erecta, exclusione luminis tenebras in terram refundit.
19. Prodendum est igitur quanta diametros terrae sit, ut con­
stet quid possit sexagies multiplicata colligere; unde, his prae­
libatis, ad tractatum mensurarum, quas promisit, oratio reuer-
tatur.
20. Euidentissimis et indubitabilibus dimensionibus consti­
tit uniuersae terrae ambitum, quae ubicumque uel incolitur a
quibuscumque uel inhabitabilis iacet, habere stadiorum milia
ducenta quinquaginta duo. Cum ergo tantum ambitus teneat,
sine dubio octoginta milia stadiorum uel non multo amplius
diametros habet, secundum triplicationem cum septimae par­
tis adiectione, quam superius de diametro et circulo regulariter
diximus. 2 1 . Et quia ad efficiendam terrenae umbrae longitu­
dinem non ambitus terrae, sed diametri mensura multiplican­
da est — ipsa est enim quam sursum constat excrescere —
sexagies multiplicanda tibi erunt octoginta milia, quae terrae
passando necessariamente dal centro e questa linea, che divide
in tal modo il cerchio in parti uguali, è chiamata diametro. 16.
Inoltre, ogni diametro di un cerchio qualunque che si moltipli­
chi per tre, con l’aggiunta del settimo di questo stesso diame­
tro, dà la misura della circonferenza del cerchio. Vale a dire
che, se supponiamo di sette pollici la lunghezza di un diame­
tro, e si vuole dedurre da questo dato di quanti pollici sia la cir­
conferenza dello stesso cerchio, si moltiplicherà sette per tre, il
cui prodotto è ventuno; si aggiungerà a questo prodotto un set­
timo [di sette pollici], vale a dire uno, e si dirà che la misura
della circonferenza il cui diametro è di sette pollici è di venti-
due pollici. 17. Potremmo provare tutte queste affermazioni
con dimostrazioni geometriche assolutamente inconfutabili 387,
se non fossimo persuasi che nessuno può metterle in dubbio, e
se non temessimo di dilungarci oltremodo nelle dimensioni di
questo libro.
18. Occorre inoltre sapere che l’ombra della terra — ombra
che il sole, quando si sposta dopo il tramonto nell’emisfero
inferiore, proietta verso l’alto e che sparge sulla nostra terra
quell’oscurità che si chiama notte — misura in altezza il diame­
tro della terra moltiplicato per sessanta 388 e siccome questa
lunghezza le fa raggiungere l’altezza dell’orbita solare, que­
st’ombra impedisce ogni passaggio alla luce e spande le tene­
bre sulla terra. 19. Bisogna dunque determinare quale sia la
lunghezza del diametro terrestre, per conoscere quello che si
ottiene moltiplicandolo per sessanta: quindi, dopo questi pre­
liminari, la mia trattazione ci ricondurrà alle misure che ci era­
vamo ripromessi.
20. Stime assolutamente sicure e indubitabili hanno stabili­
to che la circonferenza della terra intera, ivi comprese le sue
regioni da chiunque abitate e le distese inabitabili, è di duecen-
tocinquantaduemila stadi 389. Così, data una tale circonferenza,
il suo diametro è, evidentemente, di ottantamila stadi o poco
più, in funzione della moltiplicazione per tre con l’addizione di
un settimo, secondo la regola che ho già menzionato sopra a
proposito del diametro e della circonferenza. 2 1 . E siccome,
per ottenere la lunghezza dell’ombra terrestre, non è la misura
della circonferenza terrestre, ma quella del diametro che si
deve moltiplicare — perché è questa, com’è noto, che si esten-
diametros habet, quae faciunt quadragies octies centena milia
stadiorum esse a terra usque ad solis cursum, quo umbram ter­
rae diximus peruenire.
22. Terra autem in medio caelestis circuli per quem sol cur­
rit ut centron locata est; ergo mensura terrenae umbrae medie­
tatem diametri caelestis efficiet, et si ab altera quoque parte
terrae par usque ad eundem circulum mensura tendatur, inte­
gra circuli per quem sol currit diametros inuenitur. 23.
Duplicatis igitur illis quadragies octies centenis milibus, erit
integra diametros caelestis circuli nonagies sexies centenis mili­
bus stadiorum, et inuenta diametros facile mensuram nobis
ipsius quoque ambitus prodit. 24. Hanc enim summam, quae
diametron fecit, debes ter multiplicare, adiecta parte septima,
ut saepe iam dictum est; et ita inuenies totius circuli per quem
sol currit ambitum stadiorum habere trecenties centena milia
et insuper centum septuaginta milia.
25. His dictis, quibus mensura quam terrae uel ambitus uel
diametros habet, sed et circuli modus per quem sol currit uel
diametri eius ostenditur, nunc quam solis esse mensuram uel
quem ad modum illi prudentissimi deprehenderint indicemus.
Nam sicut ex terrena umbra potuit circuli per quem sol meat
deprehendi magnitudo, ita per ipsum circulum mensura solis
inuenta est, in hunc modum procedente inquisitionis ingenio.
26. Aequinoctiali die, ante solis ortum, aequabiliter locatum
est saxeum uas, in hemisphaerii speciem cauata ambitione
curuatum, infra per lineas designato duodecim diei horarum
numero quas stili prominentis umbra cum transitu solis prae­
tereundo distinguit. 27. Hoc est autem, ut scimus, huius modi
uasis officium, ut tanto tempore a priore eius extremitate ad
alteram usque stili umbra percurrat quanto sol medietatem
caeli ab ortu in occasum, unius scilicet hemisphaerii conuersio-
ne, metitur. Nam totius caeli integra conuersio diem noctem -
que concludit, et ideo constat quantum sol in circulo suo, tan­
tum in hoc uase umbram meare. 28. Huic igitur aequabiliter
de verso l’alto — , dovrai moltiplicare per sessanta gli ottanta­
mila stadi che costituiscono il diametro della terra, il che fa un
prodotto di quattromilaottocento stadi dalla terra fino all’orbi­
ta solare, a cui giunge, come abbiamo detto, l’ombra della
terra.
22. Ora la terra, situata nel mezzo del circolo celeste percor­
so dal sole, gli fa da centro; dunque la misura dell’ombra ter­
restre darà la metà del diametro di tale circolo celeste e se si
conduce una lunghezza uguale, dall’altro lato della terra, fino
a questo medesimo circolo celeste, si ottiene il diametro totale
dell’orbita solare. 23. Di conseguenza, moltiplicando per due
questi quattromilaottocento stadi, il diametro totale dell’orbita
celeste sarà di novemilaseicento stadi e, una volta trovato que­
sto diametro, è facilmente determinata anche la misura della
circonferenza. 24. Infatti la cifra ottenuta, che rappresenta il
diametro, dev’essere moltiplicata per tre, con l ’addizione di un
settimo, come ho già detto più volte, e così troverai che la cir­
conferenza dell’orbita intera è di 30.170.000 stadi.
25. Una volta esposti i calcoli che fanno conoscere la circon­
ferenza o il diametro della terra, ma anche la lunghezza dell’or­
bita solare o del suo diametro, ora spiegheremo qual è la misu­
ra che questi uomini assennatissimi hanno attribuito al sole e il
modo in cui lo hanno fatto. Infatti, come l’ombra della terra
potè far scoprire le dimensioni dell’orbita solare, è grazie alla
misura di quest’orbita medesima che si scoprì la misura del
sole: ecco quale fu l’ingegnoso procedimento della ricerca . 390
26. Il giorno dell’equinozio, prima del sorgere di quest’a­
stro, si dispose su un piano perfettamente orizzontale un vaso
di pietra, di forma emisferica e concavo . 391 Sul fondo s’indicò
con delle linee il numero delle dodici ore diurne, segnate dal­
l’ombra di uno stilo prominente la cui ombra si spostava con il
passaggio del sole. 27. Tale è, come si sa, la funzione di questo
tipo di vaso: l ’ombra dello stilo lo percorre da un’estremità
all’altra in altrettanto tempo di quello che occorre al sole, dalla
sua alba fino al suo tramonto, per percorrere la metà del cielo,
ovvero con la rivoluzione di un solo emisfero 392. Infatti la rivo­
luzione completa del cielo intero comprende un giorno e una
notte, ed è chiaro che lo spostamento dell’ombra in questo
vaso corrisponde a quello del sole sulla sua orbita. 28. Dunque,
collocato, circa tempus solis ortui propinquantis, inhaesit dili­
gens obseruantis obtutus, et cum, ad primum solis radium,
quem de se emisit prima summitas orbis emergens, umbra de
stili decidens summitate, primam curui labri eminentiam con­
tigit, locus ipse, qui umbrae primitias excepit, notae inpressio-
ne signatus est, obseruatumque, quamdiu super terram ita solis
orbis integer appareret, ut ima eius summitas adhuc horizonti
uideretur insidere. 29. Et mox locus, ad quem umbra tunc in
uase migrauerat, adnotatus est, habitaque dimensione inter
ambas umbrarum notas, quae integrum solis orbem, id est dia­
metrum, natae de duabus eius summitatibus metiuntur, pars
nona reperta est eius spatii, quod a summo uasis labro usque
ad horae primae lineam continetur. 30. Et ex hoc constitit
quod in cursu solis unam temporis aequinoctialis horam faciat
repetitus nouies orbis eins accessus, et quia conuersio caelestis
hemisphaerii, peractis horis duodecim, diem condit, nouies
autem duodeni efficiunt centum octo, sine dubio solis diame­
tros centesima et octaua pars hemisphaerii aequinoctialis est.
Ergo totius aequinoctialis circuli ducentesima sexta decima
pars est.
31. Ipsum autem circulum habere stadiorum trecenties cen­
tena milia et insuper centum et septuaginta milia antelatis pro­
batum est. Ergo, si eius summae ducentesimam sextam deci­
mam consideraueris partem, mensuram diametri solis inuenies.
Est autem pars illa fere in centum quadraginta milibus.
Diametros igitur solis centum quadraginta fere milium stadio­
rum esse dicenda est; unde paene duplex quam terrae diame­
tros inuenitur. 32. Constat autem geometricae rationis exami­
ne, cum de duobus orbibus altera diametros duplo alteram
uincit, illum orbem, cuius diametros dupla est, orbe altero
octies esse maiorem. Ergo ex his dicendum est solem octies
terra esse maiorem. Haec de solis magnitudine breuiter de
multis excerpta libauimus.

21. 1 . Sed quoniam septem sphaeras caelo diximus esse


subiectas, exteriore quaque quas interius continet ambiente,
longeque et a caelo omnes et a se singulae recesserunt, nunc
su questo vaso collocato su un piano perfettamente orizzonta­
le, verso il momento in cui il sole era in prossimità di sorgere,
un osservatore attento fissò attentamente il suo sguardo e, non
appena il primo raggio fu emesso dal primo lembo emergente
del cerchio solare, allorché l’ombra, cadendo dalla punta dello
stilo, venne a toccare l’estremità dell’orlo arrotondato del vaso,
si contrassegnò il punto che l’ombra aveva cominciato a colpi­
re marcandovi un segno, e si osservò quanto tempo impiegava
il disco solare per apparire tutto intero al di sopra del suolo, in
modo che la parte inferiore del disco solare sembrasse ancora
toccare l’orizzonte. 29. Poi si contrassegnò il punto fino al
quale l’ombra in quel momento si era spostata nel vaso e, una
volta misurato lo spazio che separava i due segni delle ombre,
i quali, scaturiti dai due bordi del disco solare, misuravano la
sua totalità, cioè il diametro del sole, esso risultò uguale alla
nona parte della distanza che separava il bordo superiore del
vaso e la linea della prima ora 393. 30. Il risultato deH'operazio­
ne fu che nello spostamento del sole, una progressione di nove
volte il suo disco equivale ad un’ora equinoziale; e siccome la
rivoluzione dell’emisfero celeste, che si compie in dodici ore,
corrisponde al giorno, e che nove moltiplicato per dodici è
uguale a cento otto, è evidente che il diametro del sole è la cen­
tesima ottava parte dell’emisfero equinoziale. Quindi la due­
cento sedicesima parte dell’intera orbita equinoziale 394.
31. Ora è già stato dimostrato che tale orbita misura
3 0 . 170.000 stadi 395; dunque, se si prende la duecento sedicesi­
ma parte di questa cifra, si troverà la lunghezza del diametro
del sole. Tale frazione è circa centoquarantamila stadi; occorre
dunque dire che il diametro del sole è di circa centoquaranta­
mila stadi, cioè all'incirca il doppio del diametro della terra. 32.
Ed è noto poi, grazie a un principio geometrico, che per due
sfere di cui una ha un diametro doppio dell’altro, quella il cui
diametro è doppio è otto volte più grande3%. Si conclude dun­
que che il sole è otto volte più grande della terra. Queste nozio­
ni sulla grandezza del sole sono solo un estratto, molto conci­
so, di un gran numero di trattati su questa materia.

21. 1 . Ma poiché abbiamo detto che al di sotto del cielo vi


sono sette sfere, ognuna delle quali avvolge quella che contie­
ne internamente 397, e che tutte quante si trovano al tempo stes-
quaerendum est, cum zodiacus unus sit et is constet caelo side­
ribus infixis, quemadmodum inferiorum sphaerarum stellae in
signis zodiaci meare dicantur. Nec longum est inuenire ratio­
nem quae in ipso uestibulo excubat quaestionis.
2 . Verum est enim neque solem lunamue neque de uagis
ullam ita in signis zodiaci ferri ut eorum sideribus misceantur,
sed in illo signo esse una quaeque perhibetur, quod habuerit
super uerticem, in ea quae illi subiecta est circuli sui regione
discurrens, quia singularum sphaerarum circulos in duodecim
partes aeque ut zodiacum ratio diuisit, et quae in eam partem
circuli sui uenerit, quae sub parte zodiaci est Arieti deputata,
in ipsum Arietem uenisse conceditur, similisque obseruatio in
singulas partes migrantibus stellis tenetur. 3. Et quia facilior ad
intellectum per oculos uia est, id quod sermo descripsit uisus
adsignet.
Esto enim zodiacus circulus, cui adscriptum est A. Intra
hunc septem alii orbes locentur, et zodiacus ab A per ordinem
adfixis notis, quibus adscribentur litterae sequentes, in partes
duodecim diuidatur, sitque spatium quod inter A et B claudi­
tur Arieti deputatum, quod inter B et C Tauro, quod inter C et
D Geminis, Cancro quod sequitur, et reliquis per ordinem
cetera. 4. His constitutis, iam de singulis zodiaci notis et litte­
ris singulae deorsum lineae per omnes circulos ad ultimum
usque ducantur: procul dubio per omnes singulos duodenas
partes diuidet transitus linearum. In quocumque igitur circulo
seu sol in illo seu luna uel de uagis quaecumque discurrat, cum
ad spatium uenerit, quod inter lineas clauditur ab A et B notis
et litteris defluentes, in Ariete esse dicetur, quia illic constituta
spatium Arietis in zodiaco designatum super uerticem, sicut
descripsimus, habebit. Similiter in quamcumque migrauerit
partem, in signo sub quo fuerit esse dicetur.
so distanziate dal cielo e le une dalle altre, bisogna ora esami­
nare, poiché lo zodiaco è unico ed è formato di costellazioni
infisse nel cielo, come si può dire che gli astri delle sfere infe­
riori si spostino «nei» segni dello zodiaco. Non ci vuole molto
a trovarne la spiegazione, che monta la guardia fin dal vestibo­
lo 398 della questione.
2. E ben vero che né il sole, né la luna, né alcuno dei pianeti
può spostarsi nei segni dello zodiaco in modo da mescolarsi con
le loro costellazioni di cui i suoi segni sono composti; ma si dice
che ciascuno di questi astri si trova «nel» segno che ha sopra di
sé quando attraversa quell’arco di cerchio sottostante al segno
stesso; infatti il calcolo ha diviso l’orbita di ciascuna sfera in
dodici parti, come ha fatto per lo zodiaco, e quando un astro è
arrivato sulla porzione d’orbita situata sotto la parte dello
zodiaco attribuito all’Ariete, si dice che è giunto nell’Ariete
stesso. Un’osservazione simile si applica ai pianeti per ognuna
delle porzioni che attraversano. 3. E poiché attraverso la vista è
più facile la via verso la comprensione, si affida la teoria espo­
sta ad una rappresentazione per mezzo di una figura.
Sia il cerchio dello zodiaco designato da A. Poniamo all’in­
terno le altre sette orbite, e, partendo da A, dividiamo lo zodia­
co in dodici parti, con una serie di segni fissi designati dalle let­
tere seguenti: lo spazio tra A e B sia attribuito all’Ariete, quel­
lo tra B e C al Toro, lo spazio compreso tra C e D ai Gemelli,
il successivo al Cancro, e così di seguito. 4. Una volta fatto que­
sto, a partire da ciascun dei punti e lettere dello zodiaco, si
traccino, dall’alto verso il basso, altrettante linee che attraver­
seranno tutte le orbite concentriche fino all’ultima: è chiaro
che queste linee di intersezione lungo ciascuna delle orbite
divideranno ogni cerchio in dodici parti. Quindi, qualunque
sia il cerchio percorso dal sole, o dalla luna, o da qualunque
altro pianeta, quando l’astro giunge all’arco di cerchio che cor­
risponde simmetricamente a quello le cui due estremità sono
contrassegnate dai punti e dalle lettere A e B, si dirà che si
trova «nel» segno dell’Ariete, perché in quella posizione avrà
direttamente sopra di sé la porzione di zodiaco attribuita
all’Ariete, come abbiamo spiegato. Allo stesso modo, qualun­
que sia la parte di cielo nella quale si sarà spostato, si dirà che
è «nel» segno sotto il quale si trova.
5. Atque haec ipsa descriptio eodem compendio nos doce­
bit cur eundem zodiacum eademque signa aliae tempore lon­
giore, aliae breuiore percurrant. Quotiens enim plures orbes
inter se locantur, sicut maximus est ille qui primus est et mini­
mus qui locum ultimum tenet, ita de mediis qui summo pro­
pior est, inferioribus maior, qui uicinior est ultimo breuior
superioribus habetur. 6 . Et inter has igitur septem sphaeras,
gradum celeritatis suae singulis ordo positionis adscripsit. Ideo
stellae quae per spatia grandiora discurrunt, ambitum suum
tempore prolixiore conficiunt, quae per angusta, breuiore.
Constitit enim nullam inter eas celerius ceteris tardiusue pro­
cedere, sed, cum sit omnibus idem modus meandi, tantam eis
diuersitatem temporis sola spatiorum diuersitas facit. 7. Nam
ut de mediis nunc praetermittamus, ne eadem saepe repetan­
tur, quod eadem signa Saturnus annis triginta, luna diebus
uiginti octo ambit et permeat, sola causa in quantitate est cir­
culorum, quorum alter est maximus, alter est minimus. Ergo et
ceterarum singulae pro spatii sui modo tempus meandi aut
extendunt aut contrahunt.
8 . Hoc loco diligens rerum discussor inueniet quod requi­
rat. Inspectis enim zodiaci notis, quas monstrat in praesidium
fidei aduocata descriptio, «quis uero», inquiet, «circi caelestis
duodecim partes aut inuenit aut fecit, maxime cum nulla ocu­
lis subiciantur exordia singularum?» Huic igitur tam necessa­
riae interrogationi historia ipsa respondeat, factum referens,
quo a ueteribus et temptata est tam difficilis et effecta diuisio.
9. Aegyptiorum enim retro maiores, quos constat primos
omnium caelum scrutari et metiri ausos, postquam, perpetuae
apud se serenitatis obsequio caelum semper suspectu libero
5. Questo medesimo diagramma ci farà comprendere altret­
tanto rapidamente la ragione per cui questi pianeti percorrono
questo stesso zodiaco e questi stessi segni in un tempo, alcuni
più lungo e altri più breve. Infatti, in un numero qualsiasi di
cerchi concentrici, come il più grande è il primo, e il più pic­
colo quello che occupa l’ultima posizione, così per i cerchi
intermedi, quello che è più prossimo al cerchio superiore è
ritenuto maggiore di quelli che sono al di sotto di esso, e quel­
lo che è più vicino all’ultimo cerchio, minore di quelli al di
sopra di esso. 6 . Ne consegue che, anche fra queste sette sfere,
ognuna ha avuto il suo grado di velocità, determinato dalla sua
relativa posizione. Questo è il motivo per cui i pianeti che
hanno una maggiore orbita impiegano più tempo per descrive­
re la loro rivoluzione e quelli che ne hanno una piccola ne
impiegano di meno. E infatti noto che nessuno di essi procede
più velocemente o più lentamente degli altri; siccome hanno
tutti lo stesso modo di spostarsi, la considerevole differenza nei
tempi impiegati dipende solamente dalla differenza degli spazi
da percorrere. 7. Infatti, lasciando da parte i pianeti intermedi,
per evitare di ripeterci di continuo, la ragione per la quale
Saturno impiega trent’anni e la luna ventotto giorni 399 per fare
il giro dei medesimi segni e percorrerli è unicamente dovuta
alla dimensione delle loro orbite, delle quali una è la più gran­
de e l’altra la più piccola. Ciò significa che il tempo impiegato
anche da ciascuna delle altre sfere nel descrivere la sua rivolu­
zione aumenta o diminuisce in rapporto alla distanza da per­
correre.
8 . Qui l’attento osservatore troverà materia su cui interro­
garsi. Infatti, dopo aver esaminato i segni tracciati sullo zodia­
co nella figura richiamata per facilitare la comprensione del­
l’argomento trattato, ci domanderà: «sì, ma chi ha scoperto o
ha potuto stabilire queste dodici partizioni del circolo celeste,
soprattutto in considerazione del fatto che nulla segnala alla
vista dove ciascuna cominci?» La storia stessa s’incaricherà di
rispondere ad una domanda che non è certo fuori luogo, rife­
rendo l’operazione per mezzo della quale gli Antichi tentarono
e realizzarono una divisione così difficile.
9. Infatti, nel passato, gli antenati degli Egizi che, com’è
noto, furono i primi fra tutti che abbiano osato cimentarsi nel­
l’osservazione e nella misurazione del cielo, si accorsero, per-
intuentes, deprehenderunt, uniuersis uel stellis uel sideribus
infixis caelo solas cum sole et luna quinque stellas uagari, 1 0 .
nec has tamen per omnes caeli partes passim ac sine certa erro­
ris sui lege discurrere, numquam denique ad septentrionalem
uerticem deuiare, numquam ad australis poli ima demergi, sed
intra unius obliqui circi limitem omnes habere discursus, nec
omnes tamen ire pariter ac redire, sed alias aliis ad eundem
locum peruenire temporibus, rursum ex his alias accedere,
retro agi alias, uiderique stare non numquam; 1 1 . postquam
haec, inquam, inter eas agi uiderunt, certas sibi partes decreue-
runt in ipso circo constituere et diuisionibus adnotare, ut certa
essent locorum nomina, in quibus eas morari uel de quibus
exisse ad quaeue rursus esse uenturas et sibi in uicem nuntia­
rent et ad posteros noscenda transmitterent.
12. Duobus igitur uasis aeneis praeparatis, quorum alteri
fundus erat in modum clepsydrae foratus, illud quod erat inte­
grum uacuum subiecerunt, pleno aquae altero superposito, sed
meatu ante munito, et quamlibet de infixis unam clarissimam
stellam lucideque notabilem orientem obseruauerunt. 13.
Quae ubi primum coepit emergere, mox, munitione subducta,
permiserunt subiecto uasi aquam superioris influere, fluxitque
in noctis ipsius et secuti diei finem, atque in id noctis secundae,
quam diu eadem stella ad ortum rursus reuertitur. 14. Quae
ubi apparere uix coepit, mox aqua quae influebat amota est.
Cum igitur obseruatae stellae itus ac reditus integram significa­
ret caeli conuersionem, mensuram sibi caeli in aquae de illo
fluxu susceptae quantitate posuerunt.
15. Hac ergo in partes aequas duodecim sub fida dimensio­
ne diuisa, alia duo huius capacitatis procurata sunt uasa ut sin­
gula tantum singulas de illis duodecim partibus ferrent, tota-
ché col favore del loro perpetuo bel tempo potevano levare lo
sguardo liberamente verso il cielo, che mentre tutte le stelle o
costellazioni erano fisse nel cielo, cinque stelle, sole, erravano
nello spazio con il sole e la luna; 1 0 . eppure queste stelle non
circolavano a caso attraverso il cielo intero e senza che alcuna
legge dirigesse la loro erranza, infine, mai deviavano verso il
polo settentrionale, mai scendevano verso le profondità del
polo australe; ma la loro corsa, per tutte, si trovava contenuta
entro il limite di un circolo obliquo 40°; e ciononostante le loro
marce dirette o retrograde non erano isocrone, ma giungevano
nel medesimo punto in momenti diversi; d’altra parte alcune di
esse avanzavano, altre indietreggiavano, e sembravano talvolta
immobilizzarsi; 1 1 . dopo che, come dico, ebbero osservato tra
esse questi fenomeni, giudicarono conveniente dividere il cer­
chio stesso in regioni precise e contrassegnarle tramite delle
sezioni, con lo scopo di assegnare dei nomi particolari ai luo­
ghi in cui questi astri dimoravano, a quelli da cui erano usciti e
a quelli a cui, all’inverso, stavano per avvicinarsi, di comunicar­
si vicendevolmente le loro osservazioni e di trasmetterle alla
posterità401.
12. Avendo dunque preparato due vasi di bronzo, uno dei
quali col fondo forato come una clessidra, posero al di sotto
quello intatto e vuoto, e misero l’altro vaso sopra di esso, riem­
pito d’acqua ma con l’orifizio per il momento chiuso; spiarono
il sorgere di una qualsiasi delle stelle fisse più osservabili per il
loro chiarore e molto brillanti. 13. Appena la stella cominciò
ad emergere, stapparono il turacciolo affinché l’acqua del vaso
superiore potesse scendere nel vaso inferiore, ed essa colò per
il resto della notte e del giorno seguente, e fino all’istante della
seconda notte in cui la medesima stella ricominciò a sorgere.
14. Non appena cominciò ad apparire, fermarono lo scolo del­
l’acqua. Quindi, dato che l’apparizione e il ritorno dell’astro
osservato indicava una rivoluzione celeste completa, conside­
rarono che la misura del cielo corrispondeva alla quantità d’ac­
qua colata e raccolta.
15. Quindi, dopo aver diviso la quantità d’acqua in dodici
parti uguali con un procedimento sicuro, si procurarono altri
due vasi di capacità uguale e tale che ciascuno di essi potesse
contenere una sola di queste dodici parti; la totalità dell’acqua
que rursus aqua in uas suum pristinum, foramine prius cJauso,
refusa est; et de duobus illis capacitatis minoris alterum subie-
cerunt pleno, alterum iuxta expeditum paratumque posuerunt.
16. His praeparatis, nocte alia, in illam iam caeli partem, per
quam solem lunamque et quinque uagas meare diuturna obse-
ruatione didicerant quamque postea zodiacum uocauerunt,
ascensurum obseruauerunt sidus, cui postea nomen Arietis
addiderunt. 17. Huius incipiente ortu, statim subiecto uasi
superpositae aquae fluxum dederunt. Quod ubi completum
est, mox eo sublato effusoque, alterum simile subiecerunt, cer­
tis signis obseruanter ac memoriter adnotatis inter eius loci
stellas qui oriebatur cum primum uas esset impletum, intelle­
gentes quod, eo tempore quo totius aquae duodecima pars flu­
xit, pars caeli duodecima conscendit. 18. Ab illo ergo loco quo
oriri incipiente aqua in primum uas coepit influere usque ad
locum qui oriebatur cum idem primum uas impleretur, duode­
cimam partem caeli, id est unum signum, esse dixerunt. 19.
Item secundo uase impleto ac mox retracto, illud simile, quod
olim effusum parauerant, iterum subdiderunt, notato similiter
loco qui emergebat, cum secundum uas esset impletum, et a
fine primi signi usque ad locum qui ad secundae aquae finem
oriebatur, secundum signum notatum est. 20. Atque ita uicis-
sim uasa mutando, et per singulas influentis aquae partes sin­
gulos sibi ascendentium caeli partium limites adnotando, ubi
consummata iam omni per duodecim partes aqua, ad primi
signi exordia peruentum est, sine dubio iam diuisas certisque
sibi obseruationibus et indiciis adnotatas duodecim caeli par­
tes tantae compotes machinationis habuerunt.
21. Quod non nocte una, sed duabus effectum est, quia
omne caelum una nocte non uoluitur, sed per diem uertitur
fu poi riversata nel vaso che la conteneva originariamente e di
cui si era avuto cura di chiudere l’orifizio; e, prendendo uno
dei due vasi di minor capacità, lo posero sotto il vaso pieno e
posero il secondo accanto ad esso, a portata di mano e tenuto
pronto.
16. Terminati questi preparativi, durante un’altra notte, nella
regione del cielo in cui una lunga osservazione aveva loro inse­
gnato che si muovevano il sole, la luna e i cinque pianeti, e che
in seguito chiamarono zodiaco, spiarono il sorgere imminente
dell’astro che poi chiamarono Ariete. 17. Nell’istante stesso in
cui sorgeva, fecero subito colare l’acqua del vaso superiore nel
vaso inferiore. Non appena quest’ultimo fu pieno, subito lo
rimossero e lo svuotarono, quindi lo sostituirono con l’altro
vaso simile, osservando e memorizzando alcuni segni precisi tra
le stelle della regione celeste che stava per sorgere proprio nel­
l’istante in cui il primo vaso si trovava colmo, con l’idea che nel
momento in cui tutta l’acqua era defluita, la dodicesima parte
del cielo era sorta. 18. A partire dunque dal punto che comin­
ciava a sorgere mentre l’acqua cominciava a defluire nel primo
vaso fino al punto in cui stava sorgendo quando questo stesso
primo vaso finiva di riempirsi, affermarono che si estendeva la
dodicesima parte di cielo, in altre parole un segno. 19. Allo stes­
so modo, quando il secondo vaso fu riempito e quindi tolto, gli
Egizi misero di nuovo al suo posto l’altro vaso simile, che era
stato svuotato in precedenza e tenuto pronto; dopo aver ugual­
mente annotato il luogo del cielo che emergeva nell’istante in
cui il secondo vaso si trovava colmo, considerarono come
secondo segno la sezione di cielo che si estendeva al limite del
primo al punto del cielo che appariva nel momento in cui si
completava la seconda porzione d’acqua. 20. E così, alternando
i vasi, e annotando ogni volta i limiti delle parti di cielo che
vedevano salire mentre defluiva ogni singola porzione d’acqua,
quando, consumata tutta l’acqua, dodicesimo per dodicesimo,
si ritrovarono all’inizio del primo segno, stabilirono con assolu­
ta certezza, attraverso la padronanza di questo notevole inge­
gnoso espediente, la divisione del cielo in dodici parti, definita
da osservazioni e segni precisi 402.
21. Ciò non fu fatto in una notte, ma in due, perché il cielo
intero non opera la sua rivoluzione in una notte, bensì la metà
pars eius media, et medietas reliqua per n o ctem . Nec tamen
caelum omne duarum sibi proximarum noctium diuisit inspec­
tio, sed diuersorum temporum nocturna dimensio utrumque
hemisphaerium paribus aquae uicibus adnotauit. 2 2 . Et has
ipsas duodecim partes signa appellari maluerunt, certaque sin­
gulis uocabula gratia significationis adiecta sunt; et quia signa
Graeco nomine £cp8 ia nuncupantur, circum ipsum signorum
zodiacum, quasi signiferum uocauerunt.
23. Hanc autem rationem iidem illi, cur Arietem, cum in
sphaera nihil primum nihilque postremum sit, primum tamen
dici maluerint, prodiderunt. Aiunt enim incipiente die illo qui
primus omnium luxit, id est quo in hunc fulgorem caelum et
elementa purgata sunt, qui ideo mundi natalis iure uocitatur,
Arietem in medio caelo fuisse, et quia medium caelum quasi
mundi uertex est, Arietem propterea primum inter omnes
habitum, qui ut mundi caput in exordio lucis apparuit.
24. Subnectunt etiam causam cur haec ipsa duodecim signa
adsignata sint diuersorum numinum potestati. Aiunt enim in
hac ipsa genitura mundi, Ariete, ut diximus, medium caeli
tenente, horam fuisse mundi nascentis, Cancro gestante tunc
lunam. Post hunc sol cum Leone oriebatur, cum Mercurio
Virgo, Libra cum Venere, Mars erat in Scorpio, Sagittarium
Iuppiter obtinebat, in Capricorno Saturnus meabat. 25. Sic
factum est ut singuli eorum signorum domini esse dicantur, in
quibus, cum mundus nasceretur, fuisse creduntur. Sed duobus
quidem luminibus singula tantum signa, in quibus tunc fue­
rant, adsignauit antiquitas, Cancrum lunae, soli Leonem.
Quinque uero stellis, praeter illa signa, quibus tunc inhaere­
bant, quinque reliqua sic adiecit uetustas ut in adsignandis a
fine prioris ordinis ordo secundus inciperet. 26. Superius enim
diximus in Capricorno Saturnum post omnes fuisse. Ergo
di essa durante il giorno e la restante metà durante la notte.
Ciononostante è l’osservazione di due notti susseguenti che
permise di dividere l’intero cielo: per stabilire dei segni nei
due emisferi occorsero, con un’eguale successione di quantità
d’acqua, alcune misurazioni notturne in stagioni diverse. 403
22. Scelsero di chiamare «segni» queste dodici parti e, per
poterli distinguere, attribuirono ad ognuno un nome partico­
lare; e, poiché in greco i segni sono detti £có8 ia, chiamarono
il circolo stesso dei segni «zodiaco», quasi fosse un «porta-
insegne» 404.
23. Sono ancora essi, che fecero conoscere il motivo per cui
scelsero di assegnare all’Ariete il primo posto su una sfera che
non può offrire né primo né ultimo posto. Dicono, infatti, che
nell’alba del giorno che fu il primo di tutti a brillare, quello in
cui il cielo e gli elementi purificati presero il loro splendore
attuale e che per ciò viene detto giustamente «natale del
mondo», l’Ariete si trovasse nel mezzo del cielo, e siccome il
punto di mezzo del cielo è, in qualche modo, la cuspide dell’u­
niverso, l’Ariete viene considerato come il primo di tutti, per­
ché apparve come la testa del mondo nell’istante in cui appar­
ve per la prima volta la luce 405.
24. Essi forniscono anche la ragione per la quale questi do­
dici segni sono posti sotto l’influenza di divinità diverse. Dico­
no, infatti, che, nel preciso istante della generazione del
mondo, l’ora della nascita del mondo coincise, come abbiamo
detto, con il passaggio dell’Ariete nel medio cielo, con il Can­
cro recante la luna. Dopo di esso apparve il sole con il Leone,
la Vergine con Mercurio, la Bilancia con Venere; Marte era
nello Scorpione, Giove occupava il Sagittario, Saturno si muo­
veva nel Capricorno 406. 25. Donde il fatto che si dà a ognuno
il nome di signori dei segni in cui si crede che si trovassero alla
nascita del mondo. Ma ad ognuno dei due luminari, l’Antichità
non attribuisce che un segno, quello in cui si trovavano origi­
nariamente, il Cancro alla luna e per il sole il Leone. Ai cinque
astri, in compenso, oltre ai segni con cui erano allora in contat­
to, gli Antichi ne assegnarono in aggiunta cinque altri, ricomin­
ciando, con questa distribuzione, una seconda serie a partire
dalla precedente. 26. Prima, infatti, abbiamo detto che Satur­
no, domiciliato nel Capricorno, era l’ultimo di tutti i pianeti.
secunda adiectio eum primum fecit qui ultimus fuerat: ideo
Aquarius, qui Capricornum sequitur, Saturno datur; Ioui, qui
ante Saturnum erat, Pisces dicantur; Aries Marti, qui praeces­
serat Iouem, Taurus Veneri, quam Mars sequebatur, Gemini
Mercurio, post quem Venus fuerat, deputati sunt.
27. Notandum hoc loco quod in genitura mundi uel ipsa
rerum prouidentia uel uetustatis ingenium hunc stellis ordi­
nem dedit quem Plato adsignauit sphaeris earum, ut esset luna
prima, sol secundus, super hunc Mercurius, Venus quarta,
hinc Mars, inde Iuppiter, et Saturnus ultimus. Sed sine huius
tamen rationis patrocinio abunde Platonicum ordinem prior
ratio commendat.
28. E x his, quae de uerbis Ciceronis proxime praelatis
quaerenda proposuimus, qua licuit breuitate, a summa sphae­
ra, quae ccTTXavris dicitur, usque ad lunam, quae ultima diui-
norum est, omnia iam ut opinor absoluimus. 29. Nam et cae­
lum uolui, et cur ita uoluatur, ostendimus, septemque sphaeras
contrario motu ferri ratio indubitata patefecit, et de ipso
sphaerarum ordine quid diuersi senserint uel quid inter eos
dissensionem fecerit, quaeue magis sit sequenda sententia,
tractatus inuenit. 30. Nec hoc tacitum est cur inter omnes stel­
las sola sine fratris radiis luna non luceat, sed et quae spatio­
rum ratio solem ab his quoque, qui eum inter septem quartum
locarunt, non tamen abrupte medium sed fere medium dici
coegerit publicatum est. 31. Quid significent nomina quibus
ita uocatur ut laudari tantum putetur innotuit; magnitudo quo­
que eius sed et caelestis per quem discurrit circuli, terraeque
pariter quanta sit uel quem ad modum deprehensa monstra­
tum est. 32. Subiectarum sphaerarum stellae quemadmodum
in zodiaco, qui supra omnes est, ferri dicantur, uel quae ratio
diuersarum faciat seu celerem seu tardum recursum, sed et
La seconda attribuzione, questa volta, lo rese il primo da ulti­
mo che era; perciò l’Acquario che segue il Capricorno è asse­
gnato a Saturno; a Giove, che si trovava davanti a Saturno, si
consacrarono i Pesci; l’Ariete fu dato a Marte, che precedeva
Giove; il Toro toccò a Venere, che seguiva Marte; i Gemelli a
Mercurio, che precedeva Venere. 407
27. Va qui notato, a proposito della nascita del mondo che
sia la stessa provvidenza all’origine delle cose sia l’ingegnosità
degli Antichi hanno dato ai pianeti l’ordine che Platone asse­
gnò alle loro sfere e che fa della luna la prima, del sole la secon­
da, con sopra Mercurio, di Venere la quarta, poi vengono
Marte, quindi Giove e per ultimo Saturno. Ma persino senza il
patrocinio di questo sistema, le precedenti considerazioni con­
fermano abbondantemente l’ordine stabilito da Platone 408.
28. Di tutte le questioni, suscitate dall’ultima citazione di
Cicerone, che c’eravamo proposti di esaminare, dalla sfera più
alta detta àuÀavris fino alla luna, ultimo dei corpi divini,
credo di aver assolto per intero, e con ogni possibile brevità,
l’impegno. 29. Abbiamo dimostrato la rotazione del cielo e la
sua causa; un ragionamento inconfutabile ha messo in eviden­
za il movimento retrogrado delle sette sfere; quindi, in merito
all’ordine stesso delle sfere, il nostro trattato ha fatto conosce­
re la diversità di teorie, la ragione dei disaccordi e quale sia l’o­
pinione più degna d’essere seguita. 30. Non abbiamo neppure
tralasciato di spiegare la ragione per la quale la luna è l’unica
tra tutte le stelle a non brillare affatto in assenza di raggi frater­
ni; abbiamo anche svelato quale sia il calcolo delle distanze che
obbliga coloro che hanno fatto del sole il quarto dei sette astri
a dire che si trova «a un dipresso nel mezzo» e non esattamen­
te «nel mezzo». 31. Il significato dei nomi che gli vengono dati
e che s’immagina siano semplicemente elogiativi è divenuto
chiaro; si è ugualmente fatto conoscere allo stesso tempo la sua
grandezza, ma anche quella dell’orbita celeste lungo la quale si
muove, quindi ugualmente quella della terra e il metodo ado­
perato per determinare queste misure. 32. È stato anche detto
in che senso bisogna intendere che i pianeti delle sfere inferio­
ri si spostano «nello» zodiaco che si trova al di sopra di tutti, e
abbiamo spiegato per quale ragione ancora impieghino un
tempo maggiore o minore per completare le loro rispettive
ipse zodiacus in duodecim partes qua ratione diuisus sit, cur-
que Aries primus habeatur, et quae signa in quorum numinum
dicione sint, absolutum est.
33. Sed omnia haec, quae de summo ad lunam usque perue-
niunt, sacra, incorrupta, diuina sunt, quia in ipsis est aether,
semper idem nec umquam recipiens inaequalem uarietatis
aestum. Infra lunam et aer et natura permutationis pariter inci­
piunt, et sicut aetheris et aeris, ita diuinorum et caducorum
luna confinium est. 34. Quod autem ait nihil infra lunam esse
diuinum «praeter animos munere deorum hominum generi
datos», non ita accipiendum est animos hic esse ut hic nasci
putentur. Sed sicut solem in terris esse dicere solemus, cuius
radius aduenit et recedit, ita animorum origo caelestis est, sed
lege temporalis hospitalitatis hic exulat. Haec ergo regio diui­
num nihil habet ipsa, sed recipit; et quia recipit, et remittit.
Proprium autem habere diceretur si ei semper tenere licuisset.
35. Sed quid mirum si animus de hac regione non constat, cum
nec corpori fabricando sola suffecerit? Nam quia terra, aqua et
aer infra lunam sunt, ex his solis corpus fieri non potuit quod
idoneum esset ad uitam, sed opus fuit praesidio ignis aetherii,
qui terrenis membris uitam et animam sustinendi commodaret
uigorem, qui uitalem calorem et faceret et ferret.
36. Haec et de aere dixisse nos satis sit. Restat ut de terra,
quae sphaerarum nona et mundi ultima est, dictu necessaria
disseramus.
rivoluzioni, ma anche il metodo utilizzato per dividere lo
zodiaco in dodici parti, abbiamo detto anche perché l’Ariete si
ritenga il primo dei segni e quali sono i segni sotto il dominio
di questa o quella divinità 409.
33. Tutti gli esseri compresi tra la sommità del cielo e la luna
sono sacri, incorruttibili e divini, perché in essi vi è l’etere, che
è sempre immutabile e mai soggetto al flusso irregolare del
cambiamento. Sotto la luna, tutto, a cominciare dall’aria, sub­
isce delle trasmutazioni e siccome la luna è il confine tra l’ete­
re e l’aria, è similmente il confine tra il divino e l’effimero 41°.
34. Quanto a ciò che afferma Cicerone che al di sotto della
luna non c’è «nulla» di divino «eccetto le anime, assegnate per
dono degli dèi al genere umano», non va compreso che ci siano
delle anime quaggiù nel senso che siano nate su questa terra 411.
Come siamo abituati a dire che il sole «è» sulla terra perché il
suo raggio qua giunge e di qua ritorna, così l’origine delle
anime è celeste, ma, per una legge che ne fa ospiti di passaggio,
si trovano quaggiù in esilio. La nostra regione quindi non ha in
sé niente di divino, se non ciò che riceve, e lo riceve solamen­
te per renderlo. Potrebbe considerarlo come sua proprietà solo
se le fosse permesso di conservarlo in eterno. 35. C ’è, del resto,
da meravigliarsi che l’anima non dipenda da questa regione,
quando questa, da sola, non è neppure in grado di formare un
corpo? Difatti, la terra, l’aria e l’acqua, essendo al di sotto della
luna, non hanno potuto, da loro sole, produrre un corpo adat­
to alla vita; c’è stato bisogno del concorso del fuoco etereo 412
per conferire alle membra terrestri la forza per sostenere la vita
e il soffio vitale, per creare e mantenere il calore vitale.
36. Basti ciò che abbiamo detto sull’aria. Ci resta ora da
esporre qualche necessaria precisazione sulla terra, nona e ulti­
ma sfera dell’universo.
Fnodptédcc& ll

(Fig. 15) (Fig. 16)


Schema dello zodiaco pre­ Ancora la figura dello zodia­
sente nella maggior parte dei co, incisione tratta dall’edizione
manoscritti. latina di Macrobius, in Somnium
Scipionis, Angeli Britannici,
Brixiae, 1501.

(Fig. 17) (Fig. 18)


Il medesimo diagramma Ancora lo stesso diagramma
dello zodiaco, illustrazione tratta in una pagina tratta da un codice
dall’edizione di Ludwig von Jan del X II secolo; Macrobius, Com­
del Commentarium in somnium mentarius in Somnium Scipionis.
Scipionis, Gottfried Bass, Qued-
linburg - Leipzig, 1848.
(Fig. 19)
L’universo, con la terra
al centro circondata dai
sette pianeti con i segni
zodiacali, sostenuto da
quattro figure gigantesche
in una pagina del M acro­
bius, Commentarii in Som­
nium Scipionis (NKS 218
4°), manoscritto su perga­
mena (ca. 1150, Francia
meridionale?), fol. 25r, Co­
penhagen, Det Kongelige
Bibliotek.

(Fig. 20)
Modello delle sfere ci­
ceroniane del Somnium Sci­
pionis, tratto da Das Som­
nium Scipionis und Platons
ER-Mythos, a cura di Doro-
thea Kintz (2000):
www.gottwein.de/Lat/cic_
rep/ ref06_somn01.htm.
22. 1. «Nam ea quae est media et nona, tellus, inquit, neque
mouetur et infima est et in eam feruntur omnia nutu suo pondera.»
2 . Illae uere insolubiles causae sunt, quae mutuis in uicem
nexibus uinciuntur, et dum altera alteram facit ac uicissim de
se nascuntur, numquam a naturalis societatis amplexibus sepa­
rantur. Talia sunt uincula quibus terram natura constrinxit.
Nam ideo in eam feruntur omnia quia ut media non mouetur;
ideo autem non mouetur quia infima est; nec poterat infima
non esse in quam omnia feruntur. Horum singula, quae insepa­
rabiliter inuoluta rerum in se necessitas iunxit, tractatus expe­
diat.
3. «Non mouetur», ait. Est enim centron. In sphaera autem
solum centron diximus non moueri, quia necesse est ut circa
aliquid immobile sphaera moueatur.
4. Adiecit: «et infima est». Recte hoc quoque. Nam quod
centron est, medium est. In sphaera uero hoc solum constat
imum esse quod medium est. Et si terra ima est, consequitur ut
uere dictum sit in eam ferri omnia. Semper enim pondera in
imum natura deducit: nam et in ipso mundo, ut esset terra, sic
factum est. 5. Quicquid ex omni materia, de qua facta sunt
omnia, purissimum ac liquidissimum fuit, id tenuit summita­
tem et aether uocatus est; pars, cui minor puritas et inerat ali­
quid leuis ponderis, aer extitit et in secunda delapsus est; post
haec, quod adhuc quidem liquidum, sed iam usque ad tactus
offensam corpulentum erat, in aquae fluxum coagulatum est.
6 . Iam uero quod de omni siluestri tumultu uastum, inpenetra­
bile, densetum, ex defaecatis abrasum resedit elementis, haesit
in imo; quod demersum est stringente perpetuo gelu, quod eli­
minatum in ultimam mundi partem longinquitas solis coace-
22 . 1 . «La sfera che è centrale e nona, ossia la Terra, non è
infatti soggetta a movimento, rappresenta la zona più bassa delle
sfere e verso di essa sono attratti tutti i gravi, per una forza che è
loro propria» 413.
2. Veramente indissolubili sono le cause legate da connes­
sioni mutue e reciproche; per il fatto che l’una genera l’altra e
che si generano reciprocamente l’una dall’altra, esse non sono
mai separate dalla stretta della loro unione naturale. Tali sono
i vincoli coi quali la natura tenne stretta la terra. Infatti, se tutti
i corpi gravitano su di essa, è perché, essendo situata nel
mezzo, è immobile; se è immobile, è perché occupa la parte più
bassa; e non potrebbe non essere nella parte più bassa, poiché
tutti i corpi sono attratti verso di essa. Queste proprietà, che la
necessità dell’universo, avvolta su se stessa, ha legato indissolu­
bilmente, analizziamole una per una nella nostra esposizione.
3. «Non è soggetta a movimento», dice Cicerone. Ed infatti
è il centro. E in una sfera, come abbiamo detto, solo il centro
resta immobile, perché è necessario che si muova intorno ad
un punto fisso 414.
4. Aggiunge: «rappresenta la zona più bassa». Niente di più
giusto. Perché il centro sta nel mezzo. Ora si sa che in una sfera
ciò che sta assolutamente in basso è nel mezzo 415. Se dunque
la terra è la sfera più bassa, di conseguenza Cicerone ha avuto
ragione a dire che tutti i corpi gravitano su di essa. Infatti la
natura dirige sempre i corpi pesanti verso il basso: è anche ciò
che è accaduto nell’universo stesso, perché ci fosse la terra. 5.
Ciò che c’era, nell’insieme della materia, di cui sono fatte tutte
le cose, di più puro e di più limpido guadagnò la regione più
alta e fu chiamato etere; una parte, di un grado minore in
purezza e di un peso leggero, divenne l’aria e scivolò nella
seconda regione; poi, quello che era ancora trasparente, ma
aveva abbastanza densità per essere percepita dal senso del
tatto, si condensò nel flusso acqueo. 6 . Infine, tra tutta questa
materia tumultuosamente agitata, tutta quella parte che grezza,
impenetrabile, spessa, fu, al momento della loro decantazione,
tratta dagli elementi e si depositò, tutto questo sedimento restò
in fondo; quanto fu inghiottito nella stretta di un gelo perpe­
tuo, quanto, rigettato nell’ultima regione del mondo, si trovò
accumulato a causa della lontananza dal sole, quanto dunque
ruauit, quod ergo ita concretum est, terrae nomen accepit. 7.
Hanc spissus aer et terreno frigori propior quam solis calori
stupore spiraminis densioris undiqueuersum fulcit et continet,
nec in recessum aut accessum moueri eam patitur uel uis cir-
cumuallantis et ex omni parte uigore simili librantis aurae uel
ipsa sphaeralis extremitas, quae si paululum a medio deuiaue-
rit, fit cuicumque uertici propior et imum relinquit, quod ideo
in solo medio est, quia ipsa sola pars a quouis sphaerae uertice
pari spatio recedit.
8 . In hanc igitur, quae et ima est, quasi media, et non moue­
tur, quia centron est, omnia pondera ferri necesse est, quia et
ipsa in hunc locum quasi pondus relapsa est. Argumento sunt,
cum alia innumera, tum praecipue imbres qui in terram ex
omni aeris parte labuntur. Nec enim in hanc solam quam habi­
tamus superficiem decidunt, sed et in latera quibus in terra
globositas sphaeralis efficitur; et in partem alteram, quae ad
nos habetur inferior idem imbrium casus est. 9. Nam si aer, ter­
reni frigoris exhalatione densetus, in nubem cogitur et ita
abrumpit imbres, aer autem uniuersam terram circumfusus
ambit, procul dubio ex omni aeris parte, praeter ustam calore
perpetuo, liquor pluuialis emanat, qui undique in terram, quae
unica est sedes ponderum, defluit. 1 0 . Quod qui respuit, supe-
rest ut aestimet extra hanc unam superficiem quam incolimus,
quidquid niuium imbriumue uel grandinum cadit, hoc totum
in caelum de aere defluere. Caelum enim ab omni parte terrae
aequabiliter distat et, ut a nostra habitatione, ita et a lateribus
et a parte quae ad nos habetur inferior pari altitudinis immen­
sitate suspicitur. Nisi ergo omnia pondera ferrentur in terram,
imbres qui extra latera terrae defluunt non in terram, sed in
caelum caderent, quod uilitatem ioci scurrilis excedit.
11. Esto enim terrae sphaera cui ascripta sunt A B C D,
circa hanc sit aeris orbis cui ascripta sunt E F G L M, et utrum-
in questo modo si solidificò, tutta questa concrezione ricevette
il nome di «terra». 7. Un’aria compatta, più prossima al freddo
terrestre che al calore del sole, la sostiene e la rinserra da ogni
parte grazie al torpore di un soffio particolarmente denso e le
è impedito ogni movimento, o diretto o retrogrado, sia dalla
forza dell’atmosfera che la circonda e la tiene in equilibrio da
ogni parte con eguale energia, sia dalla sua medesima forma
sferica, che, se essa deviasse un poco dal mezzo, si avvicinereb­
be a un punto qualsiasi del vertice e abbandonerebbe il fondo,
il quale non può occupare che il mezzo dato che è la sola parte
equidistante da qualsiasi punto della superficie della sfera.
8 . È dunque verso la più bassa delle sfere, in quanto collo­
cata nel mezzo del mondo, e che, come centro, è immobile, che
è inevitabile che siano attratti tutti i gravi; anch’essa stessa,
come un peso, è relegata sul fondo. 416 Tra gli innumerevoli
fatti che lo provano, ci sono principalmente le piogge che
cadono da tutti i punti dell’aria sulla terra. Infatti non s’abbat­
tono solamente su quella parte di terra che abitiamo, ma anche
su tutte le altre parti che danno alla terra la sua convessità sfe­
rica; e sull’altra parte, quella che rispetto a noi è considerata
inferiore, si producono le medesime cadute di pioggia. 9.
Infatti, se l’aria, ispessita dai vapori freddi esalati dalla terra, si
condensa in nuvole e, in questo modo, prorompe in piogge, e
se, inoltre, l’aria ci avvolge e ci abbraccia da ogni lato, è incon­
testabile che la pioggia proviene da ogni regione dell’aria,
eccetto che da quella che brucia d’un calore perpetuo; e que­
st’acqua scorre ovunque sulla terra, unico punto in cui si stabi­
lizzano i gravi. 1 0 . Chi rifiuta questa teoria, deve per forza pen­
sare che tutte le piogge, le nevi o le grandini che cadono al di
fuori di quest’unica superficie che abitiamo, scorrano tutte
quante dall’aria nel cielo. Infatti il cielo è equidistante da ogni
punto della terra, e, che lo si osservi dal luogo da noi abitato o
dai lati o dalla parte considerata rispetto a noi inferiore, è per
i nostri sguardi di una vertiginosa estensione in altezza. Di con­
seguenza, se tutti i gravi non fossero attratti verso la terra, le
piogge che scorrono all’esterno dei lati della terra, non cadreb­
bero su quest’ultima ma nel cielo: asserzione più mediocre di
una facezia da buffone.
11. Rappresentiamo con un cerchio la sfera terrestre su cui
indichiamo i punti A B C D, intorno ad esso poniamo il globo
que orbem, id est terrae et aeris, diuidat linea ducta ab E usque
ad L: erit superior ista quam possidemus et illa sub pedibus.
12. Nisi ergo caderet omne pondus in terram, paruam nimis
imbrium partem terra susciperet ab A usque ad C; latera uero
aeris, id est ab F usque ad E et a G usque ad L, umorem suum
in aerem caelumque deicerent; de inferiore autem caeli hemi­
sphaerio pluuia in exteriora et ideo naturae ignota deflueret,
sicut ostendit subiecta descriptio. 13. Sed hoc uel refellere
dedignatur sermo sobrius, quod sic absurdum est ut sine argu­
mentorum patrocinio subruatur.
Restat ergo ut indubitabili ratione monstratum sit in terram
ferri «omnia nutu suo pondera». Ista autem quae de hoc dicta
sunt opitulabuntur nobis et ad illius loci disputationem quo
antipodas esse commemorat. Sed hic, inhibita continuatione
tractatus, ad secundi commentarii uolumen disputationem
sequentium reseruemus.

Fig. 21
Schema raffigurante la sfera dell’aria e della terra e il cerchio dell’at­
mosfera allo scopo di dimostrare l’assurdità della caduta della pioggia
se i gravi non fossero attratti dal centro dell'universo, ossia la terra. Tra
quelle qui proposte è la più precisa e soprattutto Tunica coerente con il
testo di Macrobio. Illustrazione tratta dal manoscritto delViri Somnium
Scipionis (seconda metà del IX sec., Corbie), Paris Lat. n. a. 454.
dell’aria, rappresentato da E F G L M; dividiamo entrambi i
globi, quello della terra e quello dell’aria, con una linea traccia­
ta da E a L: la parte superiore sarà quella che noi abitiamo, l’al­
tra quella che si trova sotto i nostri piedi. 1 2 . Se dunque tutti i
gravi non cadessero sulla terra, quest'ultima riceverebbe tra A
e C una parte davvero piccola delle piogge, mentre le parti del­
l’aria, da F a E e da G a L, dirigerebbero la loro acqua nell’a­
ria o verso il cielo; quanto alla pioggia proveniente dall’emisfe­
ro inferiore del cielo scorrerebbe in regioni esterne e perciò
cadrebbe non si sa dove, come mostra lo schema. 13. Ma un
discorso di buon senso disdegna persino di confutare questa
ipotesi così assurda da essere accantonata senza l’ausilio di
argomentazioni. 417
In conclusione si è dimostrato con un ragionamento indu­
bitabile che «tutti i gravi» sono attirati sulla terra «per una forza
che è loro propria». Tutte le osservazioni fatte in proposito ci
serviranno anche quando discuteremo il brano che evoca l’esi­
stenza degli antipodi. Ma adesso, interrompendo la continua­
zione del nostro trattato, riserviamo al volume del secondo
commentario la discussione dei brani seguenti.

M
Fig. 22
Ancora lo stesso diagramma. Come in molti manoscritti questo
schema riempie con il tratteggio, rappresentante la pioggia, l’insieme
della sfera dell’aria, compreso l’emisfero inferiore della terra, in con­
traddizione, perciò, con la dimostrazione per assurdo tentata da Ma­
crobio. Incisione tratta dall’edizione latina di Macrobius, In Som­
nium Scipionis, Angeli Britannici, Brixiae, 1501.
Fig. 23
Il medesimo diagramma, dove la pioggia diversamente dal prece­
dente schema non cade nell’emisfero inferiote, ma, in compenso,
resta confinata nella sfera dell’aria senza «cadere» anche verso il cielo
come vuole il testo di Macrobio. Illustrazione tratta dall’edizione del
Commentarium in somnium Scipionis di Ludwig von Jan, Gottfried
Bass, Quedlinburg - Leipzig, 1848.
Fig. 24
Ancora lo stesso diagramma della pioggia che cade sulla terra in
una pagina del Macrobius, Commentarii in Somnium Scipionis (NKS
218 4°), manoscritto su pergamena (ca. 1150, Francia meridionale?),
fol. 28r, Copenhagen, Det Kongelige Bibliotek.
1. 1. Superiore commentario, Eustathi luce mihi dilectior
fili, usque ad stelliferae sphaerae cursum et subiectarum sep­
tem sermo processerat. Nunc iam de musico earum modulami­
ne disputetur.
2 . « “Quid hic’, inquam, “quis est qui complet aures meas tan­
tus et tam dulcis sonus? “Hic est”, inquit, “ille qui interuallis
disiunctus imparibus sed tamen pro rata parte ratione distinctis,
impulsu et motu ipsorum orbium efficitur, et, acuta cum grauibus
temperans, uarios aequabiliter concentus efficit. Nec enim silen­
tio tanti motus incitari possunt, et natura fert ut extrema ex alte­
ra parte grauiter, ex altera autem acute sonent. 3. Quam ob cau­
sam summus ille caeli stellifer cursus, cuius conuersio est conci­
tatior, acute excitato monetur sono, grauissimo autem hic lunaris
atque infimus. Nam terra, nona, immobilis manens, una sede
semper haeret, complexa mundi medium locum. Illi autem octo
cursus in quibus eadem uis est duorum, septem efficiunt distinc­
tos interuallis sonos: qui numerus rerum omnium fere nodus est.
Quod docti homines neruis imitati atque cantibus aperuerunt
sibi reditum in hunc locum”.»
4. Exposito sphaerarum ordine motuque descripto, quo
septem subiectae in contrarium caelo feruntur, consequens est
ut qualem sonum tantarum molium impulsus efficiat hic requi­
ratur. 5. Ex ipso enim circumductu orbium sonum nasci neces-
se est, quia percussus aer, ipso interuentu ictus, uim de se fra­
goris emittit, ipsa cogente natura, ut in sonum desinat duorum
corporum uiolenta conlisio. Sed is sonus, qui ex qualicumque
aeris ictu nascitur, aut dulce quiddam in aures et musicum
defert, aut ineptum et asperum sonat. 6 . Nam si ictum obse-
1. 1. Eustazio, figlio a me più caro della luce, ti ricorderai
che, nel precedente commentario, l’esposizione era giunta alle
rivoluzioni della sfera stellata e delle altre sette sfere inferiori.
Adesso è arrivato il momento di parlare della loro modulazio­
ne armonica l.
2 . « “Ma che suono è questo, così intenso e armonioso, che
riempie le mie orecchie?” dissi. “E il suono” rispose “che separa­
to in funzione d’intervalli ineguali2 eppure distinti da una razio­
nale proporzione, è cagionato dalla spinta e dal moto delle sfere
stesse e che, temperando i toni acuti con i bassi, realizza varie e
proporzionate armonie. Del resto, movimenti così grandiosi non
potrebbero svolgersi in silenzio e natura esige che le estremità
risuonino di toni bassi l’una, acuti l’altra. 3. Ecco perché l’orbita
stellare suprema, la cui rotazione è la più veloce, si muove con
suono più acuto e concitato, mentre questa sfera lunare, la più
bassa, produce il suono più grave. La Terra, infatti, nono globo,
poiché resta immobile, rimane sempre fissa in un’unica sede,
occupando il centro dell’universo. Le rimanenti otto orbite, poi,
all’interno delle quali due hanno la medesima velocità, produco­
no sette suoni distinti dai loro intervalli 3, il cui numero è, per
così dire, il nodo di tutte le cose. 1 dotti che hanno saputo imita­
re quest’armonia per mezzo delle budelle dei loro strumenti e
con i canti si sono aperti la via del ritorno in questo luogo”» 4.
4. Dopo aver fatto conoscere l’ordine in cui sono disposte
le sfere e spiegato il moto retrogrado delle sette sfere inferiori,
in opposizione a quello del cielo, è ora nostro compito interro­
garsi sul suono prodotto dall’impulso di queste potenti masse5.
5. Infatti il suono nasce necessariamente dalla rotazione stessa
delle sfere, perché l’aria, quando viene colpita, emette, per
intervento del colpo stesso, un forte fragore, com’è nella natu­
ra, in quanto la violenta collusione tra due corpi si risolve in un
suono 6. Ma questo suono, nato da una qualunque percussione
dell’aria 1, o si trasmette all’orecchio come qualcosa di dolce e
musicale o risuona discordante e aspro. 6 . Se il colpo avviene
ruatio numerorum certa moderetur, compositum sibique con­
sentiens modulamen educitur; at cum increpat tumultuaria et
nullis modis gubernata conlisio, fragor turbidus et inconditus
offendit auditum. 7. In caelo autem constat nihil fortuitum,
nihil tumultuarium prouenire, sed uniuersa illic diuinis legibus
et statuta ratione procedere. Ex his inexpugnabili ratiocinatio­
ne collectum est musicos sonos de sphaerarum caelestium
conuersione procedere, quia et sonum ex motu fieri necesse
est, et ratio quae diuinis inest fit sono causa modulaminis.
8 . Haec Pythagoras, primus omnium Graiae gentis homi­
num, mente concepit, et intellexit quidem compositum quid­
dam de sphaeris sonare, propter necessitatem rationis quae a
caelestibus non recedit. Sed quae esset illa ratio, uel quibus
obseruanda modis, non facile deprehendebat, cumque eum
frustra tantae tamque arcanae rei diuturna inquisitio fatigaret,
fors obtulit quod cogitatio alta non repperit. 9. Cum enim casu
praeteriret in publico fabros ignitum ferrum ictibus mollientes,
in aures eius malleorum soni certo sibi respondentes ordine
repente ceciderunt, in quibus ita grauitati acumina consona­
bant ut utrumque ad audientis sensum statuta dimensione
remearet, et ex uariis impulsibus unum sibi consonans nasce­
retur. 10. Hic occasionem sibi oblatam ratus, deprehendit ocu­
lis et manibus quod olim cogitatione quaerebat. Fabros adit et
imminens operi curiosius intuetur, adnotans sonos qui de sin­
gulorum lacertis conficiebantur. Quos cum ferientium uiribus
adscribendos putaret, iubet ut inter se malleolos mutent.
Quibus mutatis, sonorum diuersitas, ab hominibus recedens,
malleolos sequebatur. 1 1 . Tunc omnen curam ad pondera
eorum examinanda conuertit, cumque sibi diuersitatem pon­
deris quod habebatur in singulis adnotasset, aliis ponderibus in
secondo una legge numerica precisa, ne scaturisce un accordo
ben strutturato e armonico; ma quando il suono risulta da un
urto accidentale e senza essere governato da alcuna misura, un
rumore confuso offende sgradevolmente l’udito. 7. Ora, è sicu­
ro che in cielo niente avviene di fortuito o di accidentale, per­
ché lassù tutto procede secondo leggi divine e un piano stabi­
lito 8. Un ragionamento inattaccabile ha fatto trarre la conclu­
sione che il movimento circolare delle sfere celesti produce dei
suoni armoniosi, poiché da una parte è inevitabile che dal
moto si produca il suono e dall’altra la ragione insita nei corpi
divini implica l’armonia dei suoni.
8 . Pitagora fu il primo di tutti gli uomini di stirpe greca che
comprese questi fenomeni e capì che dalle sfere proveniva un
suono composito, a causa della necessità della ragione che non
fa mai difetto alle cose celesti. Ma non gli fu facile scoprire
quale fosse la natura di questa ragione e in che modo potesse
essere osservata; dopo essersi invano affaticato in lunghe e pro­
fonde meditazioni su un argomento di tal mole e così arcano,
un caso fortunato gli offrì ciò che fino allora si era negato alle
sue ostinate ricerche. 9. Passava per caso davanti ad una forgia
all’aperto in cui gli operai erano occupati a battere un ferro
incandescente per renderlo malleabile, quando improvvisa­
mente le sue orecchie furono colpite dai suoni dei martelli, che
rispondevano ad un certo ordine. In esso i suoni più acuti si
accordavano con quelli più gravi in modo che ciascuno dei due
toni ritornava a scuotere il nervo auditivo secondo un interval­
lo musicale uguale e risultava da questi diversi colpi un insie­
me armonico.9 10. Afferrando l’opportunità che gli si offriva,
Pitagora comprese, grazie al senso della vista e a quello del
tatto, ciò su cui da tempo indagava con la riflessione. Si avvici­
nò ai fabbri e scrutò attentamente tutti i procedimenti dell’o­
perazione, prendendo nota dei suoni prodotti dai colpi di ogni
singolo operaio. Persuaso dapprima che la differenza d’inten­
sità di quei suoni fosse da attribuirsi alla differenza di forze dei
martellatori, volle che i fabbri si scambiassero fra loro i martel­
li. Ma, una volta compiuto lo scambio, la diversità di suoni non
dipendeva dagli uomini, ma corrispondeva ai martelli. 11. Al­
lora tutte le sue osservazioni si diressero sulla pesantezza rela­
tiva ai martelli e dopo aver annotato la differenza di peso che
maius minusue excedentibus fieri malleos imperauit, quorum
ictibus soni nequaquam prioribus similes nec ita sibi conso­
nantes exaudiebantur. 1 2 . Tunc animaduertit concordiam
uocis lege ponderum prouenire, collectisque numeris, quibus
consentiens sibi diuersitas ponderum continebatur, ex malleis
ad fides uertit examen, et intestina ouium uel boum neruos
tam uariis ponderibus inligatis tetendit qualia in malleis fuisse
didicerat, talisque ex his concentus euenit qualem prior obse-
ruatio non frustra animaduersa promiserat, adiecta dulcedine
quam natura fidium sonora praestabat. 13. Hic Pythagoras,
tanti secreti compos, deprehendit numeros ex quibus soni sibi
consoni nascerentur, adeo ut, fidibus sub hac numerorum
obseruatione compositis, certae certis aliaeque aliis conuenien-
tium sibi numerorum concordia tenderentur, ut, una impulsa
plectro, alia, licet longe posita sed numeris conueniens, simul
sonaret.
14. Ex omni autem innumera uarietate numerorum pauci et
numerabiles inuenti sunt qui sibi ad efficiendam musicam
conuenirent. Sunt autem hi sex omnes: epitritus, hemiolius,
duplaris, triplaris, quadruplus, et epogdous.
15. Et est epitritus cum, de duobus numeris, maior habet
totum minorem et insuper eius tertiam partem, ut sunt quat­
tuor ad tria. Nam in quattuor sunt tria et tertia pars trium, id
est unum. Et is numerus uocatur epitritus, deque eo nascitur
symphonia quae appellatur Sta Teaaapcov. 16. Hemiolius est
cum, de duobus numeris, maior habet totum minorem et insu­
per eius medietatem, ut sunt tria ad duo. Nam in tribus sunt
duo et media pars eorum, id est unum. Et ex hoc numero, qui
hemiolius dicitur, nascitur symphonia quae appellatur 8 ià
t t é v t e . 17. Duplaris numerus est cum, de duobus numeris,

minor bis in maiore numeratur, ut sunt quattuor ad duo. Et ex


caratterizzava ciascuno di questi strumenti, si fece fare degli
altri martelli di peso differente, pili o meno pesanti; ma i suoni
prodotti dai loro colpi non erano per niente simili a quelli dei
precedenti, né più così consonanti fra loro. 1 2 . Pitagora allora
s’avvide che l’armonia del suono era regolata dai pesi e, dopo
aver rilevato i numeri che definivano la varietà armonica pro­
dotta dai diversi pesi, abbandonò i martelli e volse la sua inda­
gine agli strumenti a corda: mise in tensione budella di pecore
o nervi di buoi attaccandovi pesi differenti, identici a quelli che
aveva scoperto nei diversi martelli e ne risultò proprio il gene­
re d’accordo che la non inutile precedente osservazione aveva
fatto sperare; vi si aggiunse quella dolcezza che è conferita
dalla naturale sonorità degli strumenti a corda. 13. Padrone di
un così gran segreto, determinò allora i numeri da cui nasceva­
no i suoni di un accordo in modo che, utilizzando uno stru­
mento a corda la cui struttura si conformava a queste leggi
numeriche, determinate corde fossero tese secondo numeri
determinati e altre secondo altri numeri, rispettando la concor­
danza dei numeri che governavano l’armonia, cosicché, quan­
do una corda era fatta vibrare con un plettro, un’altra, che
poteva anche essere lontana dalla prima ma in accordo nume­
rico con essa, suonava contemporaneamente l0.
14. Tuttavia, da questa innumerevole gamma di numeri se
ne trovarono una quantità limitata e poco numerosa adatta a
formare degli accordi per produrre della musica. Questi si
riducono a sei e sono: l’epitrito, Pemiolio, la doppia, la tripla,
la quadrupla e l’epogdo u .
15. L’epitrito esprime il rapporto di due numeri di cui il
maggiore contiene tutto quanto il minore e inoltre la sua terza
parte, o che sono tra essi come quattro rispetto a tre. Infatti,
nel quattro c ’è il tre e il terzo di tre, ossia uno. Questo nume­
ro si chiama epitrito e genera l’accordo chiamato 8 i à t e a -
oàpcov [quarta]. 16. L’emiolio è il rapporto di due numeri di
cui il maggiore contiene interamente il minore e in più la sua
metà; per esempio tre rispetto a due. Infatti, nel tre c’è il due e
la sua metà, ossia uno. E da questo numero, detto emiolio, che
nasce l’accordo che si chiama Btòc t t e v t e [quinta]. 17. La dop­
pia è il rapporto di due numeri, di cui il maggiore contiene due
volte il minore, o che sono tra essi come quattro rispetto a due.
hoc duplari nascitur symphonia cui nomen est Sia Ttaocov.
18. Triplaris autem cum, de duobus numeris, minor ter in
maiore numeratur, ut sunt tria ad unum. Et ex hoc numero
symphonia procedit quae dicitur Sta T T aocov tca'i Sia TrévTe.
19. Quadruplus est cum, de duobus numeris, minor quater in
maiore numeratur, ut sunt quattuor ad unum. Qui numerus
facit symphoniam quam dicunt 815 Sia uaacòv. 2 0 . Epogdous
est numerus qui intra se habet minorem et insuper eius
octauam partem, ut nouem ad octo, quia, in nouem, et octo
sunt et insuper octaua pars eorum, id est unum. Hic numerus
sonum parit quem t ó v o v musici uocauerunt.
21. Sonum uero tono minorem ueteres quidem semitonium
uocitare uoluerunt. Sed non ita accipiendum est ut dimidius
tonus putetur, quia nec semiuocalem in litteris pro medietate
uocalis accipimus. 2 2 . Deinde tonus per naturam sui in duo
diuidi sibi aequa non poterit. Cum enim ex nouenario numero
constet, nouem autem numquam aequaliter diuidantur, tonus
in duas diuidi medietates recusat. Sed semitonium uocitaue-
runt sonum tono minorem, quem tam paruo distare a tono
deprehensum est quantum hi duo numeri inter se distant, id
est ducenta quadraginta tria et ducenta quinquaginta sex. 23.
Hoc semitonium Pythagorici quidem ueteres S ieoiv nomina­
bant, sed sequens usus sonum semitonio minorem Sieaiv con­
stituit nominandum. Plato semitonium AeTnwa uocitauit.
24. Sunt igitur symphoniae quinque id est Sta Teaaapcov,
Sia t t é v t e , Sta T T a a c ó v , Sia TTaacòv K a ì Sta t t é v t e , xai Sis
Sia T T a a c o v . Sed hic numerus symphoniarum ad musicam per­
tinet quem uel flatus humanus intendere uel capere potest
humanus auditus. Vitro autem se tendit harmoniae caelestis
accessio, id est usque ad quater Sta T t a a c ó v Kai Sia t t é v t e .
Nunc interim de his quas nominauimus disseramus. 25.
Symphonia Sia TEOaapcov constat de duobus tonis et hemito-
Tale doppia genera l’accordo che porta il nome di Sia T r a o c ò v
[ottava]. 18. La tripla, poi, è il rapporto che si verifica tra due
numeri quando il maggiore contiene esattamente tre volte il
minore, o che stanno l'uno all’altro come tre rispetto a uno. È
da questo rapporto che proviene l’accordo denominato Sia
Traocòv k cù Sia t t é v t e [ottava più quinta]. 19. La quadrupla
è il rapporto che si ha quando, dati due numeri, il maggiore
contiene quattro volte il minore, come quattro rispetto a uno.
Questo rapporto costituisce l’accordo che si chiama 8 \g Sia
Traocòv [doppia ottava]12. 20. L’epogdo è un numero che con­
tiene un numero minore e in più l’ottava parte di quest’ultimo;
tale è il rapporto di nove rispetto ad otto, perché nel nove c’è
l’otto e l’ottava parte di otto, ossia uno. Questo numero gene­
ra un intervallo che i musici designarono con il nome di TÓvos
[tono] 13.
2 1 . Gli Antichi vollero inoltre chiamare semitono il suono
inferiore al tono 14. Ma guardiamoci bene dal credere che si
tratti della metà di un tono, come del resto, in grammatica, non
consideriamo la semivocale come la metà di una vocale 15. 2 2 .
E poi il tono per sua natura non potrà essere diviso in due parti
uguali, poiché ha per base il numero nove, e il nove non è divi­
sibile per due; quindi il tono rifiuta la divisione in due. Ciò che
fu chiamato semitono, è l’intervallo, inferiore al tono, che si è
dimostrato essere così poco distante dal tono quanto lo sono
l’uno dall’altro i due numeri duecentoquarantatre e duecento-
cinquantasei. 16 23. Gli antichi Pitagorici chiamavano questo
semitono S i E O i g [diesis], ma l’uso posteriore stabilì di chiama­
re Sieois l’intervallo inferiore al semitono. Platone chiamò il
semitono Aerina [limma]. 17
24. Vi sono pertanto cinque accordi, vale a dire: Sia t e o -
a à p c o v [quarta], Sia t t é v t e [quinta], Sia Traocòv [ottava],
Sia Traocòv K a i Sia t t é v t e [ottava più quinta], Sì$ Sia
Traocòv [doppia ottava]. Ma questo numero d’accordi riguar­
da solo la musica che la voce umana può produrre o che l’orec­
chio umano può afferrare. 18 L’armonia celeste, però, va ben di
là da questi limiti, poiché giunge fino a quattro volte il Sia
Traocòv K a i Sia t t é v t e [quattro ottave più una quinta]. 19
Per adesso analizziamo gli accordi che abbiamo nominato.
25. L’accordo Sia T E o o à p c o v [di quarta] consta in due toni e
2. 1. Hinc Plato, postquam et Pythagoricae successione
doctrinae et ingenii proprii diuina profunditate cognouit nul­
lam esse posse sine his numeris iugabilem competentiam, in
Timaeo suo mundi animam per istorum numerorum contextio­
nem ineffabili prouidentia dei fabricatoris instituit. Cuius sen­
sus, si huic operi fuerit adpositus, plurimum nos ad uerborum
Ciceronis, quae circa disciplinam musicae uidentur obscura,
intellectum iuuabit. 2 . Sed ne quod in patrocinium alterius
expositionis adhibetur ipsum per se difficile credatur, pauca
nobis praemittenda sunt quae simul utriusque intellegentiam
faciant lucidiorem.
3. Omne solidum corpus trina dimensione distenditur.
Habet enim longitudinem, latitudinem, profunditatem, nec
potest inueniri in quolibet corpore quarta dimensio, sed his tri­
bus omne corpus solidum continetur. 4. Geometrae tamen alia
sibi corpora proponunt quae appellant mathematica, cogitatio­
ni tantum subicienda, non sensui. Dicunt enim punctum cor­
pus esse indiuiduum in quo neque longitudo, neque latitudo,
nec altitudo deprehendatur, quippe quod in nullas partes diui­
di possit. 5. Hoc protractum efficit lineam, id est corpus unius
dimensionis. Longum est enim, sine lato, sine alto, et duobus
punctis ex utraque parte solam longitudinem terminantibus
continetur. 6 . Hanc lineam si geminaueris, alterum mathemati­
cum corpus efficies, quod duabus dimensionibus aestimatur,
longo latoque, sed alto caret. Et hoc est quod apud illos super­
ficies uocatur. Punctis autem quattuor continetur, id est per
singulas lineas binis. 7. Si uero hae duae lineae fuerint duplica­
tae, ut subiectis duabus duae superponantur, adidetur profun­
ditas, et hinc solidum corpus efficitur, quod sine dubio octo
angulis continebitur: quod uidemus in tessera, quae Graeco
nomine KÙ(3og uocatur.
8. His geometricis rationibus adplicatur natura numero­
rum, et monas punctum putatur, quia sicut punctum, corpus
non est, sed ex se facit corpora: ita monas numerus esse non
dicitur, sed origo numerorum. 9. Primus ergo numerus in duo­
bus est, qui similis est lineae de puncto sub gemina puncti ter-
2. 1. Poi Platone, che aveva riconosciuto, grazie al retaggio
della dottrina pitagorica e alla divina profondità del suo genio,
che, senza questi numeri, non ci può essere alcun rapporto di
proporzione 21, nel suo Timeo formò l’Anima del Mondo attra­
verso la composizione di questi numeri grazie all'ineffabile
provvidenza del divino demiurgo 22. Il suo pensiero, se sarà
applicato a quest’opera, ci gioverà notevolmente nella com­
prensione dei termini di Cicerone, che, per quanto riguarda la
parte teorica della musica, sembrano oscuri. 2. Ma, per evitare
che quanto allegato a chiarimento dell’altra esposizione non sia
di per sé considerato difficile, dobbiamo premettere qualche
breve spiegazione che serva a renderli entrambi e contempora­
neamente più chiari.
3. Ogni solido si estende in tre dimensioni: lunghezza, lar­
ghezza e profondità. 23 Non c’è alcun corpo solido in natura
che possa presentare una quarta dimensione, ma ogni corpo
solido è compreso in queste tre. 4. Tuttavia i geometri ipotizza­
no altri corpi che chiamano matematici e che, non cadendo
sotto i sensi, appartengono solamente all’intelligibile 24. Infatti
essi dicono che il punto è un corpo indivisibile, in cui, per il
fatto che è impossibile dividerlo in parti, non si riscontrano né
lunghezza, né larghezza, né altezza 25. 5. Il prolungamento del
punto forma la linea, cioè un corpo a una dimensione: infatti
questo corpo si estende soltanto in lunghezza, senza larghezza
né altezza, ed è contenuto fra due punti che delimitano alle due
estremità la sola lunghezza. 6 . Se tracciate una seconda linea
contigua alla prima, avrete un altro corpo matematico, misura­
bile secondo due dimensioni, lunghezza e larghezza, ma privo
di profondità: lo si chiama, presso i geometri, superficie. Essa
è compresa tra quattro punti, due per ciascuna linea. 7. Se si
raddoppiano queste due linee in modo da porre due altre linee
sopra le due sottostanti, ne risulterà la profondità e si otterrà
così un solido, limitato, evidentemente, da otto angoli, come si
vede nel dado che in greco è chiamato ku (3o $ [cu b o]26.
8. La natura dei numeri si applica a queste relazioni geome­
triche e la monade diviene il punto, perché, come il punto, non
è un corpo ma realizza a partire da sé i corpi: così si dice che la
monade non è un numero, bensì l’origine dei numeri 27. 9. Il
primo numero, quindi, è il due, che è simile alla linea, prodot-
minatione productae. Hic numerus duo geminatus de se efficit
quattuor, ad similitudinem mathematici corporis, quod sub
quattuor punctis longo latoque distenditur. 10. Quaternarius
quoque ipse geminatus octo efficit, qui numerus solidum cor­
pus imitatur, sicut duas lineas diximus duabus superpositas
octo angulorum dimensione integram corporis soliditatem
creare; et hoc est quod apud geometras dicitur bis bina bis cor­
pus esse iam solidum. 1 1 . Ergo a pari numero accessio usque
ad octo soliditas est corporis; ideo inter principia huic numero
plenitudinem deputauit.
Nunc oportet ex impari quoque numero quem ad modum
idem efficiatur inspicere. 1 2 . Et quia tam paris quam imparis
numeri monas origo est, ternarius numerus prima linea esse
credatur. Hic triplicatus nouenarium numerum facit, qui et
ipse quasi de duabus lineis longum latumque corpus efficit,
sicut quaternarius, secundus de paribus, effecit. Item nouena-
rius triplicatus tertiam dimensionem praestat. Et ita a parte
imparis numeri in uiginti septem, quae sunt ter terna ter, soli­
dum corpus efficitur, sicut in numero pari bis bina bis, qui est
octonarius, soliditatem creauit. 13. Ergo, ad efficiendum utro-
bique solidum corpus, monas necessaria est et sex alii numeri,
id est terni a pari et impari: a pari quidem duo, quattuor, octo,
ab impari autem tria, nouem, uiginti septem.
14. Timaeus igitur Platonis, in fabricanda mundi anima
consilium diuinitatis enuntians, ait illam per hos numeros fuis­
se contextam, qui et a pari et ab impari cybum, id est perfec­
tionem soliditatis, efficiunt, non quia aliquid significaret illam
habere corporeum, sed, ut possit uniuersitatem animando
penetrare et mundi solidum corpus implere, per numeros soli­
ditatis effecta est.
15. Nunc ad ipsa Platonis uerba ueniamus. Nam, cum de
deo animam mundi fabricante loqueretur, ait: «Primam ex
omni fermento partem tulit; hinc sumpsit duplam partem prio­
ris, tertiam uero secundae hemioliam, sed primae triplam, et
quartam duplam secundae, quintam tertiae triplam, sextam
ta dall’estensione del punto e doppiamente delimitata da un
punto. Il numero due, raddoppiato, dà il numero quattro, che
si può assimilare al corpo matematico limitato da quattro punti
che si estende in lunghezza e in larghezza. 1 0 . Raddoppiando
il quattro, si ottiene il numero otto che può essere paragonato
al solido poiché, come abbiamo già detto, due linee sovrappo­
ste a due altre linee producono un corpo solido completo,
compreso tra otto angoli; è ciò che esprimono i geometri
dicendo che due volte due volte due formano ormai un corpo
solido. 1 1 . La solidità di un corpo risulta dunque da una pro­
gressione, a partire dal numero pari, fino all’otto; così, Cice­
rone attribuì a questo numero la pienezza tra i primi2S.
Occorre adesso vedere come la medesima cosa si realizzi
partendo dal numero dispari. 12. Poiché la monade è l’origine
tanto del numero pari che del numero dispari29, il numero tre
va considerato come la prima linea. Triplicandolo, si ottiene
nove; e questo a sua volta, com’era nel caso delle due linee, pro­
duce un corpo lungo e largo, allo stesso modo del quattro che
è il secondo dei numeri pari. Parallelamente il nove moltiplica­
to per tre fornisce la terza dimensione. Così, tra i numeri di­
spari, si ottiene un corpo solido con ventisette, che è tre volte
tre volte tre, come nel numero pari due volte due volte due,
ossia otto, crea un corpo solido30. 13. Ne consegue dunque che
per produrre, in ciascuna serie, un corpo solido è necessaria la
monade e sei altri numeri, tre tra i pari e tre tra Ì dispari: per i
pari, due, quattro e otto, per i dispari, tre, nove e ventisette31.
14. Così, quando il Timeo 32 di Platone ci spiega il criterio
seguito dalla divinità nel procedere alla formazione dell’Anima
del Mondo, dice che fu tessuta di quei numeri che dal pari e
dal dispari formano il cubo, cioè la perfezione della solidità.
Non perché volle significare che l’Anima ha qualcosa di corpo­
reo, bensì che, affinché possa compenetrare l’universo animan­
dolo e riempiendo il corpo solido del mondo, l’Anima è stata
costituita per mezzo di numeri che conferiscono la solidità.
15. Veniamo ora alle parole stesse di Platone. Infatti, par­
lando del dio occupato a fabbricare PAnima del Mondo, dice:
«Tolse la prima parte da questo caotico fermento, poi una
parte doppia della prima; ne tolse quindi una terza, emiolio
della seconda ma tripla rispetto alla prima; una quarta parte,
primae octuplam et septimam uicies septies a prima multipli­
catam. Post hoc spatia, quae inter duplos et triplos numeros
hiabant, insertis partibus adimplebat, ut binae medietates sin­
gula spatia colligarent, ex quibus uinculis hemiolii et epitriti et
epogdoi nascebantur».
16. Haec Platonis uerba ita a non nullis excepta sunt ut pri­
mam partem monada crederent; secundam, quam dixi duplam
prioris, dualem numerum esse confiderent; tertiam, ternarium
numerum, qui ad duo hemiolius est, ad unum triplus; et quar­
tam, quattuor, qui ad secundum, id est ad duo, duplus est;
quintam, nouenarium, qui ad tertium, id est ad tria, triplus est;
sextam autem, octonarium, qui primum octies continet; at
uero pars septima in uiginti et septem fuit, quae faciunt, ut
diximus, augmentum tertium imparis numeri. 17. Alternis
enim, ut animaduertere facile est, processit illa contextio, ut
post monadem, quae et par et impar est, primus par numerus
poneretur, id est duo; deinde sequeretur primus impar, id est
tria; quarto loco secundus par, id est quattuor; quinto loco
secundus impar, id est nouem; sexto loco tertius par, id est
octo; septimo loco tertius impar, id est uiginti et septem, ut,
quia impar numerus mas habetur et par femina, ex pari et
impari, id est ex mare et femina, nasceretur, quae erat uniuer-
sa paritura, et ad utriusque soliditatem usque procederet, quasi
solidum omne penetratura.
18. Deinde ex his numeris fuerat componenda, qui soli con­
tinent iugabilem competentiam, quia omni mundo ipsa erat
iugabilem praestatura concordiam. Nam duo ad unum dupla
sunt: de duplo autem 8 ià iraacòv symphoniam nasci iam dixi­
mus; tria uero ad duo hemiolium numerum faciunt: hinc oritur
8 ià t t e v t e ; quattuor ad tria epitritus numerus est: ex hoc com­
ponitur 5 tà T E aaàp cov; item quattuor ad unum in quadrupli
ratione censentur, ex quo symphonia 615 8 ià Ttaocov nascitur.
19. Ergo mundi anima, quae ad motum hoc quod uidemus
uniuersitatis corpus impellit, contexta numeris musicam de se
creantibus concinentiam, necesse est ut sonos musicos de motu
quem proprio impulsu praestat efficiat, quorum originem in
doppia delia seconda; una quinta, tripla della terza, una sesta,
ottupla della prima, e una settima, ventisette volte moltiplicata
la prima. 33 Dopo di ciò riempì gli intervalli che lasciavano tra
essi i numeri doppi e tripli, inserendovi delle parti in modo che
i singoli intervalli si trovassero legati da due medietà; questi
legami generarono gli emioli, gli epitriti e gli epogdoi 34».
16. Queste espressioni di Platone sono state interpretate da
parecchie persone nel modo seguente: la prima parte è la
monade; la seconda — che Platone disse doppia della prima —
è il numero due; la terza è il numero tre, emiolio di due e tri­
plo dell’unità; la quarta è il numero quattro, doppio di due; la
quinta è il nove, triplo di tre; la sesta è l’otto che contiene otto
volte l’unità; la settima parte è infine il numero ventisette, che,
come si è detto, è il terzo aumento nella serie dispari. 17. Come
è facile capire, in questa tessitura, i numeri pari si alternano coi
dispari; dopo la monade, che è insieme pari e dispari, viene il
due, primo numero pari; poi il tre, primo dispari; al quarto
posto il quattro, secondo pari; in quinta posizione il nove,
secondo dispari; al sesto posto l’otto, terzo pari; al settimo
posto segue il ventisette, terzo dispari; così, poiché il numero
dispari è ritenuto maschio ed il numero pari femmina, l’Anima
nasceva dal pari e dal dispari, cioè dal maschile e dal femmini­
le, poiché era destinata a generare l’universo e in ciascuna di
queste due serie giungeva alla solidità, destinata com’era a
compenetrare ogni corpo solido.
18. Occorreva, per di più, che fosse formata dei soli nume­
ri implicanti un rapporto di proporzione, essendo destinata ad
offrire un’armonia unificante all’universo intero. Infatti, due è
il doppio di uno: ora, il doppio, come abbiamo già indicato,
genera l’accordo Sia iraacóv [l’ottava]; il tre forma con due
un rapporto emiolio, che fa nascere il Sia t t é v t e [la quinta];
quattro e tre danno un rapporto epitrito, da cui si forma il Sia
TEooàpcov [la quarta]; allo stesso modo si misura tra il quat­
tro e l’uno un rapporto quadruplo, da cui scaturisce l’accordo
5ì$ 5 là Traacóv [la doppia ottava]. 19. Così l’Anima del
Mondo, che spinge al moto il corpo dell’universo come noi lo
vediamo, è stata intessuta per mezzo di numeri che generano
da se stessi l’armonia musicale, in modo da realizzare, dal
movimento al quale imprime il proprio impulso, dei suoni
fabrica suae contextionis inuenit. 2 0 . Ait enim Plato, ut supra
rettulimus, auctorem animae deum, post numerorum inter se
imparium contextionem, hemioliis, epitritis et epogdois et lim­
mate hiantia interualla supplesse.
21. Ideo doctissime Tullius in uerbis suis ostendit Platonici
dogmatis profunditatem. « “Quid hic”, inquam, “quis est qui
complet aures meas tantus et tam dulcis sonus?” “Hic est”,
inquit, “ille qui interuallis disiunctus imparibus sed tamen pro
rata parte ratione distinctis, impulsu et motu ipsorum orbium
efficitur”». 22. Vides ut interualla commemorat, et haec inter se
imparia esse testatur, nec diffitetur rata ratione distincta, quia
secundum Timaeum Platonis imparium inter se interualla
numerorum ratis ad se numeris, hemioliis scilicet, epitritis et
epogdois hemitoniisque distincta sunt, quibus omnis canora
ratio continetur. 23. Hinc enim animaduertitur quia haec
uerba Ciceronis numquam profecto ad intellectum paterent
nisi hemioliorum, epitritorum et epogdoorum ratione praemis­
sa, quibus interualla distincta sunt, et nisi Platonicis numeris,
quibus mundi anima est contexta, patefactis, et ratione prae­
missa cur ex numeris musicam creantibus anima intexta sit. 24.
Haec enim omnia et causam mundani motus ostendunt, quem
solus animae praestat impulsus, et necessitatem musicae conci-
nentiae, quam motui a se facto inserit anima innatam sibi ab
origine.
armoniosi, la cui origine ha trovato nel modo di composizione
della propria opera. 20. Dice infatti Platone, come abbiamo
appena riferito, che il dio autore dell’Anima, dopo aver intes­
suto tra essi dei numeri ineguali, colmò gli intervalli rimasti
vuoti con emioli, epitriti, epogdoi e semitoni.
21. Perciò il dottissimo Tullio Cicerone, nelle sue parole,
mostra la profondità della somma dottrina platonica: « “Ma che
suono è questo, così intenso e armonioso, che riempie le mie
orecchie?” dissi. “È il suono”, rispose, “che separato in funzione
d’intervalli ineguali, eppure distinti da una razionale proporzio­
ne, è cagionato dalla spinta e dal moto delle sfere stesse"». 2 2 .
Come vedi fa menzione degli intervalli e attesta che questi sono
ineguali tra essi, senza per altro contestare che siano caratteriz­
zati da un sistema razionale, perché, secondo il Timeo di
Platone, gli intervalli tra i numeri ineguali sono distinti da rap­
porti numerici proporzionali, quali gli emioli, gli epitriti, gli
epogdoi e i semitoni, che costituiscono l’insieme di ogni tipo di
armonia. 23. Si capisce bene da questo passo che sarebbe stato
impossibile comprendere il valore delle espressioni di Cice­
rone, se non le avessimo fatte precedere da una discussione sul
sistema degli emioli, gli epitriti e gli epogdoi, che distinguono
gli intervalli, e non si fossero spiegati i numeri che, secondo
Platone, sono entrati nella composizione dell’Anima del
Mondo e se non avessimo fatto conoscere la ragione per la
quale la struttura dell’Anima è stata ordita con Ì numeri che
creano la musica. 24. L’insieme di queste spiegazioni, infatti, ci
dà un’idea precisa sia della causa del moto dell’universo, dovu­
to al solo impulso dell’Anima, sia della necessità dell’armonia
musicale che l’Anima imprime al movimento nato da essa,
armonia che era in sé innata, fin dall'origine.

Fig. 26
Diagramma nell'incisione a stampa dell’edizione latina di
Macrobius, In Somnium Scipionis, Angeli Britannici, Brixiae, 1501.
3. 1. Hinc Plato in Re publica sua, cum de sphaerarum cae­
lestium uolubilitate tractaret, singulas ait Sirenas singulis orbi­
bus insidere, significans sphaerarum motu cantum numinibus
exhiberi. Nam Siren ‘deo canens’ Graeco intellectu ualet.
Theologi quoque nouem Musas octo sphaerarum musicos
cantus et unam maximam concinentiam, quae confit ex omni­
bus, esse uoluerunt. 2 . Vnde Hesiodus in Theogonia sua
octauam Musam Vraniam uocat, quia post septem uagas, quae
subiectae sunt, octaua stellifera sphaera superposita proprio
nomine caelum uocatur; et, ut ostenderet nonam esse et maxi­
mam, quam conficit sonorum concors uniuersitas, adiecit:
KaXAió-mn 0’n Sri T rp o c p E p E O T cc rT i è o t 'iv cmaaÉcov,

ex nomine ostendens ipsam uocis dulcedinem nonam Musam


uocari, nam KaÀÀióirri optimae uocis' Graeca interpretatio
est; et, ut ipsam esse quae confit ex omnibus pressius indicaret,
adsignauit illi uniuersitatis uocabulum : fj 5ri TTp0 <pEp£0 TCCTT|
Èot'iv àfraoscov. 3. Nam et Apollinem ideo Mouar}yÉTr)v
uocant, quasi ducem et principem orbium ceterorum, ut ipse
Cicero refert: «dux et princeps et moderator luminum reliquo­
rum, mens mundi et temperatio». 4. Musas esse mundi cantum
etiam Etrusci sciunt, qui eas ‘Camenas’, quasi ‘Canenas’ a
canendo dixeruut.
Ideo canere caelum etiam theologi comprobantes sonos
musicos sacrificiis adhibuerunt, qui apud alios lyra uel cithara,
apud non nullos tibiis aliisue musicis instrumentis fieri sole­
bant. 5. In ipsis quoque hymnis deorum, per stropham et anti-
stropham metra canoris uersibus adhibehantur, ut per stro­
pham rectus orbis stelliferi motus, per antistropham diuersus
uagarum regressus praedicaretur, ex quibus duobus motibus
3. 1. Per questo Platone, nella sua Repubblica, dove tratta
della rivoluzione delle sfere celesti, dice che su ciascuna di esse
c ’è una sirena che vi ha sede, volendo dire con ciò che il movi­
mento delle sfere produce un canto agli dèi. 35 Infatti la parola
sirena è, nell’accezione greca, l’equivalente di colei che canta
per la divinità. 36
Anche i teologi hanno inteso con le nove Muse gli accenti
melodiosi delle otto sfere celesti con il supremo accordo unico
che risulta dal tutto. 37 2 . Ecco perché Esiodo, nella sua
Teogonia, dà all’ottava musa il nome di Urania38: perché, dopo
le sette sfere erranti, che sono poste di sotto a essa, l’ottava, la
sfera stellare che sta loro di sopra, è il cielo propriamente
detto; e, per farci intendere che ce n’è una nona, più grande di
tutte, che risulta dall’unione di tutte le armonie assieme,
aggiunge:
KaXXióiTTì 0’f| Sri T rp c x p E p E O T c n T i è c j t i v àiraoécov ,
[Calliope: è questa fra tutte egregia] 39

significando con questo nome che la nona Musa è designata


dalla dolcezza stessa della voce: Calliope significa infatti, in
greco, «dotata di bellissima voce» 40; e per indicare espressa-
mente che è un insieme armonico risultante da tutte le altre, il
poeta le assegna un’espressione che indica l’universalità: 8 r]
TrpocpspEOTCCTT) ècrrìv cxttocoecov [è fra tutte egregia]. 3. E in
seguito a ciò che Apollo ha ricevuto il nome di Mouarj-
yÉTTjs41, considerandolo come guida e signore di tutte le altre
sfere, perché è, come riferisce lo stesso Cicerone: «guida,
sovrano e regolatore di tutti gli astri\ mente e moderatore dell’u­
niverso» 42.
4. Che le Muse rappresentino il canto dell’universo, lo
sanno anche gli Etruschi, che le chiamarono Camene, come a
dire «Canene», derivante dal verbo canere [cantare] . 43
Per questo motivo i teologi ancora 44, confermando l’idea
che il cielo canta, introdussero nei sacrifici della musica, che
era solita accompagnarli, presso alcuni, con la lira o la cetra, e,
presso altri, con delle tìbie 45 o altri strumenti a fiato. 5. Anche
in questi inni in onore degli dèi i metri erano applicati per stro­
fe ed antistrofe, a versi cantati, con la strofe che celebrava il
movimento diretto del cielo delle stelle fisse e l’antistrofe la
varietà dei movimenti retrogradi dei corpi erranti: da questi
primus in natura hymnus dicandus deo sumpsit exordium. 6 .
Mortuos quoque ad sepulturam prosequi oportere cum cantu
plurimarum gentium uel regionum instituta sanxerunt, persua­
sione hac, qua post corpus animae ad originem dulcedinis
musicae, id est ad caelum, redire credantur.
7. Nam ideo in hac uita omnis anima musicis sonis capitur,
ut non soli qui sunt habitu cultiores, uerum uniuersae quoque
barbarae nationes cantus, quibus uel ad ardorem uirtutis ani­
mentur, uel ad mollitiem uoluptatis resoluantur, exerceant,
quia in corpus defert memoriam musicae cuius in caelo fuit
conscia, et ita delenimentis canticis occupatur ut nullum sit
tam immite, tam asperum pectus, quod non oblectamentorum
talium teneatur affectu. 8 . Hinc aestimo et Orphei uel
Amphionis fabulam, quorum alter animalia ratione carentia,
alter saxa quoque trahere cantibus ferebantur, sumpsisse prin­
cipium, quia primi forte gentes uel sine rationis cultu barbaras,
uel saxi instar nullo affectu molles, ad sensum uoluptatis
canendo traxerunt.
9. Ita denique omnis habitus animae cantibus gubernatur,
ut et ad bellum progressui et item receptui canatur, cantu et
excitante et rursus sedante uirtutem.
Dat somnos adim itque...,

nec non curas et immittit et retrahit, iram suggerit, clementiam


suadet, corporum quoque morbis medetur, nam hinc est quod
aegris remedia praestantes praecinere dicuntur. 10. Et quid
mirum si inter homines musicae tanta dominatio est, cum aues
quoque, ut lusciniae, ut cygni aliaeue id genus, cantum ueluti
quadam disciplina artis exerceant, nonnullae uero uel aues uel
terrenae seu aquatiles beluae, inuitante cantu, in retia sponte
decurrant, et pastoralis fistula pastum progressis quietem
imperet gregibus? Nec mirum. 1 1 . Inesse enim mundanae ani­
mae causas musicae, quibus est intexta, praediximus. Ipsa
due movimenti ebbe inizio nella natura il primo inno consacra­
to alla Divinità. 46 6 . Le istituzioni di parecchie nazioni e reli­
gioni sancirono altresì che i defunti dovessero essere accompa­
gnati alla sepoltura col canto 47: nella convinzione che le anime,
all’uscita dal corpo, ritornassero, come credevano, all’origine
della dolcezza musicale, ossia al cielo.
7. E difatti, in questa vita ogni anima è preda dei suoni musi­
cali; tanto che non solo gli uomini civilizzati, ma anche tutte
quante le popolazioni barbare ricorrono a canti per stimolare
l’ardore del loro coraggio e per abbandonarsi ai languori della
voluttà: è perché l’anima porta nel corpo il ricordo della musi­
ca che ha conosciuto in cielo e si lascia talmente impadronire
dalle seduzioni del canto che non c’è cuore così feroce, così
rozzo che tali delizie non colmino d’emozione. 8 . E ciò, a mio
giudizio, che ha dato adito ai miti di Orfeo o di Amfione 48 che
con i loro canti, come si racconta, traevano a loro, il primo gli
animali privi di ragione, l’altro persino le pietre: è probabile che
siano stati i primi che, con la musica, indussero ad un sentimen­
to di piacere genti barbare, estranee all’uso della ragione, oppu­
re fino ad allora incapaci di emozione come la pietra.
9. Ogni disposizione della nostra anima, effettivamente,
obbedisce ai canti a tal punto che in guerra si suona l’ordine
d’attacco e, ugualmente, quello della ritirata, perché il canto
stimola e, al contrario, acquieta l’ardore guerriero 49.
Dà il sonno e lo toglie... ^

ma apporta anche o allontana le preoccupazioni, attizza la col­


lera e persuade alla clemenza, cura perfino le malattie del
corp o51: infatti da qui nasce l’utilizzo del verbo praecinere per
indicare l’attività di chi presta cure ai malati, cominciando con
gli incantesimi. 52 10. D ’altronde, ci si deve meravigliare del
grande potere che la musica esercita sull’uomo, quando si
vedono anche uccelli come gli usignoli, i cigni53 e altri di que­
sta specie, mettere una certa arte nel praticare il canto, quan­
do, tra gli animali che vivono nell’aria, nell’acqua e sulla terra,
alcuni vengono a gettarsi spontaneamente nelle reti, attratti dai
suoni, quando la zampogna del pastore mantiene in tranquilli­
tà le greggi che si recano ai pascoli? Non c’è niente di sorpren­
dente. 1 1 . Come abbiamo detto le cause della musica, infatti,
sono innate nell’Anima del Mondo, di cui intessono la struttu-
autem mundi anima uiuentibus omnibus uitam ministrat:
Hinc hominum pecudumque genus uitaeque uolantum
E t quae marmoreo fert monstra sub aequore pontus.

Iure igitur musica capitur omne quod uiuit, quia caelestis


anima, qua animatur uniuersitas, originem sumpsit ex musica.
1 2 . Haec, dum ad sphaeralem motum mundi corpus impellit,
sonum efficit qui «interuallis» est «disiunctus imparibus sed
tamen pro rata parte ratione distinctis», sicut a principio ipsa
contexta est. Sed haec interualla, quae in anima, quippe incor­
porea, sola aestimantur ratione, non sensu, quaerendum est
utrum et in ipso mundi corpore dimensio librata seruauerit.
13. Et Archimedes quidem stadiorum numerum deprehendis­
se se credidit quibus a terrae superficie luna distaret, et a luna
Mercurius, a Mercurio Venus, sol a Venere, Mars a sole, a
Marte Iuppiter, Saturnus a Ioue; sed et a Saturni orbe usque ad
ipsum stelliferum caelum omne spatium se ratione mensum
putauit. 14. Quae tamen Archimedis dimensio a Platonicis
repudiata est, quasi dupla et tripla interualla non seruans; et
statuerunt hoc esse credendum, ut, quantum est a terra usque
ad lunam, duplum sit a terra usque ad solem; quantumque est
a terra usque ad solem, triplum sit a terra usque ad Venerem;
quantumque est a terra usque ad Venerem, quater tantum sit a
terra usque ad Mercurii stellam; quantumque est ad
Mercurium a terra, nouies tantum sit a terra usque ad Martem;
et quantum a terra usque ad Martem est, octies tantum sit a
terra usque ad Iouem; quantumque est a terra usque ad Iouem,
septies et uicies tantum sit a terra usque ad Saturni orbem.
15. Hanc Platonicorum persuasionem Porphyrius libris
inseruit quibus Timaei obscuritatibus nonnihil lucis infudit,
aitque eos credere ad imaginem contextionis animae haec esse
in corpore mundi interualla, quae epitritis, hemioliis, epogdois,
hemitoniisque complentur et limmate, et ita prouenire concen­
tum cuius ratio, in substantia animae contexta, mundano quo-
ra. La stessa Anima del Mondo provvede poi alla vita di tutti
gli esseri viventi:
Di qui la razza degli uomini e gli armenti e gli uccelli
E i mostri che genera il mare sotto la marmorea distesa. 54

A buon diritto, tutto deve essere, dunque, soggiogato al


potere della musica, poiché l’Anima celeste, che tutto anima,
deve la sua origine alla musica. 1 2 . Quando imprime al corpo
dell’universo un movimento sferico, l’anima produce un suono
che è «separato in funzione d'intervalli ineguali, eppure distinti
da una razionale proporzione», come essa stessa fu da principio
intessuta. Ma questi intervalli, che, nell’Anima, in quanto
incorporea, sono soltanto intelligibili e non sensibili, bisogna
cercare di capire se una dimensione equilibrata li ha conserva­
ti anche nel corpo del mondo. 13. Archimede 55, è vero, crede­
va di avere scoperto il numero di stadi che separano la luna
dalla superficie terrestre, come Mercurio dalla luna, Venere da
Mercurio, il sole da Venere, Marte dal sole, Giove da Marte e
Saturno da Giove; ma anche tutto lo spazio che si estende dal­
l’orbita di Saturno fino al cielo stellato e s’immaginò di averlo
misurato con il calcolo. 14. La misurazione di Archimede fu
tuttavia respinta dai Platonici perché non rispettava gli inter­
valli doppi e tripli56; essi stabilirono che si dovesse credere che
la distanza dalla terra al sole è il doppio di quella dalla terra alla
luna; che la distanza dalla terra a Venere è il triplo di quella
dalla terra al sole; che quella dalla terra alla stella di Mercurio
è quadrupla rispetto a quella dalla terra a Venere; che la distan­
za dalla terra a Marte è uguale a nove volte quella dalla terra a
Mercurio; che la distanza della terra a Giove è otto volte quel­
la dalla terra a Marte; e, infine, che la distanza intercorrente
dalla terra all’orbita di Saturno è uguale a ventisette volte quel­
la dalla terra a Giove 57.
15. Porfirio 58 inserì questa convinzione dei Platonici nei
suoi trattati in cui gettò qualche luce sui punti oscuri del
Timeo. Egli dice che sono convinti che vi siano, a immagine
della struttura dell’Anima del Mondo, nel corpo del mondo gli
intervalli che sono riempiti dagli epitriti, dagli emioli, dagli
epogdoi e dai semitoni e dal limma59, che da ciò nasca l’armo­
nia il cui rapporto, inerente alla sostanza dell’anima, si trova
così inserito nel corpo del mondo, che è messo in movimento
que corpori, quod ab anima mouetur, inserta est. 16. Vnde ex
omni parte docta et perfecta est Ciceronis adsertio, qui «inte-
ruallis imparibus sed tamen pro rata parte ratione distinctis»
caelestem sonum dicit esse disiunctum.
dalTAnima 60. 16. Perciò l’affermazione di Cicerone è dotta e
perfetta in tutte le sue parti quando dichiara che il suono cele­
ste è separato «da intervalli ineguali, eppure distinti da una
razionale proporzione».

Fig. 27
Diagramma del cosmo con le indicazioni degli intervalli musicali
corrispondenti alle distanze tra i corpi celesti e alle loro diverse velo­
cità di rotazione: Terra-Luna, un tono intero; Luna-Mercurio-
Venere, un semitono ciascuno; Venere-Sole, tre semitoni; Sole-Marte,
un tono intero; M arte-Giove-Saturno, un semitono ciascuno;
Saturno-Stelle fisse, tre toni interi. Collezione di manoscritti astrono­
mici, Salzburg, ca. 820.
4. 1 . Nunc locus admonet ut de grauitate et acumine sono­
rum diuersitates quas adserit reuoluamus: «Et natura fert ut
extrema ex altera parte grauiter, ex altera autem acute sonent.
Quam ob causam summus ille caeli stellifer cursus, cuius conuer­
sio est concitatior, acute excitato mouetur sono, granissimo
autem hic lunaris atque infimus».
2 . Diximus numquam sonum fieri nisi aere percusso. Vt
autem sonus ipse aut acutior aut grauior proferatur, ictus effi­
cit qui, dum ingens et celer incidit, acutum sonum praestat, si
tardior lentiorue, grauiorem. 3. Indicio est uirga quae, dum
auras percutit, si impulsu cito feriat, sonum acuit; si lentiore, in
grauius frangit auditum. In fidibus quoque idem uidemus,
quae, si tractu artiore tenduntur, acute sonant, grauius laxio­
res. 4. Ergo et superiores orbes, dum pro amplitudine sua
impetu grandiore uoluuntur, dumque spiritu, ut in origine sua,
fortiore tenduntur, propter ipsam, ut ait, concitatiorem
conuersionem, «acute excitato mouentur sono, granissimo
autem hic lunaris atque infimus», quoniam spiritu, ut in extre­
mitate languescente iam uoluitur, et propter angustias, quibus
penultimus orbis artatur, impetu leniore conuertitur.
5. Nec secus probamus in tibiis, de quarum foraminibus
uicinis inflantis ori sonus acutus emittitur, de longinquis autem
et termino proximis, grauior; item, acutior per patentiora fora­
mina, grauior per angusta. Et utriusque causae ratio una, quia
spiritus, ubi incipit, fortior est, defectior ubi desinit, et quia
maiorem impetum per maius foramen impellit, contra autem
in angustis contingit et eminus positis.
4. X. Questo passo c’induce adesso a ritornare sulle diffe­
renze tra i suoni bassi e i suoni acuti di cui Cicerone assicura:
«E la natura esige che le due estremità risuonino di toni bassi
l’una, acuti l’altra. Ecco perché l’orbita stellare suprema, la cui
rotazione è la più veloce, si muove con suono più acuto e conci­
tato, mentre questa sfera lunare, la più bassa, produce il suono
più grave» 61.
2 . Abbiamo detto che non ci può essere suono se l’aria non
viene percossa 62. Ora, la maggior gravità o la maggior acutez­
za dei suoni dipende dal modo in cui l’aria è sferzata; se il
colpo che riceve è potente e rapido, il suono sarà acuto; sarà
grave, se il colpo vibrato è lento e debole. 3. L’esempio è quel­
lo di una bacchetta che colpisce l’aria; se le s’imprime un movi­
mento veloce, produrrà suono acuto; un movimento vibrato
più lentamente, colpirà l’udito con un tono più basso. Anche
nelle corde sonore constatiamo lo stesso fenomeno: tese molto
strettamente, emettono un suono acuto; con una tensione
meno forte, hanno una sonorità più grave. 4. Quindi anche le
orbite superiori, avendo uno slancio rotatorio più potente 63 in
quanto hanno più massa ed essendo governate da un soffio più
vigoroso in quanto più vicino alla sua origine64, a causa di que­
sta loro stessa rivoluzione più rapida come dice Cicerone «si
muovono con suono più acuto e concitato, mentre questa sfera
lunare, la più bassa, produce il suono più grave», innanzi tutto
perché la rotazione obbedisce ad un soffio ormai indebolito in
quanto si trova giunto all’estremità e anche perché la sua rivo­
luzione è sottomessa ad uno slancio più lento, a causa degli
stretti limiti in cui è confinata dalla sua orbita che occupa la
penultima posizione. 65
5. Le tibie ci offrono assolutamente le stesse particolarità:
dai fori più vicini all’imboccatura provengono dei suoni acuti,
mentre i fori più lontani e vicini all’altra estremità, emettono
un suono più grave; allo stesso modo dai fori più ampi esce un
suono più acuto, da quelli più stretti se ne trae un suono più
basso. In entrambi i casi la spiegazione è la stessa: il soffio è più
forte appena emesso, mentre s’indebolisce al suo termine, e,
inoltre, esce con maggior impeto attraverso fori più ampi, men­
tre accade il contrario se il soffio esce da fori stretti e posti lon­
tano dall’imboccatura. 66
6 . Ergo orbis altissimus, et ut in immensum patens, et ut
spiritu eo fortiore quo origini suae uicinior est incitatus, sono­
rum de se acumen emittit; uox ultimi et pro spatii breuitate et
pro longinquitate iam frangitur. 7. Hinc quoque apertius
adprobatur spiritum, quanto ab origine sua deorsum recedit,
tanto circa impulsum fieri leniorem, ut circa terram, quae ulti­
ma sphaerarum est, tam concretus, tam densus habeatur, ut
causa sit terrae in una sede semper haerendi, nec in quamlibet
partem permittatur moueri, obsessa undique circumfusi spiri­
tus densitate; in sphaera autem ultimum locum esse qui medius
est, antecedentibus iam probatum est.
8. Ergo uniuersi mundani corporis sphaerae nouem sunt.
Prima, illa stellifera, quae proprio nomine caelum dicitur et
ÒTTÀavris apud Graecos uocatur, «arcens et continens ceteras».
Haec ab oriente semper uoluitur in occasum; subiectae sep­
tem, quas uagas dicimus, ab occidente in orientem feruntur;
nona, terra, sine motu. 9. Octo sunt igitur quae mouentur, sed
septem soni sunt qui concinentiam de uolubilitate conficiunt,
propterea quia Mercurialis et Venerius orbis, pari ambitu
comitati solem, uiae eius tamquam satellites obsequuntur, et
ideo a nonnullis astronomiae studentibus eandem uim sortiti
existimantur. Vnde ait: «Illi autem octo cursus in quibus eadem
uis est duorum, septem efficiunt distinctos interuallis sonos: qui
numerus rerum omnium fere nodus est».
10. Septenarium autem numerum rerum omnium nodum
esse plene, cum de numeris superius loqueremur, expressimus;
ad illuminandam, ut aestimo, obscuritatem uerborum Cice­
ronis de musica, tractatus succinctus a nobis qua licuit breuita­
te sufficiet. 11. Nam netas et hypatas aliarum que fidium uoca-
bula percurrere, et tonorum uel limmatum minuta subtilia, et
quid in sonis pro littera, quid pro syllaba, quid pro integro
6 . Perciò l’orbita più elevata, d’immense dimensioni e che
compie la sua rivoluzione spinta da un soffio tanto più forte
quanto è più vicino alla sua origine, emette il più acuto dei
suoni, mentre invece la nota emessa dall’ultima sfera, sia per la
ristrettezza dello spazio che per la lontananza, è la più flebile.
7. Possiamo quindi constatare anche con maggior chiarezza
che il soffio, nella sua spinta, quanto più si allontana dalla sua
origine, tanto più s’indebolisce, al punto che, intorno alla terra,
ultima delle sfere, è così spesso e denso, che, per tal ragione, la
terra resta sempre immobile nella stessa sede e non le è conces­
so muoversi da alcuna parte, oppressa com’è da ogni lato dalla
densità del soffio che la circonda; ora in una sfera il punto più
basso si trova al suo centro, come è stato dimostrato in un capi­
tolo precedente 67.
8. Le sfere dell’intero corpo dell’universo sono dunque
nove. La prima è quella stellata, che chiamiamo propriamente
«cielo» e che tra i Greci prende il nome di cxTTÀavris [immo­
bile], «che rinserra e contiene tutte le altre» 68. Si muove sem­
pre da oriente ad occidente. Le sette sfere collocate sotto di
essa, che chiamiamo «erranti», ruotano da occidente ad orien­
te; la nona, la terra, è senza movimento 69. 9. Otto sono dun­
que le sfere in movimento, ma vi sono solo sette suoni nell’ar­
monia prodotta dalla loro rotazione, perché le orbite di
Mercurio e di Venere, compagni di viaggio del sole in un tra­
gitto d’eguale velocità, seguono i suoi spostamenti come delle
guardie del corpo; perciò, secondo parecchi studiosi d’astro­
nomia, sembrano aver ricevuto la medesima velocità70. Donde
l’affermazione di Cicerone; «le rimanenti otto orbite-, poi, all’in­
terno delle quali due hanno la medesima velocità, producono
sette suoni distinti dai loro intervalli, il cui numero è, per così
dire, il nodo di tutte le cose» 71.
10. Il fatto che il numero sette sia il nodo di tutte le cose è
stato pienamente dimostrato, quando abbiamo parlato in pre­
cedenza dei numeri; 72 per chiarire, a mia opinione, l’oscurità
dei termini ciceroniani riguardanti la musica, la nostra breve
esposizione, concisa quanto era possibile, basterà. 11. Passare
in rassegna le ne te e le hypate 73 e i termini indicanti le altre
corde sonore, come le minute sottigliezze relative ai toni e ai
semitoni, esporre ciò che nei suoni corrisponde alla lettera, alla
nomine accipiatur adserere ostentantis est, non docentis. 12.
Nec enim quia fecit in hoc loco Cicero musicae mentionem,
occasione hac eundum est per uniuersos tractatus qui possunt
esse de musica, quos, quantum mea fert opinio, terminum
habere non aestimo, sed illa sunt persequenda quibus uerba,
quae explananda receperis, possint liquere, quia, in re natura­
liter obscura, qui in exponendo plura quam necesse est super­
fundit addit tenebris, non adimit densitatem.
13. Vnde finem de hac tractatus parte faciemus, adiecto
uno quod scitu dignum putamus, quia, cum sint melodiae
musicae tria genera, enarmonium, diatonum et chromaticum,
primum quidem propter nimiam sui difficultatem ab usu
recessit, tertium uero est infame mollitie, unde medium, id est
diatonum, mundanae musicae doctrina Platonis adscribitur.
14. Nec hoc inter praetereunda ponemus, quod musicam
perpetua caeli uolubilitate nascentem ideo clare non sentimus
auditu, quia maior sonus est quam ut humanarum aurium reci­
piatur angustiis. Nam si Nili Catadupa ab auribus incolarum
amplitudinem fragoris excludunt, quid mirum si nostrum
sonus excedit auditum, quem mundanae molis impulsus emit­
tit? 15. Nec enim de nihilo est quod ait «qui complet aures meas
tantus et tam dulcis sonus», sed uoluit intellegi quod, si eius qui
caelestibus meruit interesse secretis completae aures sunt soni
magnitudine, superest ut ceterorum hominum sensus munda­
nae concinentiae non capiat auditum.

5. 1 . Sed iam tractatum ad sequentia conferamus. « Vides


habitari in terra raris et angustis locis, et in ipsis quasi maculis
uhi habitatur uastas solitudines interiectas} eosque qui incolant
terram non modo interruptos ita esse ut nihil inter ipsos ab aliis
ad alios manare possit, sed partim obliquos, partim transuersos,
sillaba o ad una parola intera 74, si addice a chi vuole mettersi
in mostra e non insegnare. 1 2 . Non è perché Cicerone, in que­
sto passo, ha fatto menzione della musica, che si debba appro-
fittare di questa opportunità per addentrarci in tutti i trattati di
musica esistenti, che, credetemi, sono a non finire. Dobbiamo
limitarci alle nozioni suscettibili di chiarire le espressioni che ci
siamo ripromessi di spiegare: dire più del necessario in simili
argomenti per loro natura oscuri, è ispessire le tenebre invece
di dissiparne la densità.
13. Quindi termineremo questa parte del trattato, aggiun­
gendo solamente una precisazione che, secondo noi, merita di
essere conosciuta: vi sono tre generi di armonia musicale, l’e­
narmonico, il diatonico ed il cromatico: il primo, in realtà, è
caduto in disuso, a causa della sua estrema difficoltà, il terzo
poi è venuto in discredito per la sua fiacchezza: è quello di
mezzo, ossia il genere diatonico, che la dottrina di Platone
assegna alia musica cosmica 75.
14. Una cosa ancora che non dobbiamo dimenticare di dire
è il fatto che se non udiamo distintamente la musica prodotta
dal perpetuo movimento rotatorio del cielo, è a causa dell in-
tensità del suono superiore a quello che può essere percepito
dalle limitate possibilità del nostro orecchio. E difatti, se il
grande frastuono delle cateratte 76 del Nilo resta escluso alle
orecchie degli abitanti vicini, c’è da stupirsi che il rimbombo
prodotto dal movimento della massa cosmica oltrepassi le
nostre facoltà auditive 77 ? 15. Non è dunque senza intenzione
che Scipione dice: «Ma che suono è questo, così intenso e armo­
nioso, che riempie le mie orecchie?». Ha voluto far capire che,
se le orecchie di chi meritò d’essere ammesso a partecipare ai
segreti celesti si trovano riempite dalla grandezza del suono 7S,
indubbiamente la percezione degli altri uomini non può affer­
rare con l’udito l’armonia universale.

5 . 1 . Ma passiamo adesso al commento delle parole seguen­


ti: « Vedi che sulla terra i luoghi abitati sono rari e angusti e che
questa sorta di macchie in cui si risiede è inframmezzata da enor­
mi solitudini e che, inoltre, gli abitanti della terra non solo sono
separati al punto che, tra di loro, nulla può propagarsi dagli uni
agli altri, ma alcuni sono disposti, rispetto a voi, in posizione
partim etiam aduersos stare uobis, a quibus expectare gloriam
certe nullam potestis. 2 . Cernis autem eandem terram quasi qui­
busdam redimitam et circumdatam cingulis, e quibus duos maxi­
me inter se diuersos et caeli uerticibus ipsis ex utraque parte sub­
nixos obriguisse pruina uides, medium autem illum et maximum
solis ardore torreri. 3. Duo sunt habitabiles, quorum australis
ille, in quo qui insistunt aduersa uobis urgent uestigia, nihil ad
uestrum genus; hic autem alter subiectus aquiloni quem incolitis
cerne quam tenui uos parte contingat. Omnis enim terra quae
colitur a uobis, angusta uerticibus, lateribus latior, parua quae­
dam est insula, circumfusa illo mari quod Atlanticum, quod
Magnum, quem Oceanum appellatis in terris; qui tamen tanto
nomine quam sit paruus uides».
4. Postquam caelum quo omnia continentur, et subiectarum
sphaerarum ordinem motumque, ac de motu sonum caelestis
musicae modos et numeros explicantem, et aerem subditum
lunae, Tullianus sermo, per necessaria et praesenti operi apta
ductus, ad terram usque descripsit, ipsius iam terrae descrip­
tionem uerborum parcus, rerum fecundus absoluit. 5. Et enim
maculas habitationum ac de ipsis habitatoribus alios interrup­
tos aduersosque, obliquos etiam et transuersos alios nominan­
do, terrenae sphaerae globositatem tantum non coloribus pin­
xit. 6 . Illud quoque non sine perfectione doctrinae est, quod
cum aliis nos non patitur errare qui terram semel cingi oceano
crediderunt. Nam si dixisset «omnis terra... parua quaedam est
insula circumfusa illo mari...», unum oceani ambitum dedisset
intellegi; sed adiciendo «quae colitur a uobis...», ueram eius
diuisionem, de qua paulo post disseremus, nosse cupientibus
intellegendam reliquit.
7. De quinque autem cingulis ne quaeso aestimes duorum
Romanae facundiae parentum, Maronis et Tullii, dissentire
obliqua, altri trasversale, altri ancora si trovano addirittura
all’opposto. Da essi, non potete di certo attendere alcuna gloria!
2. Nota, d’altro canto, che questa stessa terra è in un certo senso
avvolta e cinta da fasce: due di esse, le più lontane possibili l’una
dall’altra e poste sotto gli stessi poli opposti del cielo, sono asse­
diate-, come vedi, dal ghiaccio e dalla galaverna, mentre la fascia
centrale, la più estesa, è arsa dalla vampa del sole. 3. Due sono le
zone abitabili: di esse l’australe, nella quale gli abitanti lasciano
impronte opposte alle vostre, non ha nulla a che fare con la
vostra razza. Quanto a quest’altra, invece, esposta ad Aquilone,
che abitate voi, guarda in che minima misura vi appartiene.
Infatti tutta la terra che è da voi abitata, stretta ai vertici e più
larga ai lati, è per così dire un isolotto circondato da quel mare
che sulla terra chiamate Atlantico, Mare Magno o Oceano, ma
che, a dispetto del nome altisonante, vedi bene quanto sia minu­
scolo» 79.
4. Cicerone, dopo averci descritto il cielo che avvolge il
mondo intero, l’ordine e il moto delle sfere inferiori, cosi come
il suono dovuto a questo moto, che produce i modi e i numeri
di questa musica celeste, l’aria sottostante la luna, si trova
necessariamente condotto a prendere in esame la descrizione
della terra 80; l’esposizione ciceroniana ci offre una descrizione
della stessa terra81, tanto parca di parole quanto ricca d’imma­
gini. 5. Infatti, quando ci parla delle macchie formate dalle
zone abitate, di questi abitanti separati gli uni dagli altri e
viventi in una posizione diametralmente opposta alla nostra o
che hanno rispettive posizioni sia oblique sia trasversali, dipin­
ge, della sfericità della terra, un quadro al quale non mancano
che i colori82. 6 . Ci rivela ancora la perfezione della sua dottri­
na non permettendoci di cadere, con altri, nell’errore consi­
stente nel credere che terra è avvolta da una sola cinta oceani­
ca 83. Infatti, se avesse detto semplicemente: «tutta la terra . . . è
per così dire un isolotto circondato da quel mare» avrebbe dato
ad intendere che l’oceano faceva il giro di essa una sola volta;
ma aggiungendo «da voi abitata... », ci dà la vera divisione del
globo terrestre, di cui tratteremo oltre 84, e che lascia intende­
re a coloro che sono desiderosi d’istruirsi.
7. Riguardo alle cinque fasce, non credere, ti prego, che le
dottrine dei due grandi padri dell’eloquenza romana, Virgilio e
doctrinam, cum hic ipsis cingulis terram redimitam dicat, ille
isdem quas Graeco nomine zonas uocat adserat caelum teneri.
Vtrumque enim incorruptam ueramque nec alteri contrariam
retulisse rationem procedente disputatione constabit.
8 . Sed ut omnia quae hoc loco explananda recepimus lique­
re possint, habendus est primum sermo de cingulis, quia, situ
eorum ante oculos locato, cetera erunt intellectui proniora.
Prius autem qualiter terram coronent, deinde quemadmodum
caelum teneant explicandum est,
9. Terra nona et ultima sphaera est. Hanc diuidit horizon, id
est finalis circulus de quo ante rettulimus. Ergo medietas cuius
partem nos incolimus sub eo caelo est quod fuerit super ter­
ram, et reliqua medietas sub illo quod, dum uoluitur, ad ea loca
quae ad nos uidentur inferiora descendit: in medio enim loca­
ta ex omni sua parte caelum suspicit. 10. Huius igitur ad cae­
lum breuitas, cui punctum est, ad nos uero immensa globosi­
tas, distinguitur locis inter se uicissim pressis nimietate uel fri­
goris uel caloris, geminam nacta inter diuersa temperiem. 1 1 .
Nam et septemtrionalis et australis extremitas perpetua obri­
guerunt pruina, et hi uelut duo sunt cinguli quibus terra redi­
mitur, sed ambitu breues quasi extrema cingentes. Horum
uterque habitationis impatiens est, quia torpor ille glacialis nec
animali nec frugi uitam ministrat: illo enim aere corpus alitur
quo herba nutritur. 12. Medius cingulus, et ideo maximus,
aeterno adflatu continui caloris ustus, spatium, quod et lato et
ambitu prolixius occupauit nimietate feruoris facit inhabitabi­
le uicturis. Inter extremos uero et medium, duo maiores ulti­
mis, medio minores, ex utriusque uicinitatis intemperie tempe­
rantur, in hisque tantum uitales auras natura dedit incolis car­
pere.
Cicerone, differiscano a questo proposito per il fatto che il
secondo assicura che queste fasce cingono la terra, mentre il
primo asserisce che esse, da lui designate col nome greco di
zone, occupano il cielo. Il seguito della discussione stabilirà che
entrambi hanno presentato una teoria irreprensibile e vera e
non contraddittoria l’una con l’altra 85.
8 . Ma per rendere più facili da capire tutti i passi che abbia­
mo deciso di commentare, dobbiamo cominciare col parlare
delle fasce, giacché, una volta che avremo chiara davanti ai
nostri occhi la loro posizione, il resto diventerà più comprensi­
bile. Spieghiamo prima di tutto come coronano la terra; dire­
mo poi in che modo occupano il cielo.
9. La terra è la nona e l’ultima sfera. L’orizzonte, o il circo­
lo delimitante di cui si è già trattato 86, la divide in due parti
uguali. Così l’emisfero di cui occupiamo una parte si trova
sotto quella parte di cielo che è sopra la terra; l’altra metà è
sotto quella parte di cielo che, nel suo movimento di rotazione,
discende in direzione delle regioni che rispetto a noi sembrano
inferiori, perché, collocata al centro della sfera universale, la
terra guarda il cielo da ogni sua parte. 1 0 . Nella sua piccolezza
in confronto al cielo — è solamente un punto insignificante 87
— , ma nella sua immensità sferica rispetto a noi, essa si divide
alternativamente in regioni oppresse da un eccesso o di freddo
o di calore, disponendo, in mezzo ad esse, di due contrade
temperate. 1 1 . Le estremità settentrionali e australi sono, infat­
ti, gelate da ghiacci perenni e sono come due fasce che circon­
dano la terra, di piccole dimensioni, però, perché cingono le
estremità del globo. Entrambe queste terre non hanno abitan­
ti, perché il torpore glaciale non dà vita agli animali, né ai vege­
tali; perché lo stesso clima che nutre il corpo alimenta la vege­
tazione. 12. La fascia centrale, e conseguentemente la più gran­
de, arroventata dal perpetuo spirare di un calore incessante, è
venuta ad occupare, tanto in larghezza quanto in circonferen­
za, la zona più vasta che la sua temperatura eccessiva rende ina­
bitabile agli eventuali esseri viventi 88. Ma tra le fasce estreme
e quella centrale ve ne sono due, maggiori di quelle estreme e
più piccole di quella di mezzo, che godono di una temperatu­
ra che modera le sregolatezze delle due fasce adiacenti; sono le
sole in cui la natura ha accordato agli abitanti di godere di aure
vivificanti 89.
13. Et quia animo facilius inlabitur concepta ratio descrip­
tione quam sermone, esto orbis terrae cui adscripta sunt A B C
D; et circa,A, adscribantur N et L; circa B autem M et K; et
circa C, G et I; et circa D, E et F; et ducantur rectae lineae a
signis ad signa quae dicimus, id est a G in I, ab M in N, a K in
L, ab E in F. 14. Spatia igitur duo aduersa sibi, id est unum a
C usque ad lineam quae in I ducta est, alterum a D usque ad
lineam quae in F ducta est, intellegantur pruina obriguisse per­
petua: est enim superior septentrionalis, inferior australis
extremitas. Medium uero, ab N usque in L, zona sit torrida.
Restat ut cingulus ab I usque ad N de subiecto calore et supe­
riore frigore temperetur, rursus ut zona quae est inter L et F
accipiat de superiecto calore et subdito rigore temperiem. 15.
Nec excogitatas a nobis lineas quas duximus aestimetur: circi
sunt enim, de quibus supra rettulimus, septentrionalis et
australis et tropici duo. Nam aequinoctialem hoc loco quo de
terra loquimur non oportet adscribi, qui opportuniore loco
rursus addetur.
16. Licet igitur sint hae
... duae mortalibus aegris
munere concessae diuum

quas diximus temperatas, non tamen ambae zonae hominibus


nostri generis induitae sunt, sed sola superior, quae est ab I
usque ad N, incolitur ab omni quale scire possumus hominum
genere, Romani Graeciue sint uel barbari cuiusque nationis.
17. Illa uero ab L usque ad F sola ratione intellegitur quod
propter similem temperiem similiter incolatur; sed a quibus,
neque licuit umquam nobis nec licebit agnoscere: interiecta
enim torrida utrique hominum generi commercium ad se
denegat commeandi.
18. Denique de quattuor habitationis nostrae cardinibus
oriens, occidens et septentrio suis uocabulis nuncupantur, quia
ab ipsis exordiis suis sciuntur a nobis; nam etsi septentrionalis
extremitas inhabitabilis est, non multo tamen est a nobis remo-
13. Siccome un sistema concettuale penetra più facilmente
nello spirito con l’aiuto di una figura 90 che con una descrizio-
ne verbale, sia il globo terrestre un cerchio rappresentato dalla
lettere A B C D , S’iscrivano da parti opposte rispetto ad A i
punti N e L, da parti opposte rispetto a B i punti M e K, rispet­
to a C, G e I, rispetto a D, E e F e si traccino delle linee rette
da un punto all’altro di quelli detti, cioè da G a I, da M a N,
da K a L, da E a F. 1 4 . 1 due spazi alle estremità, il primo com­
preso tra il punto C e la linea che va fino a I e il secondo tra D
e la linea che va fino a F, rappresentano le zone rese gelate da
un ghiaccio perenne: si tratta infatti dell’estremità superiore,
quella settentrionale, e di quella inferiore, l’australe. Nel
mezzo, da N a L, si trova la zona torrida. Risulta quindi che la
fascia tra I e N è temperata dal calore di quella inferiore e dal
freddo della fascia superiore e, viceversa, che la zona tra L e F
deve il suo clima temperato al calore della zona superiore e al
freddo di quella inferiore. 15. Non bisogna credere che queste
linee che abbiamo appena tracciato siano una nostra invenzio­
ne; raffigurano effettivamente i due circoli polari di cui si è in
precedenza parlato, il settentrionale e l’australe, e i due tropi­
ci. Non occorre qui, a proposito della terra, occuparci del cir­
colo equinoziale, su cui ritorneremo fra poco in un contesto
più adatto 91.
16. Sebbene queste regioni che abbiamo chiamato temperate
ai miseri mortali furono concesse, per dono degli dei 92,

agli uomini della nostra stirpe non è stato tuttavia concesso il


possesso di entrambe, ma solo la zona superiore che occupa lo
spazio tra I e N è abitata da tutto il genere umano che ci è dato
conoscere: Romani, Greci e barbari di tutte le nazioni. 17. In
quanto alla zona situata tra L e F, che ha un clima uguale, il
ragionamento solo ci fa supporre che anch’essa sia abitata. Ma
non sappiamo e non potremo mai sapere da chi sia abitata, per­
ché la zona torrida che si trova in mezzo impedisce agli abitan­
ti delle due zone reciproci contatti,
18. Infine, dei quattro punti cardinali della sfera terrestre
da noi abitata, tre solamente, oriente occidente e settentrione,
conservano le loro proprie denominazioni, per la ragione che
possiamo determinare i luoghi dove hanno origine; perché, per
quanto i confini settentrionali siano del tutto inabitabili, non
ta. 19. Quarto uero nostrae habitationis cardini causa haec
alterum nomen dedit, ut meridies, non australis uocaretur, quia
et ille est proprie australis qui de altera extremitate procedens
aduersus septentrionali est, et hunc meridiem iure uocitari
facit locus, de quo incipit nobis; nam quia sentiri incipit a
medio terrae in qua est usus diei, ideo tamquam quidam medi-
dies, una mutata littera meridies nuncupatus est.
20. Sciendum est autem quod uentus qui per hunc ad nos
cardinem peruenit, id est auster, ita in origine sua gelidus est ut
apud nos commendabilis est blando rigore septentrio; sed quia
per flammam torridae zonae ad nos commeat, admixtus igni
calescit et qui incipit frigidus, calens peruenit. 2 1 . Neque enim
uel ratio uel natura pateretur ut ex duobus aequo pressis rigo­
re cardinibus dissimili tactu flatus emitterentur. Nec dubium
est nostrum quoque septentrionem ad illos qui australi adia-
cent propter eandem rationem calidum peruenire, et austrum
corporibus eorum genuino aurae suae rigore blandiri.
22. Eadem ratio nos non permittit ambigere quin per illam
quoque superficiem terrae, quae ad nos habetur inferior, inte­
ger zonarum ambitus quae hic temperatae sunt eodem ductu
temperatus habeatur, atque ideo illic quoque eaedem duae
zonae a se distantes similiter incolantur. 23. Aut dicat quisquis
huic fidei obuiare mauult quid sit quod ab hac eum definitio­
ne deterreat. Nam si nobis uiuendi facultas est in hac terrarum
parte quam colimus, quia, calcantes humum, caelum suspici­
mus super uerticem, quia sol nobis et oritur et occidit, quia cir­
cumfuso fruimur aere cuius spiramus haustu, cur non et illic
aliquos uiuere credamus ubi eadem semper in promptu sunt?
sono tuttavia molto lontani da noi. 19. Riguardo al quarto
punto cardinale della nostra parte abitata, gli è stato invece
dato un altro nome; lo si chiama mezzogiorno e non australe,
perché è definito propriamente australe il punto che, situato
all’altra estremità, è diametralmente opposto al settentrione; e
ciò fa sì che si utilizzi per esso, a buon diritto, il termine di
mezzogiorno, che è il punto in cui per noi comincia. Poiché si
comincia a percepire a partire dalla parte di mezzo della terra
in cui si gode la luce del giorno, considerandolo come una
sorta di medidies [metà giornata], lo si è chiamato, con uno
scambio di lettera, meridies [mezzogiorno] 93.
20. Dobbiamo inoltre sapere che il vento che ci viene da
questo punto cardinale, l’Austro, è gelido al momento della
sua origine, così come, quando arriva nelle nostre contrade, il
vento di settentrione si raccomanda per il suo gradevole refri­
gerio; ma, forzato per la sua direzione ad attraversare l’aria
arroventata della zona torrida, l’Austro mescolandosi col fuoco
si riscalda ed il suo soffio, poc’anzi freddo, ci giunge caldo. 2 1 :
D ’altra parte, né la ragione né la natura permetterebbero che
due punti cardinali, oppressi da un egual freddo, emettessero
dei venti così sensibilmente dissimili. Non possiamo dubitare,
per la stessa ragione, che anche il nostro vento di settentrione
non giunga caldo agli abitanti delle zone adiacenti al polo
australe e che l’Austro rechi sollievo ai loro corpi col suo sof­
fio originariamente freddo.
22. Questo stesso ragionamento non ci permette di dubita­
re che, anche per quella parte di superficie terrestre, che rite­
niamo sia sotto di noi, l’intero perimetro delle zone che da quel
lato sono temperate non debba ritenersi temperato con il
medesimo tracciato; e, di conseguenza, che si ritrovino laggiù
due zone, distanti tra esse, e ugualmente abitate. 23. O allora,
se c’è qualcuno che preferisce opporsi a questa convinzione,
che ci dica che cosa gli fa respingere la nostra affermazione . 94
Infatti, se la nostra esistenza ci è possibile in questa parte della
terra in cui abitiamo, perché, calpestando il suolo, vediamo il
cielo sopra le nostre teste, perché il sole sorge e tramonta per
noi, perché godiamo dell’aria che ci circonda e la respiriamo
inalandola, perché non dovremmo credere che non esistano
laggiù altri abitanti che hanno a disposizione sempre le stesse
condizioni 95?
24. Nam qui ibi dicuntur morari eandem credendi sunt spi­
rare auram, quia eadem est in eiusdem zonalis ambitus conti­
nuatione temperies; idem sol illis et obire dicetur nostro ortu
et orietur cum nobis occidet; calcabunt aeque ut nos humum,
et super uerticem semper caelum uidebunt; 25. nec metus erit
ne de terra in caelum decidant, cum nihil umquam possit ruere
sursum. Si enim nobis, quod adserere genus ioci est, iusum
habetur ubi est terra et susum ubi caelum, illis quoque susum
erit quod de inferiore suspicient, nec aliquando in superna
casuri sunt. 26. Adfirmauerim quoque et apud illos minus
rerum peritos hoc aestimare de nobis, nec credere posse nos in
quo sumus loco degere, sed opinari, si quis sub pedibus eorum
temptaret stare, casurum. Numquam tamen apud nos quis­
quam timuit ne caderet in caelum, ergo nec apud illos quis­
quam in superiora casurus est, sicut «omnia nutu suo pondera »
in terram ferri superius relata docuerunt. 27. Postremo quis
ambigat in sphaera terrae ea quae inferiora dicuntur superiori­
bus suis esse contraria, ut est oriens occidenti? Nam in utraque
parte par diametros habetur. Cum ergo et orientem et occiden­
tem similiter constet habitari, quid est quod fidem huius quo­
que diuersae sibi habitationis excludat?
28. Haec omnia non otiosus lector in tam paucis uerbis
Ciceronis inuenìet. Nam cum dicit terram cingulis suis «redi­
mitam atque circumdatam», ostendit per omne terrae corpus
eandem temperatorum cingulorum continuatam esse tempe­
riem; et cum ait in terra maculas habitationum uideri, non eas
dicit quae in parte nostrae habitationis non nullis desertis locis
interpositis incoluntur. 29. Non enim adiceret «in ipsis maculis
uastas solitudines interiectas », si ipsas solitudines diceret, inter
24. Infatti si deve ritenere che i suddetti abitanti di laggiù
respirino la stessa aria, poiché lo stesso clima temperato regna
nelle loro zone su tutta la lunghezza dell’identica circonferen­
za; hanno lo stesso sole, di cui si dirà per loro che tramonta
quando sorge per noi e che sorgerà quando deve tramontare
per loro; come noi calcheranno il suolo e sopra la loro testa
vedranno sempre il cielo; 25. né avranno timore di cadere dalla
terra nel cielo, perché niente può mai cadere verso l’alto.
Infatti, se da noi si ritiene il basso là dov’è la terra e l’alto là
dov’è il cielo (cosa che per noi soltanto dirla è ridicola), anche
per loro l’alto sarà ciò verso il quale dal basso levano lo sguar­
do, né mai potranno cadere nelle regioni a loro soprastanti. 26.
Arriverei ad affermare che anche quelli meno istruiti tra loro
pensano lo stesso a proposito di noi e non possono credere che
noi possiamo vivere nel luogo dove siamo, convinti che se qual­
cuno provasse a stare in piedi nella regione sotto di loro, fini­
rebbe per cadere. Nessuno di noi, ciò nonostante, ha mai
temuto di cadere nel cielo: dunque neppure presso di loro
qualcuno è destinato a cadere verso l’alto 96; perché verso la
terra «sono attratti tu tti i gravi, per una forza che è loro pro­
pria» 97, come ha dimostrato un precedente ragionamento 98.
27. Inoltre, ci si contesterà che nella sfera terrestre le regioni
che sono dette inferiori siano all’opposto di quelle che le sono
superiori, come è l’oriente rispetto all’occidente? Infatti un
diametro, da qualunque parte sia tracciato, è sempre uguale.
Essendo dunque provato che l’oriente e l’occidente sono
entrambi abitati, quale ragione vi è per escludere che vi sia una
sede abitata, diametralmente opposta a questa 99?
28. Tutto ciò che ho appena detto un lettore diligente lo
può trovare nelle righe così concise 100 di Cicerone. Infatti
dicendo che la terra è «avvolta e cinta da» sue «fasce», in effet­
ti mostra che un identico clima mite proprio alle fasce tempe­
rate regna senza discontinuità su tutto quanto il corpo della
terra; e quando dice che le parti abitate sulla terra sembrano
formare delle macchie, non si riferisce alle parti popolate del
globo che abitiamo con, intervallate, alcune aree desertiche.
29. Infatti non aggiungerebbe: «questa sorta di macchie in cui si
risiede è inframmezzata da enormi solitudini », se volesse riferir­
si solamente a questi spazi desertici, in mezzo ai quali si distin-
quas certae partes macularum instar haberentur, sed quia
maculas dicit has quattuor quas in duobus terrae hemisphaeriis
binas esse ratio monstrauit, bene adiecit «interiectas solitudi­
nes».
30. Nam sicut pars quae habitatur a nobis multa solitudi­
num interiectione distinguitur, credendum est in illis quoque
tribus aliis habitationibus similes esse inter deserta et culta
distinctiones. 31. Sed et quattuor habitationum incolas et rela­
tione situs et ipsa quoque standi qualitate depinxit. Primum
enim ait alios praeter nos ita incolere terram ut a se interrupti
nullam commeandi ad se habeant facultatem, et uerba ipsa
declarant non eum de uno hominum genere loqui in hac super­
ficie a nobis solius torridae interiectione diuiso. Sic enim magis
diceret: «ita interruptos ut nihil ab illis ad uos manare possit»;
sed dicendo: ita «interruptos ut nihil inter ipsos ab aliis ad alios
manare possit », qualiter inter se illa hominum genera sint diui-
sa significat. 32. Quod autem uere ad nostram partem referre­
tur, adiecit, dicendo de illis qui et a nobis et a se in uicem diui-
si sunt: «partim obliquos, partim transuersos, partim etiam
aduersos stare» nobis.
Interruptio ergo non unius generis a nobis, sed omnium
generum a se diuisorum refertur, quae ita distinguenda est. 33.
Hi quos separat a nobis perusta, quos Graeci c c v t o ik o u s
uocant, similiter ab illis qui inferiorem zonae suae incolunt
partem, interiecta australi gelida separantur; rursus illos ab
antoecis suis, id est per nostri cinguli inferiora uiuentibus, inte­
rlectio ardentis sequestrat, et illi a nobis septentrionalis extre­
mitatis rigore remouentur. 34. Et quia non est una omnium
adfinis continuatio, sed interiectae sunt solitudines ex calore
uel frigore mutuum negantibus commeatum, has terrae partes
quae a quattuor hominum generibus incoluntur ‘maculas habi-
gue un certo numero di parti considerate al pari di macchie.
Ma siccome intende parlare di queste quattro macchie che sap­
piamo per ragionamento essere in numero di due su ogni emi­
sfero terrestre101, di proposito usa questa espressione: «infram­
mezzata da enormi solitudini».
30. Difatti, se la zona che abitiamo è caratterizzata dalla fre­
quente interposizione d’immense solitudini, è verosimile che
anche nelle altre tre regioni abitate vi siano simili divisioni tra
terre deserte e popolate. 31. Cicerone ha inoltre descritto gli
abitanti di queste quattro regioni, sia riguardo al luogo dove
vivono, sia in base alla posizione che li caratterizza. Comincia
col dire che altri uomini, oltre a noi, popolano la terra ma, iso­
lati gli uni dagli altri, non hanno possibilità di intrattenere rela­
zioni; ed il modo in cui si esprime mostra che non parla di un
gruppo umano unico che, sul nostro emisfero, sarebbe da noi
diviso dalla barriera della zona torrida. In questo caso, infatti,
avrebbe detto piuttosto che questi uomini «sono separati al
punto che nulla può propagarsi fino a noi», ma dicendo che
«sono separati al punto che, tra d i loro, nulla può propagarsi
dagli uni agli altri», indica sufficientemente il genere di separa­
zione esistente tra questi gruppi umani. 32. Per ciò che riguar­
da precisamente la nostra parte, Cicerone aggiunge poi, par­
lando di quei popoli che sono separati da noi e tra essi, che
«sono disposti, in posizione obliqua, altri trasversale, altri anco­
ra si trovano addirittura all’opposto » rispetto a noi m .
La separazione non è quindi tra una sola razza e noi, ma tra
tutte le razze, divise tra di loro e tale separazione va distinta nel
seguente modo. 33. Coloro da cui ci separa la zona torrida, che
i Greci chiamano ó c v t o ik o i [antecì] 103, sono similmente sepa­
rati da coloro che abitano la parte inferiore della loro zona per
l’interposizione della zona glaciale australe; questi, a loro volta,
sono isolati dai loro propri anteci, cioè da coloro i quali vivo­
no nella parte inferiore della nostra fascia, dalla barriera della
zona torrida, e questi ultimi sono tenuti a distanza da noi dal
freddo glaciale dell’estremità settentrionale. 34. E poiché non
esiste una sola soluzione di continuità di prossimità tra tutte
queste popolazioni, ma vi sono inframmezzate distese deserti­
che dove una temperatura cocente o fredda impedisce una
reciproca comunicazione, Cicerone dà il nome di «macchie in
tationum’ uocauit. 35. Quemadmodum autem ceteri omnes
uestigia sua figere ad nostra credantur, ipse distinxit, et austra­
les quidem aperte pronuntiauit aduersos stare nobis, dicendo
«quorum australis ille, in quo qui insistunt aduersa uobis urgent
uestigia»-. et ideo aduersi nobis sunt quia in parte sphaerae
quae contra nos est morantur. 36. Restat inquirere quos tran-
suersos et quos obliquos nobis stare memorauerit, sed nec de
ipsis potest esse dubitatio quin transuersos nobis stare dixerit
inferiorem zonae nostrae partem tenentes, obliquos uero eos
qui australis cinguli deuexa sortiti sunt.

c c

Fig. 28 Fig. 29
Schema delle fasce terrestri, Raffigurazione delle fasce del
tratto dai manoscritti Parisinus globo terrestre nell’incisione a
Latinus 6370 (Tours?, inizi IX stampa dell’edizione latina di
sec.); Parisinus Latinus 16677 Macrobius, In Somnium Scipio­
(Fleury?, IX sec.) e Coloniensis, nis, Angeli Britannici, Brixiae,
Dombibl. 186 (Germania?, IX 1501.
sec.).
cui si risiede» alle parti della terra occupate dai quattro gruppi
umani, 35. Quanto al modo in cui si pensa che gli abitanti delle
altre tre zone poggino i loro piedi rispetto a noi, lo ha persino
precisato e ha formulato chiaramente che gli abitanti dell’emi­
sfero australe stanno nella posizione opposta alla nostra dicen­
do: «{la fascia) australe, nella quale gli abitanti lasciano impron­
te opposte alle vostre »; e perciò sono opposti a noi poiché risie­
dono nella parte della sfera terrestre che è opposta a noi m . 36.
Resta da chiedersi quali siano coloro per i quali, rispetto a noi,
ha menzionato una posizione trasversale e una obliqua; ma su
di essi non possono esserci dubbi: quelli che dice di stare di
traverso rispetto a noi occupano la parte inferiore della nostra
zona e in quanto a quelli che ci sono obliqui posseggono la
zona declinante della fascia australe.

Fig. 30 Fig. 31
La medesima raffigurazione La stessa “carta a zone” in
delle fasce del globo terrestre Ambrosius Theodosius Macro­
nell’illustrazione tratta dall’edi­ bius, Commentarii in Somnium
zione del Commentarium in som­ Scipionis, MS Strozzi, 74, fol. 63,
nium Scipionis di Franciscus (XII secolo), Firenze, Biblioteca
Eyssenhardt, B. G. Teubner, Medicea Laurenziana.
Leipzig, 18932.
Fig. 32 Fig. 33
Ancora la rappresentazione Il diagramma delle cinque
dell’emisfero celeste, proiezione zone della terra in una pagina del
reciproca di quello terrestre, in Macrobius, Commentarii in Som­
un manoscritto del Commento al nium Scipionis (NKS 218 4°), ma­
Sogno di Scipione di Macrobio, noscritto su pergamena (Francia
Parisinus Latinus 6371, XI seco­ meridionale?, ca. 1150), fol. 34r,
lo, Paris, Bibliothèque nationale Copenhagen, Det Kongelige
de France. Bibliotek.

Fig. 34
Il diagramma delle cinque zone della terra di Macrobio in una pa­
gina di Lambert of St. Omer, Liber Floridus, (Lille e Ninove, 1460),
MS KB, 72 A 23 particolare del fol. 15v, Aia, Koninklijke Biblio-
theek.
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Fig. 35 ■■■ •ni&#w -V,
«i'iinneum uèMMtMr'J'AerA*■«*;vt-
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Il diagramma delle cinque «H btttlKS f a m f * u t r A m f • 7«». n w n 1 _ -m*i 1 »■•#

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rtwoMm- dnutt^fì^M dtftuiitu' etnnf"^nrm- tp* *
una pagina del manoscritto
T i r a w - H M . 'i ' M l . l ' F i i n v 'v n i M T , w r t l r « < l - - t N i w « J « *
76.33, fol. 47r, secolo XI, Fi­
renze, Biblioteca Medicea Lau-
renziana.

Fig. 36 Fig. 37
Ricostruzione del globo ter­ Esempio d’inclinazione di un
restre di Cratete di Mallo (180- modello della terra abitata sull’o­
150 a.C.). Illustrazione tratta da rizzonte di Rodi, punto abituale
James Oliver Thomson, History degli antichi geografi (a 36° di lati­
of Ancient Geography, University tudine nord), in cui la nostra
Press, Cambridge, 1948, p. 203. regione abitata si trova nel qua­
drante situato al di sopra dell’oriz­
zonte con le rispettive posizioni
degli antoeci, transversi e obliqui.
6. 1. Superest ut de terrae ipsius spatiis, quanta habitationi
cesserint, quanta sint inculta referamus, id est quae sit singulo­
rum dimensio cingulorum. Quod ut facile dinoscas, redeun­
dum tibi est ad orbis terrae descriptionem quam paulo ante
subiecimus, ut per adscriptarum litterarum notas ratio dimen­
sionum lucidius explicetur,
2 . Omnis terrae orbis, id est circulus qui uniuersum ambi­
tum claudit, cui adscripta sunt A B C D, ab his qui eum ratio­
ne dimensi sunt in sexaginta diuisus est partes. 3. Habet autem
totus ipse ambitus stadiorum ducenta quinquaginta duo milia.
Ergo singulae sexagesimae extenduntur stadiis quaternis mili­
bus ducenis. Et sine dubio medietas eius, quae est a D per
orientem, id est per A usque ad C, habet triginta sexagesimas
et stadiorum milia centum uiginti sex. Quarta uero pars, quae
est ab A usque ad C, incipiens a medio perustae, habet sexage­
simas quindecim et stadiorum milia sexaginta et tria. Huius
quartae partis mensura relata, constabit totius ambitus plena
dimensio.
4. Ab A igitur usque ad N, quod est medietas perustae,
habet sexagesimas quattuor, quae faciunt stadiorum milia
sedecim cum octingentorum adiectione. Ergo omnis perusta
sexagesimarum octo est, et tenet stadiorum milia triginta tria et
sexcenta insuper. 5. Latitudo autem cinguli nostri qui tempe­
ratus est, id est ab N usque ad I, habet sexagesimas quinque,
quae faciunt stadiorum milia uiginti unum; et spatium frigidae,
ab I usque ad C, habet sexagesimas sex, quae tenent stadiorum
uiginti quinque milia ducenta. 6 . Ex hac quarta parte orbis ter­
rarum, cuius mensuram euidenter expressimus, alterius quar­
tae partis magnitudinem, ab A usque ad D, pari dimensionum
distinctione cognosces. Cum ergo quantum teneat sphaerae
superficies quae ad nos est in omni sua medietate cognoueris,
de mensura quoque inferioris medietatis, id est a D per B
usque ad C, similiter instrueris. 7. Modo enim quia orbem ter­
rae in plano pinximus, in plano autem medium exprimere non
possumus sphaeralem tumorem, mutuati sumus altitudinis
intellectum a circulo qui magis horizon quam meridianus uide-
6. 1. Ci rimane adesso da precisare, a proposito delle regio­
ni della terra, di quante siano abitate e quante siano inagibili,
cioè della dimensione di ciascuna delle fasce. Per capire tutto
ciò più facilmente, devi riferirti alla raffigurazione della sfera
terrestre, che abbiamo proposto poco fa lft5: i segni forniti dalle
lettere che vi figurano faranno seguire più chiaramente il rap­
porto delle dimensioni.
2. L’intero giro della terra, ossia il cerchio che racchiude
l’intera circonferenza, rappresentata dai punti A B C D, è stata
divisa, da coloro che ne hanno calcolato le dimensioni, in ses­
santa parti. 3. Ora l’intera circonferenza è di duecentocinquan-
taduemila sta d i10é. Ne consegue che ogni sessantesimo misura
quattromiladuecento stadi. Senza dubbio la semicirconferenza,
che da D, andando verso oriente, passando per A arriva a C,
comprende trenta sessantesimi e misura centoventiseimila
stadi. La quarta parte, poi, che va da A a C, iniziando dalla
metà della zona torrida, è quindici sessantesimi e sessantatre-
mila stadi. Una volta nota la misura di questa quarta parte di
circonferenza, si avrà l’insieme delle misure della circonferen­
za intera.
4. Dunque, da A a N, la metà della zona torrida, occupa
quattro sessantesimi, che fa sedicimilaottocento stadi. Così la
zona torrida intera è di otto sessantesimi e si estende su trenta-
tremilaseicento stadi. 5. L’ampiezza, invece, della nostra fascia
temperata, che va da N fino a I, occupa cinque sessantesimi,
che corrispondono a ventunmila stadi e la parte glaciale, com­
presa da I a C, occupa sei sessantesimi, che si estendono su
venticinquemiladuecento stadi. 6 . Da questa quarta parte della
circonferenza terrestre, la cui misura abbiamo appena stabilito
chiaramente, ricaverai, per mezzo di uguali divisioni spaziali, la
grandezza dell’altra quarta parte, che va da A a D 107. Quindi,
una volta nota la dimensione dell’intera metà della superficie
della sfera che abitiamo, adopererai lo stesso procedimento per
misurare anche la metà inferiore 108, che si estende da D a C
passando per B. 7. Soltanto che, a causa del fatto che abbiamo
raffigurato il globo terrestre su una superficie piana, non
abbiamo potuto rappresentare sul piano la convessità mediana
della sfera, ma, per cercare di dare un’idea del volume, ci
siamo serviti, per la nostra dimostrazione, di un circolo che
tur. Ceterum uolo hoc mente percipias ita nos hanc protulisse
mensuram tamquam a D per A usque ad C pars terrae superior
sit cuius partem nos incolimus, et a D per B usque ad C pars
terrae habeatur inferior.

7. 1. Hoc quoque tractatu proprium sortito finem, nunc


illud quod probandum promisimus adseramus: hos cingulos et
bene Maronem caelo et bene terrae adsignasse Ciceronem, et
utrumque non discrepantia, sed consona eademque dixisse. 2 .
Natura enim caeli hanc in diuersis terrae partibus temperiem
nimietatemque distinxit, et qualitas uel frigoris uel caloris,
quae cuilibet aetheris parti semel inhaesit, eadem inficit par­
tem terrae quam despicit ambiendo. 3. Et quia has diuersitates,
quae certis finibus terminantur, cingulos in caelo uocauerunt,
necesse est totidem cingulos etiam hic intellegi, sicut in breuis-
simo speculo cum facies monstratur ingens, tenent in angusto
membra uel liniamenta ordinem quem sua in uero digesserat
amplitudo. Sed hic quoque adserendi quod dicitur minuemus
laborem oculis subiciendo picturam.
4. Esto enim caeli sphaera A B C D, et intra se claudat
sphaeram terrae, cui adscripta sunt S X T V; et ducatur in caeli
sphaera circulus septentrionalis ab I usque in O, tropicus
aestiuus a G in P, et aequinoctialis a B in A, et tropicus hiema­
lis ab F in Q, et australis ab E in R; sed et zodiacus ducatur ab
F in P; rursus, in sphaera terrae, ducantur idem limites cingu­
lorum quos supra descripsimus, in N, in M, in L, in K. 5. His
depictis, sine difficultate constabit singulas terrae partes a sin­
gulis caeli partibus super uerticem suurn positis qualitatem
circa nimietatem uel temperiem mutuari. Nam quod est susum
a D usque ad R, hoc despicit terram ab S usque ad K: et quod
est in caelo ab R usque ad Q, hoc inficit terram a K usque ad
L: et quod in caelo est a Q usque in P, tale facit in terra ab L
sembra più un orizzonte che un meridiano . 109 Del resto, voglio
che tu abbia bene in mente il modo in cui abbiamo ottenuto
questa misurazione: come se lo spazio da D a C, attraverso A,
fosse l ’emisfero superiore di cui occupiamo una parte e lo spa­
zio da D a C, passando per B, fosse da considerare l’emisfero
inferiore.

7. 1. Giunta alla fine sua propria anche questa trattazione,


adempiamo adesso l’impegno che ci eravamo presi di dimo­
strare che non c’è discrepanza tra Virgilio Marone e Cicerone
e che entrambi hanno avuto ragione nell’attribuire queste fasce
il primo al cielo ed il secondo alla terra e che hanno detto cose
concordanti n0. 2. La natura del cielo, infatti, ha arrecato alle
diverse parti della terra questo clima temperato o eccessivo, e
il freddo e il caldo, qualità inerenti fin da principio a una qua-
lunque parte dell’etere, che permea corrispondentemente la
parte della terra che vede sotto di sé nel suo roteare m . 3. E sic­
come queste diverse regioni, delimitate da confini precisi 112,
hanno ricevuto nel cielo il nome di «fasce», è necessario ipotiz­
zare, anche qui sulla terra, altrettante «fasce», come una gran­
de figura che, riflettendosi in un piccolissimo specchio, ci rin­
via, in scala ridotta, tutte le sue parti e i suoi lineamenti nelle
stesse proporzioni che si osservano nella loro grandezza natu­
rale. Ma anche in questo caso ridurremo la fatica di farci capi­
re proponendo qui di seguito la vista di uno schema.
4. Sia, infatti, la sfera celeste A B C D, racchiudente dentro
di sé la sfera terrestre, indicata dalle lettere S X T V; sulla sfera
celeste tracciamo il circolo settentrionale da I a O; il tropico
estivo da G a P, il circolo equinoziale da B a A, il tropico inver­
nale da F a Q e il circolo australe da E a R; e tracciamo poi lo
zodiaco da F a P; e sulla sfera terrestre si traccino parallela-
mente le stesse demarcazioni delle fasce, che abbiamo sopra
descritto con N, M, L e K 113. 5. Tracciata questa figura, si con­
staterà facilmente che ciascuna delle divisioni della terra riceve
dalla parte di cielo posta sopra di essa il clima eccessivamente
caldo o freddo e il clima temperato. Infatti, l’arco celeste che
va da D a R domina la parte terrestre che va da S a K; l’arco
celeste da R a Q influenza quello terrestre da K a L; il tratto in
cielo che va da Q a P dà un effetto simile in terra a quello che
usque ad M; qualeque est desuper a P usque ad O, tale in terra
ab M usque ad N: et quale illic ab O usque ad C, tale hic est
ab N usque ad T. 6 . Sunt autem in aethere extremitates ambae,
id est a D usque ad R et a C usque ad O, aeterno rigore dense-
tae: ideo in terra idem est ab S usque ad K et a T usque ad N.
Rursus in caelo a Q usque ad P nimio calore fernet: ideo in
terra quoque ab L usque ad M idem feruor est. Item sunt in
caelo temperies, ab O usque ad P, et a Q in R: ideo hic quoque
sunt temperatae, ab N in M, et ab L in K. Aequinoctialis enim
circulus, qui ab A usque ad B ductus est, mediam secat peru­
stam.
7. Et ipsum autem scisse Ciceronem, quod terreni cinguli
caelestibus inficiantur, ex uerbis eius ostenditur. Ait enim: « e
quibus duos maxime inter se diuersos et caeli uerticibus ipsis ex
utraque parte subnixos obriguisse pruina uides». Ecce testatur
finale frigus esse de caelo. 8 . Idem quoque de feruore medio
dicit: «medium autem illum et maximum solis ardore torreri».
Cum ergo manifeste et rigorem de caeli uerticibus et feruorem
de sole in terrae cingulos uenire signauerit, ostendit prius in
caelo hos eosdem cingulos constitisse.
9. Nunc quoniam constitit easdem in caelo et in terra zonas
esse uel cingulos — haec enim unius rei duo sunt nomina —
iam dicendum est quae causa in aethere hanc diuersitatem qua­
litatis efficiat.
10. Perusta duobus tropicis clauditur: id est a G in P,
aestiuo, et ab F in Q, hiemali. Ab F autem in P zodiacum
describendo perduximus; ergo signum P tropicus ille Cancer
habeatur, et signum F Capricornus. Constat autem solem
neque sursum ultra Cancrum neque ultra Capricornum deor­
sum meare, sed, cum ad tropicorum confinia peruenerit, mox
reuerti: unde et solstitia uocantur. 11. Et quia aestiuus tropicus
temperatae nostrae terminus est, ideo, cum sol ad ipsum finem
uenerit, facit nobis aestiuos calores, de uicino urens sensu
maiore subiecta. Illo denique tempore australi generi reuerti
va da L a M; quello che avviene in cielo da P a O trova la sua
corrispondenza in terra in quello da M a N e ciò che avviene
lassù da O a C, si verifica anche quaggiù da N a T. 6 . Le due
estremità dell’etere, da D a R e da C a O, sono poi coperte da
un freddo eterno e la medesima cosa accade in terra da S a K
e da T a N. La regione del cielo che va da Q a P, a sua volta,
arde per l’eccessivo calore ed anche sulla terra, da M a L, regna
la stessa arsura. Analogamente le regioni temperate del cielo si
estendono d a O a P e d a Q a R e anche quaggiù le zone tem­
perate sono situate da N a M e da L a K. Infine, il circolo equa­
toriale, tracciato da A a B, taglia nel mezzo la zona torrida.
7. Lo stesso Cicerone sapeva certamente che le fasce terre­
stri sono influenzate da quelle celesti, come dimostrano le sue
parole. Infatti dice: «due di esse, le più lontane possibili l’una
dall’altra e poste sotto gli stessi poli opposti del cielo, sono asse­
diate, come vedi, dal ghiaccio e dalla galaverna». Afferma con
ciò che il freddo dei poli proviene dal cielo. 8 . E ancora dice la
stessa cosa riguardo alla zona torrida centrale: «la fascia centra­
le, la più estesa, è arsa dalla vampa del sole ». Sottolineando
quindi chiaramente che il freddo giunge dai poli del cielo e il
caldo si comunica dal sole fino alle fasce terrestri, egli mostra
che queste stesse corrispondenti fasce esistono originariamen­
te in cielo.
9. Adesso che è stato dimostrato che in cielo e in terra esi­
stono le medesime zone o fasce — dato che questi due nomi
indicano la stessa cosa 114— , è ora di dire qual è la causa che
provoca questa diversità di temperatura nell’etere.
10. La zona torrida è compresa tra i due tropici 115, quello
estivo, da G a P, e quello invernale, da F a Q. Abbiamo raffigu­
rato lo zodiaco con la linea che collega F a P; dunque il punto
P sta ad indicare il tropico del Cancro e il punto F quello del
Capricorno. È noto, altresì, che il sole non oltrepassa mai, in
alto, il Cancro e non discende mai, in basso, oltre il Capricorno,
ma che, arrivato ai limiti dei tropici, ritorna sui suoi passi; per
questo motivo i tropici sono chiamati anche solstizi n6. 1 1 .
Poiché il tropico estivo segna la frontiera della nostra zona tem­
perata, il sole perciò, giunto a questo confine, ci dà la calura
estiva, infiammando da vicino, con più forza, le regioni sotto­
stanti. Non si può dubitare quindi che, in quello stesso periodo
hiemem non potest ambigi, quia tunc ab illis sol omni uiae suae
spatio recedit. Rursus cum ad F signum, id est ad Capricor­
num, uenerit, facit nobis hiemem recessu suo et illis uicinitate
reducit aestatem.
12. Hic notandum est de tribus tantum cardinibus in quam-
cumque aedem ingredi solem, de quarto numquam. Nam et ab
ortu et ab occasu fenestra solem recipit, quippe quem orientem
obeuntemque prospectet; recipit et a meridie, quia omne iter
solis in nostro meridie est, ut instruit uisum antelata descriptio.
Numquam uero solem fenestra septentrionis admittit, quia
numquam a P signo ad O sol accedit, sed a P semper retroce­
dendo numquam fines poli septentrionalis adtingit, et ideo
numquam per hunc cardinem radius solis infunditur.
13. Eiusdem rei probationem umbra quoque cuiuslibet cor­
poris sufficiet adstruere. Nam et in occasum cadit oriente sole,
et in ortum cum sit occiduus; medio autem die, quia sol meri­
diem tenet, in septentrionem umbra depellitur. In austrum
uero circa nostram habitationem impossibile est umbram
cuiuslibet corporis cadere, quia semper in aduersam soli par­
tem umbra iactatur. Aduersus autem austro apud nos sol esse
non poterit, cum numquam fines septentrionales attingat.
14. Sane quoniam pars illa perustae quae temperatae uicina
est admittit habitantes, illic, id est trans tropicum, quaecumque
habitantur spatia umbram mittunt, in austrum eo tempore quo
sol Cancrum tenet. Tunc enim fit eis sol septentrionalis cum
tropicum tenet, quod ab illis ad septentrionem recedit. 15.
Ciuitas autem Syene, quae prouinciae Thebaidos post superio­
rum montium deserta principium est, sub ipso aestiuo tropico
constituta est; et eo die quo sol certam partem ingreditur
Cancri, hora diei sexta, quoniam sol tunc super ipsum inueni-
tur uerticem ciuitatis, nulla illic potest in terram de quolibet
di tempo, le regioni australi tornino ai rigori dell’invemo, per­
ché è il momento in cui il sole è al suo punto più lontano da
esse. E, viceversa, quando il sole entra nel punto F, cioè nel Ca­
pricorno, col suo allontanamento ci porta l’inverno e a quelle
regioni riporta l’estate con la sua prossimità.
12. Va qui osservato che il sole penetra in un edificio qua­
lunque giungendo da soli tre punti cardinali e mai dal quarto.
Infatti, una finestra riceve la luce del sole da oriente e da occi­
dente, a seconda che guardi al suo sorgere o al suo tramonto,
e la riceve anche da mezzogiorno, perché l’intero cammino del
sole è a mezzogiorno rispetto a noi, come è ben visibile grazie
allo schema precedente. Una finestra esposta a settentrione,
invece, non riceve mai la luce del sole, perché il sole non oltre­
passa mai P in direzione di O, ma retrocede sempre muoven­
dosi da P e non raggiunge mai i limiti del polo settentrionale
ed ecco perché nessun raggio di sole ci viene mai da questo
punto cardinale.
13. Per apportare la prova di questo medesimo fatto, baste­
rà far riferimento anche all’ombra di un qualsiasi oggetto 117.
Infatti, al levar del sole l’ombra si estende verso occidente ed è
volta verso oriente quando comincia a tramontare; a metà del
giorno, poi, il sole, quando è a sud, proietta l’ombra verso
nord. Nella zona da noi abitata, è altresì impossibile che l’om­
bra di un qualsivoglia corpo cada verso sud, poiché quest’om­
bra è sempre proiettata nella parte opposta alla luce del sole.
Nel nostro emisfero, il sole non potrà mai stare in posizione
opposta al sud, giacché non tocca mai i limiti della zona setten­
trionale.
14. Certamente, poiché quella parte della zona torrida, limi­
trofa a quella temperata, è abitabile 11S, laggiù, cioè oltre il tro­
pico, le parti abitate proiettano un’ombra orientata verso il sud
durante il periodo in cui il sole occupa il Cancro. Infatti, in
quel momento, quegli abitanti hanno il sole a nord quando si
trova nel tropico, poiché si allontana da loro nella direzione del
settentrione. 15. La città di Siene, che si trova all’inizio della
provincia della Tebaide, dopo i deserti degli altopiani montuo­
si, è situata proprio sotto il tropico estivo e, il giorno in cui il
sole entra in un determinato grado del Cancro, alla sesta ora,
trovandosi allora il sole esattamente allo zenit della città, nes-
corpore umbra iactari, sed nec stilus hemisphaerii monstrantis
horas, quem gnomona uocant, tunc de se potest umbram crea-
re. 16. Et hoc est quod Lucanus dicere uoluit, nec tamen plene
ut habetur absoluit. Dicendo enim
a tq u e umbras n u m q u a m flec ten te Syene,

rem quidem attigit, sed turbauit uerum. Non enim numquam


flectit, sed uno tempore, quod cum sua ratione rettulimus.
17. His relatis constat solem numquam egredi fines peru­
stae, quia de tropico in tropicum zodiacus obliquatus est.
Manifesta est igitur causa cur haec zona flammis sit semper
obnoxia, quippe quam sol totius aetheriae flammae et fons et
administrator numquam relinquat. 18. Ergo ambae partes ulti­
mae, id est septentrionalis et australis, ad quas numquam calor
solis accedit, necessario perpetua premuntur pruina; duas
uero, ut diximus, temperat hinc atque illinc uicinia caloris et
frigoris.
19. Denique in hac ipsa zona quam incolimus, quae tota
dicitur temperata, partes tamen quae perusto cingulo uicinae
sunt ceteris calidiores sunt, ut est Aethiopia, Arabia, Aegyptus
et Libya, in quibus calor ita circumfusi aeris corpus extenuat,
ut aut numquam aut raro cogatur in nubes, et ideo nullus
paene apud illos usus est imbrium. 2 0 . Rursus quae ad frigidae
fines pressius accedunt, ut est palus Maeotis, ut regiones quas
praeterfluunt Tanais et Hister omniaque super Scythiam loca,
quorum incolas uetustas Hyperboreos uocauit, quasi originem
boreae introrsum recedendo transissent, adeo aeterna paene
premuntur pruina ut non facile explicetur quanta sit illic frigi­
dae nimietatis iniuria. 21. Loca uero quae in medio temperata
sunt, quoniam ab utraque nimietate longum recedunt, ueram
tenent salutaremque temperiem.
sun corpo può laggiù proiettare dell'ombra sulla terra e neppu­
re lo stilo di una meridiana — ciò che chiamano «gnomone» —
può in quel momento creare ombra. 119 16. E ciò che ha volu­
to dire Lucano, senza peraltro rendere con esattezza il fenome­
no qual è. Infatti, dicendo
e Siene, dove le ombre mai ruotano 120
toccò l’argomento, ma intorbidò la realtà. Infatti non è «mai»,
ma in un solo intervallo di tempo che Siene non fa ruotare
l’ombra, come abbiamo riferito dandone la spiegazione.
17. Dalle nostre osservazioni risulta che il sole non supera
mai i limiti della zona torrida, perché lo zodiaco si estende in
obliquo da un tropico all’altro. E dunque evidente la causa per
cui questa zona è sempre esposta alle fiamme: il sole, fonte e
regolatore di tutta quanta la fiamma eterea, non l’abbandona
mai. 18. Dunque, le due regioni estreme, cioè la settentrionale
e l’australe, nelle quali non arriva mai il calore del sole, sono
necessariamente coperte da un gelo perenne; ma ce ne sono
due, come abbiamo detto, che godono di una temperatura
media, dovuta da un lato alla vicinanza del caldo e dall’altro
alla vicinanza del freddo 121.
19. Infine, in questa stessa zona che abitiamo e che è detta
interamente temperata, le parti vicine alla fascia torrida sono
tuttavia più calde di altre, come accade all’Etiopia, all’Arabia,
all’Egitto e alla Libia, dove il calore rarefà talmente l’atmosfe­
ra, che mai o raramente si condensa in nuvole 122, al punto che,
presso le loro popolazioni, la pioggia quasi non esiste. 20. Per
la ragione contraria, le regioni limitrofe alla zona fredda, come
la Palude Meotide, le contrade bagnate dal Tanai e dall’Istro e
infine tutte quelle che si trovano al di sopra della Scizia (terra
Ì cui abitanti hanno ricevuto dagli Antichi il nome d’iperborei,
come se, ritirandosi verso l’interno, avessero oltrepassato i luo­
ghi d’origine della borea), sono così oppresse da un gelo quasi
eterno che non è facile descrivere quanto sia intensa l’ingiuria
del freddo 123. 2 1 . Ma i paesi temperati che si trovano nel
mezzo, essendo lontani da entrambi questi eccessi, godono di
un clima veramente temperato e salubre.
Fig. 38
Rappresentazione del mondo secondo Cratete di Mallo (180-150
a.C.). Immagine tratta da Cartography in Prehistoric, Ancient, and
Medieval Europe and thè Mediterranean, voi, 1, p, 163, Chicago —
London, 1987.
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Fig. 39 Fig. 40
Schema delle fasce celesti e Ancora il medesimo diagram­
fasce terrestri, tratto dal mano­ ma raffigurante la sfera celeste
scritto Coloniensis, Dombibl. racchiudente la sfera terrestre
186 (Germania?, IX sec.). nelTincisione a stampa dell’edi­
zione latina di Macrobius, In
Somnium Scipionis, Angeli Bri­
tannici, Brixiae, 1501.
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Fig. 41 Fig. 42
Lo stesso diagramma tratto Il diagramma delle cinque
dall’edizione del Commentarium zone del cielo su quelle della
in somnium Scipionis di Franci- terra con l'eclittica in una pagina
scus Eyssenhardt, B. G. Teubner, del Macrobius, Commentarii in
Leipzig, 18932. Somnium Scipionis (NKS 218
4°), manoscritto su pergamena
(ca. 1150, Francia meridionale?),
particolare del fol. 36v, Copen­
hagen, Det Kongelige Bibliotek.
8. 1. Locus nos admonet ut — quoniam diximus rem quae
a nullo possit refelli, utrumque tropicum circum zodiaco ter­
minos facere, nec umquam solem alterutrum tropicum excede­
re posse uel sursum uel deorsum meando, trans zodiacum uero
circum, id est trans ustam quae tropicis clauditur ex utraque
parte, incipere temperatas — quaeramus quid sit quod ait
Vergilius, quem nullius umquam disciplinae error inuoluit:
duae mortalibus aegris
munere concessae diuum, et uia secta per ambas
obliquus qua se signorum uerteret ordo.
2 . Videtur enim dicere his uersibus zodiacum per tempera­
tas ductum, et solis cursum per ipsas fieri; quod nec opinari fas
est, quia neutrum tropicum cursus solis excedit. Num igitur
illud attendit quod diximus: et intra tropicum in ea perustae
parte quae uicina est temperatae habitatores esse? 3, Nam
Syene sub ipso tropico est, Meroe autem tribus milibus octin­
gentis stadiis in perustam a Syene introrsum recedit, et ab illa
usque ad terram cinnamomi feracem sunt stadia octingenta; et
per haec omnia spatia perustae, licet rari, tamen uita fruuntur
habitantes, ultra uero iam inaccessum est propter nimium solis
ardorem. 4. Cum ergo tantum spatii ex perusta uitam mini­
stret, et sine dubio circa uiciniam alterius temperatae, id est
antoecorum, tantumdem spatii habere perustae fines pari man­
suetudine non negetur — paria enim in utraque parte sunt
omnia —, ideo credendum est per poeticam tubam, quae
omnia semper in maius extollit, dixisse uiam solis sectam per
temperatas, quoniam ex utraque parte fines perustae in eo sunt
similes temperatis, quod se patiuntur habitari?
5. An forte poetica licentia particulam pro simili paene par­
ticula posuit et pro «sub ambas» dicere maluit «per ambas»?
8. 1. Poiché abbiamo posto come fatto incontestabile che
entrambi i circoli tropicali segnano i limiti dello zodiaco e che
il sole, procedendo sia verso l’alto sia verso il basso, non può
mai superare l’uno o l’altro tropico, ma che, al di là del circo­
lo dello zodiaco, o se si vuole al di là della zona torrida delimi­
tata da una parte e dall’altra dai tropici, cominciano le zone
temperate, è il momento di interrogarci sul motivo che fa dire
a Virgilio, mai travolto dall’errore nelle sue descrizioni scienti­
fiche:
due zone ai miseri mortali,
furono concesse per dono dagli dèi, e per entrambe fu tracciata una via
lungo la quale si volge inclinata la schiera dei segni zodiacali. 124
2. In questi versi sembra infatti dire che lo zodiaco è trac­
ciato attraverso le zone temperate e che il corso del sole le
attraversa; cosa che non è lecitamente ammissibile, giacché il
corso del sole non oltrepassa nessuno dei due tropici. Virgilio
alluderebbe forse a ciò che abbiamo detto 125, ossia al fatto che
anche all’interno del tropico, in quella parte di zona torrida
che rasenta quella temperata, vi sono abitanti? 3. Difatti, Siene
è esattamente sotto il tropico, Meroe si trova, rispetto a Siene,
a tremilaottocento stadi verso l’interno in direzione della zona
torrida e tra essa e la terra del cinnamono la distanza è di otto­
cento stadi 126; e lungo tutti questi tratti della zona torrida esi­
stono tuttavia degli abitanti, seppur rari; ma al di là il paese
diviene inaccessibile a causa dell’eccessivo ardore del sole.
4. Poiché dunque un così largo tratto della zona torrida
consente la vita e poiché, senza dubbio, nelle vicinanze dell’al­
tra zona temperata, vale a dire quella degli anteci, è innegabile
che Ì confini della zona torrida presentino su un’estensione
altrettanto grande una temperatura ugualmente mite — tutto,
infatti, è simmetrico da una parte e dall’altra — bisogna crede­
re che Virgilio, attraverso la poesia epica 127, che esagera sem­
pre tutto, abbia affermato che il cammino del sole sia tracciato
attraverso le zone temperate, per la ragione che da entrambe le
parti Ì confini della zona torrida sono assimilabili alle zone
temperate per il fatto di avere degli abitanti?
5. A meno che forse, per una licenza poetica, non abbia
sostituito ad una preposizione un’altra quasi simile e abbia pre­
ferito dire per ambas (per entrambe) invece che sub ambas
Nam re uera ductus zodiaci «sub ambas» temperatas ultro
citroque peruenit, non tamen «per ambas»; scimus autem et
Homerum ipsum et in omnibus imitatorem eius Maronem
saepe tales mutasse particulas.
6 . An, quod mihi uero propius uidetur, «per ambas» pro
«inter ambas» uoluit intellegi? Zodiacus enim inter ambas
temperatas uoluitur, non per ambas. Familiariter autem «per»
pro «inter» ponere solet, sicut alibi quoque:
Circum perque duas in morem fluminis Arctos.
7. Neque enim Anguis sidereus Arctos secat, sed dum et
amplectitur et interuenit, circum eas et inter eas uoluitur, non
per eas. Ergo potest constare nobis intellectus si «per ambas»
pro «inter ambas», more ipsius poetae, dictum existimemus.
8 . Nobis aliud ad defensionem ultra haec quae diximus non
occurrit. Verum quoniam in medio posuimus quos fines num­
quam uia solis excedat, manifestum est autem omnibus quid
Maro dixerit, quem constat erroris ignarum, erit ingenii singu­
lorum inuenire quid possit amplius pro absoluenda hac quae­
stione conferri.

9. 1. His quoque, ut arbitror, non otiosa inspectione tracta­


tis, nunc de Oceano quod promisimus adstruamus: non uno,
sed gemino eius ambitu terrae corpus omne circumflui. Cuius
uerus et primus meatus est qui ab indocto hominum genere
nescitur. Is enim, quem solum Oceanum plures opinantur, de
sinibus ab illo originali refusis secundum ex necessitate ambi­
tum fecit. 2. Ceterum prior eius corona per zonam terrae cali­
dam meat, superiora terrarum et inferiora cingens, flexum circi
aequinoctialis imitata. Ab oriente uero duos sinus refundit,
(sotto entrambe)? Infatti, in realtà, il tracciato dello zodiaco
arriva, al di là ed al di qua, sotto entrambe le zone temperate,
ma non attraverso entrambe; sappiamo, del resto, che anche
per lo stesso Omero e quindi anche per Virgilio, suo imitatore
in tutto, tali preposizioni sono spesso intercambiabili.
6 . O forse, il che mi sembra più verosimile, Virgilio ha volu­
to dare alle parole per ambas (per entrambe) il senso di inter
ambas (tra entrambe)? Infatti lo zodiaco compie la sua rivolu­
zione tra le due zone temperate e non attraverso di esse. Ma
Virgilio è solito adoperare abitualmente per (attraverso) in
luogo di inter (entro), come in questo altro passo:
circum perque duas in morem fluminis Arctos.
[allo stesso modo di un fiume intorno e attraverso le Orse] 128
7. Infatti, la costellazione del Serpente [Dragone] non taglia
affatto le due Orse; ma, dato che le abbraccia e vi s’interpone
sinuosamente, si sviluppa «intorno» (circum ) e «tra» {inter)
esse, non «attraverso» {per) esse. Il significato può dunque
risultarci comprensibile, se consideriamo che l’espressione per
ambas (attraverso esse) sostituisce inter ambas (tra esse), secon­
do l’uso abituale del nostro poeta 129.
8 . Non ci occorre altro da aggiungere a ciò che abbiamo
appena detto a giustificazione di Virgilio. Ma, poiché abbiamo
mostrato quali sono i confini che il percorso del sole non supe­
ra mai, è, alla fine, chiaro a tutti quello che ha detto Virgilio
Marone, che, com’è noto, non conosce errore: apparterrà
all’ingegnosità di ognuno scoprire altri argomenti in grado di
risolvere questo problema.

9. 1. Trattati anche questi argomenti con un esame, credo,


non inutile, adesso, così come abbiamo promesso, dimostrere­
mo, a proposito delTOceano, che tutta quanta la terra è circon­
data, non da un solo giro di esso, ma da due. Il suo vero e
primo corso è ignoto al volgo incolto. 130 Infatti, la maggior
parte degli uomini crede che il solo Oceano sia quello che in
realtà è il secondo braccio circolare, che deriva necessariamen­
te da golfi riversatisi dall’Oceano originale. 2 . Del resto, la sua
prima corona passa attraverso la zona calda della terra, cingen­
done le parti inferiori e superiori delle terre, imitando la curva­
tura del circolo equinoziale. Da oriente, poi, si riversa in due
unum ad extremitatem septentrionis, ad australis alterum, rur-
susque ab occidente duo pariter enascuntur sinus, qui, usque
ad ambas quas supra diximus extremitates refusi, occurrunt ab
oriente demissis. 3. Et dum ui summa et impetu immaniore
miscentur in uicemque se feriunt, ex ipsa aquarum collisione
nascitur illa famosa Oceani accessio pariter et recessio, et ubi­
cumque in nostro mari contingit idem, uel in angustis fretis uel
in planis forte litoribus, ex ipsis Oceani sinibus quos Oceanum
nunc uocamus, eueniunt, quia nostrum mare ex illis influit.
4. Ceterum uerior, ut ita dicam, eius alueus tenet zonam
perustam, et tam ipse, qui aequinoctialem, quam sinus ex eo
nati, qui horizontem circulum ambitu suae flexionis imitantur,
omnem terram quadrifidam diuidunt et singulas, ut supra dixi­
mus, habitationes insulas faciunt. 5. Nam inter nos et australes
homines means ille per calidam totamque cingens et rursus
utriusque regionis extrema sinibus suis ambiens, binas in supe­
riore atque inferiore terrae superficie insulas facit. 6 . Vnde
Tullius, hoc intellegi uolens, non dixit «omnis terra parua
quaedam est insula», sed «omnis terra quae colitur a uobis
parua quaedam est insula », quia et singulae de quattuor habita­
tionibus paruae quaedam efficiuntur insulae, Oceano bis eas,
ut diximus, ambiente. 7. Omnia haec ante oculos locare potest
descriptio substituta, ex qua et nostri maris originem, quae
totius una est, et Rubri atque Indici ortum uidebis, Caspium-
que mare unde oriatur inuenies, licet non ignorem esse non
nullos qui ei de Oceano ingressum negent. Nec dubium est in
illam quoque australis generis temperatam mare de Oceano
similiter influere, sed describi hoc nostra attestatione non
debuit, cuius situs nobis incognitus perseuerat.
8. Quod autem nostram habitabilem dixit angustam uertici­
bus, lateribus latiorem, in eadem descriptione poterimus
aduertere. Nam quanto longior est tropicus circulus septen-
golfi di cui uno scorre verso l’estremità settentrionale e l’altro
verso l’estremità australe e, simmetricamente, da occidente,
nascono allo stesso modo due corsi, che dopo essersi divisi diri­
gendosi verso le due estremità, come abbiamo appena detto,
vanno incontro a quelli che sono partiti da oriente. 3. La vio­
lenza estrema e l’immane energia con cui si mescolano e si
scontrano questi corsi, per l’urto stesso delle acque danno adito
al fenomeno così noto del flusso e riflusso dell’Oceano e
dovunque, in tutta la superficie del nostro mare, si produce
quest’identico fenomeno ed esso si manifesta sia negli stretti
canali, come, talora, lungo le coste pianeggianti, perché si trat­
ta di un movimento che proviene dagli stessi corsi dell’Oceano,
ai quali diamo ora il nome d ’Oceano, dato che il nostro mare
affluisce da essi. 1314. Per altro, il suo letto più autentico, se così
si può dire, occupa la zona torrida e tanto quest’ultimo, che
segue il tracciato dell’equatore, quanto i corsi nati da esso, che
nel loro curvarsi si dirigono verso l’orizzonte, dividono tutta
quanta la terra in quattro parti e creano, come abbiamo detto
sopra 132, altrettante isole abitate. 5. Infatti, scorrendo tra noi e
gli uomini delle regioni australi attraverso la zona calda e cir­
condandola per intero, e, ancora, abbracciando con i suo golfi
le estremità delle due regioni, l’Oceano forma due isole nell’e­
misfero superiore e due nell’emisfero inferiore. 6 . E ciò che
vuol intendere Tullio Cicerone, quando invece di dire: «tutta la
terra è per così dire un isolotto», dice: «tutta la terra che è da voi
abitata è per così dire un isolotto», dato che ognuna delle quat­
tro zone abitate forma una sorta di piccola isola, perché, come
si è spiegato, l’Oceano cinge la terra in due sensi diversi. 7. La
figura seguente può dare un’idea di tutto questo : 133 in essa
vedrai l’origine del nostro mare, che è solamente una parte di
tutto l’Oceano, ed anche quella del Mar Rosso e dell’Oceano
Indiano e troverai da dove nasce il Mar Caspio, sebbene non
ignori che alcuni neghino che esso sia in comunicazione con
l’Oceano 134, Non c’e dubbio poi che anche nella zona tempe­
rata dell’emisfero australe scorra similmente un mare creato
dall’Oceano, ma nella nostra testimonianza non c’è obbligo di
descriverlo, dato che la sua posizione ci rimane sconosciuta.
8. Riusciremo a comprendere perché Cicerone ha descritto
la nostra zona abitabile come « stretta ai vertici e più larga ai
lati», sempre verificandolo sulla summenzionata figura 135.
trionali circo, tanto zona uerticibus quam lateribus angustior
est, quia summitas eius in artum extremi cinguli breuitate con­
trahitur, deductio autem laterum cum longitudine tropici ab
utraque parte distenditur. Denique ueteres omnem habitabi­
lem nostram extentae chlamydi similem esse dixerunt.
9. Item quia omnis terra, in qua et Oceanus est, ad quemuis
caelestem circulum quasi centron puncti obtinet locum, neces­
sario de Oceano adiecit: «qui tamen tanto nomine quam sit
paruus uides». Nam licet apud nos Atlanticum mare, licet
magnum uocetur, de caelo tamen despicientibus non potest
magnum uideri, cum ad caelum terra signum sit, quod diuidi
non possit in partes. 10. Ideo autem terrae breuitas tam dili­
genter adseritur ut parui pendendum ambitum famae uir for­
tis intellegat, quae in tam paruo magna esse non poterit.

Fig. 43
Diagramma raffigurante le zone della terra nell’incisione a stam­
pa deiredizione latina di Macrobius, In Somnium Scipionis, Angeli
Britannici, Brixiae, 1501. Entro un cerchio, attraversato da un ampio
tratto di mare (Alveus Oceani) sono raffigurati i tre continenti cono­
sciuti (Europa, Asia, Africa) che occupano l’emisfero superiore, men­
tre nella zona inferiore si distende un continente sconosciuto
('Temperata antipodum nobis incongnita). Il globo è poi suddiviso
nelle 5 fasce climatiche: le due ghiacciate vicino ai poli (a nord sono
indicate anche i misteriosi Monti Ripei), una zona torrida a cavallo
dell’equatore e le due zone temperate, le sole abitabili.
Infatti quanto il circolo tropicale è più lungo del circolo setten­
trionale, tanto questa zona è più stretta alle estremità che non
ai lati, poiché la sua sommità è contratta dall’esiguità della
fascia più estrema, mentre lo sviluppo dei lati si estende da
ambedue le parti per tutta la lunghezza del tropico. Gli antichi,
infine, hanno paragonato l’insieme della nostra zona abitabile
ad una clamide spiegata 136.
9. In modo analogo, poiché la terra tutta intera, ivi compre­
so anche l’Oceano, rispetto ad un qualunque circolo celeste
occupa, come un centro, il posto di un punto, Cicerone ha
dovuto aggiungere, a proposito dell’Oceano: «a dispetto del
nome altisonante, vedi bene quanto sia minuscolo». Infatti,
anche se lo chiamiamo Mare Atlantico, anche se lo chiamiamo
Mare Magno, non può sembrare grande a chi l’osserva dal
cielo, poiché la terra, rispetto al cielo, è un punto che non può
essere diviso in parti. 10. Ecco perché la piccolezza della terra
è sostenuta con tanta insistenza: per far capire a quell’uomo
valoroso che va attribuita poca importanza alla diffusione della
fama, che in un mondo così piccolo non potrà essere grande.

Fig. 44
Lo stesso diagramma tratto dall’edizione del Commentarium in
somnium Scipionis di Franciscus Eyssenhardt, B. G. Teubner,
Leipzig, 18932.
fvf *■t *•*

Fig. 45 della zona equatoriale e si ricolle­


ga con un altro che fluisce da
Lo stesso diagramma in un
nord a sud. Leggendo da destra a
manoscritto francese del XII
sinistra sotto il nord, la zona geli­
secolo dei Commentarium in
da, inabitabile (inhabitabilis) c’è
somnium Scipionis.
il Mar Caspio, sotto di esso
l’Oceano Indiano, subito dopo a
Fig. 46
sinistra c’è una figura che indica
Lo stesso diagramma delle il Mar Nero e accanto ad esso la
zone della terra in un manoscrit­ Grecia (non specificata), quindi
to del IX secolo del Commen­ l’Italia (Italia) e una protuberan­
tarium in somnium Scipionis, za che rappresenta la Spagna.
particolare del fol. 70v, Harley Sotto tutto questo una striscia
MS 2772, (inchiostro e tempera orizzontale che rappresenta il
su pergamena), London, British Mediterraneo e sotto una L che
Library. Anche in essa si ritrova­ forma il Mar Rosso. A sinistra,
no le cinque zone: le due gelate, con la forma di un approssimati­
le due temperate e quella torrida vo triangolo con un grande cer­
intorno all’Equatore. Un grande chio nel mezzo, vi sono le favolo­
oceano scorre lungo la metà se isole Or cadi [Orcades).

Fig. 47
La stessa mappa, illustrante le
zone climatiche, nell’edizione
Ambrosius Macrobius, In som­
nium Scipionis. Lib II, Saturna­
liorum, Lib. VII, loannnes
Gryphius, Venezia, 1574?
Fig. 48 Fig. 49
Ancora la stessa mappa, illu­ Sempre la stessa mappa, illu­
strante le zone climatiche, con strante le zone climatiche, anco­
qualche leggera variante in un’e­ ra con qualche leggera variante
dizione Ioannes Gryphius, Lio­ in un’edizione Antonius Gry­
ne, 1560, p . 144. phius, Lione, 1585.

Fig. 50 Fig. 51
La mappa della terra in una Ancora la stessa carta del
pagina del Macrobius, Com­ mondo in un manoscritto su per­
mentarii in Somnium Scipionis gamena (Tours, circa 820), Mss.
(NKS 218 4°), manoscritto su Latin 6370, fol. 20v, Paris, Bi-
pergamena (ca. 1150, Francia bliothèque nationale de France.
meridionale?), particolare del
fol. 38v, Copenhagen, Det Kon-
gelige Bibliotek.
w
Fig. 52 Fig. 53
La mappa del mondo degli La carta dell’Oceano e delle
incunaboli rinascimentali in Car- regioni abitate tratta dal mano­
tes et Figures de la Terre, 1984. scritto Londinensis, British
Questa mappa appare in non me­ Library, Harleianus 2772 + Mo-
no di cento edizioni dei Commen­ nacensis Clm 23486 (Germania,
tarii, con qualche leggera variante XI sec.), riproduzione dell'im­
(qui ad es. appare la scritta Tepe- magine del manoscritto del IX
rata antipodum nobis incongnita secolo.
invece di Temperata antipodum
nobis incongnita, in altre invece
che Perusta zona appare la scritta
Pusta zona, come nell'illustrazione
dell’edizione teubneriana ripro­
dotta in p. 433 (= Fig. 44).

Fig. 54 Fig. 55
Mappa Mundi a zone detto di L’Ecumene secondo Macrobio,
Macrobio, Ms. D ’Orville 77, fol. Ms. Vat. Lat. 4200, particolare del
100, Oxford, Bodleian Library. fol. 93r (XII-XIII sec.), Vaticano,
Biblioteca Apostolica Vaticana.
pfwwsflc f&pttw

Fig. 56
Mappa Mundi detta di o-MfotaiSua
2 9 tvwtcmii itali*
f*tUlif«Libcdi i>v'CTV*p; nManota fiatili
.fokwawqyh.’* ÉMp»’

Macrobio in una pagina di fcpMUtf i2-r


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giae iudicialis de accidentibus *r ifrbsuKtHifcUeiJ &Awclti-
Af «4teWi £-flfItfAty-KUrfiiM** !&
roS ctuunio^firanf & frml inaura» (?« ik u

ptwiii.btdintjstoft^fdjQjPHTO^ksw-ar.uM
mundi, quae anglicana vulgo val^atw^Nwii-wwim flsatwi pirone
*pw A i» <Ofc« te i ttìiiortpec Gl
«unuu-ihì»» J"«t>tj >
B*nJ«.sjtt»tt^{.datrafci3tì54
nuncupatur, ]ohannis Eschuid icttmft: ftfaccnitJaumi&gwwiapttiiSL
nbjfei aililmt fll:l*ei:s(fn*»fcrit*HSicaii(prt
piiianripSiHwiaéfpEfcgwsT^Ì'iJt frfwdw
k i*w* jk:(Mtwni»M^luu<nttr i;(icu*«<3 nE-
8 4 /
<H»il«i r F*nKtt*Js;}tò%tfiBatatt Hwtet PK^f^t^lMWipiidBW^ÙlH'^ V*
viri anglici eiusdem scientiae èiiti|Mfi>lnuli«nni n ir r rn p u m ifl& fu lp jia
V«t'&&£t<&UK:*tr'8Hfekfc&W
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W*» tu a ff&faffcfc tpatfin tS f& itffili faaf $ « W
tatti <wMli4a :& dityettr Ou5t»jU*
ferita fimpLtt* & fin» «*#& u ".•<{»(»pwiAi *atóf«jigw<»nhi$:h»hw!as
astrologiae peritissimi, Johann nctxWi Mietuti (liuti! ■CTPwtESiatdhu» 4n *
ua»CRfijsi<d;!i tefetftntoftr& PiftiM tnfttim
Imtixkpkkii^KAnMliaroijrftMMScnti^H
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sco Bollano, Venezia, 1489. naturi ttjfim pbaw » tòte* difpo<2B>ji«<


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«HlBlH|e%iu(keiaj£ iiwii # ti»^i nd»/

Fig. 57 Fig. 58
Ancora la carta del mondo in L’edizione in piccolo 8°
una miniatura, Commentarii in dell’Ambrosius Macrobius, In
Somnium Scipionis, Mss. lat. somnium Scipionis, Sebastianus
6371, fol. 20v (IX sec., Scuola Gryphius, Lione, 1556, aperta
francese del Nord), Paris, Biblio- sulla pagina 154 recante la
thèque nationale de France. mappa del mondo.
AiVtuìe
Tallii»hoc mtdOUginolo» nòdcntiomnu terra paruaqiwclaeft tfula:
ckquaauor Ha&c^nibus patux quadam efficuìwiifufxicksano bis
asardirirrun ambiéce, Omnizhai anceoculoslocsrtpautl defcnp'
no £ubftitua:e)c qiu&noftrìinamongwéquaE totius un»eft:& tabù
■■ .....- ” ------------J‘ — “ •—-“ slitet

mvw>nenfriiajuiunuus uuana' *, .
im itteogmruspofeuerat. Quodau/ *9
acrip'
muse poterimus adultere. Nam
ffiona iongiot eft tropicus «tus
uptaunmdi diaftaatosonaaci'
ticjbtts ^ laceribusanguftiar fc quia ;
fumilaas «fas ia xtébum extimi :
nttulibncuitatecontrahitur. Deduci
lia itittm la«rum tum iangumixne
tiupittib utraq; parte dsftenimir,
Denl9 uerares omne habitabilem
noftram «tentai clamidi finultm ,
effeckjterunr.Itoji quia omnis tma
owimloram:ntceltarioi t oceano a&edt. Qui (arc tanto nomine cj
Fig. 59
Particolare di una pagina <id\ editio princeps dell’Ambrosius Macro­
bius Theodosius, In Somnium Scipionis Ciceronis expositio; Saturnalia,
Venezia, Nicolas Jenson, 1472. La maggior parte delle superstiti copie
di questo incunabolo sono prive di illustrazioni e recano delle parti in
bianco. Le edizioni successive, dal 1483 in poi, comprenderanno inve­
ce delle illustrazioni incise con matrice di legno nello stesso testo. Que­
sta copia è molto insolita: ha un’illustrazione disegnata a mano fissata
alla pagina. Vi sono le stesse parole usate nelle illustrazioni situate in
questo punto del libro nelle edizioni successive (ma con molti errori: ad
es. teperata invece di temperata, ecc.). L’illustrazione risale verosimil­
mente al XV sec., ma le scritte a mano sono sicuramente di un periodo
più tardo: l’annotazione fig. 5 non sarebbe stata usata prima della metà
del XVII sec. Il disegno illustra l’antico modello della sfera di Cratete.
Nel centro si vede la terra conosciuta e la sua copia dell’emisfero meri­
dionale. L’Oceano, più scuro, circonda l’Equatore e scorre intorno ad
un grande cerchio attraverso i due poli. Muovendosi verso il bordo del
disegno si osserva in realtà, oltre il bordo, il lato opposto del globo. A
sinistra in alto si vede una parte del continente che è sul lato estremo (la
costa orientale dell’America del Nord, per usare la terminologia moder­
na) e in alto a destra vediamo la punta opposta dello stesso continente.
Nella parte inferiore si vedono le due parti meridionali del continente.
Fig. 60 Fig. 61
Illustrazione nel manoscritto lati­ Una seconda mappa mundi è
no della Philosophia Mundi di Gu­ presente nel fol. 15r dello stesso
glielmo di Conches, derivata dalla manoscritto. A nch’essa mostra un
sezione cosmologica del commento di globo con l’est in alto e con il mondo
Macrobio (Francia, seconda metà del circondato e diviso dall’Oceano.
XII sec.), fol 13r, Ms ljs384, Univer­ Qui, però, la massa della terra è divi­
sity o f Pennsylvania Library. Il mondo sa nelle consuete cinque zone: le
è illustrato con un cerchio, con l’o ­ regioni fredde ai poli, le zone tem pe­
riente nella parte in alto, circondato e rate in ciascun emisfero e la zona
diviso in due emisferi dall’Oceano. Le torrida al centro divisa dall’oceano
didascalie esterne alla circonferenza equatoriale. La geografia dell’emi­
spiegano l ’azione delle maree. L’emi­ sfero settentrionale è espressa in
sfero meridionale è completamente maniera molto dettagliata. L’Asia a
vuoto, mentre in quello settentrionale est è separata dall’Europa dai fiumi
sono indicati l’Europa e l’Africa, sepa­ Tanai e Nilo, mentre il Mediterraneo
rate dal Mediterraneo. Anche le divide l’Europa dall’Africa.
Colonne d ’Èrcole e le montagne afri­
cane dell’Adante sono indicate, anche
se non molto accuratamente.

Fig. 62
L’Ecumene in una pagina di un
manoscritto, secolo XV, Ottob.Lat.
1137, fol. 54v, Vaticano, Biblioteca
Apostolica Vaticana.
10. 1.Quod doctrinae propositum non minus in sequenti­
bus apparebit: «quin etiam si cupiat proles futurorum hominum
deinceps laudes uniuscuiusque nostrum acceptas a patribus
posteris prodere, tamen propter eluuiones exustionesque terra­
rum, quas accidere tempore certo necesse est, non modo non
aeternam sed ne diuturnam quidem gloriam adsequi possumus».
2. Virtutis fructum sapiens in conscientia ponit, minus per­
fectus in gloria; unde Scipio, perfectionem cupiens infundere
nepoti, auctor est ut, contentus conscientiae praemio, gloriam
non requirat. 3. In qua appetenda quoniam duo sunt maxime
quae praeoptari possint, ut et quam latissime uagetur et quam
diutissime perseueret, postquam superius de habitationis
nostrae angustiis disserendo totius terrae, quae ad caelum
puncti locum obtinet, minimam quandam docuit a nostri gene­
ris hominibus particulam possideri, nullius uero gloriam uel in
illam totam partem potuisse diffundi, si quidem Gangen tran-
snare uel transcendere Caucasum Romani nominis fama non
ualuit, spem quam de propaganda late gloria ante oculos
ponendo nostri orbis angustias amputauit, uult et diuturnitatis
auferre, ut plene animo nepotis contemptum gloriae compos
dissuasor insinuet. 4. Et ait nec in hac ipsa parte, in quam
sapientis et fortis uiri nomen serpere potest, aeternitatem
nominis posse durare, cum modo exustione, modo eluuione
terrarum diuturnitate rerum intercedat occasus.
5. Quod quale sit disseremus. In hac enim parte tractatus
illa quaestio latenter absoluitur, quae multorum cogitationes
de ambigenda mundi aeternitate sollicitat. 6 . Nam quis facile
mundum semper fuisse consentiat, cum et ipsa historiarum
fides multarum rerum cultum emendationemque uel ipsam
inuentionem recentem esse fateatur, cumque rudes primum
homines et incuria siluestri non multum a ferarum asperitate
dissimiles meminerit uel fabuletur antiquitas, tradatque nec
10. 1. Questa proposizione dottrinale non sarà meno evi-
dente nelle seguenti parole: «E anche nel caso che le future
generazioni umane desiderassero a loro volta tramandare ai
posteri le lodi d i uno d i noi, dopo averle ricevute dai loro padri\
tuttavia, a causa dei diluvi e degli incendi delle terre, che devono
inevitabilmente prodursi in certe epoche, non saremo in grado di
conseguire una gloria non dico eterna, ma neppure duratura» 137.
2 . Il saggio pone il frutto della virtù nella sua coscienza; Può-
mo meno perfetto nella gloria 138; e per questo Scipione, desi'
deroso d’infondere nel nipote la perfezione, insiste affinché
questi, accontentandosi del premio della sua coscienza, non
ambisca alla gloria. 3. Siccome nell’aspirare ad essa sono prin­
cipalmente due le cose che più si vorrebbero — che si diffon­
da nel modo più ampio possibile e che duri il più a lungo pos~
sibile —, e poiché, in precedenza, parlando dell’esiguità della
parte da noi abitata, Scipione ha spiegato che di tutta quanta la
terra, che è solamente un punto rispetto al cielo 139, solo una
minuscola particella è abitata dagli uomini della nostra specie
!40 e che di nessuno la gloria può diffondersi anche soltanto in
tutta questa parte, se è vero che la fama del nome di Roma non
è riuscita ad attraversare il Gange né a superare il Caucaso 141,
in questo modo gli ha tolto ogni speranza di una gloria ampia­
mente diffusa, mettendo sotto gli occhi dell’Emiliano il quadro
angusto del nostro globo, e adesso vuole anche cancellare l’idea
della sua durata, insinuando pienamente nell’animo del nipote
il disprezzo della gloria, da cui, pur possedendola, lo dissuade.
4. Scipione aggiunge che anche in questa stessa parte del
mondo nella quale può serpeggiare la fama del saggio, questa
fama non può durare in eterno, poiché, o per una conflagrazio­
ne o per un’inondazione cataclismica, interviene il tramonto
anche della lunga esistenza delle cose.
5. Spieghiamo in che modo ciò avvenga. Questa parte del
trattato, infatti, dà implicitamente una risposta alla controver­
sa questione sull’eternità del mondo che, per molte persone, è
stimolo di riflessioni. 6 . Chi, infatti, può facilmente concepire
che questo mondo sia sempre esistito, quando l’autorità stessa
della storia riconosce che lo sviluppo della maggior parte delle
cose, il loro perfezionamento, la loro stessa invenzione sono
del tutto recenti? Quando l’antichità tramanda o favoleggia dei
hunc eis quo nunc utimur uictum fuisse, sed glande prius et
bacis altos, sero sperasse de sulcis alimoniam, cumque ita exor­
dium rerum et ipsius humanae nationis opinemur, ut aurea pri­
mum saecula fuisse credamus, et inde natura, per metalla uilio-
ra degenerans, ferro saecula postrema foedauerit?
7. Ac ne totum uideamur de fabulis mutuari, quis non hinc
aestimet mundum quandoque coepisse et nec longam retro
eius aetatem, cum abhinc ultra duo retro annorum milia de
excellenti rerum gestarum memoria ne Graeca quidem extet
historia? Nam supra Ninum, a quo Semiramis secundum quo­
sdam creditur procreata, nihil praeclarum in libros relatum est.
8 . Si enim ab initio, immo ante initium fuit mundus, ut philo­
sophi uolunt, cur, per innumerabilem seriem saeculorum, non
fuerat cultus quo nunc utimur inuentus, non litterarum usus,
quo solo memoriae fulcitur aeternitas? Cur denique multarum
rerum experientia ad aliquas gentes recenti aetate peruenit, ut
ecce Galli uitem uel cultum oleae Roma iam adolescente didi­
cerunt, aliae uero gentes adhuc multa nesciunt quae nobis
inuenta placuerunt? 9. Haec omnia uidentur aeternitati rerum
repugnare, dum opinari nos faciunt certo mundi principio
paulatim singula quaeque coepisse.
Sed mundum quidem fuisse semper philosophia auctor est,
conditore quidem deo, sed non ex tempore, si quidem tempus
ante mundum esse non potuit, cum nihil aliud tempora nisi
cursus solis efficiat.
Res uero humanae ex parte maxima saepe occidunt manen­
te mundo, et rursus oriuntur, uel eluuione uicissim uel exustio-
rozzi uomini primitivi, non molto dissimili nella loro selvaggia
incuria dalla selvatichezza ferina e che, come si racconta, non
avevano un’alimentazione somigliante a quella nostra attuale,
ma si nutrivano inizialmente di ghiande e bacche e fu solo
molto più tardi che sperarono di trarre il loro nutrimento dai
solchi della terra? Quando, per raffigurarci l’inizio delle cose e
l’esordio dello stesso genere umano, crediamo che vi sia stata
dapprima l’età dell’oro e che in seguito la natura, degenerando
attraverso metalli più vili, ha reso oscuri questi ultimi secoli
con l’età del ferro 142?
7. Ma, per non sembrare di trarre ogni cosa dalle leggende,
chi non crede che il mondo abbia avuto inizio ad un certo
momento e che la sua età non sia poi cosi tanto remota, dal
momento che la storia greca, che perpetua la memoria degli
avvenimenti più gloriosi, non risale più in là di duemila anni?
Infatti, prima di Nino, che alcuni ritengono il padre di Semi­
ramide 143, i libri non riferiscono alcun avvenimento notevole.
8 . Se questo mondo è esistito dall’inizio o, meglio, prima del­
l’inizio dei tempi, come vogliono i filosofi 144, com’è possibile
che, durante questa serie d ’innumerevoli secoli, non sia stato
inventato il grado di civiltà di cui noi oggi usufruiamo, né l’uso
della scrittura, che solo assicura l’eternarsi della memoria?
Infine, perché la pratica di molte cose in diverse nazioni è giun­
ta solo in età recente, come attestano i Galli che hanno cono­
sciuto la viticoltura e la coltivazione dell’olivo solo quando
Roma era già nel suo pieno sviluppo, per non parlare di molte
altre popolazioni che ancora ignorano tante scoperte che sono
per noi dei benefici? 9. Tutto ciò sembra in contraddizione con
l’eternità delle cose, facendoci supporre che il mondo abbia
avuto un determinato inizio in seguito al quale ogni singola
innovazione si è prodotta a poco a poco 145.
Ma la filosofia ci assicura che il mondo è certamente sem­
pre esistito, prodotto sì da un dio, ma non dal tempo 146, se è
vero che il tempo non è potuto esistere prima del mondo, dato
che nient’altro realizza i momenti del tempo se non il corso del
sole 147.
Quanto alle cose umane spesso periscono in massima
parte 148 mentre il mondo rimane e poi di nuovo ritornano in
vita per l’effetto delTalternarsi d’inondazioni e di conflagrazio-
ne redeunte. 1 0 . Cuius uicissitudinis causa uel necessitas talis
est. Ignem aetherium physici tradiderunt humore nutriri, adse-
rentes ideo sub zona caeli perusta, quam uia solis, id est zodia­
cus, occupauit, Oceanum, sicut supra descripsimus, a natura
locatum, ut omnis latitudo, quam sol cum quinque uagis et
luna ultro citroque discurrunt, habeat subiecti humoris alimo­
niam. 11. Et hoc esse uolunt quod Homerus, diuinarum
omnium inuentionum fons et origo, sub poetici nube figmenti
uerum sapientibus intellegi dedit, Iouem cum dis ceteris, id est
cum stellis, profectum in Oceanum, Aethiopibus eum ad epu­
las inuitantibus. Per quam imaginem fabulosam Homerum
significasse uolunt hauriri de humore nutrimenta sideribus,
qui ob hoc Aethiopas reges epularum caelestium dixit, quo­
niam circa Oceani oram non nisi Aethiopes habitant, quos
uicinia solis usque ad speciem nigri coloris exurit.
12. Cum ergo calor nutriatur humore, haec uicissitudo con­
tingit ut modo calor, modo humor exuberet. Euenit enim ut
ignis, usque ad maximum enutritus augmentum, haustum uin-
cat humorem ac sic aeris mutata temperies licentiam praestet
incendio, et terra penitus flagrantia immissi ignis uratur; sed
mox, impetu caloris absum pto, paulatim uires reuertuntur
humori, cum magna pars ignis, incendiis erogata, minus iam de
renascente humore consumat. 13. Ac rursus longo temporum
tractu ita crescens humor altius uincit ut terris infundatur
eluuio, rursusque calor post hoc uires resumit, et ita fit ut,
manente mundo inter exuberantis caloris humorisque uices,
terrarum cultus cum hominum genere saepe intercidat, et
reducta temperie rursus nouetur.
14. Numquam tamen seu eluuio seu exustio omnes terras
aut omne hominum genus uel omnino operit uel penitus exu­
rit. Aegypto certe, ut Plato in Timaeo fatetur, numquam nimie-
ni 149. 10. La causa o la necessità di questo alternarsi è la
seguente. I fisici hanno insegnato che il fuoco etereo si nutre di
liquido 150, asserendo come sotto la zona torrida del cielo, occu­
pata dalla rotta del sole, cioè dallo zodiaco, la natura abbia
posto l’Oceano, come abbiamo descritto sopra 151, proprio
affinché l’intera sua larghezza, che percorrono nell’uno e nel­
l’altro senso il sole con i cinque pianeti e la luna, trovi il liqui­
do sottostante che l’alimenta 152. 1 1 . Dicono che è questa veri­
tà che Omero, fonte e origine di tutte le invenzioni divine,
diede a comprendere ai saggi, sotto il velo della finzione poeti­
ca, quando dice che Giove, accompagnato dagli altri dèi, cioè
dai pianeti, discese nell’Oceano, perché fu invitato a banchetto
dagli Etiopi. Attraverso questa immagine allegorica, assicurano
che Omero abbia indicato che il nutrimento degli astri è attin­
to dal liquido e che per questa ragione ha descritto gli Etiopi
come «re dei banchetti dei celesti»153, perché sulle sponde
dell’Oceano non abitano altri che gli Etiopi 154, la cui pelle,
bruciata dalla vicinanza del sole, ha una tinta quasi nera 155.
12. Dal momento, quindi, che il caldo trae nutrimento dal
liquido, ne risulta un’alternanza tale per cui ora prevale il
caldo, ora l’umido. Accade infatti che il fuoco, giunto al mas­
simo del nutrimento, trionfi sul liquido che ha assorbito e, in
questo modo, la mutata temperatura dell’aria lascia libero
corso a un incendio e la terra incandescente fino alle viscere
per il fuoco che vi è penetrato, s’incendia, ma ben presto, con­
sumatasi l’intensità del calore, l’umidità recupera gradatamen­
te le sue forze; perché il fuoco, di cui una gran parte si è con­
sumata nell’incendio, assorbe ormai in minor misura l’umido
che va ricostituendosi. 13. E a sua volta, dopo un lungo inter­
vallo di tempo, l’elemento umido, accumulandosi, prevale a tal
punto che un’inondazione sommerge le terre; viceversa, il calo­
re riacquista di nuovo le proprie forze: ecco come, pur rima­
nendo il mondo nell’alterna supremazia tra caldo e umido, la
civiltà terrestre spesso vien distrutta insieme al genere umano
e, quando l’equilibrio è ristabilito, si ricostituisce di nuovo.
14. Ciononostante non accade mai che un’inondazione o
una conflagrazione inghiotta del tutto o consumi fino in fondo
tutta la terra o tutta la specie umana. Quel che è certo è che
all’Egitto, come ci assicura Platone nel Timeo , non nocque mai
tas uel humoris nocuit uel caloris; unde et infinita annorum
milia in solis Aegyptiorum monumentis librisque releguntur.
15. Certae igitur terrarum partes, internecioni superstites, se­
minarium instaurando generi humano fiunt; atque ita contingit
ut non rudi mundo rudes homines et cultus inscii, cuius me­
moriam intercepit interitus, terris oberrent et, asperitatem pau-
latim uagae feritatis exuti, conciliabula et coetus, natura insti-
tuente, patiantur, sitque primum inter eos mali nescia et adhuc
astutiae inexperta simplicitas, quae nomen auri primis saeculis
praestat. 16. Inde quo magis ad cultum rerum atque artium
usus promouet, tanto facilius in animos serpit aemulatio, quae
primum bene incipiens in inuidiam latenter euadit, et ex hac
iam nascitur quicquid genus hominum post sequentibus saecu­
lis experitur. Haec est ergo quae rebus humanis pereundi
atque iterum reuertendi incolumi mundo uicissitudo uariatur.

1 1 . 1 . «... Praesertim cum apud eos ipsos, a quibus audiri


nomem nostrum potest, nemo unius anni memoriam consequi
possit. 2. Homines enim populariter annum tantummodo solis,
id est unius astri, reditu metiuntur; re ipsa autem, cum ad idem
unde semel profecta sunt cuncta astra redierint, eandemque
totius caeli descriptionem longis interuallis retulerint, tum ille
uere uertens anuus appellari potest, in quo uix dicere audeo
quam multa hominum saecula teneantur. 3. Namque, ut olim
deficere sol hominibus extinguique uisus est cum Romuli animus
haec ipsa in templa penetrauit, quandoque ab eadem parte sol
eodemque tempore iterum defecerit, tum, signis omnibus ad
idem principium stellisque reuocatis, expletum annum habeto.
Cuius quidem anni nondum uicesimam partem scito esse conuer-
sam».
4. Idem agere perseuerat, instans dissuasioni gloriae deside­
randae. Quam cum locis artam nec in ipsis angustiis aeternam
l’eccessivo prevalere di acqua o di caldo e perciò gli avveni­
menti d'infiniti millenni si conservano unicamente nei monu­
menti e nei libri egizi156. 15. Alcune parti della terra, sfuggen­
do alla distruzione, divengono quindi vivai che servono a rin­
novare il genere umano; ed ecco come, in un mondo che non
è nuovo, uomini nuovi e ignari di una civiltà, il cui ricordo si è
perso per un cataclisma, vagano sulla terra e, liberandosi gra­
dualmente di una vita errabonda allo stato selvaggio, sotto
l’impero della legge di natura accettino di riunirsi e di vivere in
gruppo; tra essi vige, in un primo tempo, una semplicità che
ignora il male e ancora estranea alle furbizie 157; che fa dare a
questi primi secoli il nome d’età dell’oro. 16. In seguito, quan­
to più l’esperienza incrementa la civilizzazione e le arti, tanto
più facilmente s’insinua negli animi la rivalità e questo senti­
mento, così benefico da principio, sfocia subdolamente nell’in­
vidia, da cui nasce ormai quello che il genere umano sperimen­
terà nei secoli a venire. Tale è dunque l’alternanza di distruzio­
ne e di rinascita delle cose umane, senza che il mondo subisca
mutamenti. 158

11. 1. «... A maggior ragione perché presso questi stessi, da


cui può essere udito il nostro nome, nessuno può raccogliere di sé
un ricordo che duri più di un anno. 2 . G li uomini, infatti\ misu­
rano ordinariamente l ’anno soltanto dopo il ritorno del sole, cioè
di un unico astro; è quando, invece, tu tti quanti gli astri saranno
ritornati nell’identico punto da cui una prima volta sono partiti
e avranno nuovamente tracciato, dopo lunghi intervalli di
tempo, l’identico disegno d i tutta quanta la volta celeste, che solo
allora si potrà parlare, a ragione, del volgersi d i un anno, nel
quale a fatica oso dire quante generazioni d i uomini v i siano con­
tenute. 3. Come un tempo, infatti, il sole sembrò agli uomini
venir meno e spegnersi, allorché l’anima di Romolo entrò nelle
nostre sacre dimore, così, quando di nuovo, dallo stesso lato del
cielo e nel medesimo istante, il sole verrà meno, allora, una volta
che saranno ricondotte al loro punto iniziale tutte le costellazio­
ni e le stelle, considera compiuto l’anno. Sappi, comunque, che di
un tale anno, non è ancora trascorsa la ventesima parte» 159.
4. L’Africano continua ad insistere sui motivi che devono
dissuadere l’Emiliano dal desiderare la gloria. Gli ha appena
supra docuisset, nunc non solum perpetuitatis expertem, sed
nec ad unius integri anni metas posse propagari docet. Cuius
adsertionis quae sit ratio dicemus.
5. Annus non is solus est quem nunc communis omnium
usus appellat, sed singulorum seu luminum seu stellarum,
emenso omni caeli circuitu, a certo loco in eundem locum redi­
tus annus suus est. 6 . Sic mensis lunae annus est, intra quem
caeli ambitum lustrat. Nam et a luna mensis dicitur, quia
Graeco nomine luna nr|vr) uocatur. Vergilius denique, ad
discretionem lunaris anni qui breuis est, annum qui cursu solis
efficitur significare uolens, ait
interea magnum sol circumuoluitur annum,
annum magnum uocans solis comparatione lunaris. 7. Nam
cursus quidem Veneris atque Mercurii paene par soli est;
Martis uero annus fere biennium tenet — tanto enim tempore
caelum circumit — , louis autem stella duodecim et Saturni tri­
ginta annos in eadem circumitione consumit.
8. Haec de luminibus ac uagis, ut saepe relata, iam nota
sunt. Annus uero qui mundanus uocatur, qui uere uertens est,
quia conuersione plenae uniuersitatis efficitur, largissimis sae­
culis explicatur. Cuius ratio talis est. 9. Stellae omnes et sidera
quae infixa caelo uidentur, quorum proprium motum num­
quam uisus humanus sentire uel deprehendere potest, mouen-
tur tamen, et praeter caeli uolubilitatem, qua semper trahun­
tur, suo quoque accessu tam sero promouentur, ut nullius
hominum uita tam longa sit quae obseruatione continua fac­
tum de loco permutationem, in quo eas primum uiderat,
deprehendat. 10. Mundani ergo anni finis est cum stellae
omnes omniaque sidera, quae cnrAavTis habet, a certo loco ad
eundem locum ita remeauerint ut ne una quidem caeli stella in
dimostrato che questa è limitata in un ambito ristrettissimo e
non può essere eterna neppure in un ambito così circoscritto,
ora mostra che essa è ben lungi dal partecipare all’eternità e
non può nemmeno arrivare alle estremità 160 di un solo intero
anno. Affermazione, quest’ultima, di cui diremo la ragione.
5. L’anno non è solo quello che viene adesso così chiamato
da tutti nell’accezione comune; ma ad ogni singolo luminare o
pianeta, che, dopo aver percorso tutta la circonferenza del
cielo, ritorna nello stesso identico punto del cielo da cui era
partito, corrisponde un anno che gli è proprio 161. 6 . Così per
la luna l’anno è il mese nel quale compie la sua rivoluzione
celeste. Perciò la parola latina mensis (mese) prende il suo
nome dalla luna, che in greco è chiamata ur|vr|. 162 Virgilio
volendo quindi esprimere l’anno che si realizza con il corso del
sole, per differenziarlo dall’anno lunare, che è breve, dice
Intanto un grande anno compie il sole girando 163

chiamando «grande anno» quello del sole rispetto a quello


lunare. 7. Quanto alla rivoluzione di Venere e di Mercurio, è
pressappoco uguale a quella del sole; l’anno di Marte invece
impiega a un dipresso un biennio — questo è infatti il tempo
che gli occorre per tracciare la sua orbita celeste —, il pianeta
di Giove invece ne impiega dodici per compiere la medesima
rivoluzione e quello di Saturno trent’a n n i164.
8. Tutte queste nozioni sui luminari e i pianeti, in quanto
spesso riferite, sono ormai note. Ma l’anno detto «del mondo»,
che è, a ragione, il vero ciclo, perché risulta dalla rotazione del­
l’universo nel suo insieme, si realizza su lunghissimi secoli.
Eccone la ragione. 165 9. Tutte le stelle e tutte le costellazioni
che sembrano infisse nella volta celeste e delle quali l’occhio
umano non può mai vedere né percepire il movimento pro­
prio, eppure si muovono e, in aggiunta alla rotazione del cielo
che le trascina continuamente, realizzano anche un loro movi­
mento, così lento che non vi è uomo che viva abbastanza a
lungo per riconoscere, osservandole assiduamente, che esse
hanno lasciato il punto in cui aveva cominciato a scorgerle la
prima volta. 166 10. L’anno del mondo è dunque compiuto
quando tutte le stelle e tutte le costellazioni che contiene
l’ccrTAavris sono ritornate da un dato punto nella medesima
posizione da cui erano partite, in modo tale che neppure una
alio loco sit quam in quo fuit cum omnes aliae ex eo loco motae
sunt ad quem reuersae anno suo finem dederunt, ita ut lumina
quoque cum erraticis quinque in isdem locis et partibus sint in
quibus incipiente mundano anno fuerunt.
11 . H oc autem, ut physici uolunt, post annorum quindecim
milia peracta contingit. Ergo sicut annus lunae mensis est, et
annus solis duodecim menses, et aliarum stellarum hi sunt anni
quos supra rettulimus, ita mundanum annum quindecim milia
annorum quales nunc computamus efficiunt. 12. Ille ergo uere
annus uertens uocandus est, quem non solis, id est unius astri,
reditu metimur, sed quem stellarum omnium, quae in quocum­
que caelo sunt, ad eundem locum reditus sub eadem caeli
totius descriptione concludit, unde et mundanus dicitur quia
mundus proprie caelum uocatur.
13. Igitur sicut annum solis non solum a kalendis Ianuariis
usque ad easdem uocamus, sed et a sequente post kalendas die
usque ad eundem diem, et a quocumque cuiuslibet mensis die
usque in diem eundem reditus annus uocatur, ita huius mun­
dani anni initium sibi quisque facit quodcumque decreuerit, ut
ecce nunc Cicero a defectu solis qui sub Romuli fine contigit
mundani anni principium sibi ipse constituit. 14. Et licet iam
saepissime postea defectus solis euenerit, non dicitur tamen
mundanum annum repetita defectio solis implesse, sed tunc
implebitur cum sol deficiens in isdem locis et partibus et ipse
erit, et omnes caeli stellas omniaque sidera rursus inueniet in
quibus fuerant cum sub Romuli fine deficeret.
15. Igitur a discessu Romuli post annorum quindecim milia,
sicut adserunt physici, sol denuo ita deficiet ut in eodem signo
qualsiasi di queste stelle si trovi in cielo in un punto diverso da
quello in cui si trovava quando tutte le altre si mossero da quel
punto in cui il loro ritorno ha messo fine al loro anno e in
modo tale che i luminari e i cinque pianeti abbiano ritrovato le
posizioni e Ì gradi in cui erano all’origine dell’anno del mondo,
11. Questa restituzione perfetta degli aspetti si avvera, come
ritengono i fisici, alla fine di quindicimila anni. 167 Quindi, così
come l’anno lunare dura un mese, l’anno solare dodici mesi e
gli anni degli altri pianeti il tempo che abbiamo sopra riferito,
allo stesso modo, per costituire l’anno del mondo, occorrono
quindicimila degli anni che noi normalmente computiamo. 1 2 .
Si può dunque veramente chiamare rivoluzione annuale non
l’anno che si misura sulla rivoluzione del sole, vale a dire di un
solo astro, ma quello che si conclude, con il completo ritorno
siderale, in qualunque parte del cielo si trovino le stelle, nel
coincidente punto di partenza, con la stessa configurazione in
tutto il cielo; per questa ragione è definito anche mundanus
[universale!, perché il cielo è, per l’esattezza, chiamato mundus
[universo] 168.
13. Quindi come chiamiamo anno solare non solo il perio­
do che va dalle calende di gennaio fino alle stesse calende suc­
cessive, ma chiamiamo anno anche il periodo che va dal secon­
do giorno che segue queste calende fino al ritorno del medesi­
mo giorno o, infine, il periodo che va da un qualsiasi altro gior­
no di un mese qualsiasi fino al giorno corrispondente di quel­
lo stesso mese, così ciascuno è libero di determinare dove
vuole l’inizio di questo anno del mondo, come, ad esempio, fa
Cicerone con lo stabilire, nel suo caso, il principio dell’anno
del mondo cominciandolo dall’eclissi di sole che segnò il
momento della morte di Romolo. 14. Sebbene dopo di allora si
siano verificate numerosissime eclissi di sole, Cicerone, tutta­
via, non afferma che il ripetersi di questo fenomeno abbia com­
pletato l’anno del mondo; si compirà solamente quando il sole
stesso, nel momento della sua eclissi, si troverà e vedrà tutte le
altre stelle celesti così come tutte le altre costellazioni ritrovar­
si nelle stesse parti del cielo e offrire gli stessi aspetti in cui
erano quando il sole si eclissò alla morte di Romolo 169.
15. Dunque, dopo quindicimila anni dal decesso di Romolo
— come affermano i fisici — , il sole si eclisserà di nuovo in
eadem que parte sit, ad idem principium in quo sub Romulo
fuerat stellis quoque omnibus signisque reuocatis. 16. Peracti
autem fuerant, cum Scipio in Africa militaret, a discessu
Romuli anni quingenti septuaginta et tres. Anno enim ab Vrbe
condita sexcentesimo septimo hic Scipio deleta Carthagine
triumphauit; ex quo numero annis remotis triginta duobus
regni Romuli et duobus qui inter somnium et consummatum
bellum fuerunt, quin genti septuaginta tres a discessu Romuli
ad somnium usque remanebunt. 17. Ergo rationabiliter uere-
que signauit necdum mundani anni uicesimam partem esse
conuersam. Nam uicesimae parti quot anni supersint a fine
Romuli ad Africanam militiam Scipionis, quos diximus annos
fuisse quingentos septuaginta tres, quisquis in digitos mittit
inueniet.

12. 1. «Tu uero enitere et sic habeto non esse te mortalem, sed
corpus hoc. Nec enim tu is es quem forma ista declarat, sed mens
cuiusque is est quisque, non ea figura quae digito demonstrari
potest. Deum te igitur scito esse, si quidem est deus qui uiget, qui
sentit, qui meminit, qui prouidet, qui tarn regit et moderatur et
mouet id corpus cui praepositus est quam hunc mundum ille
princeps deus; et ut ille mundum quadam parte mortalem ipse
deus aeternus, sic fragile corpus animus sempiternus mouet».
2 . Bene et sapienter Tullianus hic Scipio circa institutionem
nepotis ordinem recte docentis impleuit. Nam, ut breuiter a
principio omnem operis continentiam reuoluamus, primum
tempus ei mortis et imminentes propinquorum praedixit insi­
dias, ut totum de hac uita sperare dedisceret, quam non diutur­
nam comperisset; dein, ne metu praedictae mortis frangeretur,
ostendit sapienti et bono ciui in immortalitatem migrandum;
modo da essere nello stesso segno e nello stesso grado rispetto
al punto di partenza in cui era all’epoca di Romolo e anche
tutte le stelle e costellazioni saranno nell’identica posizione ori­
ginaria. 16. Ora, al tempo della campagna militare del secondo
Scipione in Africa, erano trascorsi cinquecentosettantatre anni
dalla scomparsa di Romolo. Infatti, nell’anno seicentosette
dalla fondazione di Roma il nostro Scipione celebrò il trionfo
per la distruzione di Cartagine; sottraendo da questo numero i
trentadue anni del regno di Romolo e i due anni intercorsi tra
il sogno e la fine della terza guerra punica, ne resteranno cin­
quecentosettantatre, tra la scomparsa di Romolo e l’epoca del
sogno. 17. Cicerone osservò dunque, in seguito a un calcolo e
in modo esatto, che la ventesima parte dall’anno del mondo
non era ancora trascorsa. Infatti, per trovare la differenza d ’an­
ni che c’è, per fare un ventesimo, tra la fine di Romolo e la cam­
pagna africana di Scipione, basta saper contare sulle dita 170.

12. 1 . «Impegnati dunque e tieni sempre per certo che non tu


sei mortale, ma lo è questo tuo corpo. Tu, infatti, non sei questa
form a sensibile apparente, ma l'essere d i ciascuno d i noi è la
mente, non certo la figura esteriore che si può indicare col dito.
Sappi, dunque, che tu sei un Dio, se davvero è un Dio colui che
ha forza, percepisce, ricorda, provvede, colui che regge, regola e
muove il corpo cui è preposto, così come il Dìo supremo fa con
questo universo; e negli stessi term ini in cui quel Dio eterno dà
movimento all’universo, mortale sotto un certo aspetto, così l’a­
nima sempiterna muove il fragile corpo» 171.
2. Con buon senso e saggiamente, lo Scipione di Marco
Tullio Cicerone, per condurre a termine l’istruzione del nipo­
te, segue un ordine secondo il metodo di un bravo maestro.
Infatti, se riesaminiamo brevemente da principio tutto il con­
tenuto dell’opera, Publio, prima di tutto, ha predetto al giova­
ne Scipione il momento della sua morte e le insidie che lo
minacciavano da parte dei suoi parenti con lo scopo di inse­
gnargli a non sperare tutto da questa vita terrena, una volta
avvertito che non è di lunga durata; poi, per non scoraggiarlo
col timore di una morte annunciata, gli ha mostrato che al sag­
gio e al buon cittadino era promesso il passaggio dalla morte
all’immortalità e, poiché questa speranza d ’immortalità aveva
cumque eum ultro spes ista traxisset ad moriendi desiderium,
succedit Pauli patris oportuna dissuasio, accensam filii festina­
tionem ab appetitu spontaneae mortis excludens. 3. Plene igi­
tur in animo somniantis utrimque plantata sperandi expectan-
dique temperie, altius iam circa erigendum nepotis animum
Africanus ingreditur, nec prius eum terram patitur intueri
quam caeli ac siderum naturam, motum ac modulamen agno­
scat, et haec omnia sciat praemio cessura uirtutum. 4. Ac post­
quam mens firmata Scipionis alacritate tantae promissionis eri­
gitur, tum demum gloria, quae apud indoctos magnum uirtutis
praemium creditur, contemni iubetur, dum ostenditur ex terra­
rum breuitate uel casibus arta locis, angusta temporibus.
5. Africanus igitur, paene exutus hominem et, defaecata
mente, iam naturae suae capax, hic apertius admonetur ut esse
se deum nouerit. Et haec sit praesentis operis consummatio, ut
animam non solum immortalem, sed deum esse clarescat. 6 .
Ille ergo, qui fuerat iam post corpus in diuinitatem receptus,
dicturus uiro adhuc in hac uita posito «deum te scito esse», non
prius tantam praerogatiuam committit homini quam qui sit
ipse discernat, ne aestimetur hoc quoque diuinum dici quod
mortale in nobis et caducum est.
7. Et quia Tullio mos est profundam rerum scientiam sub
breuitate tegere uerborum, nunc quoque miro compendio tan­
tum includit arcanum quod Plotinus, magis quam quisquam
uerborum parcus, libro integro disseruit, cuius inscriptio est
‘quid animal quid homo’.
8 . In hoc ergo libro Plotinus quaerit cuius sint in nobis
uoluptates, maerores metusque ac desideria et animositas uel
dolores, postremo cogitationes et intellectus: utrum merae ani­
mae an uero animae utentis corpore? Et post multa quae sub
copiosa rerum densitate disseruit, quae nunc nobis ob hoc
spontaneamente acceso in lui il desiderio di morire, è giunto
opportunamente Paolo, suo padre, per dissuaderlo e per disto­
gliere suo figlio, acceso dalla brama di affrettare questo istan­
te, da una morte volontaria. 3. Dopo che nell’animo del sogna­
tore fu ben radicata da entrambi i suoi una giusta proporzione
di speranza e di attesa, l’Africano interviene allora per elevare
ancora più in alto l’animo del nipote e non permette che egli
diriga il suo sguardo verso la terra prima di aver conosciuto la
natura, il movimento e l’armonia del cielo e delle stelle e prima
di aver saputo che tutte queste cose saranno concesse come
premio alla virtù. 4. E, dopo che la mente di Scipione, resa più
sicura e forte per l’entusiasmo di una così gran promessa, ha
ripreso coraggio, allora finalmente il nonno lo esorta a disprez­
zare la gloria, considerata dagli uomini ignoranti come la più
degna ricompensa della virtù, mostrando come essa sia confi­
nata nello spazio e limitata nel tempo, a causa dell’esiguità e
degli accidenti della terra. 172
5. Così, quasi spogliato della sua condizione umana e con la
mente purificata 173, ormai in possesso della propria natura, il
giovane Africano è allora ammesso ad un importante segreto:
sapere di essere un dio . 174 Questo ci conduce al punto culmi­
nante della presente opera: chiarire che l’anima non è solo
immortale, ma che è un dio. 6 . Il primo Africano, dunque, che,
dopo l’uscita dal corpo, era stato ammesso alla condizione divi­
na, preparandosi a dire ad un uomo ancora su questa terra:
«sappi che tu sei un D io », attende, per fargli questa sublime
confidenza, che questi abbia ben compreso chi egli veramente
sia, affinché non pensi che l’attributo di divino si applichi
anche a ciò che c’è in noi di mortale e di caduco.
7. E poiché per regola Tullio Cicerone nasconde nel minor
numero di parole possibili la profonda conoscenza degli argo­
menti trattati, anche ora, con consumata concisione, sintetizza
un così grande arcano che Plotino, più d ’ogni altro autore
parco di parole 175, trattò in un libro intero che ha per titolo
Che cos’è l’essere animato, che cos’è l ’uom oì 176
8 . In questo libro, dunque, Plotino si domanda da cosa
dipendano in noi piaceri, dolori, timori e desideri, animosità o
risentimenti, e, infine, pensieri e intelletto, per vedere se appar­
tengano all’anima pura e semplice o all’anima che si serve del
corpol77. Poi, dopo una lunga e densa dissertazione che affron-
solum praetereunda sunt ne usque ad fastidii necessitatem
uolumen extendant, hoc postremo pronuntiat: animal esse cor­
pus animatum. 9. Sed nec hoc neglectum uel non quaesitum
relinquit, quo animae beneficio, quaue uia societatis animetur.
Has ergo omnes quas praediximus passiones adsignat animali;
uerum autem hominem ipsam animam esse testatur. Ergo qui
uidetur, non ipse uerus homo est; sed uerus ille est a quo regi­
tur quod uidetur. 10. Sic, cum morte animalis discesserit ani­
matio, cadit corpus regente uiduatum: et hoc est quod uidetur
in homine mortale. Anima autem, qui uerus homo est, ab omni
condicione mortalitatis aliena est, adeo ut in imitationem dei
mundum regentis regat et ipsa corpus, dum a se animatur. 1 1 .
Ideo physici mundum magnum hominem, et hominem breuem
mundum esse dixerunt. Per similitudines igitur ceterarum
praerogatiuarum, quibus deum anima uidetur imitari, animam
deum et prisci philosophorum et Tullius dixit.
12. Quod autem ait «mundum quadam parte mortalem»,
ad communem opinionem respicit, qua mori aliqua intra mun­
dum uidentur, ut animal exanimatum uel ignis extinctus uel
siccatus humor. Haec enim omnino interisse creduntur. 13.
Sed constat secundum uerae rationis adsertionem, quam et
ipse non nescit nec Vergilius ignorat dicendo
nec morti esse locum

constat, inquam, nihil intra uiuum mundum perire, sed eorum


quae interire uidentur solam mutari speciem, et illud in origi­
nem suam atque in ipsa elementa remeare, quod tale quale fuit
esse desierit.
14. Denique et Plotinus alio in loco, cum de corporum
absumptione dissereret et hoc dissolui posse pronuntiaret
quicquid effluit, obiecit sibi: cur ergo elementa, quorum fluxus
in aperto est, non similiter aliquando soluuntur? Et breuiter
tantae obiectioni ualideque respondit: ideo elementa, licet
ta un gran numero d ’argomenti, e che tralasceremo per il solo
motivo di non ampliare il nostro libro fino a inevitabilmente
annoiare il lettore, Plotino alla fine dichiara: l’animale è un
corpo animato 178. 9. Tuttavia non tralascia né lascia inesplora­
to il problema dei benefici che l’anima offre al corpo e del
modo attraverso cui si realizza l’unione 179 che lo anima. Que­
sto filosofo attribuisce, dunque, tutte le passioni che abbiamo
sopra enunciato, all’essere animale 180, ma afferma, d ’altra
parte, che il vero uomo è l’anima stessa. Di conseguenza l’uo­
mo visibile non è il vero uomo; il vero uomo è quello che
governa la forma visibile 1S1. 10. Così, quando alla morte del­
l’essere animato si allontana la forza animatrice, il corpo, pri­
vato di ciò che lo governava, crolla: e questo, ciò che è visibile,
che è mortale nell’uomo. L’anima, invece, che è il vero uomo,
è talmente aliena da ogni condizione di mortalità che, ad imi­
tazione del D io che regge quest’universo, regge anch essa il
corpo per tutto il tempo in cui lo anima. 11. Perciò i fisici defi­
nirono l’universo un grande uomo e l’uomo un m icrocosm o . 182
Quindi, per le analogie di tutte le altre prerogative con le quali
l’anima sembra imitare la Divinità, gli antichi filosofi e Cice­
rone dissero che l’anima era un Dio.
12. Se quest’ultimo, d’altronde, parla di un «universo, mor­
tale sotto un certo aspetto», è per conformarsi all’opinione
comune che s’immagina che alcune cose all’interno del mondo
muoiano, come l’essere animato privato della vita o il fuoco
che si è spento o la sostanza liquida che si è asciugata. Cose,
queste, infatti, che si crede siano totalmente perite. 13. Ma
risulta, in base alla vera dottrina, che certo Cicerone conosce e
che lo stesso Virgilio non ignora quando dice
non c e posto per la morte, 183
risulta, dicevo, che niente perisce all’interno dell’universo
vivente, ma che solo muta l’apparenza degli esseri che sembra­
no perire 184 e che ciò che ha cessato di essere com’era ritorna
al suo stato originario e agli elementi di cui era composto.
14. Infine, anche Plotino, in un altro passo 185, in cui tratta
della distruzione dei corpi e afferma che tutto ciò che fluisce
può dissolversi, si pone questa obiezione: perché mai gli ele­
menti, la cui dissoluzione è così evidente, non finiscono allo
stesso modo per dissolversi 186? A un’obiezione così valida
fluant, numquam tamen solui quia non foras effluunt. 15. A
ceteris enim corporibus quod effluit recedit; elementorum flu­
xus numquam ab ipsis recedit elementis; ergo in hoc mundo
pars nulla mortalis secundum uerae rationis adserta.
16. Sed quod ait eum «quadam parte mortalem », ad com­
munem, ut diximus, opinionem paululum inclinare se uoluit.
In fine autem ualidissimum immortalitatis animae argumen­
tum ponit: quia ipsa corpori praestat agitatum.

13. 1. Quod quale sit ex ipsis uerbis Ciceronis quae secun-


tur inuenies: «Nam quod semper mouetur, aeternum est, quod
autem motum adfert alicui quodque ipsum agitatur aliunde,
quando finem habet motus, uiuendi finem habeat necesse est.
Solum igitur quod se ipsum mouet, quia numquam deseritur a se,
numquam ne moueri quidem desinit; quin etiam ceteris quae
mouentur hic fons, hoc principium est mouendi. 2 . Principii
autem nulla est origo. Nam e principio oriuntur omnia, ipsum
autem nulla ex re alia nasci potest: nec enim esset id principium
quod gigneretur aliunde. 3. Quod si numquam oritur, ne occidit
quidem umquam. Nam principium extinctum nec ipsum ab alio
nascetur, nec ex se aliud creabit, si quidem necesse est a principio
oriri omnia. 4. Ita f it ut motus principium ex eo sit quod ipsum
a se mouetur. Id autem nec nasci potest nec mori, uel concidat
omne caelum omnisque natura, et consistat necesse est, nec uim
ullam nanciscatur, qua a primo impulsu moneatur. 5. Cum pateat
igitur aeternum id esse quod ipsum se moueat, quis est qui hanc
naturam animis esse tributam neget? Inanimum est enim omne
quod pulsu agitatur externo; quod autem est animal, id motu cie­
tur interiore et suo. Nam haec est propria natura animi atque uis;
quae si est una ex omnibus quae se ipsa moueat, neque nata certe
est et aeterna est».
risponde con poche ma efficaci parole: gli elementi, sebbene
fluiscano, non si dissolvono mai, perché non fluiscono verso
l’esterno 187. 15. Infatti, ciò che fluisce via dagli altri corpi se ne
allontana, mentre il flusso degli elementi non si allontana mai
dagli elementi stessi 188; quindi in questo universo, secondo la
vera dottrina, nessuna parte può essere definita mortale.
16. Ma Cicerone con l’espressione «mortale sotto un certo
aspetto », ha voluto, come abbiamo detto, fare soltanto una par­
ziale concessione all’opinione comune. Alla fine della sua
opera, d’altronde, pone un’argomentazione validissima in
favore dell’immortalità dell’anima: il fatto che fornisce al corpo
il suo movimento.

13. 1. Troverai quest’argomentazione proprio nelle seguen­


ti parole di Cicerone: «Infatti ciò che sempre si muove è eterno,
ciò che, invece, trasmette il movimento ad altro e a sua volta trae
impulso da una forza esterna, quando il movimento ha un term i­
ne, deve avere necessariamente una cessazione di vita. Pertanto,
solo ciò che si muove per se stesso-, in quanto non può mai esse­
re abbandonato da se stesso, non cessa mai neppure di muoversi;
anzi, per tutte le altre cose che si muovono > è la fonte, è il prin­
cipio del movimento. 2 . Non v i è origine, poi, per un principio.
Infatti, dal principio sì generano tutte le cose, mentre esso non
può essere generato da nessun altra cosa: se fosse generato da
qualcos’altro non potrebbe, infatti, essere un principio. 3. E come
non è mai generato, così non muore mai. Infatti, un principio
estinto non rinascerà da un’altra cosa e non ne genererà un’altra
da se stesso, se è inevitabile che ogni cosa si generi da un princi­
pio. 4. Ne consegue che il principio del movimento consiste in ciò
che si muove da sé. Non può, quindi, né nascere né morire, altri­
m enti sarebbe inevitabile che tutto il cielo crolli e che tutta la
natura si ferm i e che non si trovi più alcuna forza per dare al loro
movimento l ’impulso iniziale. 5. Siccome, quindi, risulta dimo­
strato che ciò che muove se stesso è eterno, chi potrebbe negare
che le anime abbiano ricevuto questa natura in retaggio? E ina­
nimato, effettivamente, tutto ciò che è mosso da un impulso
esterno; ciò che invece è un essere animato si muove per un moto
interno e proprio. Tale è infatti la natura peculiare dell’anima,
tale la sua essenza; e se, tra tu tti gli esseri, è l’unica a muoversi
da sé, non è stata certamente generata ed è eterna » 189.
6. Omnis hic locus de Phaedro Platonis ad uerbum a
Cicerone translatus est, in quo ualidissimis argumentis animae
immortalitas adseritur, et haec est argumentorum summa, esse
animam mortis immunem quoniam ex se mouetur.
7. Sciendum est autem quod duobus modis immortalitas
intellegitur. Aut enim ideo est immortale quid, quia per se non
est capax mortis, aut quia procuratione alterius a morte defen­
ditur. Ex his prior modus ad animae, secundus ad mundi
immortalitatem refertur. Illa enim suapte natura a condicione
mortis aliena est, mundus uero animae beneficio in hac uitae
perpetuitate retinetur.
8 . Rursus semper moueri dupliciter accipitur. Hoc enim
dicitur et de eo quod ex quo est semper mouetur, et de eo
quod semper et est et mouetur; et secundus modus est quo ani­
mam dicimus semper moueri,
9. His praemissis, iam quibus syllogismis de immortalitate
animae diuersi sectatores Platonis ratiocinati sunt oportet ape­
riri. Sunt enim qui per gradus syllogismorum ad unum finem
probationis euadunt, certam sibi propositionem sequentis ex
antecedentis conclusione facientes. 10. Apud quos hic prior
est: «Anima ex se mouetur. Quicquid autem ex se mouetur
semper mouetur. Igitur anima semper mouetur». Secundus ita,
qui nascitur ex prioris fine: «Anima semper mouetur. Quod
autem semper mouetur immortale est. Igitur anima immortalis
est». Et ita in duobus syllogismis duae res probantur, id est et
semper moueri animam, ut in priore, et esse immortalem, ut
colligitur de secundo. 1 1 . Alii uero usque ad tertium gradum
ita argumentando procedunt: «Anima ex se mouetur. Quod
autem ex se mouetur principium motus est. Igitur anima prin­
cipium motus est». Rursus ex hac conclusione nascitur propo­
sitio: «Anima principium motus est. Q uod autem principium
motus est natum non est. Igitur anima nata non est». Tertio
loco: «Anima nata non est. Quod natum non est immortale est.
6. Tutto questo brano di Cicerone è la traduzione, parola
per parola, del Fedro di Platone 19°, dove, con solidissimi argo­
menti, si asserisce l’immortalità dell’anima e queste argomen­
tazioni culminano con il concetto che l’anima è immune dalla
morte, perché si muove da sé.
7. Si deve poi sapere che «immortalità» può intendersi in
due modi. Infatti, un essere è immortale o perché di per sé non
è capace di morte o perché un intervento esterno lo mette al
riparo dalla morte. Il primo di questi modi si applica all’im-
mortalità dell’anima e il secondo all’immortalità dell’universo.
Essa, infatti, per la sua stessa natura, è estranea alla condizione
mortale; l’universo, invece, è conservato per merito dell’anima
in questa perpetua condizione di vita.
8 . A sua volta, l’espressione «muoversi sempre» può inten­
dersi in due accezioni. Si dice così, infatti, sia con riferimento
a quanto è mosso da ciò che è eterno, sia con riferimento a ciò
che è insieme eterno e in movimento; questa seconda accezio­
ne è quella che noi riferiamo al moto eterno dell’anima.
9. Fatte queste premesse, è ormai necessario esporre i sillo­
gismi utilizzati da diversi seguaci di Platone per dimostrare
l’immortalità dell’anima m . Ve ne sono, infatti, alcuni che, con
una concatenazione di sillogismi, arrivano ad una conclusione
unica, per cui la conclusione dedotta dalle prime due parti del
sillogismo precedente diviene la prima proposizione del sillogi­
smo seguente. 10. Ecco il loro primo sillogismo: «L’anima si
muove da sé. Ma ciò che si muove da sé si muove sempre. Dun­
que l’anima si muove sempre». 192 II secondo, che sorge dalla
conclusione del primo, è il seguente: «L’anima si muove sem­
pre. Ma ciò che si muove sempre è immortale. Dunque l’anima
è immortale». 193 E così, per mezzo di due sillogismi, si prova­
no due cose: una, che l’anima si muove sempre, conseguenza
del primo ragionamento; l’altra, che è immortale, come si rica­
va dal secondo. 1 1 . Altri, poi, si spingono fino al terzo grado del
sillogismo argomentando in questo modo: «L’anima si muove
da sé. Ciò che si muove da sé è il principio del moto. Dunque
l’anima è il principio del moto». A sua volta, da questa conclu­
sione nasce la seguente proposizione: «L’anima è il principio del
moto. Ma ciò che è principio del movimento non è nato.
Dunque l’anima non è nata». In terzo luogo: «L’anima non è
Igitur anima immortalis est». 1 2 , Alii uero omnem ratiocinatio­
nem suam in unius syllogismi compendium redegerunt:
«Anima ex se mouetur. Quod ex se mouetur principium motus
est. Quod principium motus est natum non est. Quod natum
non est immortale est. Igitur anima immortalis est».

14.1. Sed harum omnium ratiocinationum apud eum potest


postrema conclusio de animae immortalitate constare, qui pri­
mam propositionem, id est ex se moueri animam non refellit;
hac enim in fide non recepta, debilia fiunt omnia quae sequun­
tur. 2 . Sed huic Stoicorum quidem accedit adsensio. Aristoteles
uero adeo non adquiescit, ut animam non solum ex se non
moueri, sed ne moueri quidem penitus conetur adserere. Ita
enim callidis argumentationibus adstruit nihil ex se moueri ut,
etsi aliquid hoc facere concedat, animam tamen hoc non esse
confirmet.
3. «Si enim anima», inquit, «principium motus est, doceo
non posse principium motus moueri». Et ita diuisionem suae
artis ingreditur, ut primum doceat in rerum natura esse aliquid
immobile, deinde hoc esse animam temptet ostendere. 4.
«Necesse est», inquit, «aut omnia quae sunt immobilia esse,
aut omnia moueri, aut aliqua ex his moueri, aliqua non moue­
ri. Item si damus», ait, «et motum et quietem, necesse est aut
alia semper moueri et alia numquam moueri, aut omnia simul
nunc quiescere, nunc moueri. De his», inquit, «quid magis
uerum sit requiramus. 5. Non esse omnia immobilia aspectus
ipse testimonio est, quia sunt quorum motum uidemus. Rursus
non moueri omnia uisus docet, quo immota cognoscimus. Sed
nec omnia dicere possumus modo motum pati, modo esse sine
motu, quia sunt quorum perpetuum motum uidemus, ut de
caelestibus nulla dubitatio est. Restat igitur», ait, «ut sicut ali­
qua semper mouentur, ita sit aliquid semper immobile».
nata. Ma ciò che non è nato è immortale. Dunque l’anima è
immortale». 12. Altri, infine, hanno compendiato in un unico
sillogismo tutto il loro ragionamento: «L’anima si muove da sé.
Ciò che si muove da sé è il principio del movimento. Ciò che è
il principio del movimento non è nato. Ciò che non è nato è
immortale. Dunque l’anima è immortale» 194.

14. 1. Ma la conclusione finale di tutti questi sillogismi circa


l’immortalità dell’anima può restar certa presso chi non respin­
ge la prima proposizione, ossia che l’anima si muove da sé; ma
se ad essa non si dà credito, tutte le altre conseguenze risultano
fragili. 2 . Gli Stoici, invero, danno la loro adesione a questa pro­
posizione 195. Aristotele, invece, non vi presta fede al punto di
cercare di dimostrare che non solo l’anima non si muove da sé,
ma che semplicemente non si muove neppure 196. Si serve infat­
ti di argomentazioni così artificiose per sostenere che niente si
muove da sé 197 che, pur dovendo ammettere che qualcosa si
muove da sé, ciononostante afferma che non può essere l’anima.
3. «Se, infatti», dice questo filosofo «l’anima è il principio del
moto, io sostengo che il principio del moto non può essere
mosso» 198. Così Aristotele introduce la sua ingegnosa suddivi­
sione che lo conduce a sostenere, in primo luogo, che nella natu­
ra c’è qualche cosa d’immobile, cercando di dimostrare, in
seguito, che questo qualcosa è l’anima. 4. Ecco cosa dice: «E
necessario o che tutte le cose che esistono siano immobili o che
si muovano tutte o che qualcuna tra esse si muova e qualcun’al-
tra no. Ugualmente» afferma «se ammettiamo insieme sia il
moto sia l’immobilità, è necessario o che alcune cose si muova­
no sempre e altre mai, oppure che tutte, al tempo stesso, ora
siano immobili e ora in movimento. Esaminiamo» dice «quale di
queste ipotesi è la più vera. 5. Lo sguardo stesso ci è testimone
che non tutte le cose sono immobili, poiché di alcune ne vedia­
mo il movimento. D ’altra parte la nostra vista ci indica che non
tutte le cose si muovono, poiché ne conosciamo d’immobili. Ma
non possiamo neanche dire che tutte le cose ora sono soggette
al movimento ed ora ne sono prive, perché ce ne sono alcune il
cui movimento è visibilmente incessante, come i corpi celesti
per Ì quali non vi è dubbio. Per cui si deve concludere» conti­
nua Aristotele «che come ci sono alcune cose che si muovono
sempre, così c’è anche qualcosa che è sempre immobile» 199.
6. Ex his ut collectum sit esse aliquid immobile, nullus
obuiat uel refellit. Nam et uera diuisio est, et sectae Platonicae
non repugnat. Neque enim siquid est immobile, sequitur ut
hoc sit anima, nec qui dicit animam ex se moueri, iam moueri
uniuersa confirmat, sed modum adstruit quo anima mouetur.
Si quid uero est aliud immobile, nihil ad hoc quod de anima
adstruitur pertinebit.
7. Quod et ipse Aristoteles uidens, postquam docuit esse
aliquid immobile, hoc esse animam uult docere, et incipit adse-
rere nihil esse quod ex se moueri possit, sed omnia quae
mouentur ab alio moueri. Quod si uere probasset, nihil ad
patrocinium Platonicae sectae relinqueretur. Quemadmodum
enim credi posset ex se moueri animam si constaret nihil esse
quod ex se possit moueri? In hac autem Aristotelica argumen­
tatione huius modi diuisionis ordo contexitur: 8 . «Ex omnibus
quae mouentur», inquit, «alia per se mouentur, alia ex acciden­
ti. Et ex accidenti», inquit, «mouentur quae, cum ipsa non
moueantur, in eo tamen sunt quod mouetur, ut in naui sarcina
seu uector quiescens, aut etiam cum pars mouetur quiescente
integritate, ut si quis stans pedem manumue uel caput agitet. 9 .
Per se autem mouetur quod neque ex accidenti neque ex parte,
sed et totum simul mouetur, ut cum ad superiora ignis ascen­
dit. Et de his quidem quae ex accidenti mouentur, nulla dubi­
tatio est quin ab alio moueantur: probabo autem», inquit,
«etiam ea quae per se mouentur ab alio moueri.
10. Ex omnibus enim», ait, «quae per se mouentur, alia
causam motus intra se possident, ut animalia, ut arbores, quae
sine dubio ab alio intelleguntur moueri, a causa scilicet quae in
ipsis latet, nam causam motus ab eo quod mouetur ratio
6. In base a questi ragionamenti, l’uitima asserzione sull’e­
sistenza di qualcosa d’immobile non incontra alcuna obiezione
o alcuna confutazione. Questa distinzione logica è esatta e non
è assolutamente in contrasto con la scuola platonica. E, infatti,
se esiste qualcosa d’immobile, non ne consegue che si tratti
dell’anima 200; e chi dice che l’anima si muove da sé non ne
inferisce che tutte quante le cose si muovono, ma si indica sola­
mente il modo in cui l’anima si muove. Se poi c’è qualcos’altro
d ’immobile, esso non avrà relazione alcuna con ciò che si è
indicato dell’anima.
7. Lo stesso Aristotele, che si rendeva conto di ciò, dopo
aver stabilito che c’è qualcosa d’immobile, vuol spiegare che si
tratta dell’anima e comincia ad affermare che non c’è niente che
si può muovere di per sé, ma che tutto ciò che si muove è mosso
da qualcos’altro 201. Se fosse riuscito veramente a provare ciò,
non resterebbe nessun mezzo di difesa alla scuola platonica.
Come si potrebbe credere, infatti, che l’anima si muova da sé,
se fosse certo che non esiste niente che si può muovere da sé?
In questa argomentazione aristotelica s’intreccia una serie di
suddivisioni disposte in questo modo; 8 . «Tra tutte le cose che
si muovono» afferma «alcune si muovono di per sé, altre per
accidente. E per accidente» dice «si muovono quelle cose che,
senza muoversi esse stesse, si trovano tuttavia su qualcosa in
movimento: ad esempio, in una nave, il carico o il navigante a
riposo; o anche il caso in cui una parte si muove mentre l’insie­
me è fermo: ad esempio se, stando fermi, si muove il piede o la
mano o la testa 202. 9. Invece, si muove di per sé ciò che non si
muove né per accidente, né in parte, ma si muove compieta-
mente e contemporaneamente: ad esempio il fuoco che sale
verso l’alto 203. E riguardo alle cose che si muovono per acciden­
te, non c’è alcuno dubbio che siano mosse da qualcos’altro; tut­
tavia», dice Aristotele «proverò che anche quelle cose che si
muovono di per sé sono mosse da qualcos’altro.
10. Infatti» afferma «tra tutte le cose che si muovono di per
sé, alcune possiedono in sé la causa del loro movimento, come
gli animali, come gli alberi, di cui ben si capisce che sono sicu­
ramente mossi da qualcos’altro, vale a dire da una causa che è
interna ad essi, perché la ragione distingue sempre la causa del
movimento da ciò che è mosso; altre, invece, sono visibilmen-
sequestrat; alia uero aperte ab alio mouentur, id est aut ui aut
natura. 11. Et ui moueri dicimus omne iaculum, quod, cum de
manu iaculantis recessit, suo quidem motu ferri uidetur, sed
origo motus ad uim refertur. Sic enim non numquam et terram
sursum et ignem deorsum ferri uidemus, quod alienus sine
dubio cogit impulsus. 12. Natura uero mouentur uel grauia
cum per se deorsum, uel leuia cum sursum feruntur; sed et
haec dicendum est ab alio moueri, licet a quo habeatur incer­
tum. 13. Ratio enim», ait, «deprehendit esse nescio quid quod
haec moueat. Nam si sponte mouerentur, sponte etiam starent,
sed nec unam uiam semper agerent, immo per diuersa moue­
rentur si spontaneo ferrentur agitatu. Cum uero hoc facere
non possint, sed leuibus semper ascensus, et descensus graui-
bus deputatus sit, apparet eorum motum ad certam et consti­
tutam naturae necessitatem referri».
14. Haec sunt et his similia quibus Aristoteles omne quod
mouetur ab alio moueri probasse se credidit. Sed Platonici, ut
paulo post demonstrabitur, argumenta haec arguta magis
quam uera esse docuerunt.
15. Nunc sequens eiusdem iungenda diuisio est qua non
posse animam ex se moueri, etiamsi hoc alia res facere posset,
laborat ostendere. Et huius rei primam propositionem ab illis
mutuatur quae sibi aestimat constitisse. 16. Sic enim ait: «Cum .
igitur omne quod mouetur constet ab alio moueri, sine dubio
id quod primum mouet, quia non ab alio mouetur (neque enim
haberetur iam primum si ab alio moueretur), necesse est»,
inquit, «ut aut stare dicatur aut se ipsum mouere. 17. Nam si
ab alio moueri dicatur, illud quoque quod id mouet dicetur ab
alio moueri et illud rursus ab alio, et in infinitum inquisitio ista
te mosse da qualcos’altro, ossia da una forza o dalla natura 204.
1 1 . E diciamo mosso da una forza ogni giavellotto, che, stacca­
tosi dalla mano di chi lo lancia, sembra essere spinto da un pro­
prio movimento, ma l’origine del moto va riferita a una forza.
È così, infatti, che vediamo qualche volta la terra dirigersi
verso l’alto e il fuoco verso il basso, movimento senza dubbio
determinato da un impulso esterno. 1 2 . E invece per natura
che i corpi pesanti si muovono verso il basso e i corpi leggeri
verso l’alto quando sono sospinti di per sé; anche in tal caso,
tuttavia, occorre dire che sono mossi da qualcos’altro, anche se
non si è certi di che cosa si tratti. 13. La ragione, infatti», dice
Aristotele «si rende conto che vi è un qualcosa che li muove.
Difatti, se si muovessero spontaneamente, si fermerebbero
anche spontaneamente e non andrebbero sempre neppure
nella stessa direzione; anzi, si muoverebbero in differenti dire­
zioni, se fossero sospinti da un impulso spontaneo. Ma sicco­
me non possono farlo, perché ai corpi leggeri è sempre asse­
gnato un movimento ascendente e ai corpi pesanti un movi­
mento discendente, è evidente che il loro movimento è subor­
dinato ad una certa e determinata necessità naturale» 205.
14. E con questi argomenti e altri simili che Aristotele ha
creduto di aver dimostrato che tutto ciò che si muove è mosso
da qualcos’altro. Ma i Platonici, come fra poco vedremo,
hanno dimostrato che queste argomentazioni sono più capzio­
se che vere 206.
15. Va ora aggiunta la successiva procedura per divisione di
Aristotele, con la quale si adopera per dimostrare che l’anima
non può muoversi da sé, se anche a qualche altra cosa fosse pos­
sibile muoversi da sé. La prima proposizione che avanza in pro­
posito è mutuata da conclusioni che reputa come incontestabi­
li. 16. Così infatti, dice: «Poiché è dunque stabilito che tutto ciò
che si muove è mosso da qualcos’altro, senza dubbio ciò che
per primo muove, non essendo mosso da qualcos’altro (altri­
menti non lo si considererebbe più come primo se fosse mosso
da qualcos’altro), deve necessariamente» esordisce Aristotele
«o dirsi immobile o mobile per se stesso. 17. Infatti, se si affer­
ma che il movimento gli è trasmesso da qualcos’altro, anche ciò
che lo muove si dirà che è mosso da qualcos’altro che, a sua
volta, ha ricevuto l’impulso da qualcos’altro, e così via, prò-
casura est numquam exordia prima reperiens, si semper aliud
ea quae putaueris prima praecedit. 18. Restat igitur», inquit,
«ut si quod primum mouet non dicatur stare, ipsum se moue-
re dicatur. Et sic erit in uno eodemque aliud quod mouet, aliud
quod mouetur, si quidem in omni», ait, «motu tria haec sint
necesse est, id est quod mouet, et quo mouet, et quod moue­
tur. 19. Ex his quod mouetur tantum mouetur, non etiam
mouet, cum illud quo fit motus et moueatur et moueat; illud
uero quod mouet non etiam mouetur, ut ex tribus sit commu­
ne quod medium, duo uero sibi contraria intellegantur. 2 0 .
Nam sicut est quod mouetur et non mouet, ita est», inquit,
«quod mouet et non mouetur; propter quod diximus quia,
cum omne quod mouetur ab alio moueatur, si quod mouet et
ipsum mouetur, quaeremus semper motus huius nec umquam
inueniemus exordium. 21 . Deinde siquid se mouere dicatur,
necesse est», inquit, «ut aut totum a toto, aut partem a parte,
aut partem a toto, aut totum a parte existimemus moueri; et
tamen motus ille, seu a toto seu a parte procedat, alterum sui
postulabit auctorem».
2 2 . E x his omnibus in unum Aristotelica ratiocinatio tota
colligitur hoc modo: «Omne quod mouetur ab alio mouetur.
Quod igitur primum mouet, aut stat aut ab alio et ipsum moue­
tur. Sed si ab alio, iam non potest hoc primum uocari, et sem­
per quod primum moueat requiremus. Restat ut stare dicatur.
Stat igitur quod primum mouet». 23. Contra Platonem ergo,
qui dicit animam motus esse principium, in hunc modum com­
ponitur syllogismus: «Anima principium motus est. Princi­
pium autem motus non mouetur. Igitur anima non mouetur».
Et hoc est quod primo loco uiolenter obiecit, nec eo usque per­
suadere contentus animam non moueri, aliis quoque rationi­
bus non minus uiolentis perurget.
traendosi questa ricerca all’infinito, senza mai trovare i primi
princìpi, se qualcos’altro precede sempre quelle cose che si
erano ritenute come prime. 18. Dunque resta appurato che»,
dice Aristotele «se il primo motore non è detto immobile, è
detto muoversi da sé 207. E così ci sarà, in un’unica e medesima
cosa, un motore da una parte ed un mobile da un’altra, se è vero
che ogni movimento» dice «esige il concorso di tre cose: ciò che
muove, ciò che permette il movimento e ciò che è mosso. 19.
Tra queste tre cose, il mobile è mosso soltanto e non può anche
essere motore, ciò che permette il movimento è mosso e muove,
mentre invece il motore non può anche essere mosso; conse­
guentemente, in queste tre cose, è comune quella intermedia,
mentre le due altre sono identificate come contrarie tra esse. 2 0 .
Infatti, come c’è qualcosa che si muove e non muove, così»
afferma lo Stagirita «c’è qualche cosa che muove e non si
muove, per la ragione che ci ha fatto dire che, essendo tutto ciò
che si muove mosso da qualcos’altro, se ciò che muove è mosso
anch’esso, si cerca di risalire indefinitamente al principio del
suo movimento, senza poterlo trovare m ai208. 21. Per di più, se
qualcosa è detto muovere se stesso, è necessario pensare che»
dice Aristotele «o il tutto è mosso dal tutto, o la parte dalla
parte, o la parte dal tutto, o il tutto dalla parte; ciononostante
questo movimento, sia che venga dal tutto sia che proceda dalla
parte, postulerà un altro che ne sia l’origine» 209.
22. Tutte queste argomentazioni di Aristotele si riducono a
quest’unico seguente ragionamento: «Tutto ciò che si muove è
mosso da qualcos’altro. Dunque ciò che è il principio del moto
o resta immobile, o è mosso anch’esso da qualcos’altro. Ma, nel
caso sia mosso da qualcos’altro, non si può più dire primo e
dovremo cercare all’infinito un primo motore. Non rimane che
concludere che esso è immobile. Dunque il primo motore è
immobile» 210. 23. In antagonismo a Platone, per il quale l’ani­
ma è il principio del movimento, il sillogismo è costruito nel
seguente modo: «L’anima è il principio del movimento. Ma il
principio del movimento non è mosso. Dunque l’anima non si
muove» 2U. Ciò è quanto obietta così recisamente, in primo
luogo, e, non contento di avere cercato di persuadere fino a tal
punto che l’anima non si muove, incalza ancora il suo avversa­
rio con altri ragionamenti non meno energici.
24. «Nullum», inquit, «initium idem potest esse ei cuius est
initium. Nam apud geometras principium lineae punctum dici­
tur esse, non linea; apud arithmeticos principium numeri non
est numerus. Item causa nascendi ipsa non nascitur. Et ipsa
ergo motus causa uel initium non mouetur. Ergo anima quae
initium motus est non mouetur».
25. Additur hoc quoque: «Numquam», inquit, «fieri potest
ut circa unam eandemque rem uno eodemque tempore contra-
rietates ad unum idemque pertinentes eueniant. Scimus autem
quia mouere facere est et moueri pati est. Ei igitur quod se
mouet simul euenient duo sibi contraria, et facere et pati, quod
impossibile est. Anima igitur non potest se mouere».
26. Item dicit: «Si animae essentia motus esset, numquam
quiesceret a motu. Nihil est enim quod recipiat essentiae suae
contrarietatem: nam ignis numquam frigidus erit nec nix spon­
te umquam calescet. Anima autem non numquam a motu ces­
sat: non enim semper corpus uidemus agitari. Non igitur ani­
mae essentia motus est cuius contrarietatem receptat».
27. Ait etiam: «Anima si aliis causa motus est, ipsa sibi
causa motus esse non poterit. Nihil est enim», inquit, «quod
eiusdem rei sibi causa sit, cuius est alii: ut medicus, ut exerci­
tor corporum, sanitatem uel ualentiam, quam ille aegris, hic
luctatoribus praestat, non utique ex hoc etiam sibi praestant».
28. Item dicit: «Omnis motus ad exercitium sui instrumen­
to eget, ut singulorum artium usus docet. Ergo uidendum ne et
animae ad se mouendum instrumento opus sit. Quod si impos­
sibile iudicatur, et illud impossibile erit ut anima ipsa se
moueat».
29. Item dicit: «Si mouetur anima, sine dubio cum reliquis
motibus et de loco et in locum mouetur. Quod si est, modo
corpus ingreditur, modo rursus egreditur, et hoc frequenter
exercet. Sed hoc uidemus fieri non posse. Non igitur moue­
tur».
24. «Nessun principio» dice «può essere identico a ciò di
cui è principio. Infatti, per i geometri, non è la linea, ma è il
punto ad essere detto principio della linea; per gli aritmetici, il
principio del numero non è il numero 212. Allo stesso modo la
causa generativa non nasce di per sé. Dunque la causa stessa o
principio del movimento non è in movimento. Quindi l ’anima,
principio del movimento, non si muove» 213.
25. Aristotele continua aggiungendo: «Non può mai acca­
dere» afferma «che i contrari abbiano in comune una sola e
stessa cosa, in un solo e medesimo tempo, riguardo ad un
unico e medesimo fatto. Ora sappiamo che muovere è agire e
che essere mosso è subire quest’azione. Così a ciò che si muove
accadranno nello stesso istante due situazioni tra esse contra­
rie, agire e subire, il che è impossibile. L’anima perciò non può
muoversi» 214.
26. Analogamente dice: «Se l’essenza dell’anima fosse il
movimento, essa non passerebbe mai dal movimento alla quie­
te. Non c’è nulla, infatti, che ammetta il contrario della sua
essenza: mai il fuoco sarà freddo, mai la neve si riscalderà di
sua spontanea volontà. L’anima tuttavia talvolta cessa il pro­
prio movimento: vediamo infatti che il corpo non è sempre in
movimento. Dunque il movimento non è l’essenza dell’anima,
poiché quest’ultima è suscettibile del suo contrario» 215.
27. Aristotele afferma ancora: «Se l’anima è causa di movi­
mento per le altre cose, essa non potrà essere causa di movi­
mento per sé. Infatti» dice «non c’è niente che sia di per sé
causa dell’identica cosa di cui è causa per un’altra: ad esempio,
un medico, un allenatore non procurano certamente a se stes­
si la salute o la vigoria fisica con quella cura con cui l’uno rende
la salute ai malati e l’altro la forza agli atleti» 216.
28. E così pure dice: «Per attuarsi, ogni movimento necessi­
ta di uno strumento, come insegna la pratica nelle singole arti.
Perciò non bisogna perdere di vista che anche l’anima ha biso­
gno di uno strumento per muoversi. Se ciò è giudicato impossi­
bile, sarà anche impossibile che l’anima stessa si muova» 217.
29. E ugualmente afferma: «Se l’anima si muove, senza dub­
bio si muove insieme ai suoi altri movimenti e di luogo in luogo.
Se ciò accade, essa ora entra in un corpo, ora nuovamente ne
esce, e ciò deve accadere frequentemente. Ma noi vediamo che
ciò non può accadere. Dunque l’anima non si muove» 218.
30. His quoque addit: «Si anima se mouet, necesse est ut ali­
quo motus genere se moueat. Ergo aut in loco se mouet, aut se
ipsam pariendo se mouet aut se ipsam consumendo, aut se
augendo aut se minuendo; haec sunt enim», ait, «motus gene­
ra. 31. Horum», inquit, «singula quemadmodum possint fieri
requiramus. Si in loco se mouet, aut in rectam lineam se mouet
aut sphaerico motu in orbem rotatur. 32. Sed recta linea infini­
ta nulla est: nam quaecumque in natura intellegitur linea quo­
cumque fine sine dubio terminatur. Si ergo per lineam termi­
natam anima se mouet, non semper mouetur: nam cum ad
finem uenitur et inde rursus in exordium reditur, necesse est
interstitium motus fieri in ipsa permutatione redeundi. 33. Sed
nec in orbem rotari potest, quia omnis sphaera circa aliquid
immobile quod centron uocamus mouetur. Si ergo et anima sic
mouetur, aut intra se habet quod immobile est, et ita fit ut non
tota moueatur, aut si non intra se, sequetur aliud non minus
absurdum, ut centron foris sit, quod esse non poterit. Constat
ergo ex his», ait, «quod in loco se non moueat. 34. Sed si ipsa
se parit, sequitur ut eandem et esse et non esse dicamus; si uero
se ipsa consumit, non erit immortalis. Quod si se aut auget aut
minuit, eadem simul et maior se et minor reperietur». 35. Et ex
his talem colligit syllogismum: «Si anima se mouet, aliquo
motus genere se mouet. Nullum autem motus genus quo se
moueat inuenitur. Non igitur se mouet».

15.1. Contra has tam subtiles et argutas et ueri similes argu­


mentationes accingendum est secundum sectatores Platonis,
qui inceptum, quo Aristoteles tam ueram tamque ualidam defi­
nitionem magistri sauciare temptauerat, subruerunt. 2. Neque
30. A questi argomenti aggiunge anche: «Se l’anima si
muove, è necessario che essa si muova secondo un movimento
di un certo genere. Perciò, o si muove nello spazio oppure si
muove generando se stessa o consumando se stessa oppure
accrescendosi o diminuendosi: tali sono infatti» sostiene Ari­
stotele «i generi del movimento. 31. Esaminiamo» dice «in
quale modo ciascuno di questi movimenti può aver luogo. Se
l ’anima si muove all’interno di uno spazio, o si muove in linea
retta, o con moto circolare compie una rotazione. 32. Ma non
esiste nessuna linea retta che sia infinita, perché, qualunque
linea si concepisca in natura, essa è senza dubbio delimitata da
una qualche estremità. Dunque, se l’anima si muove lungo una
linea finita, essa non si muove sempre: infatti, una volta giunta
a un’estremità e da lì nuovamente ritornata all’inizio, è costret­
ta ad un’interruzione del moto nel momento preciso in cui
cambia direzione per ritornare al punto di partenza. 33. Ma
non può muoversi neanche roteando su se stessa, per la ragio­
ne che ogni sfera si muove intorno ad un punto immobile che
chiamiamo centro. Se, dunque, anche l’anima si muove in que­
sto modo, oppure ha dentro di sé qualcosa che è immobile, e
così non si muove tutta intera, oppure se non ha questo punto
dentro di sé, ne deriva un’altra conseguenza non meno assur­
da, ossia che il suo centro sia all’esterno, cosa impossibile. Da
ciò, dunque, deriva» sostiene Aristotele «che l’anima non si
muove all’interno di uno spazio. 34. D ’altronde se l ’anima si
genera da sé, ne deriva l’affermazione che contemporaneamen­
te è e non è la medesima; se poi consuma se stessa, allora non
sarà immortale. Se invece si accresce o si diminuisce, sarà, nello
stesso tempo, o più grande o più piccola di se stessa». 35. Da
queste argomentazioni Aristotele deduce un sillogismo simile:
«Se l’anima si muove, si muove con un qualche genere di movi­
mento. Non si trova, però, alcun genere di movimento con il
quale si muova. Dunque non si muove» . 219

15. 1. Contro queste argomentazioni così sottili, ingegnose


e verosimili, abbiamo il dovere di armarci schierandoci a fian­
co dei seguaci di Platone, che hanno scosso fin dalle fonda-
menta il tentativo intrapreso da Aristotele di abbattere la defi­
nizione, così esatta e così solida, del maestro. 2. Tuttavia non
uero tam immemor mei aut ita male animatus sum ut ex inge­
nio meo uel Aristoteli resistam uel adsim Platoni, sed, ut quis­
que magnorum uirorum qui se Platonicos dici gloriabantur aut
singula aut bina defensa ad ostentationem suorum operum
reliquerunt, collecta haec in unum continuae defensionis cor­
pus coaceruaui, adiecto siquid post illos aut sentire fas erat aut
audere in intellectum licebat. 3. Et quia duo sunt quae adsere-
re conatus est, unum quo dicit nihil esse quod ex se moueatur,
alterum quo animam hoc esse non posse confirmat, utrique
resistendum est, ut et constet posse aliquid ex se moueri et ani­
mam hoc esse clarescat.
4. In primis igitur illius diuisionis oportet nos cauere prae­
stigias, in qua enumerans aliqua quae ex se mouentur et osten­
dens illa quoque ab alio moueri, id est a causa interius latente,
uidetur sibi probasse omnia quae mouentur, etiamsi ex se
moueri dicantur, ab alio tamen moueri. 5. Huius enim rei pars
uera est, sed est falsa conclusio. Nam esse aliqua quae, cum ex
se moueri uideantur, ab alio tamen constet moueri, nec nos dif­
fitemur. Non tamen omnia quae ex se mouentur hoc sustinent,
ut ab alio ea moueri necesse sit. 6 . Plato enim, cum dicit ani­
mam ex se moueri, id est cum o c ù t o k iv t ìt o v uocat, non uult
eam inter illa numerari quae ex se quidem uidentur moueri,
sed a causa quae intra se latet mouentur, ut mouentur anima­
lia, auctore quidem alio sed occulto (nam ab anima mouentur),
aut ut mouentur arbores, quarum etsi non uidetur agitator, a
natura tamen eas interius latente constat agitari. Sed Plato ita
animam dicit ex se moueri ut non aliam causam, uel extrinse­
cus accidentem uel interius latentem, huius motus dicat aucto­
rem. Hoc quemadmodum accipiendum sit instruemus.
sono così dimentico dei miei limiti né tanto presuntuoso da
contare sul mio talento per oppormi ad Aristotele e schierarmi
a difesa di Platone, però, dato che ciascuno degli uomini illu­
stri che si gloriavano di essere definiti Platonici, ha lasciato un
argomento difensivo o due per dar rilievo alle sue proprie
opere, li ho raccolti e riuniti in un unico corpus d’ininterrotta
difesa 22°, aggiungendovi per parte mia quel che era permesso
osservare o tentare di congetturare. 3. E poiché due sono le
proposizioni che Aristotele si è sforzato di asserire come vere
— la prima, che sostiene che non esiste niente che si muove da
sé 221, l’altra che ribadisce che se ci fosse non potrebbe trattar­
si dell’anima — dobbiamo restar saldi contro entrambe, facen­
do risultare chiaramente che può esistere qualcosa che può
muoversi da sé e che l’anima è questo qualcosa 222.
4. Dunque, prima di tutto, occorre stare in guardia verso i
giochi di prestigio223 di questa procedura per divisione nel
corso della quale l’avversario di Platone, elencando alcune
cose che si muovono da sé e dimostrando che anch’esse sono
mosse da qualcos’altro, cioè da una causa interna e latente,
considera come provato che tutto ciò che si muove, anche se
sembra muoversi da sé, risulta tuttavia mosso da qualcos’al­
tro 224. 5. Ciò è in parte vero, ma la conclusione è falsa. Anche
noi, infatti, conveniamo che ci siano delle cose il cui il movi­
mento proprio è solo apparente. Ma da ciò non ne consegue
che tutto ciò che sembra muoversi da sé abbia la caratteristica
di essere necessariamente mosso da qualcos’altro. 6 . Quando
Platone, infatti, dice che l’anima si muove da sé, cioè quando
la definisce aÙTOKi'vrjTOj 225, non intende inserirla nel novero
di quelle cose che sembrano, sì, muoversi da sé e invece sono
mosse da una causa invisibile all’interno di esse: com’è il caso
degli animali che sono mossi da qualche agente estraneo, ma
nascosto (sono mossi, infatti, dall’anima) o come, ad esempio,
sono mossi gli alberi i quali, anche se non vediamo chi provo­
ca il loro moto, è tuttavia evidente che è la natura che opera
misteriosamente in essi 22b. Platone, però, dice che l’anima si
muove da sé nel senso che non attribuisce la responsabilità di
questo movimento a nessun’altra causa che sia esterna e acci­
dentale o interna e invisibile. Stabiliremo ora in che modo vada
compresa questa tesi.
7. Ignem calidum uocamus, sed et ferrum calidum dicimus;
et niuem frigidam et saxum frigidum nuncupamus, mei dulce,
sed et mulsum dulce uocitamus. Horum tamen singula de
diuersis diuersa significant. 8 . Aliter enim de igne, aliter de
ferro calidi nomen accipimus, quia ignis per se calet, non ab
alio fit calidus, contra ferrum non nisi ex alio calescit. Vt nix
frigida, ut mei dulce sit non aliunde contingit; saxo tamen fri­
gus uel mulso dulcedo a niue uel meile proueniunt. 9. Sic et
‘stare’ et ‘moueri’ tam de his dicitur quae ab se uel stant uel
mouentur, quam de illis quae uel sistuntur uel agitantur ex alio.
Sed quibus moueri ab alio uel stare contingit, haec et stare
desinunt et moueri. Quibus autem idem est et esse et moueri,
numquam a motu cessant, quia sine essentia sua esse non pos­
sunt, sicut ferrum amittit calorem, ignis uero calere non desi­
nit. 10. Ab se ergo mouetur anima, licet et animalia uel arbores
per se uideantur moueri; sed illis, quamuis interius latens, alia
tamen causa, rd est anima uel natura, motum ministrat. Ideo et
amittunt hoc quod aliunde sumpserunt. Anima uero ita per se
mouetur ut ignis per se calet, nulla aduenticia causa uel illum
calefaciente uel hanc mouente. 11. Nam cum ignem calidum
dicimus, non duo diuersa concipimus, unum quod calefacit,
alterum quod calefit, sed totum calidum secundum naturam
suam uocamus; cum niuem frigidam, cum mei dulce appella­
mus, non aliud quod hanc qualitatem praestat, aliud cui prae­
statur accipimus. 12. Ita et cum animam per se moueri dici­
mus, non gemina consideratio sequitur mouentis et moti; sed
in ipso motu essentiam eius agnoscimus, quia, quod est in igne
7. Noi diciamo del fuoco che è caldo, ma diciamo anche che
un ferro è caldo, designiamo la neve fredda e fredda la pietra e,
abitualmente, definiamo dolce il miele e con la stessa espressio­
ne designiamo il vino melato. Ma ciascuno di questi epiteti ha,
tuttavia, una diversa accezione, in quanto attribuito ad una cosa
diversa. 8 . Infatti assumiamo il significato della parola «caldo»
in un senso se riferita al fuoco, e in un altro per il ferro, perché
il fuoco è caldo di per sé e non deve il suo caldo a qualcos’altro,
mentre il ferro, al contrario, non diviene caldo se non per un
intervento esterno 227. La freddezza della neve, la dolcezza del
miele non proviene da un’influenza esterna; in compenso, la
pietra riceve dalla neve la sua freddezza ed il vino melato è debi­
tore al miele della sua dolcezza. 9. Allo stesso modo si dicono
“essere immobili” e “essere in movimento” sia quelle cose che
stanno ferme o si muovono da sé, sia quelle che sono tenute
immobili o sono mosse da qualcos’altro 228. Ma, in queste ulti­
me, cui accade di star ferme o di muoversi per un intervento
estraneo, sia la quiete sia il movimento cessano; mentre le
prime, il cui moto coincide con l’essenza, non smettono mai di
muoversi, perché non possono esistere senza la loro essenza: il
ferro, per esempio, può perdere il suo calore, mentre il fuoco
non smetterà mai d’essere caldo 229. 10. Dunque l’anima si
muove da sé, anche se gli animali o le piante sembrano pure
muoversi da sé; ma essi ricevono l’impulso al moto da un’altra
causa, interna e latente, che è l’anima o la natura 230. Questi,
perciò, possono perdere una facoltà che hanno preso altrove.
Non è così per l’anima che si muove di per sé o per il fuoco che
è caldo di per sé, poiché non esiste nessuna causa avventizia che
scaldi quest’ultimo o faccia muovere la prima. 11. Difatti, quan­
do diciamo che il fuoco è caldo, questa espressione non ci fa
concepire due diverse entità, una che scalda e un’altra che è
scaldata, ma lo definiamo caldo nella sua interezza, in conside­
razione della sua natura; quando definiamo la neve fredda e il
miele dolce, non facciamo alcuna distinzione tra ciò che confe­
risce questa qualità e ciò che la riceve. 12. Ugualmente, quando
diciamo che l’anima si muove di per sé, questo non implica che
consideriamo due cose, ciò che muove e ciò che è mosso, ma
riconosciamo nel movimento stesso l’essenza dell’anima, per­
ché, allo stesso modo in cui al fuoco si applica il nome di
nomen calidi, in niue uocabulum frigidi, appelatio dulcis in
meile, hoc necesse est de anima autocineti nomen intellegi,
quod Latina conuersio significat «per se moueri».
13. Nec te confundat quod moueri passiuum uerbum est;
nec, sicut secari cum dicitur, duo pariter considerantur, quod
secat et quod secatur, itemque cum teneri dicitur, duo intelle­
guntur, quod tenet et quod tenetur, ita hic moueri duarum
rerum significationem putes, quae mouet et quae mouetur. 14.
Nam secari quidem et teneri passio est; ideo considerationem
et facientis et patientis amplectitur. Moueri autem cum de his
quidem dicitur quae ab alio mouentur, utramque consideratio­
nem similiter repraesentat; de eo autem quod ita per se moue­
tur, ut sit auTOKivrjTov, cum moueri dicitur, quia ex se, non ex
alio mouetur, nulla potest suspicio passionis intellegi. 15. Nam
et stare, licet passiuum uerbum non esse uideatur, cum de eo
tamen dicitur quod stat alio sistente, ut
stant terrae defixae hastae,

significat passionem. Sic et moueri, licet passiuum sonet, quan­


do tamen nihil inest faciens, patiens inesse non poterit. 16. Et
ut absolutius liqueat non uerborum sed rerum intellectu pas­
sionem significari, ecce ignis: cum fertur ad superna, nihil pati­
tur; cum deorsum fertur, sine dubio patitur, quia hoc nisi alio
impellente non sustinet; et cum unum idemque uerbum profe­
ratur, passionem tamen modo inesse, modo abesse dicemus.
17. Ergo et moueri idem in significatione est quod calere, et
cum ferrum calere dicimus uel stilum moueri, quia utrique hoc
aliunde prouenit, passionem esse fateamur. Cum uero aut ignis
calere aut moueri anima dicetur, quia illius in calore et in motu
«caldo», alla neve il vocabolo di «freddo», al miele l’attributo di
«dolce», è necessario, a proposito dell’anima, intendere in que­
sto modo l’attributo di autocinetico, che in traduzione latina
significa per se moveri [che si muove di per sé].
13. Non farti confondere dal fatto che moveri 231 sia un
verbo passivo; infatti, così come dicendo secari s’intendono
contemporaneamente due cose, ciò che taglia e ciò che è taglia­
to 232, e ugualmente come quando diciamo teneri si implicano
due cose, ciò che tiene e ciò che è tenuto, così, qui, è da crede­
re che moveri significhi due cose, ciò che muove e ciò che è
mosso 233. 14. Senz’altro, i verbi secari e teneri indicano passi­
vità e quindi comprendono sia l’agente sia l’oggetto dell’azio­
ne. Moveri, poi, pur essendo utilizzato per definire quelle cose
che sono mosse da qualcos’altro, presenta ugualmente entram­
bi i significati; ma riguardo a ciò che si muove di per se stesso,
tale da essere aÙTOKivriTOs, l’attribuzione del verbo moveri,
essendo data a ciò che si muove da sé e non per qualcos’altro,
non può far sorgere alcun sospetto di passività. 15. Anche il
verbo stare non dà l’impressione di essere un verbo passivo;
eppure quando lo si adopera per qualcosa costretto a star
fermo da qualcos’altro, come in questo esempio:
infisse stanno le aste al suolo 234

esprime tuttavia un senso di passività 235. Non diversamente il


verbo moveri, anche se suona come passivo, poiché tuttavia
non contiene niente di attivo, non potrà contenere niente di
passivo. 16. E affinché risulti più chiaramente che la passività è
espressa non dalle parole, ma dai concetti, prendiamo ora que­
st’esempio del fuoco: quando “si porta” verso l’alto, non subisce
alcuna azione; quando “si porta” verso il basso, senza dubbio
ne riceve una, poiché esso non prende quest’ultima direzione
se non cedendo alla forza di un agente esterno; e tuttavia, pur
utilizzando sempre un unico e identico verbo per indicare que­
sti due modi d’essere, diciamo che in un caso la passività è pre­
sente e nell’altro è assente. 17. Così, anche moveri è un verbo
dello stesso tipo di calere [esser caldo] e quando diciamo che
un ferro “è caldo” [calerei o che uno stilo “è mosso” [moverti,
poiché in entrambi i casi l’azione proviene dall’esterno, dobbia­
mo riconoscervi un’idea di passivo. Ma quando si dice che il
fuoco è caldo 236 o che l’anima si muove, poiché l’uno ha la sua
huius essentia est, nullus hic locus relinquitur passioni, sed ille
sic calere sicut moueri ista dicetur.
18. Hoc loco Aristoteles, argutam de uerbis calumniam sar­
ciens, Platonem quoque ipsum duo, id est quod mouet et quod
mouetur, significasse contendit dicendo «solum igitur quod se
ipsum mouet, quia numquam deseritur a se, numquam ne
moueri quidem desinit». Et aperte illum duo expressisse pro­
clamat his uerbis «quod mouet» et «moueri». Sed uidetur mihi
uir tantus nihil ignorare potuisse, sed in exercitio argutiarum
talium coniuentem sibi operam sponte lusisse.
19. Ceterum quis non aduertat, cum quid dicitur se ipsum
mouere, non duo intellegenda? Sicut et cum dicitur ‘heauton
timoroumenos’, id est «se puniens», non alter qui punit, alter
est qui punitur; et cum ‘se perdere’, ‘se inuoluere’, ‘se liberare’
quis dicitur, non necesse est unum facientem, alterum subesse
patientem. Sed hoc solum intellectu huius elocutionis exprimi­
tur, ut qui se punit aut qui se liberat non ab alio hoc accepisse,
sed ipse sibi aut intulisse aut praestitisse dicatur. Sic et de
aÙTOKivTìTcp cum dicitur «se ipsum mouet», ad hoc dicitur ut
aestimationem alterius mouentis excludat. 2 0 . Quam uolens
Plato de cogitatione legentis eximere, his quae praemisit
expressit. «Nam quod semper», ait, «mouetur aeternum est,
quod autem motum adfert alicui quodque ipsum mouetur
aliunde, quando finem habet motus, uiuendi finem habeat
necesse est». 21. Quid his uerbis inuenietur expressius, clara
significatione testantibus non aliunde moueri quod se ipsum
mouet, cum animam ob hoc dicat aeternam quia se ipsam
mouet et non mouetur aliunde? Ergo ‘se mouere’ hoc solum
significat, non ab alio moueri; nec putes quod idem moueat
essenza nel calore e l ’altra nel movimento, qui non c’è assoluta-
mente posto per la passività, ma si dirà allo stesso modo che
esso è caldo così come essa si muove.
18. A questo punto Aristotele, rabberciando un abile raggi­
ro intorno alle parole di Platone, gli fa sostenere che anche lui
abbia voluto alludere a due significati, cioè «che muove» e che
«è mosso», quando questi dice: «l’essere che si muove da sé
\_quod se ipsum movet], poiché non manca mai a se stesso, è
dunque il solo che non cessa mai di muoversi [moveri]» 237. Su
queste parole il primo proclama a gran voce che Platone ha
voluto esplicitamente intendere due cose diverse con le espres­
sioni quod movet [che muove] e moveri [muoversi]: «una
sostanza non può allo stesso tempo essere mossa e muoversi
spontaneamente». Mi sembra, però, che un uomo della gran­
dezza di Aristotele, non potesse peccare d’ignoranza in propo­
sito, ma che, nell’esercizio di tali cavilli, abbia voluto delibera­
tamente chiudere gli occhi nel proprio interesse.
19. Del resto, chi non capisce che, quando si dice «muove­
re se stesso», non s’intendono due cose? Allo stesso modo, nel­
l’espressione heauton timorumenos, cioè punitore di se stes­
so 238, non s’intendono due persone, una che punisce, l’altra
che è punita; e quando si dice «rovinarsi», «avvolgersi», «libe­
rarsi», non è sottinteso il concorso di uno che agisce e di un
altro che subisce. Ma il significato di questi modi di esprimer­
si non fa intendere altro se non che chi si punisce o chi si libe­
ra non lo deve a un’altra persona, ma che egli stesso se la sia
inflitta o procurata da sé. Così anche quando si parla di
aÙT0 Kivr)T0 $, se ipsum movet, lo si dice per escludere l’idea di
un motore estraneo. 20. Ed è per allontanare questa possibili­
tà dalla mente del lettore che Platone sviluppa la precedente
citazione in questi termini: «Infatti quello che si muove sem­
pre», dice «è eterno, quello che invece trasmette il movimento
a qualcosa ed è mosso esso stesso dall’esterno, necessariamen­
te cessa di vivere, quando il moto cessa». 21. Può trovarsi qual­
cosa di più esplicito di tale formulazione, che attesta con chia­
ro significato che ciò che si muove da sé non riceve il suo movi­
mento da nessun’altra parte, poiché Platone dichiara che l’a­
nima è eterna proprio perché si muove da sé e non è mossa da
nient’altro? «Muoversi» [se movere'] ha dunque un solo signi­
ficato: non essere mosso da qualcos’altro; e non devi credere
idemque moueatur, sed moueri sine alio mouente ‘se mouere’
est.
22. Aperte ergo constitit quia non omne quod mouetur ab
alio mouetur. Ergo aÙT 0 Kivr)T0 i> potest non ab alio moueri;
sed ne a se quidem sic mouetur ut in ipso aliud sit quod mouet,
aliud quod mouetur, nec ex toto nec pro parte, ut ille propo­
nit; sed ob hoc solum se ipsum mouere dicitur ne ab alio
moueri existimetur.
23. Sed et illa de motibus Aristotelica diuisio quam supra
rettulimus, subripienti magis apta est quam probanti, in qua ait
«sicut est quod mouetur et non mouet, ita est quod mouet et
non mouetur». 24. Constat enim quod omne quicquid moue­
tur mouet alia, ut dicitur aut gubernaculum nauim aut nauis
circumfusum sibi aerem uel undas mouere. Quid autem est
quod non possit aliud dum ipsum mouetur, impellere? Ergo si
uerum non est ea quae mouentur alia non mouere, non constat
illud ut aliquid quod moueat nec tamen moueatur inuenias. 25.
Illa igitur magis probanda est in decimo de legibus a Platone
motuum prolata diuisio. «Omnis motus», inquit, «aut et se
mouet et alia, aut ab alio mouetur et alia mouet». Et prior ad
animam, ad omnia uero corpora secundus refertur. Hi ergo
duo motus et differentia separantur et societate iunguntur.
Commune hoc habent quod et prior et secundus mouent alia.
Hoc autem differunt, quod ille a se, hic ab alio mouetur.
26. Ex his omnibus, quae eruta de Platonicorum sensuum
fecunditate collegimus, constitit non esse uerum omnia quae
mouentur ab alio moueri. Ergo nec principium motus ad
deprecandam alterius mouentis necessitatem stare dicetur,
quia potest se ipsum, ut diximus mouere alio non mouente. 27.
Eneruatus est ergo syllogismus quem praemissa uaria et multi-
che sia la stessa cosa ciò che muove e insieme ciò che è mosso:
«muoversi» è muovere se stesso senza essere mosso da qualco­
s’altro.
22 . E risultato, quindi, in modo chiaro, che non tutto quello
che si muove è mosso da qualcos’altro. Quindi, quello che è
aÙT0 Kivr|T0 S può non essere mosso da qualcos’altro; ma se è
mosso da sé, questo non implica nemmeno che in esso vi sia una
cosa che muove e un’altra che è mossa, né in tutto né in parte,
come pretende Aristotele 239; ma si dice che muova se stesso so­
lamente perché non lo si crede che sia mosso da qualcos’altro.
23. Ma anche quella distinzione aristotelica relativa ai movi­
menti, che abbiamo sopra riportato, è più adatta a chi vuole
sottrarsi con l’inganno più che dimostrare qualcosa, dato che
egli afferma: «come c ’è qualcosa che è mosso e non muove,
così c’è qualcosa che muove e non è mosso» 240. 24. Infatti, è
evidente che tutto ciò che si muove muove altre cose: così si
dice che il timone muove la nave o che la nave muove l’aria cir­
costante o l’onda che solca. Esiste qualcosa che non possa
sospingere qualcos’altro, mentre muove se stessa? Perciò, se
non è vero che le cose che si muovono non ne muovono altre,
risulta impossibile trovare qualcosa che muove e, ciò nonostan­
te, non sia mossa. 25. E, dunque, più degna d’approvazione la
distinzione sui movimenti, che Platone propone nel decimo
libro delle Leggi. «Ogni movimento» dice il filosofo «o muove
se stesso e muove altre cose, o è mosso da qualcos’altro e
muove altre cose» 241. Il primo caso è quello dell’anima, men­
tre il secondo si riferisce a tutti i corpi 242. Questi due tipi di
movimento sono, quindi, divisi da una differenza e uniti da
un’analogia. Di comune hanno ciò: il primo come il secondo
muovono altre cose. Differiscono per il fatto che uno è mosso
di per sé, mentre l’altro da qualcos’altro.
26. Da questo insieme d’osservazioni che abbiamo raccolto,
estratte dal genio fecondo dei Platonici, risulta che non è vero
che tutto ciò che si muove sia mosso da qualcos’altro. Non si
dirà dunque, per evitare la difficoltà di ricorrere ad un altro
motore, che il principio del movimento è immobile, perché,
come abbiamo appena provato, esso può muoversi di per sé,
senza che altro lo muova. 27. E perciò svigorito questo sillogi­
smo d’Aristotele, ricavato da varie premesse e da una moltepli-
plici diuisione collegerat, id est: «Anima principium motus est;
principium autem motus non mouetur; igitur anima non
mouetur».
Restat ut, quia constitit posse aliquid per se moueri alio non
mouente, animam hoc esse doceatur; quod facile docebitur, si
de manifestis et indubitabilibus argumenta sumamus. 28.
Homini motum aut anima praestat aut corpus aut de utroque
permixtio. Et quia tria sunt de quibus inquisitio ista procedit,
cum neque a corpore neque a permixtione praestari hoc posse
constiterit, restat ut ab anima moueri hominem nulla dubitatio
sit.
29. Nunc de singulis ac primum de corpore loquamur.
Nullum inanimum corpus suo motu moueri, manifestius est
quam ut adserendum sit. Nihil est autem quod, dum immobi­
le sit, aliud possit mouere. Igitur corpus hominem non mouet.
30. Videndum ne forte animae et corporis ipsa permixtio
hunc sibi motum ministret. Sed quia constat motum corpori
non inesse, si nec animae inest, ex duabus rebus motu carenti­
bus nullus motus efficitur, sicut nec ex duabus dulcibus amari­
tudo nec ex duabus amaris dulcedo proueniet, nec ex gemino
frigore calor aut frigus ex gemino calore nascetur. Omnis enim
qualitas geminata crescit; numquam ex duplicatis similibus
contrarietas emergit. Ergo nec ex duabus immobilibus motus
erit. Hominem igitur permixtio non mouebit. 31. Hinc inexpu­
gnabilis syllogismus ex confessarum rerum indubitabili luce
colligitur: «Animal mouetur. Motum autem animali aut anima
praestat aut corpus aut ex utroque permixtio. Sed neque cor­
pus neque permixtio motum praestat. Igitur anima motum
praestat». 32. Ex his apparet animam initium motus esse.
Initium autem motus tractatus superior docuit per se moueri.
Animam ergo aÙT0 Kivr|T0 v esse, id est per se moueri, nulla
dubitatio est.
cita di distinzioni, ossia: «L’anima è il principio del movimen­
to; ma il principio del movimento non si muove, dunque l’ani­
ma non si muove» 243.
Poiché è incontestabile che una cosa possa muoversi da sé
senza esser mossa da qualcos’altro, resta da dimostrare che
questa cosa è l’anima; dimostrazione che sarà facile, a condi­
zione di trarre le nostre argomentazioni da fatti chiari e incon­
futabili. 28. Il movimento dell’uomo si deve o all’anima o al
corpo o alla combinazione di entrambi. Date queste tre possi­
bilità per l’indagine, poiché risulta evidente che questo movi­
mento non può essere fornito né dal corpo né dalla combina­
zione, non resta alcun dubbio che l’uomo sia mosso daH’anima.
29. Parliamo ora delle singole possibilità e, prima di tutto, del
corpo. Nessun corpo inanimato si muove di moto proprio: la co­
sa è troppo evidente perché ci sia bisogno di dimostrarla. D ’al­
tra parte non esiste niente che, mentre è immobile, possa muo­
vere qualcos’altro. Dunque non è il corpo che muove l’uomo.
30. Occorre vedere se, per caso, non sia proprio la mesco­
lanza stessa dell’anima e del corpo a procurare il movimento ad
essa. Ma, poiché è chiaro che nel corpo non è insito il movi­
mento, se non c’è neppure nell’anima, da due cose prive di
moto non può prodursi alcun movimento; allo stesso modo l’a­
maro non proviene della mistura di due sostanze dolci, né il
sapore dolce da due sostanze amare; così come una doppia sor­
gente di freddo non può procurare il calore, né una doppia
sorgente di calore può generare il freddo. Infatti, ogni qualità
sensibile, una volta aggiunta a se stessa, può solo aumentare;
ma dall’amalgama di due sostanze le cui le proprietà sono simi­
li, mai può sortire qualcosa di contrario. Dunque il movimen­
to non deriverà da due cose immobili. Così tale miscuglio non
potrà dare il movimento aU’uomo 244 . 31. Da ciò, all’indubita­
bile luce di quanto dimostrato, si forma un sillogismo inespu­
gnabile: «L’essere animato si muove. Ma, a fornire il movimen­
to all’essere animato o è l’anima o è il corpo o, infine, la com­
binazione di entrambi. Ma né il corpo né la combinazione con­
feriscono il movimento. Dunque è l’anima che fornisce il movi­
mento». 32. Da ciò risulta che l’anima è l’origine del movimen­
to. Ma l’inizio del movimento si muove da sé, così come una
precedente trattazione ci ha insegnato. Dunque l’anima è
aÙT0 Kivr|T0 s, cioè si muove da sé: non ci sono dubbi 245.
16. 1. Hic ille rursus obloquitur et alia de initiis disputatio­
ne confligit. Eadem enim hic soluendo repetemus quae supra
in ordinem obiecta digessimus.
«Non possunt», inquit, «eadem initiis suis esse quae inde
nascuntur; et ideo animam, quae initium motus est, non moue­
ri, ne idem sit initium et quod de initio nascitur, id est ne motus
ex motu processisse uideatur».
2. Ad haec facilis et absoluta responsio est, quia, ut principia
et haec quae de principiis prodeunt iu aliquo non numquam
inter se differre fateamur, numquam tamen ita sibi possunt esse
contraria ut aduersa sibi sunt stare et moueri. 3. Nam sic albi ini­
tium nigrum uocaretur, et siccum esset humoris exordium,
bonum de malo, ex amaro initio dulce procederet. Sed non ita
est, quia usque ad contrarietatem initia et sequentia dissidere
natura non patitur. Inuenitur tamen inter ipsa non numquam
talis differentia qualis inter se origini progressionique conueniat,
ut est hic quoque inter motum quo mouetur anima et quo mouet
cetera. 4. Non enim animam Plato simpliciter motum dixit, sed
motum se mouentem. Inter motum ergo se mouentem et motum
quo mouet cetera quid intersit in aperto est: siquidem ille sine
auctore est, hic aliis motus auctor est. Constitit ergo neque adeo
posse initia ac de initiis procreata differre ut contraria sibi sint,
nec tamen hic moderatam differentiam defuisse. Non igitur sta­
bit principium motus, quod ille artifici conclusione collegit.
5. His tertia, ut meminimus, successit obiectio: «Vni rei
contraria simul accidere non posse; et quia contraria sibi sunt
mouere et moueri, non posse animam se mouere ne eadem et
moueatur et moueat».
Sed hoc superius adserta dissoluunt, siquidem constitit in
animae motu duo non intellegenda, quod moueat et quod

Fig, 63
Miniatura della E iniziale della / *
frase Ex his omnibus...colligimus,
(«Da questo insieme d’osservazioni _; ‘ .
che abbiamo raccolto») nel capitolo i „
15 del Libro II, in forma di un uomo & i ‘ ~ ‘
che scrive e probabilmente rappre- ->
sentante lo stesso Macrobio, in una pagina del Macrobius, Commentarii in
Somnium Scipionis (NKS 2 184°), manoscritto su pergamena (ca, 1150, Francia
meridionale ?), particolare del fol. 46v, Copenhagen, Det Kongeìige Bibliotek.
16. 1 . A questo punto Aristotele controbatte di nuovo Pla­
tone e polemizza con lui con un’altra disputa concernente le
origini. Nel replicare ripeteremo qui le stesse obiezioni nell’or­
dine in cui sono state esposte sopra.
«Non possono» dice Aristotele «essere identiche alle pro­
prie origini le cose che da esse nascono; perciò l’anima, che è
l’origine del movimento, non si muove, affinché non vi sia iden­
tità tra l ’origine e ciò che nasce dall’origine, vale a dire affinché
non sembri che il movimento derivi da un movimento» 246.
2. La risposta a questa obiezione è facile e perentoria, perché,
anche se ammettiamo che possono esistere delle differenze tra i
princìpi e le loro conseguenze, questa differenza, tuttavia, non
arriva mai fino al contrario, così come fino all’antagonismo che
si nota tra “essere immobile” e “muoversi”. 3. In questa manie­
ra, infatti, l’origine del bianco si chiamerebbe il nero, il princi­
pio dell’umido sarebbe il secco, il bene nascerebbe del male e il
dolce da un amaro iniziale. Ma non è così, perché non è nella
natura delle cose che i principi e le loro conseguenze siano com­
pletamente divergenti. Nondimeno talvolta si trova tra essi una
differenza compatibile con il rapporto tra l’origine e ciò che da
essa deriva, come, anche in questo caso, tra il movimento col
quale si muove l’anima e quello col quale essa muove tutto il
resto. 4. Platone, infatti, non definì semplicemente l’anima come
movimento, bensì come movimento automoventesi 247. Tra il
moto automoventesi ed il moto col quale l’anima muove tutte le
altre cose, la distinzione è dunque palese: il primo movimento
non ha artefice, l’altro è artefice del movimento per tutte le altre
cose. E dunque evidente sia che gli inizi e le conseguenze che ne
derivano non possono differire al punto di essere opposti, sia
che, nel caso di cui si tratta, una piccola differenza non è esclu­
sa. Il principio del moto non sarà dunque immobile, come pre­
tende Aristotele con un’artificiosa conclusione.
5. A queste obiezioni ne vien dietro, come abbiamo ricor­
dato, una terza: «In una cosa unica, non possono esserci simul­
taneamente stati contrari e, poiché muovere e essere mossi
sono dei contrari, l’anima non può muovere se stessa, per evi­
tare che allo stesso tempo sia mossa e muova» 248.
Ma quanto abbiamo in precedenza affermato annulla que­
sto argomento: non va infatti intesa una dualità nel movimen-
moueatur, quia nihil est aliud ab se moueri quam moueri alio
non mouente. Nulla est ergo contrarietas ubi quod fit unum
est, quia fit non ab alio circa alium, quippe cum ipse motus ani­
mae sit essentia.
6. Ex hoc ei, ut supra rettulimus, nata est occasio quarta
certaminis. «Si animae essentia motus est», inquit, «cur inter­
dum quiescit, cum nulla alia res contrarietatem propriae
admittat essentiae? lignis, cuius essentiae calor inest, calere
non desinit, et quia frigidum niuis in essentia eius est, non nisi
semper est frigida; et anima igitur eadem ratione numquam a
motu cessare deberet». Sed dicat uelim quando cessare ani­
mam suspicatur? 7. «Si mouendo se», inquit, «moueat et cor­
pus necesse est, utique, quando non moueri corpus uidemus,
animam quoque intellegimus non moueri».
Contra hoc in promptu est gemina defensio. 8 . Primum
quia non in hoc deprehenditur motus animae si corpus agite­
tur; nam et cum nulla pars corporis moueri uidetur, in homine,
tamen ipsa cogitatio aut in quocumque animali auditus, uisus,
odoratus et similia, sed et in quiete ipsa spirare, somniare,
omnia haec motus animae sunt. 9. Deinde quis ipsum corpus
dicat immobile, etiam dum non uidetur agitari, cum incremen­
ta membrorum, aut, si iam crescendi aetas et tempus excessit,
cum saltus cordis cessationis impatiens, cum cibi ordinata
digeries naturali dispensatione inter uenas et uiscera sucum
ministrans, cum ipsa collectio fluentorum perpetuum corporis
testetur agitatum? Et anima igitur aeterno et suo motu, sed et
corpus, quamdiu ab initio et causa motus animatur, semper
mouetur.
Hinc eidem fomes quintae ortus est quaestionis. 10. «Si
anima», inquit, «aliis causa motus est, ipsa sibi causa motus
to dell’anima tra ciò che muove e ciò che è mosso, poiché esse­
re mosso di per sé equivale a muoversi senza il soccorso di un
altro motore. Non c’è dunque nessun antagonismo laddove c’è
unità d’azione; perché, quanto accade, non proviene da una
cosa per riguardarne un’altra, dato che il movimento stesso è
l’essenza dell’anima. 249
6. Quest’ultimo punto, come abbiamo sopra ricordato,
offre ad Aristotele l’opportunità di sollevare una quarta dispu­
ta: «Se l’essenza dell’anima è il movimento» dice Aristotele
«perché mai l’anima ogni tanto è immobile? Il fuoco, la cui
essenza è il calore, non cessa d’esser caldo; poiché il freddo
della neve è incluso nella sua essenza, essa non può che essere
sempre fredda; è dunque l’anima, per la stessa ragione, non
dovrebbe mai cessare di essere in movimento» 250. Ma vorrei
proprio che Aristotele ce lo dicesse: in quale circostanza sup­
pone che l’anima smetta di muoversi? 7. «Se muovendosi» dice
questo filosofo «è inevitabile che muova anche il corpo, in ogni
caso, quando vediamo non muoversi il corpo, comprendiamo
che anche l’anima non si muove».
Contro una tale argomentazione si dispone di una duplice
forma di difesa. 8 . In primo luogo, il moto dell’anima non si
deduce dal fatto che il corpo sia agitato; infatti, anche quando
sembra che nessuna parte del corpo, nell’uomo 251, si muova,
tuttavia il pensiero stesso, o, in qualunque essere animato, l’u­
dito, la vista, l’olfatto e altre simili sensazioni e perfino, duran­
te il sonno, il respirare e il sognare 252, tutte queste cose, insom­
ma, sono moti dell’anima. 9. In secondo luogo, chi sosterrà che
il corpo è immobile, quand’anche non sembra muoversi, dato
che lo sviluppo delle membra, o, se l’età e il momento della
crescita sono già trascorsi, il battito incessante del cuore, il
regolare processo della digestione, che per un sistema naturale
di ripartizione distribuisce il succo nutritivo tra le vene e le
viscere, e perfino la funzione stessa dell’escrezione attestano la
continua attività del corpo? L’anima, dunque, si muove con un
suo movimento eterno e proprio, ma anche il corpo, per tutto
il tempo che è animato da ciò che è l’origine e la causa del
movimento, si muove sempre 253.
Aristotele trova qui l’esca per dar piglio alla sua quinta
obiezione. 10. «Se l’anima» dice «è causa di movimento delle
esse non poterit, quia nihil est quod eiusdem rei et sibi et aliis
causa sit».
Ego uero, licet facile possim probare plurima esse quae eiu­
sdem rei et sibi et aliis causa sint, ne tamen studio uidear omni­
bus quae adserit obuiare, hoc uerum esse concedam, quod et
pro uero habitum ad adserendum motum animae non nocebit.
11. Etenim animam initium motus et causam uocamus. De
causa post uidebimus. Interim constat omne initium inesse rei
cuius est initium; et ideo quicquid in quamcumque rem ab ini­
tio suo proficiscitur, hoc in ipso initio reperitur. Sic initium
caloris non potest non calere. Ignem ipsum, de quo calor in
alia transit, quis neget calidum?
12. «Sed ignis», inquit, «non se ipse calefacit, quia natura
totus est calidus». Teneo quod uolebam! Nam nec anima ita se
mouet ut sit inter motum mouentemque discretio, sed tota ita
suo motu mouetur ut nihil possis separare quod moueat. Haec
de initio dicta sufficient.
13. De causa uero, quoniam spontanea coniuentia concessi­
mus, nequid eiusdem rei et sibi et aliis causa sit, libenter
adquiescimus ne anima, quae aliis causa motus est, sibi causa
motus esse uideatur. His enim causa motus est quae non moue-
rentur nisi ipsa praestaret. Illa uero ut moueatur non sibi ipsa
largitur, sed essentiae suae est quod mouetur.
14. Ex hoc quaestio quae sequitur iam soluta est. Tunc enim
forte concedam ut ad motus exercitium instrumenta quaeran­
tur, quando aliud est quod mouet, aliud quod mouetur. In
anima uero hoc nec scurrilis iocus sine damno uerecundiae
audebit expetere, cuius motus est in essentia, cum ignis, licet
altre cose, non potrà essere causa di moto per se stessa; perché
non c’è niente che sia causa del medesimo effetto per se stessa
e per le altre cose» 254.
Mi sarebbe facile dimostrare l’esistenza di parecchie cose
che sono causa per se stesse e per le altre del medesimo effet­
to; comunque sia, affinché non si creda che voglia contrastare
con troppo zelo ogni affermazione di Aristotele, anche ammet­
tendo come vero ciò che si considera come tale, questa conces­
sione non nuocerà all’affermazione del movimento dell’anima.
1 1 . Abbiamo infatti definito l’anima principio e causa del
movimento. Sulla causa ritorneremo in seguito. È nondimeno
evidente che ogni inizio è immanente alla cosa di cui è inizio;
perciò tutto quello che, in una qualunque cosa, deriva dal suo
principio, è reperibile in questo stesso principio. Così l’inizio
del caldo non può che essere caldo. Chi dirà che il fuoco stes­
so, da cui parte il calore per passare in altre cose, non è caldo?
12. «Ma il fuoco» dice Aristotele «non scalda se stesso, poi­
ché per natura è caldo nel suo insieme» 255. E qui che lo vole­
vo! Infatti neppure l’anima si muove in modo tale che ci sia
distinzione tra moto e azione motrice, ma essa si muove tutta
quanta per movimento proprio in modo che non è assoluta-
mente possibile separare ciò che la muove. Ciò che ho appena
detto riguardo al problema dell’origine è sufficiente.
13. Quanto alla causa, poi, siccome abbiamo ammesso,
chiudendo spontaneamente un occhio, che nessuna cosa è
causa per sé e per altre cose del medesimo effetto, converremo
volentieri che l’anima, che è causa del movimento per altre
cose, non sembra essere causa di moto per se stessa. Essa,
infatti, è causa di moto per quelle cose che non avrebbero
movimento, se essa stessa non glielo conferisse. Ma essa, per
muoversi, non ha bisogno di accordare il movimento a se stes­
sa, perché il muoversi è proprio della sua essenza. 256
14. In base a ciò l’obiezione che segue è già risolta 257. Si
potrebbe allora ammettere, a rigore, che per l’esercizio del
movimento siano richiesti degli strumenti, quando una cosa è
il motore e un’altra cosa è ciò che è messo in movimento. Ma
nemmeno per volgare beffa si oserà pretenderlo senza offesa
alla dignità nel caso dell’anima, il cui movimento è nella sua
essenza, perché, se è vero che il fuoco si muove per una causa
ex causa intra se latente moueatur, nullis tamen instrumentis
ad superna conscendat; multoque minus haec in anima quae­
renda sint, cuius motus essentia sua est.
15. In his etiam quae secuntur uir tantus et alias ultra cete­
ros serius similis cauillanti est. «Si mouetur», inquit, «anima,
inter ceteros motus etiam de loco in locum mouetur. Ergo
modo», ait, «corpus egreditur, modo rursus ingreditur, et in
hoc exercitio saepe uersatur. Quod fieri non uidemus. Non igi­
tur mouetur».
16. Contra hoc nullus est qui non sine haesitatione respon­
deat non omnia quae mouentur etiam de loco in locum moue­
ri. Aptius denique in eum similis interrogatio retorquenda est,
«Moueri arbores dicis?» Quod cum, ut opinor, annuerit, pari
dicacitate ferietur: «Si mouentur arbores, sine dubio, ut tu
dicere soles, inter alios motus etiam de loco in locum mouen­
tur. Hoc autem uidemus per se eas facere non posse. Igitur
arbores non mouentur». 17. Sed ut hunc syllogismum addita­
mento serium facere possimus, postquam dixerimus: «Ergo
arbores non mouentur», adiciemus: «Sed mouentur arbores.
Non igitur omnia quae mouentur etiam de loco in locum
mouentur». Et ita finis in exitum sanae conclusionis euadet:
«Si ergo arbores fatebimur moueri quidem, sed apto sibi motu,
cur hoc animae negemus, ut motu essentiae suae conueniente
moueatur?» 18. Haec et alia ualide dicerentur etiam si hoc
motus genere moueri anima non posset. Cum uero et corpus
animet accessu et a corpore certa constituti temporis lege
discedat, quis eam neget etiam in locum, ut ita dicam, moueri?
19. Quod autem non saepe sub uno tempore accessum
uariat et recessum, facit hoc dispositio arcana et consulta natu­
rae, quae ad animalis uitam certis uinculis continendam tan-
in sé latente, senza aver bisogno di strumenti per salire verso
l’alto, a maggior ragione questi strumenti non andranno cerca­
ti quando si tratta dell’anima, che ha il movimento come sua
essenza 258.
15. Anche nelle seguenti obiezioni, questo illustre filosofo,
ben più serio di altri in altre occasioni, è simile ad uno in cerca
di cavilli. «Se l’anima si muove» dice «deve, tra tutti i suoi altri
movimenti, avere anche quello di muoversi da luogo a luogo.
Deve quindi» continua «ora uscire dal corpo, ora successiva­
mente rientrarvi e compiere frequentemente quest’azione. Ma
non vediamo accadere ciò. Dunque non si muove» 259.
16. Contro tale argomentazione non c’è nessuno che, senza
esitare, gli risponderà che non tutte le cose dotate di movimen­
to si muovono anche di luogo in luogo. Una simile domanda va
più convenientemente ritorta contro di lui. «Dici che gli alberi
si muovono?». Quando avrà, come penso, risposto di sì, con
egual spirito mordace lo si attaccherà dicendo: «Se gli alberi si
muovono, è chiaro che, secondo quanto sei solito dire, oltre ai
loro altri movimenti, devono avere la facoltà di muoversi da
luogo a luogo. Ma vediamo che ne sono incapaci di per se stes­
si. Dunque gli alberi non si muovono». 17. Ma per giungere,
completandolo, a dare un tono di serietà a questo sillogismo,
dopo aver detto «Dunque gli alberi non si muovono», aggiun­
geremo: «Invece gli alberi si muovono. Dunque non tutto ciò
che si muove si muove anche da luogo a luogo». E così, alla
fine, si perviene all’esito di questa logica conclusione: «Se dun­
que riconosciamo che gli alberi si muovono, ma con un movi­
mento adeguato a loro, perché negare all’anima la proprietà di
muoversi di un movimento conforme alla sua essenza?». 18.
Questo argomento e altri ancora si potrebbero efficacemente
avanzare, anche se l’anima non potesse muoversi con un movi­
mento di questo genere. Ma, dal momento che essa va ad ani­
mare il corpo e poiché esce dal corpo secondo una legge pre­
cisa ad un’epoca determinata 260, chi può negare che essa si
muova anche, per così dire, in un luogo?
19. E vero che l’anima varia l’entrata e l’uscita dal corpo
spesso in circostanze irregolari, ma ciò accade in virtù di un
decreto misterioso e dei voleri della natura che, per trattenere
la vita dell’essere animato in sicure catene, ha ispirato all’ani-
tum animae iniecit corporis amorem, ut amet ultro quo uincta
est, raroque contingat ne finita quoque lege temporis sui mae­
rens et in uita discedat.
20. Hac quoque obiectione, ut arbitror, dissoluta, ad eas
interrogationes quibus nos uidetur urguere ueniamus. «Si
mouet», inquit, «se anima, aliquo motus genere se mouet.
Dicendumne est igitur animam se in loco mouere? Ergo ille
locus aut orbis aut linea est. An se pariendo seu consumendo
mouetur? Sene auget an minuit? Aut proferatur», ait, «in
medium aliud genus motus quo eam dicamus moueri».
21. Sed omnis haec interrogationum molesta congeries ex
una eademque defluit male conceptae definitionis astutia.
Nam quia semel sibi proposuit omne quod mouetur ab alio
moueri, omnia haec motuum genera in anima quaerit in quibus
aliud est quod mouet, aliud quod mouetur, cum nihil horum
cadere in animam possit, in qua nulla discretio est mouentis et
moti.
2 2 . «Quis est igitur», dicit aliquis, «aut unde intellegitur
animae motus, si horum nullus est?» Sciet hoc quisquis nosse
desiderat uel Platone dicente uel Tullio: «quin etiam ceteris
quae monentur hic fons hoc principium est mouendi». 23.
Quanta sit autem uocabuli huius expressio, quo anima fons
motus uocatur, facile reperies, si rei inuisibilis motum sine auc­
tore atque ideo sine initio ac sine fine prodeuntem et cetera
mouentem mente concipias; cui nihil similius de uisibilibus
quam fons potuerit reperiri, qui ita principium est aquae, ut,
cum de se fluuios et lacus procreet, a nullo nasci ipse dicatur;
nam si ab alio nasceretur, non esset ipse principium. 24. Et
sicut fons non semper facile deprehenditur, ab ipso tamen qui
funduntur aut Nilus est aut Eridanus aut Hister aut Tanais, et
ut, illorum rapacitatem uidendo admirans et intra te tantarum
aquarum originem requirens, cogitatione recurris ad fontem, et
ma un tale amore per il corpo, che essa lo ama anche oltre il
tempo in cui i legami devono trattenerla, e non di rado accade
che essa, al termine del tempo concessole dalla legge, lasci il
suo posto con rammarico e controvoglia. 261
20. Dopo aver eliminato, come credo, anche questa obiezio­
ne, passiamo ai quesiti con i quali Aristotele sembra metterci
alle strette. «Se l’anima si muove» dice «si muove di un movi­
mento di qualche genere. Bisogna dunque dire che l’anima si
muove all’interno di uno spazio? Questo spazio è dunque o un
cerchio o una linea. Si muove generando se stessa o consuman­
dosi? Accresce o diminuisce se stessa? Altrimenti ci si presen­
ti» afferma «un altro genere di movimento per mezzo del quale
possiamo dire che essa si muova» 262.
2 1 . Ma tutta questa pedantesca congerie di domande deri­
va da un solo e unico argomento capzioso tratto da una mal
concepita definizione 263. Infatti, poiché si è prefissato una
volta per tutte che tutto ciò che si muove è mosso da qualco­
s’altro, ricerca nell’anima tutti i generi di movimento nei quali
una cosa è ciò che muove e un’altra è ciò che è mosso, mentre
niente di tutto ciò può applicarsi all’anima, nella quale non c’è
alcuna distinzione tra motore e mobile.
22. «Ma qual è dunque» mi si dirà «il movimento dell’ani­
ma o a cosa attribuirlo, se non è nessuno di questi ultimi?». Lo
saprà chiunque desideri venirne a conoscenza, ascoltando le
parole di Platone o di Cicerone: «anzi, per tutte le altre cose che
si muovono, è la fonte, è il principio del movimento» 2M. 23.
Quanto poi sia importante l’espressione «fonte del movimen­
to», con cui si qualifica l’anima, lo scoprirai facilmente, se
immagini il moto di un essere invisibile che procede senza arte­
fice e, perciò, senza inizio e senza fine, e che muove tutte le
altre cose 265; di tutte le cose visibili non si saprebbe trovare
nessuna migliore analogia di quella di una fonte, che è a tal
punto principio dell’acqua che, quando produce da sé fiumi e
laghi, non si dice che nasca da qualcosa, perché se nascesse da
qualcosa, non sarebbe essa stessa principio 266. 24. Come la
fonte non sempre è facile da scoprire e nondimeno da essa sca­
turiscono o il Nilo, o l’Eridano, o l’Istro, o il Tanai 267 e quan­
do, ammirando lo spettacolo dell’impetuosità del corso di que­
sti fiumi e chiedendoti nell'intimo l’origine dell’abbondanza
hunc omnem motum intellegis de primo scaturriginis manare
principio, ita, cum corporum motum, seu diuina seu terrena
sint, considerando quaerere forte auctorem uelis, mens tua ad
animam quasi ad fontem recurrat, cuius motum etiam sine cor­
poris ministerio testantur cogitationes, gaudia, spes, timores.
25. Nam motus eius est boni malique discretio, uirtutum amor,
cupido uitiorum, ex quibus effluunt omnes inde nascentium
rerum meatus; motus enim eius est quicquid irascimur et in
feruorem mutuae collisionis armamur, unde paulatim proce­
dens rabies fluctuat praeliorum; motus eius est quod in deside­
ria rapimur, quod cupiditatibus alligamur. Sed hi motus, si
ratione gubernentur, proueniunt salutares, si destituantur, in
praeceps et rapiuntur et rapiunt.
26. Didicisti motus animae, quos modo sine ministerio cor­
poris, modo per corpus exercet. Si uero ipsius mundanae ani­
mae motus requires, caelestem uolubilitatem et sphaerarum
subiacentium rapidos impetus intuere, ortum occasumue solis,
cursus siderum uel recursus, quae omnia anima mouente
proueniunt. Immobilem uero eam dicere quae mouet omnia,
Aristoteli non conuenit, qui quantus in aliis sit probatum est,
sed illi tantum quem uis naturae, quem ratio manifesta non
moueat.

17. 1. Edocto igitur atque adserto animae motu, Africanus


qualiter exercitio eius utendum sit in haec uerba mandat et
praecipit: 2. «Hanc tu exerce optimis in rebus; sunt autem opti­
mae curae de salute patriae, quibus agitatus et exercitatus ani­
mus uelocius in hanc sedem et domum suam peruolabit; idque
ocius faciet, si iam tum cum erit inclusus in corpore, eminebit
foras, et ea quae extra erunt contemplans quam maxime se a cor­
pore abstrahet. 3. Namque eorum animi qui se corporis uolupta-
tibus dediderunt, earumque se quasi ministros praebuerunt,
delle loro acque, corri col pensiero alla loro fonte e compren­
di che tutto questo movimento emana dal primo principio
della scaturigine; allo stesso modo, quando tu, osservando il
movimento dei corpi, o divini o terrestri, vuoi, per avventura,
risalire al suo autore, la tua mente deve ricorrere, come ad una
fonte, all’anima il cui movimento, anche senza l’impiego del
corpo, è testimoniato dai pensieri, dalle gioie, dalle speranze,
dai timori. 25. Infatti il suo movimento consiste nella distinzio­
ne del bene e del male, nell’amore per le virtù, in una smania
verso i vizi, da cui scaturiscono tutti i flussi delle azioni che da
essi nascono; il suo movimento è ciò che ci fa andare in colle­
ra e armarci l’un contro l’altro nel fervore del conflitto, da cui
fluisce, a poco a poco, il furore ribollente dei combattimenti; il
suo movimento è ciò che ci trascina nei desideri, ciò che c’in­
catena alle passioni. Ma questi movimenti, se la ragione li
governa, divengono salutari; se lasciati a se stessi, precipitano e
ci precipitano nell’abisso 268.
26. Conosci ormai i movimenti che l’anima esegue talvolta
senza l’impiego del corpo e talvolta esercita per mezzo di esso.
Ma se adesso vuoi davvero conoscere i movimenti dell’Anima
del Mondo, osserva la rivoluzione celeste e l’impetuosa spinta
delle sfere sottostanti, il sorgere e il tramontare del sole, i corsi
e i ricorsi delle stelle, cose tutte provenienti dal movimento
dell’Anima. Pretendere che sia immobile, ella che tutto muove,
non può essere permesso ad Aristotele, la cui grandezza si è
manifestata in altre occasioni; ma si addice soltanto a chi non è
animato né dal potere della natura, né dall’evidenza della
ragione.

17. 1. Dopo avere quindi spiegato e asserito il movimento


dell’anima, l’Africano descrive e prescrive in questi termini il
modo di farne uso: 2 . «Tu esercitala nelle azioni più nobili;
orbene, le occupazioni più nobili riguardano la salute della
patria; l’anima, stimolata ed esercitata da esse, trasvolerà più
rapidamente verso questa sede e dimora a lei propria; e lo farà
con velocità ancor maggiore, se, già da quando sarà chiusa nel
corpo, si eleverà al di fuori e, mediante la contemplazione dell’al­
dilà, si distaccherà il più possibile dal corpo. 3. Infatti per coloro
che si sono abbandonati ai piaceri del corpo, che si sono offerti
impulsuque lubidinum uoluptatibus oboedientium deorum et
hominum iura uiolauerunt, corporibus elapsi circum terram
ipsam uolutantur, nec hunc in locum nisi multis exagitati saecu­
lis reuertuntur».
4. In superiore huius operis parte diximus alias otiosas, alias
negotiosas esse uirtutes, et illas philosophis, has rerum publi­
carum rectoribus conuenire, utrasque tamen exercentem face­
re beatum. Hae uirtutes interdum diuiduntur, nonnumquam
uero miscentur, cum utrarumque capax et natura et institutio­
ne animus inuenitur. 5. Nam si quis ab omni quidem doctrina
habeatur alienus, in re publica tamen et prudens et temperatus
et fortis et iustus sit, hic a feriatis remotus, eminet tamen actua­
lium uigore uirtutum, quibus nihilo minus caelum cedit in
praemium. 6 . Si quis uero insita quiete naturae non sit aptus ad
agendum, sed solum optima conscientiae dote erectus ad supe­
ra, doctrinae supellectilem ad exercitium diuinae disputationis
expendat, sectator caelestium, deuius caducorum, is quoque
ad caeli uerticem otiosis uirtutibus subuehetur. 7. Saepe tamen
euenit ut idem pectus et agendi et disputandi perfectione sub­
lime sit, et caelum utroque adipiscatur exercitio uirtutum. 8 .
Romulus nobis in primo genere ponatur, cuius uita uirtutes
numquam deseruit, semper exercuit; in secundo Pythagoras,
qui, agendi nescius, fuit artifex disserendi et solas doctrinae et
conscientiae uirtutes secutus est; sit in tertio ac mixto genere
apud Graecos Lycurgus et Solon, inter Romanos Numa,
Catones ambo, multique alii qui et philosophiam hauserunt
altius et firmamentum rei publicae praestiterunt; soli enim
sapientiae otio deditos, ut abunde Graecia tulit, ita Roma
nesciuit.
quasi come loro complici e che, sotto la spinta delle libidini obbe­
dienti ai piaceri, violarono le leggi divine e umane, una volta sci­
volate fuori dai corpi, si aggirano in volo intorno alla terra e non
ritorneranno in questo luogo, se non dopo aver peregrinato per
molti secoli» 269.
4. Nella prima parte di quest’opera abbiamo detto che ci
sono delle virtù appartenenti alla vita contemplativa e delle
virtù proprie della vita attiva, e che le prime si addicono ai filo­
sofi e le seconde a chi dirige la cosa pubblica, e che, attraverso
l’esercizio delle une come delle altre, si può giungere alla feli­
cità. Queste virtù sono talvolta separate; talvolta, invece, si tro­
vano riunite insieme, quando l’anima, per natura e per educa­
zione, risulta in grado di pervenire a entrambe. 5. Infatti se uno
è considerato estraneo a ogni genere di scienza, ma nell’ammi­
nistrazione della cosa pubblica è prudente, temperato, forte e
giusto 270, questi, per quanto lontano sia dalle virtù contempla­
tive, si distingue tuttavia per la sua energia nelle virtù pratiche,
per le quali, non meno che per le altre, è riservato come pre­
mio il cielo. 6 . Se invece qualcun altro, per quiete insita nella
sua natura, non ha attitudine all’azione, ma, teso com’è dall’ot­
tima coscienza verso le cose superiori, presta solo il bagaglio
che gli fornisce la scienza nell’esercizio della discussione del
divino, frequentando assiduamente il mondo celeste e tenen­
dosi lontano dal mondo delle cose effimere 271, anche costui
sarà trasportato alla sommità del cielo per le virtù della vita
contemplativa. 7. Tuttavia non è raro che accada che un mede­
simo spirito si libri in alto per la perfezione sia nell’agire sia nel
filosofare e guadagni il cielo per l’esercizio di entrambe le
virtù. 8 . Va posto nella prima categoria di persone il nostro
Romolo 272, che, in vita, non abbandonò mai le virtù, ma con­
tinuamente le esercitò; metteremo nella seconda categoria
Pitagora che, pur incapace d’azione, fu però abile nell’arte
della riflessione e seguì soltanto le virtù della filosofia e della
coscienza; nella terza categoria, quella delle virtù miste, si por­
ranno, presso i Greci, Licurgo e Solone 2J), Numa e i due
Catoni tra i Romani 274 e molti altri che attinsero profondamen­
te ai principi della filosofia e, nello stesso tempo, diedero soli­
di sostegni allo stato: infatti di uomini dediti alla sola contem­
plazione filosofica, la Grecia ne ha avuti in gran numero, men­
tre Roma non ne ha conosciuti 275.
9. Quoniam igitur Africanus noster, quem modo auus prae­
ceptor instituit, ex illo genere est quod et de doctrina uiuendi
regulam mutuatur et statum publicum uirtutibus fulcit, ideo ei
perfectionis geminae praecepta mandantur,
10. Sed ut in castris locato ac sudanti sub armis primum uir­
tutes politicae suggeruntur his uerbis: «Sunt autem optimae
curae de salute patriae, quibus agitatus et exercitatus animus
uelocius in hanc sedem et domum suam peruolabit».
11. Deinde quasi non minus docto quam forti uiro philoso­
phis apta subduntur, cum dicitur: «Idque ocius faciet, si iam
tunc cum erit inclusus in corpore, eminebit foras, et ea quae extra
erunt contemplans quam maxime se a corpore abstrahet». 1 2 .
Haec enim illius sunt praecepta doctrinae quae illam dicit mor­
tem philosophantibus appetendam; ex qua fit ut, adhuc in cor­
pore positi, corpus ut alienam sarcinam, in quantum patitur
natura, despiciant.
Et facile nunc atque oportune uirtutes suadet, postquam
quanta et quam diuina praemia uirtutibus debeantur edixit.
13. Sed quia inter leges quoque illa imperfecta dicitur in qua
nulla deuiantibus poena sancitur, ideo in conclusione operis
poenam sancit extra haec praecepta uiuentibus; quem locum
Er ille Platonicus copiosius exsecutus est, saecula infinita dinu­
merans, quibus nocentum animae, in easdem poenas saepe
reuolutae, sero de Tartaris permittuntur emergere et ad natu­
rae suae principia, quod est caelum, tandem impetrata purga­
tione remeare.
14. Necesse est enim omnem animam ad originis suae
sedem reuerti; sed quae corpus tamquam peregrinae incolunt,
cito post corpus uelut ad patriam reuertuntur, quae uero cor-
9. Poiché, dunque, il nostro Africano, che è stato appena
istruito dal suo avo precettore, appartiene a quella categoria di
uomini che ricava dalla dottrina la sua regola di vita e con le
sue virtù sorregge lo stato, si vede perciò trasmettere i precetti
riguardanti questa duplice perfezione.
1 0 . Ma siccome si trova in un accampamento e suda sotto
le armi, innanzi tutto gli sono suggerite le virtù politiche con
queste parole: «Orbene, le occupazioni più nobili riguardano la
salute della patria; l’anima, stimolata ed esercitata da esse, tra­
svolerà più rapidamente verso questa sede e dimora a lei pro­
pria».
11. In seguito, come indirizzandosi a un uomo non meno
dotto che coraggioso, si sottopongono alla sua attenzione le
raccomandazioni che si addicono al filosofo, con le seguenti
parole: «E lo farà con velocità ancor maggiore, se, già da quando
sarà chiusa nel corpo, si eleverà al di fuori e, mediante la contem­
plazione dell’aldilà, si distaccherà il più possibile dal corpo». 1 2 .
Tali sono infatti i precetti della dottrina secondo la quale colo­
ro che sono imbevuti di filosofia devono aspirare a quella sorta
di morte 276 per cui, quando essi sono ancora all’interno del
corpo, riescono a disprezzare questo corpo quasi fosse un far­
dello estraneo, per quanto la natura lo consente.
Per l’Africano è ora facile e opportuno consigliare le virtù,
una volta che ha reso noto quante e quali ricompense divine
sono assegnate a queste virtù. 13. Ma poiché anche tra le leggi
vien detta imperfetta quella che non sancisce alcuna pena per
chi trasgredisce 277, per questo motivo Cicerone, a conclusione
dell’opera, stabilisce la pena per chi vive al di fuori di questi
precetti; è un punto su cui si è diffuso ampiamente anche il
personaggio platonico di Er, enumerando gli infiniti secoli che
devono trascorrere prima che alle anime dei colpevoli, ricadu­
te a più riprese nelle medesime pene, sia permesso, dopo un
lungo soggiorno, di uscire dal Tartaro e di ritornare alle origi­
ni della loro natura, cioè in cielo, dopo aver finalmente conse­
guito la purificazione 278.
14. E infatti necessario che ogni anima ritorni alla sua sede
d’origine; ma quelle che abitano il corpo come se vi fossero di
passaggio, dopo averlo abbandonato, non tardano a rivedere,
per così dire, la loro patria 279, mentre quelle che mettono radi-
porum illecebris ut suis sedibus inhaerent, quanto ab illis uio-
lentius separantur, tanto ad supera serius reuertuntur.
15. Sed iam finem somnio cohibita disputatione faciamus,
hoc adiecto quod conclusionem decebit, quia, cum sint totius
philosophiae tres partes, moralis et naturalis et rationalis, et sit
moralis quae docet morum elimatam perfectionem, naturalis
quae de diuinis corporibus disputat, rationalis cum de incor­
poreis sermo est quae mens sola complectitur, nullam de tribus
Tullius in hoc somnio praetermisit. 16. Nam illa ad uirtutes
amoremque patriae et ad contemptum gloriae exhortatio quid
aliud continet nisi ethicae philosophiae instituta moralia? Cum
uero uel de sphaerarum modo uel de nouitate siue magnitudi­
ne siderum deque principatu solis et circis caelestibus cingulis-
que terrestribus et Oceani situ loquitur et harmoniae superum
pandit arcanum, physicae secreta commemorat. At cum de
motu et immortalitate animae disputat, cui nihil constat inesse
corporeum cuiusque essentiam nullus sensus sed sola ratio
deprehendit, illic ad altitudinem philosophiae rationalis ascen­
dit. 17. Vere igitur pronuntiandum est nihil hoc opere perfec­
tius, quo uniuersa philosophiae continetur integritas.
ce alle lusinghe dei corpi come fossero le loro vere dimore,
quanto più violentemente si separano da esse, tanto più tempo
impiegano per risalire alle regioni superne 280.
15. Ma è giunto il tempo di mettere fine al sogno fissando
un limite alla nostra dissertazione, dopo aver aggiunto la
seguente osservazione, che sarà un’appropriata conclusione:
l ’insieme della filosofia si divide in tre parti, morale, naturale e
razionale, essendo la morale la parte che ha come scopo di
insegnare l’assoluta perfezione dei costumi, la naturale quella
che tratta dei corpi divini e la razionale quella che ha per ogget­
to gli esseri immateriali comprensibili soltanto con l’intelletto;
ebbene, Marco Tullio Cicerone, nel Somnium, non ha trascura­
to nessuna delle tre 281. 16. Infatti, l’esortazione alle virtù, all’a-
mor di patria, allo sprezzo della gloria, che cos’altro contiene
se non gli insegnamenti morali della filosofia etica? Quando
poi Scipione parla delle norme che regolano le sfere o della
straordinarietà o della magnitudine degli astri e della sovranità
del sole e dei circoli del cielo, delle fasce della terra e della
posizione che occupa l’Oceano e quando rivela l’arcano del­
l’armonia dell’empireo, egli evoca i segreti della fisica 282. E
quando tratta del movimento e dell’immortalità dell’anima,
che, per opinione generale, non ha niente di materiale e la cui
essenza non può essere afferrata da nessuno dei sensi, ma sola­
mente dall’intelletto, qui Cicerone ascende al vertice della filo­
sofia razionale. 17. Va, dunque, veramente proclamato a gran
voce che niente è più perfetto di quest’opera che contiene tutti
gli elementi della filosofia 283.
Diagramma delle eclissi sola­
re e lunare contenute neH’ultimo
capitolo in una pagina del
M acrobius, Commentarii in
Somnium Scipionis (NKS 218
4°), manoscritto su pergamena
(ca. 1150, Francia meridionale?),
particolare del fol. 49v, Copen­
hagen, Det Kongelige Bibliotek.

Fig. 65 Fig, 66
Diagramma di soggetto non Diagrammi della terra, del
identificato nel Macrobius, Com­ cielo e delle fasi lunari in M acro­
mentarii in Somnium Scipionis bius, Commentarii in Somnium
(NKS 218 4°), manoscritto su Scipionis (NKS 218 4°), mano­
pergamena (ca. 1150, Francia scritto su pergamena (ca. 1150,
meridionale?), fol. 50r, Copen­ Francia meridionale?), fol. 50v,
hagen, Det Kongelige Bibliotek. Copenhagen, Det Kongelige
Bibliotek,
N ote e A p p e n d ic i
N ote a l testo

A p p e n d ic e I. I l S o g n o d i S c i p i o n e d i M.T. C i c e r o n e
A p p e n d ic e II. S c i p i o n e : s o g n i e m a g n a n im it à n e l l e a r ti
A p p e n d ic e III. S c i p i o n e d i P a o l o A n t o n io R o l l i
A p p e n d ic e IV. I l s o g n o d i S c i p i o n e d i P ie t r o M e t a s t a s io
N o t e al t e st o

1 II raffronto è tra il mito di E r in Platone {Repubblica, X 614 b - 621 b)


e il sogno di Scipione Emiliano nel VI libro del De Republica di Cicerone,
grandioso dialogo sullo stato giuntoci solo parzialmente. Il medesimo para­
gone si ritrova ugualmente nell’altro commento che possediamo, la
Disputatio de somnio Scipionis di Favonio Eulogio, retore cartaginese con­
temporaneo di Agostino. Come il Sogno di Scipione fa da «pendant» al mito
di Er, così la Repubblica di Cicerone è l’equipollente della Repubblica di
Platone. Da un lato Platone è il filosofo ispirato per antonomasia, i cui scrit­
ti promanano dalla «divina profondità del suo genio» (Commento al Sogno di
Scipione II, 2, 1 ). Tanto l’uno quanto l’altro, il filosofo greco come il pensa­
tore latino, sono, come dichiara Macrobio nel seguente § 3, «uomini eminen­
ti per sapienza e che nella ricerca del vero non hanno avuto che ispirazioni
divine». Nella forma breve e sintetica del Sogno, vi si trova incastonata la
Verità senza tempo grazie a Cicerone, il nuovo Platone (cfr. Commento al
Sogno di Scipione II, 12, 7 nonché II, 5, 28).
2 Modo è la lezione unanime dei manoscritti. A partire da Zeunius (Aur.
Theodosii Macrobii,... Opera, cum notis integris Isacii Fontani, Jo. Meursii, Jac.
Gronovii, quibus adjunxit et suas Jo. Car. Zeunius, Impensis G. Theophili
Georgi, Lipsiae, 1774), seguito da Eyssenhardt e Willis e da tutti gli editori,
eccetto Armisen-Marchetti, si è preferito correggere in motus («corso,
moto»). Tuttavia la congettura va respinta e va invece accolta la lectio difici-
lior che, come fa notare la studiosa francese, si ritrova in I 14, 26 in un con­
testo simile.
3 Cfr. Repubblica, I 351 a - 352 a. Secondo Proclo (Commento alla
Repubblica di Platone, Dissertazione 1 ,7, 9 - 8, 6), molti commentatori hanno
sostenuto che l’argomento del trattato platonico fosse la giustizia e che, inve­
ce, la discussione sulla forma di governo migliore fosse accessoria rispetto al
vero scopo del trattato. Lo stesso Socrate dichiara più volte che la ricerca è
rivolta in vista della giustizia (Repubblica, I 336 e; II 368 e; IX 588 b).
4 Cfr, Fedone, 107 d - 114 c.
5 Cfr. Gorgia, 523 a - 527 a.
6 II terzo libro della Repubblica di Cicerone, pervenutoci soltanto molto
frammentariamente, doveva trattare fondamentalmente della giustizia, la
virtù politica per eccellenza. Furio Filo riferiva le argomentazioni di
Cameade contro l’esistenza di un fondamento naturale della giustizia. I
popoli dominatori fondano il loro impero sulla sopraffazione dei più deboli
e non sulla giustizia. Lelio assumeva la difesa della giustizia naturale soste­
nendo la legittimità morale dell’impero di Roma. Secondo Agostino {La Città
di Dio, II 21) Scipione dimostrava che, indipendentemente dalla forma
assunta dalla res publica (monarchia, oligarchia, democrazia), essa andava
amministrata bene ac iuste.
7 Nell’originale, in ipso consummati operis fastigio locavit, «pose il fasti­
gio all’opera che aveva terminato». Il riferimento è, ovviamente al Sogno di
Scipione (Repubblica VI, 9-29) che coronava il dialogo di Cicerone. L’utilizzo
della metafora muratoria per indicare la parte conclusiva di un’intera opera
0 di uno stato o grado di vita è un topos nella letteratura latina, che ricorre in
Cicerone, Cornelio Nepote, Tacito, Livio e molti altri autori. Il fastigium è,
infatti, la parte superiore di un edificio, o quella acuta del tetto o quella alta
anteriore della facciata dove si ponevano le iscrizioni.
8 Prudentia, iustitia, fortitudo e moderatio (o temperantia) sono le quattro
virtù cardinali, su cui Macrobio in seguito (I, 8, 4 sg.) si diffonderà estesa­
mente.
9 L’Er, figlio di Armenio, della Panfilia (regione dell’Asia Minore tra la
Licia e la Cilicia, corrispondente all’area della riva meridionale dell’odierna
Turchia nella zona dell’attuale golfo di Antalya), è noto soltanto dalla fonte
platonica. Cosa che fa propendere che il mito, diventato fin dall’antichità tra
1 più celebri, col suo contenuto e il suo significato sia schietta invenzione di
Platone.
10 In Platone, Repubblica, X 614 b, la raccolta dei cadaveri ormai decom­
posti avviene dopo dodici giorni e non dieci come indicato da Macrobio, il
quale, evidentemente, non aveva una conoscenza diretta e completa dell’o­
pera di Platone, ma soltanto attraverso compilazioni antologiche,
11 II passo qui ricordato da Macrobio in cui Cicerone, nella sua
Repubblica, menzionava il mito di Er è andato perduto. La sua esistenza è
anche testimoniata da Favonio Eulogio (Disputatio de somnio Scipionis I, 1)
e da Agostino {La Città di Dio, X X II 28). Tra coloro che avevano commen­
tato il mito di Er, Proclo {Commento alla Repubblica di Platone XVI, 96, 10-
15) menziona Numenio, Albino, Gaio, Massimo di Nicea, Harpocratio,
Euclide e Porfirio.
12 Pur ritenendo Cicerone che il suo espediente del sogno attribuito a
Scipione non rischiasse di essere sottoposto agli stessi sarcasmi del mito pla­
tonico di Er (supra, I, 2, 1 ) questo non implica che non potesse essere
anch’esso criticato, anche se di ciò non restano tracce.
15 Anche Favonio Eulogio {op. cit. I, 1) fa un rapido accenno alla polemi­
ca degli Epicurei contro il mito di Er (fabulas incredibiles, quas Epicurei deri­
dent). Pur non esistendo più, al tempo di Macrobio e di Favonio Eulogio, la
scuola epicurea, di essa, altrettanto lontana dal platonismo quanto dal cristia­
nesimo, restava un vivo ricordo attraverso gli autori che ne avevano riporta­
to il pensiero e che l’avevano combattuta.
14 II filosofo Colote di Lampsaco (III sec. a.C.), discepolo e pupillo di
Epicuro, scrisse libri polemici contro Platone, attaccando il mito di E r della
Repubblica, il Liside e YEutidemo. Di essi ci rimangono soltanto frammenti
tra i papiri di Ercolano (208 e 1032), Fu anche autore di una celebre opera,
scritta intorno al 263 a.C. e anch’essa andata perduta, in cui si criticava l’uso
dei miti da parte di Platone e si confutavano le dottrine elaborate dalle altre
scuole filosofiche. Intitolata Non è possibile vivere secondo le dottrine degli
altrifilosofi suggerì a Plutarco un opuscolo di replica dal titolo Contro Colote
in difesa degli altri filosofi, risalente all’incirca al 100 d.C. e che occupa il
74esimo posto tra i Moralia, noto anche con il titolo di Neppur felicemente si
può vivere seguendo Epicuro. La critica di Colote del mito di E r ci è nota
attraverso Proclo (Commento alla Repubblica di Platone XVI, 105, 23-106,
14) che riporta anche la confutazione di Porfirio nel suo perduto Commento
alla Repubblica di Platone. L’esposizione di Macrobio presenta così numero­
se convergenze con quella di Proclo da far pensare che fonte di entrambe sia
stato il perduto commentario porfiriano sulla Repubblica di Platone.
15 Obiezione riportata da Proclo, Commento alla Repubblica di Platone
XVI, 105, 23-26. Le altre due obiezioni erano che Platone, che altrove con­
danna le favole dei poeti sull’Ade, si contraddice e che i miti sono inutili, in
quanto inadatti al volgo che non li comprende così come ai saggi che non ne
hanno bisogno. Gli oratori e grammatici romani, da Cicerone e dal Retore
ignoto che inviò il suo piccolo libro ad un certo Gaio Erennio, fino ad
Isidoro di Siviglia, sono più o meno concordi coi greci, almeno con quelli che
proponevano una tripartizione tra historia, pithanón e menzogna. I Romani
proponevano una tripartizione affine dei racconti, tra historia (ciò che è acca­
duto veramente), argumentum (ciò che non è accaduto ma che è verosimile)
e fabula (muthikón) (ciò che non è accaduto ed è inverosimile). E quindi
sempre il grado di verità (o di finzione) che differenzia i tre generi — essen­
do il mito {fabula) il più distante dalla verità e dal realismo. Allo stesso
tempo, queste tre categorie sono coordinate ai generi letterari, historia alla
storia, argumentum al dramma e, più tardi, al romanzo, fabula alla poesia,
soprattutto epica. Si tratta di una categorizzazione che introduce una valuta­
zione abbastanza semplicistica ma che sarà soprattutto gradita ai cristiani:
misurato dal contenuto di verità, il mito, la fabula, è rigettato come pura
menzogna. La fama di Cicerone, dì Quintiliano e di Isidoro garantiscono la
trasmissione di questa definizione, con la sua valutazione negativa, nel
Medioevo e fino ai moralisti dell’età dei Lumi.
Oltre alla tradizione retorica, vi è il sistema ancora più complesso e inte­
ressante qui proposto, in questo capitolo, da Macrobio — un testo che non
può essere sottovalutato, per la posizione dell’autore, a cavallo tra le tradizio­
ni filosofiche antiche, greche soprattutto, e quelle dell’erudizione medievale.
Macrobio comincia da un’etimologia di fabula che lo fa saldamente congiun-
gere all’opinione generale che aveva costituito già il punto di partenza della
retorica ellenistica: fabulae, quarum nomen indicat falsi professionem («la
favola che è una falsità convenuta, come indica il suo nome» — essendo il
sostantivo fabula apparentato al verbo fa-lere, come aveva pensato già
Varrone su cui cfr. infra nota 17); quindi, propone una teoria sull'origine che
è, al tempo stesso, una teoria sulla funzione dei miti: le favole sono state
inventate (repertae) o per il piacere o per la comunicazione di qualcosa di
utile. Questa bipartizione di fabula — racconto solamente piacevole e rac­
conto utile — è seguita da una spiegazione: le favole puramente piacevoli
sono quelle di Menandro e dei suoi imitatori (latini, si può lecitamente ipo­
tizzare e dunque Terenzio innanzitutto) e di Petronio e di Apuleio: si tratta
perciò, in maniera abbastanza sorprendente, della commedia greco-romana
e de] romanzo. Nell’ambito delle favole utili, Macrobio introduce una secon­
da bipartizione. Ci sono delle fabulae che sono delle pure finzioni e ce ne
sono altre che sono fondate sul reale ma che sono sviluppate in modo fanta­
stico. Ciò sembra, a prima vista, riprendere le teorie greche sui mùthoi che
sono o «totalmente fittizi» o «fittizi ma degni di credito», ma Macrobio li
comprende diversamente: le fabulae puramente fittizie sono le favole di
Esopo («famose per l’eleganza dell’invenzione»), mentre quelle fondate sul
reale e che bisognerebbe chiamare non fabulae ma narrationes fabulosae,
«racconti favolosi», sono i rituali sacri (caerimoniarum sacra), le teogonie di
Esiodo e di Orfeo, infine le massime (mysticae) dei Pitagorici. Tra questi due
generi, la filosofia accetta solamente il secondo, in cui bisogna introdurre
ancora una bipartizione — esistono delle narrazioni favolose che velano la
verità sotto le turpitudini (per esempio tutta la mitologia di Saturno) e altre
sotto un aspetto devoto e puro, come il mito di E r di Platone o quello di
Scipione di Cicerone, — è solamente questo l’unico modo che sia degno
della filosofia e di cui la filosofia fa immediato uso ove tratta di cose che «la
parola non può descrivere e che la stessa intelligenza umana non può affer­
rare». Tutta questa elaborazione termina quindi nella distinzione tra una
mitologia poetica che non è degna di un filosofo e una mitologia filosofica
esercitata già da Platone per esporre concezioni che superano la portata dei
normali mezzi dialettici.
Questo passo contiene dunque, alla fine dell’antichità, una sorta di rias­
sunto del pensiero antico sul mito, mùthos, fabula. Come si è accennato (cfr.
nota precedente) il suo argomento generale proviene dal commentario (per­
duto) di Porfirio sulla Repubblica platonica in cui Porfirio aveva replicato
alle critiche di Colote, bellicoso discepolo di Epicuro, ed è quindi qui rifles­
sa la tradizione del neoplatonismo greco; molti dettagli tuttavia si accordano,
come si vede, con la tradizione dei retori e dei grammatici.
Di questo riassunto, occorre ancora una volta sottolineare i tratti salien­
ti: 1 °) la fabula è una finzione, inventata da un autore; la sua superficie nar­
rativa è falsa, ma vela una verità più profonda - è anche il parere dei retori,
da Teone ad Aftonio (nel IV secolo) e fino ai suoi commentatori tardivi; 2°)
la fabula comprende una serie di racconti che, nella concezione moderna, si
ha l’abitudine di tenere ben distinti l’uno dall’altro:
a) le favole di animali (che alcuni pensano essere i migliori miti perché
non velano che leggermente una verità moralizzatrice);
b) i miti eziologici che illustrano i rituali (sottolineatura abbastanza sor­
prendente e che non trova affatto paralleli nella letteratura antica);
c) i miti teogonici e cosmogonici di Esiodo e di Orfeo, come pure le istru­
zioni mitologiche, anch’esse cosmologiche, dei Pitagorici;
d) infine i miti filosofici, invenzioni e artifizi recenti di Platone e dei suoi
successori ed imitatori.
Si vede bene come le suddivisioni antiche siano differenti dalle nostre
correnti. Per la concezione moderna, di tutto questo insieme chiamato o
fabula / mùthos o narratio fabulosa / diégesis muthiké, il termine mito ricopre
solamente: a) i racconti eziologici e b) la Teogonia di Esiodo, mentre esclu­
diamo ormai i poemi di Orfeo e di Pitagora, per non parlare di Menandro,
Petronio, Esopo e Platone. Ed anche se seguiamo più Macrobio (e la sua
fonte greca), separando le narrationes fabulosae dalle fabulae, dai mùthoì pro­
priamente detti, la suddivisione non riesce a essere tuttavia la nostra: dalla
parte dei màthoi, Macrobio sistema le opere poetiche di Menandro, di
Petronio e di Esopo, mentre mette i racconti eziologici, teogonici e filosofici
da quella della diégesis muthiké. Il criterio di Macrobio è quello della relazio­
ne con la realtà, mentre il nostro è l’invenzione poetica: i racconti eziologici
e i poemi esiodei — i soli miti per noi — non sono inventati dai loro autori,
ma sono un adattamento e un’articolazione di una tradizione anteriore di cui
portano il marchio incontestabile. Separiamo inoltre le fabulae dai muthoi,
non prendendo i due termini come interamente equivalenti, anche perché
etimogicamente esprimono cose contrarie: mentre favola ha che fare con fal-
leri, parlare, il mito designa invece il silenzio e il mistero. Il secondo ha sem­
pre il compito di trasmettere un’istruzione, mentre la favola mira piuttosto a
piacere, essendo quasi sempre sprovvista di ogni significato reale e profondo
e altrettanto spesso di ogni simbolismo.
Comunque sia, la tradizione retorica da Cicerone ad Isidoro da un lato e
la lettura filosofica di Macrobio dall’altro perpetuarono questa nozione di
fabula / mito come invenzione poetica che è o riprovevole e condannabile o
che ha bisogno di una lettura allegorica. Il Commento al Sogno di Scipione fu
un libro molto importante durante quasi tutto il Medioevo, da Beda fino al
XIII secolo. Dal passo macrobiano sulle fabulae, Giovanni Scoto Eriugena
derivò la sua confutazione della dottrina sulla trasmigrazione delle anime
presentata dallo stesso Macrobio; e lo stesso passo costituì la base, presso i
filosofi della scuola di Chartres (Guglielmo di Conches, Bernardo di Tours e
Alano di Lilla), per formulare una teoria sull’allegoresi, sugli indumenta delle
fabulae che bisogna svelare per ritrovarvi sotto la verità nascosta; Guglielmo
spiegò la verità contenuta nei miti eziologici — le narrationes fabulosae che
trattano, secondo Macrobio, i caerimoniarum sacra — con un’interpretazio­
ne allegorica dei riti bacchici che trae la sua origine da contenuti cristiani. Il
mito, da quest’ultimo esempio, finirà per divenire niente altro che un orna­
mento letterario più o meno trascurabile, una rappresentazione convenzio­
nale con un’intenzione unicamente morale e sentimentale e non più un’in­
venzione di una ispirazione sopra-umana.
16 L’argomento riecheggia la risposta di Porfirio alla seconda obiezione di
Colote: Platone non ha bandito ogni mito, ma ha solamente censurato i miti
immorali di Omero ed Esiodo e, quando utilizza il mito a proposito dell’Ade,
è per trasmettere un insegnamento sull’ingiustizia (cfr. infatti Platone,
Repubblica II, 378 d-e).
17 Cfr. Varrone, Lingua Latina VI, 55, che fa risalire la voce latina fabula,
come falsum e fallacia, ad una famiglia di parole riconducibili al verbo fari,
che significa profetare, pronunziare e, più genericamente, dire, parlare, rac­
contare. Ma, se la prima etimologia è esatta, falsum e fallacia derivano inve­
ce dal verbo fallere, che significa far sdrucciolare, far porre il piede in fallo.
Cfr. anche Teone, Progymnasmata, III, citato da Franz Cumont (Symbolisme
funéraire, p. 3: MO0ós èoti À ó y o s vyeuSf); e ì k o v i £ g o v àAr)0eiav (il mito è
un discorso mendace raffigurante la verità).
18 L’ateniese Menandro (342 ca. - 291 ca. a.C.) fu autore di 105 comme­
die, quasi tutte andate perdute. La fortuna di Menandro, considerato lo
stato lacunoso della sua opera, vive soprattutto attraverso la commedia lati­
na, specialmente attraverso Terenzio, a cui si riferisce Macrobio con l’espres­
sione imitatores. Petronio, morto a Cuma nel 66 d.C. è l’autore del famoso
Satyricon. Nel testo originale Macrobio lo chiama semplicemente Arbitro
(così Mario Vittorino, Diomede, san Girolamo, ecc.), diversamente da altri
autori che lo chiamavano unicamente con il nome di Petronio (Onorato
Servio, Mario Mercatore, Pompeo, Giovanni Lido, Boezio, Prisciano,
Lattanzio, Mario Sergio, Isidoro di Siviglia, ecc.); solo Fulgenzio e
Terenziano lo chiamano talvolta Petronio e talvolta Petronio Arbitro.
Apuleio (125 ca. - dopo 170 d.C.), da Macrobio messo a confronto con il
primo, oltre a scrivere opere filosofiche, retoriche o di raffinata difesa come
il De magia, è di gran lunga più noto per l’unico romanzo della letteratura
latina pervenutoci integralmente, le Metamorfosi, conosciuto presso gli anti­
chi anche con il nome di Asino d'oro. Macrobio mostra stupore che un filo­
sofo platonico come Apuleio (e come tale lodato e menzionato da Macrobio
in Saturnali VII, 3, 24) si sia abbassato a scrivere un romanzo. Il genere
romanzesco apparve in epoca molto tarda (al principio della nostra era), fu
poco coltivato in Grecia e a Roma ed ebbe sempre un carattere secondario,
lontano com’era dai canoni classici: si trattava di un genere di pura evasio­
ne, adatto solo a un pubblico che cercava il divertimento come spiega
Macrobio.
19 II corpus delle favole di Esopo, circa 500, costituiva, presso gli antichi
una delle prime letture scolastiche, assieme ad Omero ed Esiodo. Schiavo di
origine frigia vissuto, si diceva, tra il VII e il VI secolo a.C. all’epoca dei Sette
Saggi, è considerato l’inventore della favola e della sua vita, non diversamen­
te da Omero, conosciamo soltanto i tratti mitici tramandati dalla tradizione.
20 I riferimenti sono rispettivamente la Teogonia di Esiodo (Vili - VII
a.C.), la Teogonia rapsodica e gli iepoi Xóyoi. Mentre, com’è noto, l’opera
esiodea ci è rimasta, della seconda, il poema orfico in esametri, ci resta qual­
che brano, conservatoci nelle opere dei filosofi neoplatonici e, più recente­
mente, in parte di un commento databile al VI-V sec. a.C. presente nel più
antico dei papiri greci conosciuti, il Papiro di Derveni, scoperto nel 1962 e
pubblicato nel 1982. Degli ultimi, i Discorsi sacri, attribuiti a Pitagora, ma
redatti probabilmente dopo la sua morte durante il periodo crotoniate (ini­
zio del V secolo a.C.), Armand Delatte (Études sur la Littérature pythagori-
cienne, Paris, 1915) ha potuto ricostruire un certo numero di versi; detti
anche acusmata, erano i precetti rituali e pratici della vita pitagorica, illustra­
ti da Porfirio nel suo omonimo libro.
21 Cfr. Repubblica, II ò l i b - 379 d, in cui Platone sottolinea il carattere
diseducativo per i giovani del comportamento che Esiodo (Teogonia, 164
sgg. e 453 sgg.) attribuisce ad Urano e della punizione effettuata dal figlio
Crono, versioni greche, rispettivamente, di Cielo e Saturno.
22 L’Anima è la terza ipostasi plotiniana; le potenze dell’aria e dell’etere
sono i dèmoni, entità intermedie tra gli dèi e gli uomini; quanto agli «altri
dèi» sono le divinità tradizionali della mitologia pagana e delle religioni
orientali.
23 Si tratta della prima ipostasi della suprema triade neoplatonica (Uno,
Intelletto, Anima). AI principio supremo, l’Uno, Plotino ha in particolare
consacrato il trattato II Bene o l’Uno (Enneadi VI, 9).
24 II voùs, mente, intelletto, è la seconda ipostasi e sarà più diffusamen­
te trattata nel capitolo 14 del Libro Primo.
25 Cfr, Platone, Repubblica, VI 508 a - 509 b. L’immagine è ripresa da
Plotino, Enneadi 1, 1, 1.
26 Inanima mundi, terza ipostasi della suprema triade neoplatonica, diver­
samente dalle prime due, può venir rappresentata perché più prossima al
mondo sensibile che è una sua emanazione.
27 L’associazione tra conoscenza e iniziazione ai misteri è presente in
diversi dialoghi platonici (Gorgia 493 a-b; Simposio 210 a; Fedro 248 b, 249
c, 250 b-e, 251 a). Il concetto di filosofia come iniziazione che porta l’uomo
dalle tenebre dell’ignoranza alla luce della conoscenza ebbe anche molta for­
tuna presso gli stoici (Cleante, Crisippo, Seneca). Anche Plotino, iniziato ai
misteri isiaci, ricorre all’analogia dei riti misterici per simboleggiare l’ascesa
versola contemplazione del Bene (Enneadi I, 6, 7; VI, 9, 11). L’istituzione di
un’analogia tra il percorso filosofico e spirituale e quello misterico — le cui
prime fasi consistono in purificazione e iniziazione — è tipica del neoplato­
nismo, ma è già compiutamente presente in Platone, Fedone, 69 c-d: « ... la
verità autentica non è se non una purificazione da tutte quelle cose, e la tem­
peranza, la giustizia, la fortezza e la saggezza medesima non sono altro che
una sorta di purificazione. E con ogni probabilità non furono uomini da
poco coloro che istituirono per noi i misteri, ma hanno davvero rivelato per
enigmi che colui il quale arriva all’Ade senza avere avuto parte ai misteri e
senza essere stato iniziato, giacerà in mezzo al fango; invece, colui che si è
purificato e si è iniziato, giungendo colà, abiterà con gli dèi. Infatti, gli inter­
preti dei misteri dicono che “i portatori di ferule sono molti, ma i Bacchi
sono pochi”. E costoro, a mio modo di vedere, altri non sono se non coloro
che praticano rettamente la filosofia». Si è parlato (A.-J. Festugière) di sosti­
tuzione dei mystères cultuels con i mystères littéraires (cfr. Auguste Diès,
Autour de Platon, Paris, 1927).
28 Numenio di Apamea (nei pressi dell’odierna Hims, in Siria), vissuto
nella seconda meta del sec. II d.C., filosofo greco, esponente del periodo di
passaggio dal platonismo classico al cosiddetto neoplatonismo, fuse le dottri­
ne platoniche con il pitagorismo e con idee teologiche di origine orientale,
esprimendo un’autentica esigenza di universalismo. Delle sue opere (Del
bene, Delle dottrine segrete di Platone, Dei numeri), ci restano solo frammen­
ti. Come medioplatonico, per la sua sintesi tra idealismo platonico e pitago­
rico e sistemi orientali è considerato all’origine del neoplatonismo e, come
Porfirio attesta (Vita di Plotino 14 e 17), ebbe una grande influenza su
Plotino, che, nelle sue lezioni, leggeva i suoi commentari e che fu perciò
accusato di plagiarlo. II sogno che qui Macrobio gli attribuisce non è attesta­
to altrove.
29 Per Pitagora vedi sopra n. 20. Quanto ad Empedocle, Parmenide ed
Eraclito i frammenti superstiti non recano traccia di racconti mitologici.
Anzi, di Empedocle è nota la sua polemica contro le rappresentazioni popo­
lari delle divinità e i miti dei poeti intorno agli dèi raffigurati sotto forme
umane: «Né è provvisto di una testa umana sulle membra né due braccia si
allungano dal suo dorso, non piedi, né veloci ginocchia né pelosi organi ses­
suali, ma è soltanto mente sacra e ineffabile, che con i suoi pensieri veloci si
slancia per tutto il cosmo» (31 B 134 Diels-Kranz). Anche Eraclito non è
meno tenero con i mitografi: «Omero è degno di essere scacciato dagli agoni
e di essere frustato, ed egualmente Archiloco» (45 Diels-Kranz). Si può
anche pensare alla critica di Platone, indirizzata fra gli altri a Parmenide e ad
Empedocle (Sofista 242 c), a proposito delle loro teorie sull’essere: «Mi sem­
bra che ciascuno ci racconti una specie di favola, come se fossimo dei ragaz­
zini». L’osservazione di Macrobio si riferisce quasi certamente al fatto che
questi filosofi hanno identificato le nozioni essenziali delle loro dottrine
impersonificandole sotto il nome di diverse divinità. Empedocle nel Poema
fisico sostenne che gli elementi da cui derivano tutte le cose sono quattro,
ovvero fuoco, terra, aria ed acqua e le identificò con quattro divinità: Zeus,
Era, Edoneo e Nesti, soggette alle opposte influenze di Philia e Neilos (ossia
Amore e Odio). Parmenide nel proemio del suo poema Sulla natura per
descrivere l’accesso alla conoscenza ricorre alla forma di un mito, con versi
di grande potenza descrittiva, in cui si narra di un uomo di notevole espe­
rienza, il quale, in un viaggio favoloso su un carro solare guidato dalle figlie
di Hèlios, è condotto fuori della città, dopo aver oltrepassato le porte celesti
guardate da Dike, verso il palazzo della dea, che gli darà chiarimenti sulla
verità dell’essere, il sistema degli astri e la generazione dell’universo, descrit­
to sul modello di una teogonia. Il pitagorico Timeo ci è noto attraverso l’o­
monimo dialogo di Platone, nel quale espone una genealogia degli dèi, con­
forme alle tradizioni orfiche, perché «conoscerne l’origine è impresa superio­
re alle nostre capacità, e bisogna prestare fede a quanti ne hanno parlato in
un tempo precedente, in quanto erano, come dicevano, discendenti degli dèi,
e conoscevano perfettamente i loro antenati» (Timeo 40 d - 41 b).
30 La parte dedicata ai sogni è una delie parti più significative del com­
mentario di Macrobio. Da essa il Medioevo (Giovanni di Salisbury, Alberto
Magno) attinse la tipologia antica del sogno e i suoi moduli interpretativi, tra­
mandandoli nelle epoche successive fino a Freud. La popolarità di questa
parte del trattato è dimostrata anche dall’epiteto di oniriocensis (probabile
deformazione di oneirocrites, «interprete di sogni») attribuito a Macrobio in
molti manoscritti medievali, o, con un ancor più irsuto latino scolastico-
medioevale, quello di ormicretes, hoc est sompniorum index vel interpres,
come reca un Prologo a Macrobio, di ignoto autore, in un manoscritto della
Biblioteca Malatestiana di Cesena (S.XII.6). Il primo trattato di onirocritica
risale alla seconda metà del II secolo d.C. per opera di Artemidoro di Daldi,
definito da Freud «l’elaborazione più ricca e attenta della interpretazione dei
sogni secondo le credenze vulgate nel mondo greco-romano». Ad esso, se
non direttamente, attraverso opere di Porfirio andate perdute fa riferimento
questa parte del testo di Macrobio, oppure sia Artemidoro sia Macrobio
hanno come fonte comune un qualche libro sui sogni, anch’esso perduto,
forse di Posidonio. Sugli Onirocritica vedi Artemidoro, Il libro dei sogni, a
cura di Dario Del Corno, Milano, 1994, 4a ed.
31 Le stesse cinque categorie di sogno compaiono nell’opera citata di
Artemidoro. Invece nel Commentario al Timeo (256) di Calcidio (IV sec. d.
C.) vengono proposte cinque categorie di sogni: somnium (di origine psichi­
ca o fisica), visum (per virtù divina), admonitio (per bontà delle potenze divi­
ne verso l’uomo), spectaculum (che appare anche durante la veglia e offre
all’uomo la visione del futuro per volontà celeste), reuelatio (il sogno generi­
co che può rivelare il futuro). In Cicerone (Della divinazione I, 64) si fa risa­
lire a Posidonio una tripartizione dei sogni che sorgono per impulso divino:
« ... nel primo, perché l’anima prevede da sé, essendo unita da parentela con
gli dèi; nel secondo, perché l’aria è piena di anime immortali, nelle quali i
segni della verità appaiono, per così dire, chiaramente impressi; nel terzo,
perché gli dèi stessi parlano coi dormienti». La stessa tripartizione posidonia-
na si ritrova nel De somniis di Filone di Alessandria (20 a.C. - 50 d.C.).
32 Cfr. Cicerone, Della divinazione I, 60: « “Ma molti sogni son falsi.”
Piuttosto, forse, sono per noi di difficile comprensione. Ma ammettiamo che
ve ne siano di falsi: contro quelli veri che cosa diremo? E risulterebbero veri
molto più spesso se ci disponessimo al sonno in perfette condizioni. Ora,
ripieni di cibo e di vino, vediamo in sogno cose alterate e confuse. Rammenta
le parole di Socrate nella Repubblica di Platone. Egli dice: “Poiché nel sonno
quella parte dell’anima che appartiene alla sfera razionale è assopita e debo­
le, quella invece in cui risiede un istinto ferino e una rozza violenza è abbrut­
tita dal bere e dal cibo eccessivo, questa si sfrena e si esalta smoderatamente
mentre dormiamo. Ad essa, perciò, si presentano visioni d’ogni genere, prive
di senno e di ragionevolezza: si ha l’impressione di unirsi carnalmente con la
propria madre o con qualsiasi altro essere umano o divino, spesso con una
bestia; di trucidare addirittura qualcuno e di macchiarsi empiamente le mani
di sangue; di fare molte altre cose impure e orrende, senza ritegno né pudo­
re”». La citazione è la traduzione ciceroniana di Platone, Repubblica IX, 571
c. Cfr. ancora op. cit. 115: «E poiché l’anima esiste da sempre e ha avuto rap­
porti con altre innumerevoli anime, vede tutto ciò che esiste nell’universo,
purché, grazie a un cibo leggero e a bevande modiche, si trovi nella condi­
zione di essere essa desta mentre il corpo è immerso nel sonno».
33 Cfr. Artemidoro, Il libro dei sogni I, 1 , dove l’èuùuviov è definito allo
stesso modo e vi sono quasi gli stessi esempi.
34 Virgilio, Eneide VI, 896.
35 Virgilio, Eneide IV, 4-5.
36 Virgilio, Eneide IV, 9.
37 Artemidoro, op. cit. I, 2, diversamente da Macrobio che considera
rèvÙTtviov e il (póvTaona come due categorie distinte, considera il secon­
do come una specie del primo.
38 L’ÉTnàXTES è il demone incuho responsabile del sogno morboso chia­
mato appunto con questo nome. Gli antichi spesso lo assimilavano a Pan
(Artemidoro, op. cit. I, 2) o ai fauni (Plinio, Storia Naturale XXV, 29; X X X ,
84). Per Artemidoro rèniàÀTE^ può fornire messaggi divinatori.
L’atteggiamento medievale nei confronti di «incubi» e «succubi» fu influen­
zato da Macrobio. Tuttavia Macrobio descrivendo il <pàvTaaua, cioè
l’«apparizione» vista nel momento «tra veglia e sonno profondo» e afferman­
do che il sognatore «si crede assalito da figure fantastiche» ne ha già eviden­
ziato il contenuto immaginario e ha quindi, su questo tipo di sogni, un lato
scettico che i suoi lettori medievali furono inclini ad ignorare, permeati
com’erano dalla concezione demonologica dei Padri della Chiesa.
39 Lo stesso esempio in Artemidoro, op. cit. I, 2. Un esempio di visio, con
caratteristiche di somnium, che richiede cioè un’interpretazione e in cui il
sogno sembra sovrapporsi e sostituirsi alla realtà, è quello fornito da Petrarca
nella sezione De sompnis (IV, 58) dei Rerum memorandum libri: un tale per
dimostrare la vanità del sogno che aveva fatto, di essere morso da un leone
di marmo, compie il gesto ridendo davanti ai compagni e viene mortalmen­
te punto da uno scorpione nascosto nella gola della statua.
40 Artemidoro (ibidem), diversamente da Macrobio, suddivide l’ccveipos
(in Macrobio somnium) in (oraculum) e o p an a (visio).
Inoltre divide gli óvEpoi in sogni «teorematici» (il cui messaggio è diretto) e
«allegorici» (simbolici, che richiedono un’interpretazione). Quest’ultima
duplice suddivisione si riscontra anche in Macrobio nell 'oraculum che parla
aperte (§ 8) e nella visio, in cui ciò che si sogna si realizzerà nel modo identi­
co, che sono implicitamente sogni «teorematici», mentre il somnium, che uti­
lizza dei simboli (§ 10) corrisponde alla specie «allegorica» di Artemidoro.
41 La stessa suddivisione in cinque specie si riscontra in Artemidoro (ibi­
dem), applicata al sogno «allegorico», su cui vedi nota precedente.
42 Paolo Lucio Emilio (228P-160 a.C.), figlio dell’omonimo console peri­
to a Canne e padre di Scipione Emiliano, fu augure dal 192 sino alla sua
morte. Scipione, il primo Africano, nonno adottivo di Scipione Emiliano,
apparteneva al Collegio dei Salii.
43 Nel 146 a.C. Scipione Emiliano distrusse Cartagine e fu portato in
trionfo, ricevendo a sua volta il soprannome di Africano. Con la sedizione si
allude alle agitazioni che contrassegnarono il tribunato di Tiberio Gracco e
condussero alla sua morte nel 133 a.C., su cui vedi infra nota 54.
44 Le capacità militari dimostrate sia in Spagna sia in Africa, portarono
Scipione Emiliano al consolato, nel 147 a.C., quando ancora non ne aveva
maturato il diritto (durante la Repubblica l’età minima per l’elezione a con­
sole era di 40 anni per i patrizi e di 42 per i plebei e allora Scipione aveva sol­
tanto 38 anni). In quel periodo era in corso la terza guerra punica e il popo­
lo, a dispetto deU’opposizione del Senato, vide in lui l’uomo giusto per risol­
verla a favore di Roma. Nel 149, all’inizio della guerra, Scipione Emiliano fu
inviato come tribuno militare in Africa; di qui l’espressione, con una certa
enfasi, per indicare il suo grado militare, di paene miles (Repubblica VI, 11 =
Sogno 2, 1 ). Una volta sbarcato ad Utica, si recò a far visita a Massinissa, re
della Numidia, grande amico del nonno dell’Emiliano, il primo Africano.
Essi rimasero fino a notte inoltrata a discutere circa le imprese gloriose del
valoroso e ormai scomparso Africano Maggiore e, probabilmente, fu per
questo motivo che la stessa notte l’Africano Minore vide in sogno il nonno
che gli parlava dall’alto della Via Lattea, sede degli eroi. Il «come egli stesso
riferisce» si spiega per il fatto che il Sogno è interamente raccontato da
Scipione Emiliano.
45 Artemidoro (ibidem) spiega questa restrizione con il fatto che il sogno
deve realizzarsi rispetto al sognatore: una persona qualunque perciò non può
avere un sogno «pubblico» che non sarebbe in grado di realizzare. In com­
penso, numerose persone rappresentano il popolo e questo, protagonista
della vita pubblica, può realizzare il sogno.
46 Omero, Iliade, II, 56-83. Artemidoro (ibidem) offre lo stesso esempio,
sempre citando la risposta di Nestore.
47 Virgilio, Eneide VI, 893-896. Cfr. supra § 6 e nota 34.
48 Si tratta di Odissea, X IX , 562-567 (cfr. Virgilio, Eneide VI, 893-896),
dove Penelope descrive le due porte da cui escono i sogni: attraverso quella
d’avorio passano i sogni falsi, quelli che ingannano, attraverso la porta di
corno i sogni veri, quelli che si avverano.
49 Della citazione, in traduzione latina, di Porfirio non c ’è riscontro in
alcun frammento greco rimastoci. La fonte, verosimilmente, è da individuar­
si nelle perdute Questioni omeriche. Macrobio cita solo due volte Porfirio:
qui e in II, 3, 15.
50 Virgilio, Eneide II, 604-606.
51 Dei versi di Virgilio, Eneide VI, 893-896: sunt geminae Somni portae,
quarum altera fertur / cornea, qua ueris facilis datur exitus umbris, / altera can­
denti perfecta nitens elephanto, / sed falsa ad caelum mittunt insomnia Manes
{«due sono le porte del sonno, e di queste si dice / cornea la prima, facile qui
all’ombre vere l’uscita. / Splende l’altra, che è tutta d’avorio bianchissimo; e di
qui falsi sogni mandano i Mani su al cielo») Servio nel suo Commentario dà
un’interpretazione del tutto diversa da quella di Macrobio. L’interpretazione
del grammatico Mauro Servio Onorato (370 ca.- dopo 410 d.C.) è «fisiologi­
ca»: la porta cornea significa gli occhi, che sono del color del corno e che
sono i più robusti fra tutte le parti del corpo, perché non sentono il freddo,
la porta elefantina, cioè d’avorio, rappresenta i denti, ossia la bocca. Mentre
dalla bocca escono le parole che possono essere ingannevoli, quello che
vediamo attraverso gli occhi è indubbiamente vero. Orazio, parlando dei
sogni, dice a Galatea, che voleva distogliere dal progetto di un viaggio: An
vitiis carentem / Ludit imago / Vana, quae porta fugiens eburna / Somnium
ducit? [OdiIII, 27, 39-42). E anche Properzio, nella sua Elegia a Cinzia, men­
ziona le porte: Nec tu speme piis venientia somnia portis / Cum pia venerunt
somnia, pondus habent {Elegie IV, 7, 87-88). A questo proposito, particolar­
mente ricca, simbolicamente e allegoricamente, è un’immagine rinascimenta­
le presente nell’opera di Vincenzo Cartari Le Imagini de i dei de gli antichi
(Venezia, 1556), dedicata alla rappresentazione del Sonno e della Notte, lar­
gamente ispirata al testo di Macrobio su cui vedi in Appendici Fig. 51. La
distinzione dei sogni in quelli veraci e quelli fallaci che parte dall’immagine
delle due porte d’accesso omeriche, ripresa da Virgilio, sarà la base per altri
prestiti in tempi più recenti, come da parte di Nerval: Le rève est une secon­
de vie. ]e n ’ai pu percer sans frémir ces portes d’ivoire ou de come qui nous
séparent du monde invisible (Aurélia).
52 Scopo, proposito.
53 II riferimento è alla parte oggi perduta del De Republìca di Cicerone,
immediatamente precedente al Somnium Scipionis che qui Macrobio riassu­
me. Si ritiene che Scipione racconti il suo sogno di circa vent’anni prima sol­
tanto nel 129 a.C.
54 Lelio è Caio Lelio Sapiente, console nel 140 a.C., amico inseparabile
di Scipione e suo interlocutore nella Repubblica di Cicerone. La loro amici­
zia fu così memorabile che Cicerone gli dedicò anche il breve opuscolo, in
forma dialogata, intitolato Lelio: l’amicizia. Con il «tiranno» si fa qui riferi­
mento all’uccisione del giovane tribuno Tiberio Gracco, avvenuta nel 133
a.C., per opera del suo stesso cugino Publio Cornelio Scipione Nasica e di un
gruppo di senatori dopo il suo tentativo di ridistribuzione delle terre delIV
ger publicus, che non ottenne il sostegno dell’altro tribuno Marco Ottavio
Cecina. La proposta di destituire quest’ultimo, apertamente incostituziona­
le, come pure la sua candidatura per la seconda volta al tribunato della plebe,
suonò come una sfida al Senato che ritenne il suo operato radicale ed eversi­
vo. Lo stesso congiunto Scipione l’Emiliano, che perdipiù ne aveva sposato
la sorella Sempronia, ritenne, come si vede, giusto l’assassinio, in quanto
degno di morte il solo sospetto di usurpazione dei poteri dello Stato.
L’osservazione attribuita a Lelio, in questo passo, è un po’ in contraddizione
rispetto a quanto riferisce Plutarco ( Tiberio e Caio Gracco 8, 5) circa la sua
moderazione durante questo drammatico episodio che gli valse il suo sopran­
nome: «Caio Lelio, l’amico di Scipione, cercò di risanare tale situazione, ma,
dinanzi all’opposizione dei potenti, per timore di tumulti desistette, e perciò
fu soprannominato “Saggio” o “Prudente”: il termine sapiens sembra infatti
avere entrambi questi significati».
55 Seguono da ora in poi, per tutti e due i libri del trattato di Macrobio,
citazioni letterali dei capitoli del VI del De Republica di Cicerone, scritto tra
il 55 e il 51 a.C. e pubblicato prima che l’autore partisse come proconsole per
la Cilicia. L’unica parte del VI e ultimo libro, non mutila, è appunto il cosid­
detto Somnium Scipionis.
56 Le statue venivano fissate in origine su un basamento cui aderivano
con una colata in piombo.
57 I dies feriati erano i giorni dedicati al culto nell’antica Roma. Erano
considerati giorni nefasti, nei quali non potevano svolgersi attività lavorative
e giudiziarie per rispetto alla divinità cui erano consacrati. Erano divise in
festività statiuae (fisse) e indictiuae (mobili), proclamate anno per anno (con-
ceptiuae) o in occasione di eventi straordinari (imperatiuae). In questo passo
ci si riferisce alle feriae latinae in onore di Giove: duravano tre giorni, erano
una festività mobile la cui data veniva stabilita dai consoli ed erano state isti­
tuite dall’ultimo Tarquinio per ricordare la federazione tra Romani e Latini e
anticamente si svolgevano sul Mons Albanus (oggi Monte Cavo).
58 Sono le parole dell’Africano Maggiore rivolte al nipote adottivo
Scipione Emiliano, il futuro Africano. Poiché il racconto del sogno è fatto da
quest’ultimo, Macrobio gli attribuisce le parole anche degli altri interlocuto­
ri, come appunto qui il nonno per adozione Africano Maggiore e nella cita­
zione seguente il padre per sangue Paolo Emilio (ego qui te genmt).
59 Cicerone, Repubblica VI, 13 = Sogno di Scipione 3, 1.
60 Cicerone, Repubblica VI, 16 = Sogno di Scipione 3, 5.
61 Galassia. Letteralmente «lattea», ma nell’uso di Plutarco, Diodoro
Siculo, Luciano e Manetone è sempre sottinteso KÙKÀ05, quindi «via lattea».
62 Cicerone, Repubblica VI, 11 = Sogno di Scipione 2, 1 .
63 Cicerone, Repubblica VI, 16 = Sogno di Scipione 3, 6-7.
64 Cfr. infra I, 1, 15, 1-7.
65 Qui Macrobio procede esattamente come Proclo nel suo Commento al
Timeo di Platone (I, 9, 25-31). Entrambi, dopo aver riassunto i capitoli intro­
duttivi, dichiarano che passeranno ad esaminare in maniera più particolareg­
giata il testo che commentano. Dato che Proclo, come Macrobio, s’ispira al
perduto Commento al Timeo di Porfirio è stato ipotizzato che questo passo
sia un reperto dell’opera porfiriana.
66 Comincia da qui la lunga esposizione di aritmologia, che parte dall’e­
same dei numeri 7 e 8 il cui prodotto dà l’età della morte di Scipione
Emiliano e che occuperà il seguito di questo capitolo e il successivo e lungo
capitolo 6. Anche Favonio Eulogio nella sua Disputatio de somnio Scipionis
dedica tutto il suo libro I a considerazioni aritmologiche. Il termine «aritmo­
logia» è stato proposto per la prima volta da Armand Delatte (op. cit., p. 139)
per indicare le corrispondenze pitagoriche stabilite «sulla formazione, il
valore e l’importanza dei dieci primi numeri». In essa il numero ha una fun­
zione simbolica che non dipende dall’aritmetica ma da una matematica meta­
fisica, scienza sacra riservata ai soli iniziati che non si occupa di contare, ma
di svelare i rapporti tra i numeri, i fenomeni naturali e le entità morali e di
conoscere la struttura del cosmo.
67 Altri traducono, non letteralmente, con «perfetti». Ma, trattandosi di
un brano ispirato alle teorie numeriche di origine pitagorica, con plenus
Cicerone traduce l’aggettivo greco téÀeio$ che ha sì in genere il significato
di «perfetto», ma anche, nel caso di numeri o di misure di tempo, di «com­
piuto, pieno, intero». E perciò probabile che la scelta traslativa di Cicerone
sia stata proprio dettata dalla volontà di non ingenerare confusioni con la
nozione matematica di numero TÉÀE105, perfectus (il numero che è uguale
alla somma dei suoi divisori, eccettuato il numero stesso — ad esempio 6, i
cui divisori sono 1 ,2 ,3 , per cui si ha 1 + 2 + 3 = 6) su cui cfr. infra nota 98.
Nell’incertezza delle definizioni dell’aritmologia pitagorica, in cui cadono
anche le definizioni di Teone di Smirne e di Favonio Eulogio, plenus va quin­
di qui considerato attribuito a numeri che godono di particolari proprietà
aritmologiche, com’è qui il caso del sette e dell’otto, e su cui Macrobio si sof­
fermerà in particolare nei capitoli 5, 15-18 e 6. Il 7, tenendo conto dei soli
numeri entro la decade, non ha né fattore né prodotto, l’S, pur essendo nella
terminologia pitagorica un numero promeco o quadrato, cioè prodotto attra­
verso la moltiplicazione, è nello spazio il primo numero cubico, così come il
4 è nel piano il primo quadrato.
68 Cicerone, Repubblica VI, 12 = Sogno di Scipione 2 ,2 . Scipione Emi­
liano morì effettivamente all’età di 56 anni nel 129 a.C. Il grande condottie­
ro fu trovato una mattina immobile nel proprio letto e privo di vita. Proprio
il giorno precedente, Scipione Emiliana aveva fatto votare in Senato una
legge che privava dei loro poteri i triumviri incaricati dell’applicazione della
legge agraria di Tiberio Gracco, ucciso nel 133 a.C. Aveva proposto che non
i triumviri, notoriamente militanti nel partito popolare, dovessero giudicare
le controversie che sorgevano, ma più equanimemente il console. Era rien­
trato nella sua dimora, accompagnato dalla folla, al culmine della sua popo­
larità, sapendo che il giorno dopo aveva in animo di proporre al Senato l’e­
stensione dei benefici della legge agraria a Latini e Italici che ne erano esclu­
si. Fu morte naturale o omicidio, magari commesso con il veleno? I medici
dell’epoca non furono in grado di stabilirlo e il giallo della morte di Scipione
Emiliano non fu mai risolto. Il funerale si svolse frettolosamente e senza una
cerimonia adeguata al suo ruolo pubblico. La sorella di Tiberio Gracco,
Sempronia, aveva sposato Scipione Emiliano e i due cognati erano stati
avversari politici irriducibili. Fu la moglie Sempronia (Polibio, Storie X X X II,
9-16) ad uccidere Scipione per vendicare il fratello? O fu Cornelia, madre
dei Gracchi, ad ordire la trama contro di lui? E in questo caso ci fu la com­
plicità della figlia? Oppure fu una vendetta dei triumviri agris diuidundis, che
erano stati da lui spogliati dei loro poteri giudiziari. Cicerone fa dire pruden­
temente a Lelio (Lelio: l’amicizia 12): «come morì, è difficile dirlo; sapete
quali sospetti circolano», ma poi ammetteva (Ilfato 18) l’ipotesi di una morte
violenta nella sua stanza da letto.
69 S’intendono i minerali. Questa prima definizione della plenitudo è
d’ordine ontologico. Le res diuinae supernaque possiedono la plenitudo, in
quanto non sono soggette al cambiamento, mentre i corpi sensibili, mutevo-
li, ne sono privi. A loro volta i corpi sensibili si dividono in due categorie: i
corpi sottoposti ai processi biologici che perdono e acquistano materia e i
corpora metallica, che ignorano la crescita e la perdita biologica, ma non in
virtù di una qualche plenitudo, ma perché sono uasta, ossia «bruti, grezzi,
rozzi, grossolani».
70 Qui Macrobio offre lo schema della sua esposizione aritmologica sulla
plenitudo dei numeri, suddivisa in due tipologie. La prima plenitudo (§ 3 -4)
appartiene a tutti i numeri in quanto prima realtà veramente immateriale (di
cui dà la dimostrazione geometrica nei § 5-13); la seconda tipologia {§ 14) è
invece attinente a modalità di plenitudo di alcuni specifici numeri intelligibi­
li, la cui nozione non viene esaurita completamente, ma è relativa solo ai
numeri qui praesenti tractatui necessari sunt e infatti (§ 15-18) tratta della ple­
nitudo specifica del 7 e dell’8.
71 La plenitudo specifica di taluni numeri (cfr. nota precedente) si assicu­
ra secondo due modi: la capacità di legare (su cui cfr. § 14 e relativa nota) e
la capacità di generare un corpo, cioè la capacità dei numeri di produrre un
corpo matematico. Quanto al membro della frase aut corpora rursus efficiun­
tur non si comprende bene a cosa si riferisca, anche perché non distinguibi­
li da quelli che creano un corpo. Per giunta, Macrobio, ritornando su queste
categorie specifiche nel § 14, non ne parla. Si è perciò ipotizzato che questa
parte di frase sia una glossa sopralineare inserita nel testo per errore e ripre­
sa da tutti i manoscritti con l’eccezione del Parisinus Latinus 6370.
72 Si è in proposito osservata l’impostazione aristotelica del processo con­
sistente nell’astrarre progressivamente le nozioni matematiche dalla realtà
sensibile mentre i Pitagorici consideravano gli intelligibili più sostanziali
degli esseri. Si è perciò proposto come fonte di questo passo il perduto
Commento al Timeo di Porfirio, in quanto filosofo che cercò una conciliazio­
ne fra aristotelismo e platonismo e tra le fonti preferite di Macrobio.
73 Nozione pitagorica tradita da Aristotele, Metafisica XIV (N), 3, 1090
b: « ... il punto è termine iniziale e finale della linea, e la linea della superfi­
cie, e questa del solido».
74 Gli enti matematici pitagorici, caratterizzati dall’accrescimento e per­
ciò dal movimento, sono il punto, la linea, la superficie e il solido (o volume)
associati rispettivamente all’ 1, 2, 3 e 4: Macrobio li definirà in I, 6, 35 (cfr.
anche II, 2 ,4 ).
75 Sebbene il primo dei corpi solidi sia il tetraedro, Macrobio sceglie
come suo esempio il cubo perché, come dice in § 10, ha otto angoli, fatto che
dimostra geometricamente che l’8 ha la capacità di generare un solido e quin­
di possiede una sua modalità di plenitudo (cfr. § 4 e 14) che qui viene antici­
pata e che sarà dimostrata in seguito in § 15.
76 L’idea che il numero è anteriore alla figura e la matematica alla geome­
tria è un corollario del dogma fondamentale dei Pitagorici secondo i quali i
numeri sono il principio assoluto, l’essenza di tutte le cose e la ragion prima
della loro esistenza (cfr. Aristotele, Metafisica XIII (M), 8, 1083 b; XIV (N),
3, 1090 b). Il concetto ebbe particolare fortuna in ambito neoplatonico.
77 Per un’illustrazione di questa uis uinculorum riguardo al numero quat­
tro vedi infra I, 6, 23-24. Favonio Eulogio (op. cit. VII, 1 e V ili, 1) definisce
totus — sinonimo di plenus — il tre e attribuisce la plenitudo al quattro per­
ché il tre e il quattro contengono rispettivamente uno e due termini medi,
condizione che mette in relazione la uis uinculorum con la plenitudo.
78 Ai § 10-1 1 . Macrobio ora passa a trattare della plenitudo specifica del
numero otto. Oltre ad essere già plenus perché genera un solido, come si è
visto nel § 4 e 14, le altre qualità aritmologiche che ne confermano la perfe­
zione sono la sua implicazione nell’armonia celeste (§ 15), le specifiche qua­
lità dei numeri di cui è somma (§ 16) e l’essere considerato simbolo di giusti­
zia dai Pitagorici (§ 17-18).
79 Anche Favonio Eulogio osserva che la plenitudo dei numeri è aumen­
tata da quella dei numeri che li compongono. Così il sette ex tribus impari­
bus scilicet et quatuor paribus iunctus fit ipse plenissimus (op. cit. XII, 1) e il
cinquantasei qui numerus Africani clausit aetatem, hic quoque plenissimus
intelligitur, quia ... ex his partibus constat, in quibus est miranda perfectio, id
est, duodetriginta duplicatis in summam (XVII, 2).
80 I n i, 6, 10-11.
81 In I, 6, 19.
82 Nel riassunto di Fozio (Bibliotheca, codex 187) dei Theologumena
Aritmeticae di Nicomaco di Cerasa, matematico greco (60 ca, - 120 ca.), il
numero otto è denominato Themis. Anche in Proclo (Commento alla
Repubblica di Platone, Dissertazione XIII, 10 e 29) l’otto è chiamato con il
nome della dea della giustizia divina e dell’ordine. Un reperto di questa asso­
ciazione si ritrova nei tarocchi in cui la lama numero 8 raffigura la giustizia.
83 Si chiama parimenti pari (àpTtàKis àpTios, pariter par) ogni numero
potenza di 2 (Euclide, Elementi VII, definizione 8: Pariter par est numerus,
quem par numerus secundum parem numerum metitur, ossia il numero pari-
menti pari è un numero misurato, cioè diviso, da un numero pari secondo un
numero pari). Vedi anche Nicomaco di Gerasa, Introduzione Aritmetica, I, 8,
4; Boezio, Sull’Aritmetica, I, 9, 1; Cassiodoro, Le Istituzioni II ■dell’aritmeti­
ca, 4; Isidoro di Siviglia, Etimologie III - della matematica, 5, 3; ecc. Sono
dunque numeri parimenti pari tutti i numeri la cui somma si divide sempre
in un numero pari fino all’unità, come ad esempio 64 che è pari e si divide in
32, 18, 8, 4, 2, fino all’unità, in numeri pari.
84 Comincia qui il lungo capitolo 6, dedicato alle virtù del numero sette
(che moltiplicato per otto dà l’età in cui morì Scipione Emiliano). Il suo sche­
ma è il seguente:
a) § 1-4: analisi del numero otto e del sette, potere della combinazione di
pari e dispari;
b) § 5-44: esame dei numeri la cui somma dà sette: uno e sei (§ 6-17), due
e cinque (§ 18-20), tre e quattro (§ 21-44);
c) § 45-81: qualità specifiche del sette: il nome deil’eptade (§ 45); ruolo
del sette nella creazione dell’Anima del Mondo secondo il Timeo di
Platone (§ 45-46); ruolo del sette nei cicli astronomici (§ 46-60); suo
ruolo nelle maree (§ 60); suo ruolo nei cicli della vita umana e nell’a­
natomia {§ 62-81);
d) conclusione dell’esposizione aritmologica.
85 Cfr. Platone, Timeo, 35 b sgg. Macrobio ritornerà su questo passo pla­
tonico in I, 6, 45-46 e II, 2, 11-17.
86 Per le relazioni fra numeri e figure cfr. supra I, 5, 8-11.
87 II passo del Timeo sulla struttura geometrica dell’Anima, sulla sua
determinazione numerica — qui brevemente riassunta da Macrobio — e
sulla sua capacità di muovere se stessa è tra i più significativi, ma anche tra i
più complessi di Platone. Per illustrare il passo qui esaminato relativo alla
serie numerica, alternanza di potenze quadre e cubiche di 2 e 3, che sottin­
tende il passo di Platone, gli antichi commentatori utilizzavano due tipi di
schema: uno schema lineare in cui si succedevano i sette numeri 1, 2, 3, 4, 9,
8, 27 e uno schema a forma di lambda maiuscola (A), o lambdoma platoni­
co, che a partire dalla monade situata alla sommità, si divaricava su due lati
di una tetraktys (su cui vedi infra nota 119) nella serie dei pari (2, 4, 8) e nella
serie dei dispari (3, 9, 27). È difficile determinare quale dei due schemi segua
qui Macrobio, anche se indubbiamente nel seguente § 46 segue lo schema a
lambda; in compenso in II, 2, 11-17 segue lo schema lineare. Sull’argomento
e anche sulle corrispondenze numeriche con gli accordi musicali si rinvia a
Francis Macdonald Cornford, Plato’s Cosmology: The Timaeus of Plato trans-
lated with a running commentary, London, 1937,
88 Si sottintende che il sette e l’otto rappresentano un numero dispari e
uno pari.
89 In 1 ,5 ,5 -1 2 .
90 In I, 14, 19 questa definizione dell’anima come numero che muove se
stesso è attribuita a Senocrate. Similmente in Favonio Eulogio, op. cit. V, 6:
Estque numerus, ut Xenocrates censuit, animus ac deus.
91 Cfr. supra I, 5, 16.
92 Cfr. pseudo-Giamblico, Theologumena arithmeticae, 1 e 18 sg., p. 4, a
cura di Vittorio De Falco, Leipzig, 1922.
93 Cfr. pseudo-Giamblico, op. cit. 18 sg., p. 4. Per Calcidio (op. cit. 38)
l’uno essendo alla sommità del lambdoma platonico appartiene ad entrambe
le serie dei numeri; al contrario per Favonio Eulogio (op. cit. IV, 2) la mona­
de non è pari né dispari, in quanto non è propriamente un numero, ma seme
ed essenza dei numeri. È vero che Platone (Ippia maggiore 302 a) sembra
indicare l’uno come dispari, ma secondo i Pitagorici l’unità è «parimpari»,
essendo capace di generare con la sua aggiunta ad un numero pari un nume­
ro dispari e aggiunta ad un numero dispari genera un pari.
94 Nella tradizione pitagorica, ereditata da Platone e dai platonici, la
monade ha struttura metafisica e quindi meta-matematica: è l’Uno indivisibi­
le opposto alla molteplicità indefinita.
95 Macrobio dapprima mostra che la monade è in rapporto con ognuna
delle tre ipostasi neoplatoniche. L’Uno, l’intelletto che procede dall’Uno e
l’Anima che procede dall’intelletto sono tutte ipostasi caratterizzate dall’uni­
tà. Il summus deus di Macrobio è l’Uno. La monade che genera i numeri rap­
presenta l’Inteiletto, che, in quanto unico, contiene in sé la molteplicità degli
intelligibili. La terza ipostasi plotiniana, l’Anima, partecipa ancora dell’essen­
za dell’unità. La tradizione seguita da Macrobio è influenzata dal pitagori­
smo che assimila la monade al Dio che assicura l’unità all’universo, mentre la
diade è associata alla molteplicità della materia.
96 Identiche formule nelle esposizioni sul sei (§ 13) e sul sette (§ 21-45).
Quantunque a un lettore contemporaneo le considerazioni aritmologiche di
Macrobio possano al contrario sembrare sovrabbondanti, esse non esauri­
scono affatto la simbolica dei numeri: basta in proposito consultare le altre
fonti antiche come Filone, Aulo Gellio, Teone di Smirne, pseudo-Giamblico,
Calcidio, Marziano Capella, ecc.
97 II sette è l’unico numero della decade ad essere ànr|Tcop e uapBévos,
cioè senza madre e vergine, e per tale ragione era paragonato e consacrato a
Minerva, figlia di Giove e non di Giunone, perché nata balzando armata di
tutto punto dal cervello di Giove. L’accostamento del numero sette a Pallade
Atena per le sue prerogative di verginità e immacolata concezione, molto
comune nelle opere di aritmologia (Filone, Varrone ap. Aulo Gellio,
Nicomaco di Gerasa, Plutarco, Teone di Smirne, pseudo-Giamblico,
Calcidio, Favonio Eulogio, Proclo, Marziano Capella), risale già al filosofo
pitagorico Filolao di Crotone nel V sec. a.C. Il sette è «senza madre» essen­
do un numero primo non prodotto da altri due numeri ma da se stesso con
la monade (essa pure assimilata a Zeus) ed è «vergine» perché non genera
alcun numero all’interno della decade.
98 Macrobio definisce qui quello che gli aritmetici, e non gli aritmologi,
chiamano numero perfectus o t é X e i o j , numero che risulta dalla somma dei
suoi divisori (su cui cfr. supra nota 67). Il primo di essi è il 6, il secondo 28,
dato dalla somma di 14 + 7 + 4 + 2 + 1. Macrobio evita qui il termine perfec­
tus per non ingenerare confusione in quanto lo ha già utilizzato, in senso non
tecnico, in I, 6, 1 e 3. La perfezione aritmetica del 6 è comunque segnalata in
diverse opere aritmologiche (Filone, Teone di Smirne, Nicomaco di Cerasa,
pseudo-Giamblico, Calcidio, Favonio Eulogio, Proclo, Marziano Capella,
Boezio). Ma anche in opere aritmologiche del Rinascimento, come gli incom­
piuti Ragionamenti di Agnolo Firenzuola, si evidenziano le «virtù» del nume­
ro sei, del «senario»: numero «pieno di religione» per la sua «perfezione»,
infatti «dicono... i matematici che quel numero è perfetto le parti aliquote
del quale..., accozzate insieme, rilevano detto numero», vale a dire che i divi­
sori («parti aliquote») del sei (1, 2, 3), sommati («accozzate») insieme, danno
come risultato («rilevano») il numero stesso. (Opere di Agnolo Firenzuola,
Torino, 1977, p. 87). La fonte macrobiana è qui evidente.
99 Cfr. supra nota 96. Qui la formula spiega come Macrobio non segua
pedissequamente le sue fonti ma operi una selezione.
100 Censorino, erudito latino del III sec., nella sua opera 11 giorno natali­
zio nell’esporre il sistema di Pitagora sulla formazione del feto pone la gesta­
zione di sette mesi sotto l’influenza principale del numero senario (11,3-5):
«Infatti, questa parte del seme che ha causato il concepimento, durante i
primi sei giorni è soltanto un liquido latteo che, durante gli otto giorni
seguenti, passa allo stato di sangue: questi otto giorni, aggiunti ai primi sei,
presentano la prima consonanza chiamata diatessaron. Trascorrono poi nove
giorni per la formazione della carne; questi nove giorni, comparati ai sei
primi, sono nel rapporto di 2 a 3, e presentano la consonanza diapente,
Vengono poi dodici nuovi giorni durante i quali si conclude la formazione
del corpo; il loro confronto con i sei primi giorni stabilisce il rapporto di 1 a
2, e offre la terza consonanza detta diapason. Questi quattro numeri 6, 8, 9,
12, sommati, danno un totale di trentacinque giorni. E non è senza ragione
che il numero senario è il fondamento della generazione; al punto che que­
sto numero è chiamato dai Greci TÉÀ E 105 e perfectus nella nostra lingua, per­
ché tre parti, la sesta, la terza e la metà di questo numero, vale a dire 1 , 2 e
3, concorre a perfezionarlo. Ma come questo primo stato del seme, questo
principio latteo della concezione esige innanzi tutto il compimento di questo
numero di sei giorni, così questo primo stato di conformazione del feto, que­
sto altro principio che evoca la futura maturità e che giunge a trentacinque
giorni, giunge dopo sei rivoluzioni di questo numero 35, cioè alla fine di due-
centodieci giorni».
La concatenazione delle frasi di questo passo è incoerente e non nelle
abitudini di Macrobio: si ripromette di spiegare come riconoscere il sesso del
nascituro, si dimentica il proposito e ritorna a parlare del precedente argo­
mento ossia della durata della gestazione. È perciò molto verosimile che si sia
in presenza di una corruzione del testo risalente all’archetipo dei manoscrit­
ti. Ippocrate (Della natura del fanciullo) non solo riteneva che i maschi si svi­
luppassero più spesso nella metà destra e le femmine nella metà sinistra del­
l’utero o anche, sempre cimentandosi nella determinazione del sesso del
nascituro che, se la pelle della futura mamma diventava più pallida, il neona­
to sarebbe stato femmina. Ma, in termini numerologici pensava anche che il
feto maschile si formasse in 30 giorni e cominciasse a muoversi a quattro
mesi, quello femminile a 42 giorni e si muovesse a tre mesi, perché quest’ul­
timo derivava da un seme più debole e più umido. In un trattato, in forma di
epistola, attribuito a Porfirio (A Gauro, Sulla maniera in cui l’embrione rice­
ve l’anima) queste teorie di Ippocrate sono liquidate come «favole».
Comunque sia, i numeri forniti da Ippocrate non corrispondono affatto ai 70
e 90 giorni enunciati da Macrobio.
102 La diade è il primo numero perché la monade non è un numero ma il
principio dei numeri. Vedi supra I, 6, 7 e relative note. Cfr. Favonio Eulogio
(op. cit. IV, 1): Sed numerus est quantitas congregabilis, a duobus initium
sumens.
103 Vale a dire del corpo matematico. Cfr. Filone (La creazione del mondo
XVI, 49): « ... in geometria è per lo scorrimento (pùaEi) del punto che si
forma la linea, come la diade per lo scorrimento dell’uno». Il verbo defluere
utilizzato da Macrobio echeggia puoij, «corso», ma è anche termine tecnico
di geometria.
104 I pianeti, adottando un movimento inverso a quello della sfera cele-
ste, introducono la dualità. Nell’elegante rappresentazione geocentrica le
stelle erano tutte fisse sulla sfera celeste con la quale compiono una rotazio­
ne completa in un giorno, poi vi erano i pianeti, ossia le stelle «erranti», così
dette perché a differenza delle stelle fisse che sono attaccate sulla parete del
mondo esse vagano (da cui il loro nome: cfr. I, 14, 21 e 26 e relative note 277
e 282). Il movimento di questi pianeti infatti, pur obbedendo anch’esso al
movimento diurno da est a ovest, ha un proprio movimento da ovest ad est
apparentemente irregolare (a volte si fermano o addirittura sembrano torna­
re indietro). In questo passo Macrobio semplifica i dati astronomici del siste­
ma geocentrico, facendo intendere che i pianeti si spostino sempre in senso
inverso alla sfera celeste, mentre questo avviene solo per i due luminari, il
sole e la luna.
105 II riferimento è alle cinque grandi fasce celesti che schematizzano la
distribuzione del clima sulla superficie della Terra: zona artica, temperata
settentrionale, torrida, temperata meridionale, antartica. Cfr. Ezio (Placita II,
12, 1 in H. Diels, Doxographi graeci) che attribuisce questa suddivisione in
cinque zone alla scuola pitagorica.
106 per giungere al numero cinque qui Macrobio addiziona alle tre divi­
nità supreme, le ipostasi neoplatoniche, la concezione platonica del mondo
intelligibile e del mondo sensibile.
107 Cfr. nota 96.
108 Le virtù del tre e del quattro sono qui trattate estesamente (§ 21-44)
e, in modo originale, dal punto di vista delle proprietà che possiedono in
comune: capacità di riprodurre rispettivamente la prima superficie dispari e
la prima superficie pari (§ 22), uis uinculorum (§ 23-34), capacità di genera­
re corpi intelligibili e sensibili (§35-41), ruolo nella produzione dell’armonia
dell’anima.
109 La dottrina dei numeri piani o poligonali espressa già da Nicomaco e
da Teone di Smirne è basata sulla possibilità di ordinare le unità che com­
pongono ogni numero in varie forme regolari. Il primo numero piano è il 3,
che dà luogo alla prima figura piana: il triangolo. Dì solito gli antichi trattati
d’aritmetica non introducevano la considerazione del pari e del dispari e
quindi non vi associavano il quadrato, come qui accade per l’originalità sopra
segnalata di trattare insieme le virtù del 3 e dei 4.
110 Cfr. Platone,Timeo, 31 b - 32 b. Il brano platonico ispira Macrobio (§
23-34) che ne dà una traduzione ridotta in § 29-31. Questo brano nell’anti­
chità riceveva due spiegazioni, una matematica e l’altra, più correlate, fisica.
È quest’ultima che segue Macrobio. La fonte di tutte queste esegesi è, vero­
similmente, il perduto Commento al Timeo di Porfirio. Per dare un’idea del­
l’importanza di questo dialogo platonico bisogna brevemente accennare alla
sua influenza durante l’età antica ed il Medioevo. Senocrate (fine del secolo
IV a.C.), secondo successore di Platone nell’Accademia, lo incluse tra i suoi
oggetti di studio, come il suo discepolo Crantore che scrisse un commento.
La teoria della hyle, la fisica e l’ontologia di Aristotele sono influenzate da
questo dialogo alle cui dottrine si riferisce frequentemente lo Stagirita.
Teofrasto descrive l’esposizione delle qualità sensibili degli oggetti che
appaiono nel Timeo nel suo trattato Del senso. Ed anche lo sviluppo della
fisica nelle filosofie ellenistiche si deve al Timeo. Il lascito del medio-platoni-
smo è una traduzione incompleta che Cicerone ci lasciò del Timeo, alcuni
frammenti di Numenio d’Apamea ed il trattato di Plutarco Della generazio­
ne dell’anima nel 'Timeo'. Il neoplatonismo riflette l’influenza del Timeo sia
nelle Enneadi, che costituiscono, in alcuni passaggi, esposizioni di parti del
dialogo platonico, sia nel commento perduto di Porfirio sia in quello scritto
da Proclo nel secolo V. Il commento di Macrobio al Sogno di Scipione di
Cicerone, basato sul Timeo, insieme al commento di Calcidio del secolo IV,
sarà una delle fonti del platonismo nel Medioevo. Va infine detto che perfi­
no al principio del Rinascimento in Occidente si giunse ad identificare la dot­
trina platonica con quella esposta nel Timeo.
111 Iugabilis competentia-, stessa espressione, oltre che qui in I, 6, 24, si
ritrova in I, 6, 31 e 33 e in II, 2, 18 che traduce il termine greco àv aX o y ia
presente in Platone, Timeo 31 c e soprattutto 32 c. Con questa espressione
Macrobio caratterizza la proprietà essenziale dei numeri platonici, che costi­
tuisce la coesione del mondo.
112 Si tratta ancora di Platone, Timeo, 31 b - 32 b, di cui Macrobio dà una
traduzione libera e ridotta. E perciò plausibile che abbia utilizzato una para­
frasi greca invece che il testo di Platone.
113 Cicerone, Repubblica VI, 18 = Sogno di Scipione 5, 2. Cfr. II, 1, 3.
114 Cfr. I, 5, 7 e II, 2, 4-7.
115 Vedi anche Filone (op. cit. XXXIV, 102); «Ed il numero sette da colo­
ro che hanno l’abitudine di impiegare i nomi con severa correttezza è stato
chiamato il numero perfezionante (TEÀEa<pópo<;); perché tutto ne è perfezio­
nato. E se ne può ricevere una conferma di questo dal fatto che ogni sostan­
za corporea ha tre dimensioni, lunghezza, altezza e larghezza; e quattro limi­
ti, il punto, la linea, la superficie e il volume...».
116 Omero, Iliade, VII, 99. Si tratta dell’imprecazione di Menelao indiriz­
zata ai greci, silenziosi e impauriti dopo la proposta di Ettore di risolvere la
guerra a singoiar tenzone con un campione acheo,
117 Larga parte di questo passo, come i seguenti dedicati alle fasi lunari,
all’importanza del numero sette nei climateri della vita e del feto e all’anato­
mia del corpo umano trovano il loro riscontro in pseudo-Giamblico, op. cit.
7.
118 S’intendono i corpi matematici e fisici: cfr. supra § 35.
119 La tetraktys (o tetrade), formata dall’immagine di dieci sassolini for­
manti un triangolo, nella successione 1, 2, 3, 4, la cui somma costituiva la
decade era il simbolo fondamentale dei pitagorici. Su di essa vedi l’eccelen-
te saggio di Paul Kucharski, Etude sur la doctrine pythagoricienne de la
Tétrade, Les Belles Lettres, Paris, 1952; vedi anche in particolare il capitolo
XIV di Simboli della Scienza Sacra di René Guénon (Milano, 1990). Nella
simbologia pitagorica la decade rappresentava tutto ciò che esiste e perciò
anche l’anima era costituita da una tetrade di facoltà cognitive che conferiva­
no all’uomo la sua capacità di essere razionale; un passo di Ezio (op. cit I, 3,
8) dice in proposito: «E la nostra anima, dice [Pitagora], è formata dalla
tetraktys, cioè: intelletto, conoscenza, opinione, sensazione; donde proviene
ogni arte e scienza e per la quale noi stessi siamo forniti di ragione». D’altra
parte anche l’anima è costituita di accordi musicali basati sulla tetrade: cfr.
infra § 43. Porfirio (Vita di Pitagora 20), nel dar conto del giuramento dei
Pitagorici, definisce la tetrade «uno degli arcani della loro sapienza, singolar­
mente fulgido e tale che apriva la via a molte conclusioni della natura».
120 E la celebre formula del giuramento pitagorico che si ritrova nei Versi
d ’oro pitagorei (47) e citata da diversi autori, talvolta in forma negativa, come
qui, e talvolta in forma affermativa o con qualche leggera variante. Nono­
stante le testimonianze tarde, la formula risale sicuramente all’antico pitago­
rismo. Nell’originale è un esametro che Macrobio si prende cura di tradurre
in un esametro latino.
121 Allusione alla nota tripartizione platonica dell’anima (razionale, con­
cupiscibile, irascibile), su cui cfr. Repubblica, IV, 436 a sg. e IX, 580 d sg.
122 Concezione pitagorica: cfr. precedente nota 119.
123 Su questo argomento Macrobio ritornerà in seguito, in maniera molto
più estesa, in II, 1, 8-25, descrivendo il sistema degli accordi musicali scoper­
to, secondo la tradizione, da Pitagora e in cui interviene nuovamente la
tetraktys. Cfr. Filone (op. cit. XV, 47): «Inoltre la tetraktys comprende i rap­
porti degli accordi musicali, del Sia Teaoàpcov, del Sta t t e v t é , del Sia
n aacòv e del Sì$ Sia ttccocÒv, rapporti che producono il sistema più perfet­
to dell’armonia. Infatti il rapporto dei suoni nella quarta è di quattro a tre;
nella quinta di tre a due; nel Sia Traacòv questo rapporto è raddoppiato e
nel 8\$ Sia u aacòv è aumentato quattro volte. Tutti questi rapporti sono
contenuti nella tetraktys-, il primo, o epitrito, nel rapporto di quattro a tre; il
secondo, o emiolio, nel rapporto di tre a due; il rapporto doppio è quello di
due a uno o quattro a due ed il rapporto quadruplo è quello di quattro a
uno».
124 Virgilio, Eneide I, 94. Si tratta dell’apostrofe che Enea rivolge ai
Troiani morti per la difesa della loro patria ed è imitazione ripresa da Omero,
Odissea V, 306. Altri passi contenenti la stessa associazione terque quaterque
sono in Virgilio, Eneide IV, 589; XII, 155; Georgiche I, 411; II, 399; Orazio
Odi X X X I, 23; Tibullo Elegie III, 3, 26. Anche Dante continuerà la consue­
tudine: Furo iterate tre e quattro volte {Purgatorio VII, 2). Va osservato che
nella nomenclatura indoeuropea il tre era arcaicamente l’ultimo numero e,
dopo di esso, si ricominciava a contare da capo. Infatti il latino quattuor o
quater vale etimologicamente et tres in quanto il qua è l’enclitica latina e
anche il sanscrito katvàrah ha precisamente la stessa formazione, vale a dire
1 + 3 = 4 , così come nei derivati greci, dall’eolico TÉTOpE$ e dal dorico
T É T T o p e j fino a x é o a a p E ^ , dove l’enclitica è t e . La medesima struttura si
ritrova nei termini italiani quaderno, quaterna e, forse, caterva. La ricorren­
za di questa connessione fra il tre e il quattro e la frequenza in greco dell’e­
spressione Tpìs Ka'l TETpàKig, come in latino della corrispondente espressio­
ne terque quaterque, devono aver fatto ben presto assumere all’espressione
un significato mistico. L’arcaica associazione del tre e del quattro è in armo­
nia con quella pitagorica della tetraktys, che viene raffigurata con un triango­
lo equilatero, ossia la lettera delta (A) che è la quarta dell’alfabeto greco. Il
tre è in un certo senso l’ultimo numero, e quindi il numero perfetto per eccel­
lenza; perciò nel sistema di numerazione a base ternaria il quattro è una
nuova unità, così come il dieci lo è nel sistema decimale e i due numeri quat­
tro e dieci, di cui abbiamo veduto la connessione nella tetraktys (cfr. supra
nota 119), si trovano associati anche per il fatto di costituire la nuova unità
rispettivamente nei due sistemi di numerazione.
125 Questa fantasiosa etimologia, attribuita allo stesso Pitagora, era usua­
le nell’ambiente pitagorico. Si riteneva che il termine eptade fosse derivato
da cse(ìaa|jó$ «rispetto, venerazione, culto», e che i Romani avessero forma­
to septem da etttccs, aggiungendovi la s iniziale che era, col tempo, stata
omessa dai Greci. In tal modo si mostrava ancor più chiaramente il significa­
to etimologico della parola, chiamandolo septem, come derivata da aeTTTÓj
/ oe(ivós, venerabile e come si è detto prima da oepaapó$, la « venerazio­
ne ». Cfr. in proposito Filone, op. cit, XLII, 127; Nicomaco di Gerasa ap.
Fozio, op. cit. 187, 144, pseudo-Giamblico, op. cit. 57, 14. La reale etimolo­
gia pare invece derivare da una radice sap- seguire — come sequor — e che
il suo significato sia secondo, indicando l’indice della mano sinistra, che è il
secondo dopo il pollice.
126 Platone, Timeo , 35 b-c. Nel seguente § 46 Macrobio descrive molto
chiaramente lo schema a lambda, utilizzato da molti commentatori del
Timeo, su cui cfr. supra nota 87.
127 L’osservazione circa il collegamento dei sette pianeti visibili col nume­
ro 7 si poneva come tema obbligato nelle opere aritmologiche (Teone di
Smirne, Varrone ap. Aulo Gellio, Filone, Clemente Alessandrino, pseudo-
Giamblico, Calcidio, Favonio Eulogio, Proclo, Marziano Capella, Giovanni
Lido).
128 In questi passi Macrobio distingue correttamente il periodo di rivolu­
zione (cioè il tempo che impiega un corpo orbitante, come la luna, per com­
piere un’orbita completa). Si distinguono infatti: a) la rivoluzione siderale,
ovvero il tempo impiegato per ritornare allo stesso punto della sua orbita
(per la luna, secondo le conoscenze moderne, è di 27 giorni 7 h 43 m e l i , 5
s) e che è considerato il vero periodo di rivoluzione di un oggetto orbitante;
b) la rivoluzione sinodica (o, nel caso della luna, lunazione), ovvero il tempo
che impiega la luna per ritornare nella stessa posizione nel cielo, rispetto al
Sole e osservato dalla Terra (per la luna è di 29 giorni 12 h 44 m e 2, 9 s), che
è il tempo che passa tra due congiunzioni successive col sole; quest’ultima
rivoluzione è il periodo orbitale apparente (visto dalla Terra) della luna.
Diversamente dagli Antichi noi sappiamo che la rivoluzione sinodica differi­
sce dalla rivoluzione siderale perché la Terra stessa gira intorno al sole.
Macrobio fornisce un’ottima approssimazione della reale durata della rivolu­
zione siderale, che era già ben nota agli astronomi antichi.
129 In base alle leggi di Keplero sappiamo che i pianeti si muovono attor­
no al Sole su un’orbita ellittica e che il Sole si trova in uno dei fuochi dell’el­
lisse e inoltre che i pianeti si muovono più velocemente quando la distanza
dal Sole è minima, e più lentamente quando la distanza è massima. In prima­
vera e in estate la Terra nella sua orbita ellittica si trova nella parte più lonta­
na dal Sole e quindi ha una minore velocità insieme a una distanza maggiore
da percorrere per lo stesso spostamento angolare di 30°. Trasponendo tutto
ciò nel sistema geocentrico degli Antichi, il Sole sembrerà dunque rallentare
e attardarsi nel suo spostamento sullo zodiaco in primavera e in estate e quin­
di nei segni corrispondenti (oltre che nei Gemelli, come indicato da
Macrobio, nei segni contigui del Toro e del Cancro). Gli Antichi si erano resi
ben conto che per percorrere lo stesso spazio di 30° nel segno dei Gemelli il
Sole impiegava fino a 32 giorni, rendendo possibile che si producessero due
nuove lune, mentre il Sole era in questo segno. Il fenomeno ovviamente non
ha nulla a che fare con l’altezza del segno, sia in ascensione retta sia in decli­
nazione (latitudine) celeste come sembra indicare Macrobio (altitudine signi
morente).
130 Ventotto è dunque il secondo numero «perfetto» dopo il sei ( 1 + 2 +
3), perché 28 = 1+ 2 + 3 + 4 + 5 + 6 + 7. Vedi anche sopra in nota 98, il ven­
totto in rapporto ai suoi divisori. Cfr. Filone, op. cit. XXXIV, 101.
131 Nel sistema cosmologico antico avente per il centro la Terra l’eclitti­
ca corrispondeva al piano dell’apparente orbita solare sulla sfera celeste (nel
sistema eliocentrico al piano dell’orbita terrestre), ovvero la sua traiettoria
attraverso le costellazioni zodiacali. La zona sferica bisecata dall’eclittica era
chiamata fascia dello zodiaco o fascia degli animali nel quale si situava il
movimento apparente della Luna e dei pianeti le cui orbite non si discosta­
no di molto dal piano dell’eclittica. L’ampiezza dello zodiaco, che doveva
comprendere le orbite dei cinque pianeti e dei due luminari, era valutata
dagli Antichi in 12°. Si tratta di una cifra arbitraria, motivata da considera­
zioni astrologiche: considerando l’eclittica come linea mediana, la sua lar­
ghezza apparente è di circa 16°.
132 Considerando che la durata di una lunazione completa, ossia il tempo
intercorrente tra due lune nuove consecutive o mese lunare è di 29 giorni, 12
ore, 44 minuti e 2, 8” (cfr. supra nota 128), non si può dire che una fase luna­
re duri esattamente sette giorni. Pur disponendo gli Antichi di una buona
approssimazione in proposito (29 giorni e mezzo), anche in questo caso
entravano in gioco considerazioni aritmologiche che permettevano di rap­
portare le successioni di fasi al numero 7, con 4 fasi ognuna di 7 giorni, anche
se più spesso gli aritmologi preferivano scoprire il numero sette nel numero
degli stati successivi della luna, determinati dalla sua illuminazione da parte
del sole (fenomeno che non viola la realtà astronomica). E ciò che fa anche
Macrobio nel seguente § 55. Sulle 7 fasi lunari vedi nota seguente.
133 La concezione che la luna nel corso di una lunazione passi in sette
diverse fasi è puramente aritmologica e non astronomica e si riscontra in
diverse opere di tal tenore (pseudo-Giamblico, op. cit. VII, 2-6, p. 60;
Calcidio op. cit. 37; Favonio Eulogio, op. cit. XI, 8; Marziano Capella, Le
nozze di Filologia e Mercurio, VII, 738). Mentre noi consideriamo quattro
posizioni fondamentali (luna nuova o congiunzione o fase di novilunio,
primo quarto o luna crescente, luna piena o opposizione e fase di plenilunio,
ultimo quarto o luna calante) nell’antichità se ne distinguevano sette (luna
nascente, mezzaluna, luna gobba, luna piena, luna gobba, mezzaluna, luna
nuova). Macrobio utilizza una terminologia poco tecnica in cui si mescolano
termini greci e latini, i primi dei quali si sente in obbligo di spiegare ai § 54
e 56. Favonio Eulogio il. c.) usa solo termini greci (Septem species luna cre­
scentis ac decrescentis luminis uarietate componit: quarum prima est, quae a
Graecis a v a x o X q dicitur, secunda àpcpiKupxos, tertia Sixotouos, quarta
TravoeXqvos, quinta item 81x0x0^105, sexta à|aqMKupxo<;, septima ouvoSiKrj
uocatur, cum interlunio redit ad solem), mentre Calcidio usa una terminologia
solo latina; il più completo è Marziano Capella che utilizza termini latini
accompagnati dai loro equivalenti greci, ma che, nel caso di pr|VOEi5r|S, che
traduce con corniculata, la luna gobba, o curva o falcata, non concorda con
Macrobio.
134 E normale che nei trattati di aritmologia dopo il ruolo astronomico
del sette si passi a trattare dell’importanza di questo numero nell’età dell’uo­
mo e nella sua anatomia. L’anno climaterico, che si conta per sette, è poi una
dottrina che risale a Pitagora e alla sua scuola. La teoria degli anni settenari,
che sogliono apportare importanti cambiamenti nella scala (tcMpa^) della
vita, contraddistinguendo uno scalino ( K À i p a K X f i p ) e perciò detti climateri­
ci, risale ai tempi di Solone. Il legislatore ateniese aveva composto su di que­
sta credenza un celebre poema, come testimoniano Filone e Clemente
d’Alessandria e Censorino che lo citano o ne forniscono una parafrasi.
135 Ippocrate è stato anche citato in I, 6, 17 e verrà nuovamente menzio­
nato in I, 14, 19 (vedi anche note relative). Il fondatore della medicina e la
sua scuola, che influenzarono lo sviluppo delle scienze medico-biologiche
fino al XVI secolo, compirono la sintesi delle dottrine precedenti sulla gene­
razione dell’individuo formulando la dottrina pangenetica, secondo la quale
gli individui verrebbero generati dall’incontro del seme paterno col seme
materno proveniente da tutte le parti del corpo e da tutti gli umori. Si è osser­
vato che la citazione del De natura pueri (TTepi (DÙ0105 ttociS iou ), uno dei
circa 60 trattati del Corpus hippocraticum, non significa una conoscenza
diretta del trattato da parte di Macrobio, basandosi su una teoria ritenuta
antichissima e divenuta patrimonio della cultura greco-latina.
Stratone di Lampsaco (340 ca. a.C. - 270-268 a.C.), fu uno dei mag­
giori esponenti della scuola peripatica; successore di Teofrasto nella direzio­
ne del Liceo, tentò di sviluppare empiricamente la cosmologia e la fisica ari­
stotelica ed è altresì noto per la sua dottrina del vuoto. Diocle di Caristo (IV
sec. a.C.), medico-chirurgo, fu forse discepolo d’Aristotele; chiamato dagli
ateniesi il «secondo Ippocrate», operò una sintesi tra la medicina ippocrati­
ca e la filosofia presocratica e attica ed è noto per aver eseguito esperimenti
di dissezione e per aver scritto trattati sulle proprietà mediche delle piante.
137 Tutti i § 65-70 trovano la loro corrispondenza in diversi passi dello
pseudo-Giamblico, op. cit.
138 Si tratta di un’osservazione consueta nei testi degli aritmologi greci
che associano 0 numero sette al numero delle vocali della loro lingua (a e r|
i o co u). Altrettanto usuale nei testi dei grammatici latini è l’osservazione che
pur essendoci nella loro lingua cinque suoni vocali, come del resto in greco,
è nondimeno nota la distinzione tra brevi e lunghe.
139 N e lla te r m in o lo g ia o d ie r n a il dissiptum, il medium e Yhira s o n o r is p e t­
tiv a m e n te il d u o d e n o , l ’ile o (o a p p u n to m e s e n te r e ) e l ’in te s tin o te n u e .
140 Sono entrambe affermazioni bizzarre, ma l’idea che non si possa vive­
re senza mangiare per più di sette giorni si ritrova in Ippocrate, in Varrone
citato da Aulo Gellio e nello pseudo-Giamblico.
141 Cfr. Platone, Timeo 34 a e 43 b. L’idea secondo cui esistono sette
movimenti, tutti posseduti da ogni essere vivente, ad eccezione del movimen­
to circolare, eterno e perfetto posseduto solo dal cielo, dagli astri e dagli ele­
menti divini, parzialmente ripresa da Aristotele (Il cielo II (B), 2, 284 b 30-
32), avrà fortuna nei testi di aritmologia di Filone, pseudo-Giamblico,
Calcidio, Favonio Eulogio, Marziano Capella, Boezio (che cita Nicomaco di
Gerasa come fonte), Giovanni Lido. Lo stesso Macrobio la menziona anco­
ra nei Saturnali (VII, 9, 3-4).
142 Virgilio, Eneide III, 379-380.
143 Riferimento al sogno menzognero inviato da Zeus ad Agamennone
per persuaderlo a conquistare Troia senza bisogno di Achille, come si narra
in Iliade , II, 1-34, e già oggetto di critica, come esempio di narrazione dise­
ducativa da parte di Omero, in Platone, Repubblica , II 383 a-c.
144 L’equivoco infatti era nel termine TiavauSir] (Iliade, II, 12; 29; 66),
«con tutte le forze», compreso da Agamennone come «impetuosamente» e
non nel senso «con tutti gli eserciti». La profezia della vittoria infatti non si
realizzò perché mancava all’appello l’esercito al comando di Achille.
145 Oltre a Cicerone, l’altro grande Romano è Virgilio. Al pari di Cicero­
ne e Platone (cfr. supra nota 1), Virgilio è l’equivalente di Omero, di cui imita
in tutto la perfezione. E noto il ruolo che ha la riflessione su Virgilio nei
Saturnali. Come Omero possiede una divina onniscienza (Commento al
Sogno di Scipione II, 10, 11), così Virgilio è il poeta profetico, il vates ispira­
to, che conosce, per grazia divina, tutte le discipline, tanto filosofo quanto
poeta (Commento al Sogno di Scipione I, 13, 12; I, 15, 12; I, 9, 8). Entrambi
detentori di quella medesima conoscenza, comune ad altri grandi uomini del
remoto passato — Esiodo, Pitagora, gli antichi Egizi — , competenti allo stes­
so modo in metafisica e in astronomia, in etica e musica, sono i migliori
garanti della Verità. Tutto ciò può apparire sconcertante a un lettore contem­
poraneo, persuaso della diversità di tempo delle dottrine filosofiche e con­
vinto del progresso delle scienze e che, soprattutto, nutre poche certezze
sulle genuine dottrine dei Pitagorici o dell’antico Egitto. Ma questo sincreti­
smo non è caratteristico soltanto di Macrobio, ma appartiene a tutto il neo-
platonismo posteriore a Plotino, che costituì la più perfetta manifestazione di
sincretismo filosofico e religioso di tutta l’Antichità. L’allomorfismo dei siste­
mi filosofici e l’evoluzione della conoscenza sono nozioni del tutto estranee
a Macrobio e ai Neoplatonici, convinti che la Verità è una, assoluta, immuta­
bile, oggettiva e conosciuta in tutti i tempi, dovendo essere, per sua stessa
natura, onnicomprensiva. Riconoscere ciò significa riconoscere la necessità
della Tradizione, non essendo questa altro che la trasmissione di un insegna­
mento non-umano operata di generazione in generazione da parte di uomini
consacrati, che l’hanno espressa in maniera allegorica, come Omero e Virgi­
lio, o in modo dialettico, come Platone e Cicerone. Per di più, l’antichità di
questa «filosofia perenne» è garanzia della sua qualità e questo vale anche
per le scienze: gli Egiziani sono i padri di tutte le scienze, perché la loro civil­
tà è rimasta, grazie ai benefici del clima, al riparo dai cataclismi che periodi­
camente distruggono le altre regioni della terra e la loro sapienza risale alla
notte dei tempi (Commento al Sogno di Scipione II, 10, 14-15). Un simile
atteggiamento che sembra sfidare la razionalità, considerata una caratteristi­
ca della tradizione greco-latina ha, invero, le sue radici in questa stessa tradi­
zione: la dottrina, già presente in Platone (anamnesi) e rielaborata dagli stoi­
ci, secondo la quale vi sono, depositate nell’anima umana, nozioni innate che
germogliano quando le si coltiva; l’idea del tutto greca che vi siano uomini
ispirati, depositari di verità rivelate dagli dèi; la rappresentazione di una
umanità primordiale più vicina alla natura, e quindi alla ragione, al sapere e
alla verità. Non dobbiamo perciò ritenere una semplice iperbole l’appellati­
vo di «divino», attribuito da Macrobio agli uomini di genio di cui invoca l’au­
torità e alle loro invenzioni — quali Platone, Cicerone, Omero (Commento
ai Sogno di Scipione I, 1, 3; II, 2, 1; II, 10, 11) —, giacché è per influenza divi­
na, per mezzo di una rivelazione sovraumana, che ad essi è stata concessa la
verità.
146 II riferimento, qui, è all’oracolo dell’isola di Deio il cui oscuro respon­
so indica come meta dei troiani il ritorno all’«antica madre», intesa da
Anchise come l’isola di Creta, patria di Teucro, capostipite della famiglia
reale di Troia. La tradizione voleva invece che Dardano, suo genero e succes­
sore, fosse originario dellTtalia centrale. L’episodio è narrato nel III libro
dell’Eneide (w. 84-191), di cui Macrobio cita parte del v. 94. Quanto all’in­
fluenza di Omero sull’Eneide («suo modello» come qui lo definisce
Macrobio) non è unicamente di ordine strutturale. Al vate greco, Virgilio ha
preso in prestito episodi interi: non solo la visita di Enea al mondo degli
Inferi nel libro VI è da mettere in rapporto con la nekuya di Ulisse nel libro
XI del{'Odissea, ma ancora i giochi funebri in onore di Anchise nel libro V
delYEneide sono ispirati ai giochi funebri organizzati in onore di Patroclo
alla fine del canto XXIII deìYIliade; la sortita nottetempo di Eurialo e Niso
nel libro IX dell’Eneide trova il suo corrispettivo nella sortita notturna di
Ulisse e di Diomede nel canto X dell’Iliade (la cosiddetta Dolonia)-, il
Consiglio degli dèi nel libro X delYEneide corrisponde al Consiglio degli dei
del canto V ili dell’Iliade. Episodi interi e ve ne sono molto altri. Accanto agli
episodi vi sono inoltre i temi; le similitudini, le famose similitudini omeriche;
i prestiti puntuali; l’elenco delle influenze di Omero su Virgilio sarebbe inter­
minabile. Gli autori antichi già evidenziavano tutto questo, apprezzando in
ogni caso, come fa qui Macrobio, che dichiara l’imitatore Virgilio «non meno
perfetto di Omero». Il concetto della superiorità, ora dell’uno ora dell'altro,
è d’altronde più volte ribadito nei Saturnali: «Virgilio nelle sue derivazioni
offre rielaborazioni più ornate e piene» (V, 11, 1); «In realtà [Virgilio] non
poteva non risultare inferiore in alcuni punti all’autore che in tutta la sua
opera poetica aveva assunto come suo unico modello» (V, 13, 40); ecc.
147 Cicerone, Repubblica VI, 13 = Sogno di Scipione 3, 1.
148 Queste pauca dicenda, «alcune parole» occupano i § 3-12 del presen­
te capitolo. È nel seguente capitolo 9 che Macrobio commenterà l’insieme
del passo ciceroniano appena citato.
149 Prudenza (q>póvr)ais), temperanza (aco<ppoaùvr|), fortezza (àvSpicc)
e giustizia (S iK a io a ù v q ), le quattro virtù civili, proprie del politico, conside­
rate da Platone in Repubblica, IV 427 e sgg. come fondamentali per lo stato
ideale, si ritroveranno in tutta la tradizione platonica successiva e presso gli
stoici. La quadripartizione delle virtù cardinali, distinte, ma qualche volta
unite a quelle teologali (fede, speranza e carità), fu trasmessa nel Medioevo
proprio grazie al Commento di Macrobio, fino a divenire un fondamento
della teologia cattolica.
150 Una delle fonti di Macrobio, oltre a Plotino esplicitamente citato nel
seguente §, è Porfirio che (Sentenze sugli intellegibili, 32) distingue le virtù in
politiche, catartiche (purificatrici), contemplative e paradigmatiche. Mentre
queste ultime, ipostasi dell'Intelletto, sono i modelli esemplari del Bene, le
virtù contemplative attengono alla contemplazione divina di tali modelli; l’a­
nima che riesce ad elevarsi a questa contemplazione possiede le virtù purifi­
catrici che consentono l’assimilazione alla divinità, infine le virtù politiche o
civili consistono soltanto nella moderazione delle passioni. Si osserva nei
ragionamenti di Macrobio il tentativo di conciliare le sue fonti neoplatoni­
che, che attribuiscono alle virtù politiche o civili un ruolo secondario, con il
pensiero di Cicerone, più proprio ad una weltanschauung romana che vede­
va nell’azione una via al divino.
151 Plotino, Enneadi I, 2.
152 Virgilio, Eneide VI, 664.
153 Lo spazio accordato alle virtù politiche o civili (ai àpETai ttoAitikocO
da Macrobio è molto maggiore rispetto a quello che si ritrova in Plotino e
Porfirio che le considerano al più basso livello della loro scala. Pur ripren­
dendo alla lettera la scala porfiriana delle virtù la maggior attenzione ad esse
prestata mostra esplicitamente il tentativo di piegare le sue fonti neoplatoni­
che ai valori tradizionali della via romana. Il concetto macrobiano delle virtù
civili si trasmetterà a San Tommaso. Nel Rinascimento Matteo Palmieri nella
sua Vita civile (1438), riprendendo la classificazione tradizionale delle virtù
secondo Plotino e Macrobio, rivisitata da Petrarca (La vita solitaria, I, 4), fa
l’elogio delle virtù civili: con queste virtù i buoni huomini governono loro e le
loro cose; di poi, venuti governatori delle republiche, acrescono, consigliano e
difendono quelle; da queste procede la pietà nei padri, l’amore nei figliuoli, la
carità de’ parenti, la difensione degli amici et ultimamente il publico governo
et universale salute della civile unione et concordia.
154 Cfr. Plotino, op. cit. I, 2, 3,10 sgg.; Porfirio, op. cit. 32, 3: le virtù puri­
ficatrici o catartiche ( a i à p E T a t KaOapTiKai).
«5 Nel § 4.
156 Cfr. Plotino, op. cit. I, 2, 6; Porfirio, op, cit. 32, 4: le virtù dell’anima
che agisce intellettualmente e che si possono definire contemplative, o teore­
tiche o intellettuali.
157 Giovenale, Satire X, 360.1 suoi esametri sono citati, senza far diretta
menzione dell’autore, ancora due volte da Macrobio (I, 9, 2 e I, 10, 12; vedi
relative note).
158 Supra in I, 2, 14. Cfr. Plotino, op. cit. I, 2, 7; Porfirio, op. cit. 32, 6-7:
le virtù paradigmatiche ( a i à p e T a i TTapaSeiypaTiKaO ovvero i modelli
esemplari presenti nell’intelletto divino che è il Bene.
159 Virgilio, Eneide VI, 733; citato anche da Agostino nel De civitate Dei
XIV, 7 e XXI, 3 e da Giordano Bruno nel Dialogo Secondo degli Eroici
Furori. Cfr. il commentario di Servio a questo verso virgiliano: Varrò et omnes
philosophi dicunt quattuor esse passiones... Furono infatti gli stoici a distin­
guere quattro specie di passioni fondamentali (piacere e dolore, desiderio e
paura) da cui derivano tutte le altre e che turbano l’esercizio della ragione.
Vivere secondo natura significava in conclusione non permetterne il loro
nascere o annientarle una volta formatesi. È questa la celebre apatia o impas­
sibilità stoica, cioè l’assenza di ogni passione, che è sempre e solo turbamen­
to dell’animo, errore del logos che va curato nella sua rettitudine.
160 Cfr. infra I, 21, 34. La concezione dell’origine divina dell’anima, pri­
mordialmente d’origine orfica, appare già nei presocratici, in particolare
presso Pitagora, prima di divenire uno dei principi fondamentali della dot­
trina platonica. All’epoca di Macrobio la credenza è patrimonio comune di
tutti i «veri filosofi» ireete philosophantes), ad esclusione degli epicurei, la cui
scuola di fatto, a quel tempo, non era più esistente.
161 Giovenale, Satire XI, 27.
162 Adattamento di Persio, Satire I, 7: nec te quaesiueris extra. Analogo
concetto si ritrova nel famoso monito di Agostino (La vera religione,
XXXIX, 72): Noliforas ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat ueri-
tas («Non uscire fuori, rientra in te stesso: la verità abita nell’interno dell’uo­
mo»).
163 Virgilio, Eneide XII, 952. Si tratta dell’ultimo verso del poema.
164 Virgilio, Eneide VI, 736-737. Nei manoscritti, la citazione è mancan­
te del termine omnes che chiude il v. 736.
165 La dottrina della metempsicosi, d’origine orfico-pitagorica e già atte­
stata da un frammento di Empedocle («Sono stato un fanciullo e una fanciul­
la, arbusto e uccello e muto pesce del mare»), vide in Platone il più fervido
sostenitore. Platone e con lui Plotino, in accordo con Pitagora, ritenevano
che l’anima nelle sue varie trasmigrazioni potesse assumere tre tipi di corpo:
umano, animale e anche vegetale. Di quest ultima possibilità Macrobio non
parla.
166 Esiodo, Opere e giorni, 122-123 e 126. Si tratta di versi che hanno
goduto di grande fortuna nella tradizione platonica e neoplatonica: sono
infatti citati o parafrasati da Platone, Repubblica V, 469 a; Cratilo 398 a;
Plutarco, Iside e Osiride 26; Il tramonto degli oracoli 417 b e 431 e; Proclo,
Commento alla Repubblica di Platone, Dissertazione II, 75, 18 sgg.). Si tratta
degli uomini della stirpe aurea che dopo la loro morte assurgono al rango di
dèmoni, ministri degli dèi e loro intermediari con gli uomini che custodisco­
no. E poiché dalle loro mani derivano all’uomo le ricchezze e i beni del cielo
ed essi sono costantemente benefici verso noi e sempre ci preservano dal
male, Esiodo dice che fanno ufficio di re essendo ius regum (yépac;
fìaaiÀr|Tov) e compiendo sempre il bene e mai il male.
167 Cfr. Virgilio, Eneide VI, 641: solemque suum, sua sidera norunt («un
loro sole e loro stelle conoscono »). Macrobio discuterà della localizzazione
degli Inferi in I, 11, 4-10.
168 Virgilio, Eneide VI, 653-655.
169 Macrobio anticipa qui ciò che tratterà estesamente nei successivi capi­
toli 12 e 13.
170 L’àTTÀawig, già citata sopra in I, 6, 18, è la sfera celeste, sulla quale
sembrano essere collocati gli astri visti dalla Terra, il cui significato è appun­
to «fissa» per differenziarla, all’opposto, dai pianeti che significano «erran­
ti». Su di essa è collocato il ya\a£ia< ; kùkÀo$ o circolo latteo e contiene
altre otto sfere concentriche. Sono antiche nozioni astronomiche che Ma­
crobio svilupperà abbondantemente nel capitolo 15.
171 Cicerone, Repubblica VI, 14 = Sogno di Scipione 3, 2.
172 L’immagine della virtù come seme piantato nell’anima umana che la
filosofia e la conoscenza fa riaffiorare è un concetto stoico, ben presente nei
neoplatonici, ampiamente usato nell’ebraismo ellenistico, nelle varie corren­
ti dello gnosticismo e che impregnerà anche l’insegnamento patristico. Le
ragioni seminali (oTTEpuaTiKo'i Àóyoi) sono germinalmente presenti nell’a­
nima umana in quanto microcosmo.
173 Per la descrizione delle virtù così ben praticate da Scipione Emiliano
vedi sopra capitolo 8, 3-8.
174 L’immagine del volo dell’anima non si riscontra solo in Omero, ma
anche nelle antiche laminette votive orfiche. L’immagine dell’anima alata e
del suo volo è soprattutto presente in Platone.
175 Cicerone, Repubblica VI, 14 = Sogno di Scipione 3,2. L’idea che uita...
mors est risale ad Eraclito: «Immortali mortali, mortali immortali, viventi la
loro morte e morienti la loro vita» (fr. 62 Diels-Kranz). Platone nel Gorgia
(493 a) mette in bocca a Socrate una citazione della perduta opera Polido
nonché della perduta Frisso di Euripide (frr. 639 e 833 Nauck): «C hipuò
sapere se il vivere non sia morire / e se il morire non sia vivere». Vedi anche
Cicerone, L'orazione per Marco Emilio Scauro 5: summi philosophi Platonis
graviter et ornate scriptum librum de morte legisset, in quo, ut opinor; Socrates
illo ipso die quo erat ei moriendum permulta disputat, hanc esse mortem quam
nos vitam putaremus.
176 II problema della collocazione degli Ìnferi che occupa tutta la parte
dal capitolo I, 10, 9 fino a I, 12 è così elegantemente strutturato:
I) {cap. 10, 9-17) tesi teologica: gli inferi sono il corpo.
II) (cap. 11 e 12) tesi filosofiche:
a) (cap. 1-3) Questione propedeutica (tesi pitagorico-platonica): occorre
distinguere la morte dell’anima da quella dell’essere animato.
b) (cap. 11, 4 - 12, 18) Gli inferi sono una regione del mondo, sull’argo­
mento i Platonici sono divisi in tre scuole; le loro rispettive opinioni
vengono riferite nei capp. 11, 5-7; 11, 8-9; 11, 10 - 12, 18.
177 L’idea che il corpo sia la prigione dell’anima risale ai misteri orfici
come testimonia Platone (Cratilo 400 c; Fedone 62 b). Vi è inoltre la testimo­
nianza di Filolao, filosofo pitagorico contemporaneo di Platone, riportata nei
Frammenti dei presocratici (fr. 44 B 14 Diels-Kranz), dove fra l’altro si legge:
«Il pitagorico [Filolao] dice così: “Anche gli antichi teologi e gli antichi vati
testimoniano che per espiare qualche colpa l’anima è unita al corpo e in que­
sto sepolta”»; e ancora: «Euxiteo pitagorico [...] diceva [.,.] che tutte le
anime sono legate al corpo e alla vita di quaggiù per espiare» (fr. 14 Diels-
Kranz). L’immagine del corpo come prigione, carcere o custodia dell’anima,
frequente in Cicerone, figura sia nei testi letterari (Virgilio, Lucano) che in
quelli filosofici (Filone, Seneca, Plutarco, Plotino, Porfirio) e trasmigrerà nei
testi gnostici fino a diventare un elemento della tradizione cristiana. Sul
corpo considerato dagli orfici come una prigione in cui l’anima scontava le
colpe del passato cfr. Eric Robertson Dodds, I Greci e l’irrazionale, trad. it.,
Milano, 2003, p. 191 sgg.
178 Cfr. sopra I, 11, 3. L’immagine del corpo come tomba dell’anima,
basata sulla paronimia dei termini greci a covra e orina (rispettivamente
corpo e sepolcro) appare in Platone (Gorgia 493 a, Cratilo 400 c).
L’immagine che in greco ha un’efficacia maggiore per la somiglianza di suono
dei due termini è anch’essa di origine orfica ed è attribuita da Clemente
d’Alessandria al pitagorico Filolao (Stromata III, 3, 13,2). Anche questa idea,
come la precedente associazione di corpo prigione, fu frequente nella tradi­
zione neoplatonica (Plotino, Porfirio, Giamblico, Giuliano, Servio, ecc.) sino
a diventare patrimonio dello stesso cristianesimo.
179 II nome greco Dite indica tanto Plutone, dio dell’Averno che l’Averno
stesso.
180 Si tratta dell’infernale fiume Lete, che attraversa l’Eliso e le cui acque
bevute dall’anima hanno l’effetto di produrre la dimenticanza della vita pas­
sata, dando la possibilità all’anima di reincarnarsi.
181 Sono tutti i quattro fiumi dell’Averno, ricordati da Virgilio, al pari del
Lete, nella sua descrizione dell’oltretomba nel VI libro dell’Eneide. Ognuno
di essi simboleggia un tipo di passione. Lo Stige è il fiume dell’odio; il Flege-
tonte (o Piriflegetonte), l’«ardente», confluendo nel Cocito, il fiume del
pianto dalle acque ghiacciate, formava l’Acheronte, il paludoso fiume del
dolore superato dalle anime dirette agli inferi sulla barca di Caronte. Oltre
all’interpretazione morale, seguita da Macrobio, ve n ’era anche una raziona­
le secondo la quale ogni fiume rappresentava una circostanza della morte: il
dolóre per l’Acheronte, il fuoco della pira per il Flegetonte, i lamenti funebri
per il Cocito, la tristezza per lo Stige.
182 Virgilio, Eneide VI, 598. Cominciano qui le allusioni di Macrobio alla
serie canonica dei dannati che in genere (Ovidio, Fedro, Seneca) compren­
deva Tantalo, Tizio, Sisifo, Danaidi e Issione, ma in altri casi, come in
Macrobio, la serialità delle cinque condanne era incompleta (Omero,
Platone, Pausania, Orazio, Tibullo, Properzio, Cicerone, ecc.). In Virgilio
(.Eneide VI, 595 sgg.), qui citato da Macrobio, mancano le Danaidi e Tantalo,
mentre a Issione, unitamente a Piritoo (cfr, infra nota 185), è sorprendente­
mente assegnata la duplice pena di Tantalo (601 sgg.) mentre la pena della
ruota (616) che nelle Georgiche (III, 38 e IV, 484) è canonicamente assegna­
ta a Issione concerne dei dannati anonimi. L’esegesi allegorica neoplatonica
di Macrobio ha il suo precedente illustre dell’interpretazione delle pene dei
dannati come proiezione dell’infelicità dell’uomo, o in altre parole dell’equi­
valenza vita-inferno, in Platone Gorgia 525 d-e.
183 Virgilio, Eneide VI, 600. Questo e il precedente verso citato sono rife­
riti alia pena di Tizio , gigante, figlio della Terra, che offese Latona insidian­
dola. e fu ucciso dal di lei figlio Apollo. Gettato negli inferi, il suo fegato divo­
rato da due avvoltoi rinasceva in base alle fasi lunari. In Macrobio il fegato
divorato di Tizio è allegoria dei tormenti interiori, come anche in Fedro
(Appendix Perottim V, 8), mentre è allegoria della passione incontinente in
Lucrezio {La natura delle cose III, 992-994), Orazio (Odi III, 4, 77-79) e
Servio (VI, 596).
184 Giovenale, Satire XIII, 2-3.
185 Come Tizio, sopra, rappresenta il rimorso, qui si allude, senza nomi­
narli, al supplizio di Issione e Piritoo, che simboleggiano l ’avarizia. Issione,
re dei Lapiti, fece scaraventare in una fossa piena di braci ardenti il re
Deioneo che gli aveva chiesto i doni rituali che gli spettavano per avergli dato
in moglie la figlia Dia. Pentitosi del delitto Zeus lo invitò alla sua mensa, dove
Issione, insuperbito, non si accontentò della bontà degli dèi, ma tentò di vio­
lentare la stessa Era. Zeus formò allora una nuvola con le sembianze della
dea, quindi lo colse nell’atto di abbracciarla e lo punì legandolo ad una ruota
ardente e condannandolo a girare vorticosamente e perennemente su di essa.
La ruota di Issione per Macrobio è allegoria dell’avvicendarsi del caso, come
anche per Fedro (op. cit. V, 9), mentre è immagine del turbinìo politico per
Servio (op. cit. VI, 596). Piritoo, figlio di Issione, perse la vita quando, con
l’amico Teseo, cercò di rapire Persefone per farla sua sposa. Ade riuscì ad
impedirglielo, incatenandolo.
186 Virgilio, Eneide VI, 616-617. Si tratta di una delle pene inflitte agli
indecisi, che non hanno rispettato la giustizia e gli dèi.
187 Allusione al ladrone Sisifo, il cui sasso rotolante rappresenta in
Macrobio l’ambizione e similmente in Lucrezio e Servio (op. cit. VI, 596) è
allegoria dello sforzo ambizioso e fallimentare del politico.
188 Allusione a Tantalo, ricchissimo re, che per aver dato in pasto agli dèi
le membra del figlio Pelope fu in questo modo punito, come riferito da
Pindaro, Olimpiche , I 55-64 e da Platone, Cratilo, 395 d-e. Il masso sospeso
di Tantalo per Macrobio è allegoria dell’ambizione, della paura degli dèi in
Lucrezio {op. cit. Ili, 982 sgg.) e Plutarco (La superstizione 170 f), della morte
in Cicerone (Il sommo bene e il sommo male I, 60), dell’afflizione degli stol­
ti ancora in Cicerone (Tuscolane IV, 35).
189 La stessa citazione, quasi certamente tratta dalVAtreo di Accio si ritro­
va in Cicerone, I Doveri, I, 97; Svetonio, Tiberio, 59 e Seneca, L’Ira I, 20, 4.
190 Si tratta di Damocle, di cui infatti viene narrato il famosissimo episo­
dio della «spada di Damocle».
191 Virgilio, Eneide VI, 743. I Mani sono tanto gli dèi degli inferi, quan­
to le anime dei trapassati che conservano l’impronta di ciò che l’uomo è stato
e che raccolgono, come destino, il frutto di ciò che egli in vita ha seminato.
192 Dite, il dio romano degli inferi, detto anche Plutone (il greco Pluto
finì presto per essere confuso con Plutone, altro epiteto di Ade) assomma in
sé anche la caratteristica di essere “il dio della ricchezza” (il termine latino
dis sta per ricco), con allusione alle ricchezze nascoste in seno alla terra di cui
era custode e di quelle che da essa spuntavano come vegetazione.
193 Cfr. sopra § 6 e 9 e note 177 e 178.
194 È il primo gruppo di Platonici. I commentatori sono concordi nel
considerare questa opinione di origine pitagorica. Contaminata dalla conce­
zione aristotelica delle due metà dell’universo, attiva e passiva, sarebbe poi
passata ai neo-pitagorici e ai neo-stoici. Si è suggerito che questa prima scuo­
la di Platonici possa corrispondere ai medio-platonici Albino e Àttico e che
la fonte di Macrobio potrebbe essere il perduto Commento al Timeo di
Porfirio.
195 Cfr. infra I, 21, 33 e nota 410.
196Aetheria terra è menzionata anche nel successivo § 8 e in I, 19, 10. Si
tratta di una nozione orfico-pitagorica, attribuita da Proclo agli Egizi.
197 Tra i filosofi dell’antica Grecia i pitagorici sostenevano l’esistenza di
esseri superiori intelligenti sulla Luna, superiori a quelli terrestri. Platone nel
mito del Simposio (190 d) colloca sulla luna gli androgini sferici. Credenza
popolare, fantasia letteraria (si pensi alla Storia vera di Luciano di Samosata),
l’argomento fu anche oggetto di speculazione filosofica (tra gli altri'. Achille
Tazio, Introduzione ad Arato-, Plutarco, Il volto della luna).
198 Si tratta della seconda scuola di Platonici. La loro opinione è espres­
sa in termini analoghi in Proclo, Commento al Timeo (II, 17 sgg., p. 48 Diehl)
che però la attribuisce ai Pitagorici. Si è perciò verosimilmente ipotizzato che
si tratti di neo-pitagorici (tra i quali forse Numenio di Apamea), anche per­
ché la descrizione dei pianeti si appoggia sul cosiddetto «ordine caldeo» (sul
quale vedi infra note 219, 350 e nota 55 del Libro Secondo), che prevalse a
partire dal II sec. a.C.
199 La tesi del terzo gruppo di Platonici, verso la quale vanno le simpatie
di Macrobio, è di fatto quella di tutti i neoplatonici.
200 Gli involucri eterei (cfr. anche infra 1 ,12, 13) sono le emanazioni delle
diverse sfere celesti e in seguito dementali di cui si riveste l’anima nella sua
discesa, ponte tra purezza dell’anima e pesantezza del corpo. E la dottrina
deIÌ'óxr|Ma o veicolo pneumatico, cara ai neoplatonici e alla gnosi ermetica.
201 Affermazione erronea, già notata fin dal Medioevo: l’intersezione
avviene in realtà nei Gemelli d’estate e nel Sagittario d’inverno, infatti il Sole,
quando si trova a perpendicolo sui tropici, appare proiettato in queste due
costellazioni. L’errore derivante da Porfirio (vedi seguente nota) nel suo ten­
tativo di far coincidere le porte del sole solstiziali con gli ingressi dell’antro
itacense si mantenne nella tradizione neoplatonica e lo si ritrova in Proclo.
Va però osservato che l’errore deriva dalla secolare precessione degli equino­
zi: il sole solstiziale sorge nella costellazione dei Gemelli ormai dal 60 a.C.
(cosa che per inciso attesta l’antichità della dottrina), e tuttavia né l’astrolo-
gia moderna né tantomeno l’astronomia hanno voluto correggere il nome di
Tropico del Cancro e conseguentemente di Tropico del Capricorno in quel­
la che sarebbe l’indicazione corretta: Tropico dei Gemelli e Tropico del Sa­
gittario per i due paralleli che segnano, ancor oggi, sulla sfera celeste le decli­
nazioni estreme che il Sole raggiunge rispetto all’equatore durante il suo
moto annuo, e che indicano tutti quei luoghi su di essi situati che hanno il
Sole allo zenit per un solo giorno all’anno. Questa funzione, a causa della
precessione degli equinozi, verso il 2100, toccherà al Toro e alio Scorpione.
Un altro degli effetti più vistosi della precessione è il cambiamento del segno
zodiacale che sorge all’equinozio di primavera ogni 2160 anni: attualmente
siamo alla fine di un segno, i Pesci, e stiamo per entrare in quello successivo,
l’Acquario. Sulla precessione degli equinozi cfr. infra I, 17, 16-17 e il cap. II,
11 sul Grande Anno e specialmente note 333-335 del Libro Primo e note
166-167 del Libro Secondo.
202 Questo passo di Macrobio utilizza esplicitamente L’antro delle ninfe
di Porfirio concernente il libro XIII dell’Odissea (102-112). Di esso vedi la
versione a cura di Laura Simonini (Milano, 1986), I punti d’intersezione in
cui la Via Lattea incrocia sempre l’eclittica ovvero il percorso apparente del
sole in cielo, indipendentemente dai cambiamenti della precessione sono
stati concepiti come «porte» dalla tradizione orfico-pitagorica. In un monu­
mentale saggio sulla precessione, Il mulino di Amleto: Saggio sul mito e sulla
struttura del tempo (Milano, 1983), Giorgio de Santillana e Hertha von
Dechend hanno ricostruito l’esistenza della tradizione delle due porte su
entrambe le sponde dell1Atlantico, citando fra l’altro Macrobio, che qui di
esse fornisce una definizione piuttosto chiara, ritenendo che le anime ascen­
dessero al cielo nel segno del Capricorno, «porta degli dèi», e poi, per rina­
scere, scendessero di nuovo attraverso la porta posta nel Cancro, «porta
degli uomini». Inoltre sul tema della discesa e della risalita dell’anima sono
da consultare le pagine fondamentali e sintetiche di Ioan Petru Couliano, I
viaggi dell’anima: Sogni, visioni, estasi, trad. it., Milano, 1994 e spec. p. 179
sgg-
203 Cicerone, Repubblica VI, 13 = Sogno di Scipione 3, 1. Sulla via lattea
cfr. anche I, 4, 5 e per la sua descrizione I, 15, 1-7. L’idea che la Via Lattea
fosse il luogo delle anime si ritrova nelle più disparate tradizioni. Nella tra­
dizione greca la Via Lattea, proprio perché originariamente collegava cieli,
terra e inferi, attraverso le «porte del sole» (su cui efr. nota 201), divenne il
luogo simbolico dove dimoravano temporaneamente le anime degli uomini.
Un tentativo di spiegazione razionale di questo fatto, la più periferica, è che
diecimila anni fa il polo terrestre coincideva con la Via Lattea: quando il polo
era sulla Via Lattea si sarebbe visto una grande ruota che girava nel cielo
sempre fissa nel polo, destando meraviglia negli uomini di allora. L’idea di
Macrobio, identica a quella di Platone, che le anime provengano dalla Via
Lattea e che ad essa ritornino dopo la morte fisica trova una sua trasposizio­
ne cristiana nel pellegrinaggio a Santiago, proiezione del pellegrinaggio cele­
ste delle anime nell’Aldilà. Camino de Santiago è il termine astronomico
popolare in castigliano della Via Lattea. E essa che definisce il cammino del
viandante ed è anche da ciò che deriva il nome di Compostella, Campus
Stella, il campo della stella, per la città di Santiago, in Spagna, collocata sulla
traccia della celeste Via Lattea.
204 L’affermazione ad alcuni commentatori moderni è sembrata incoeren­
te e non compatibile con la discesa delle anime descritta nei seguenti § 12-
14, in cui si vedono le anime attraversare le diverse sfere dei pianeti da
Saturno alla Luna. Se i segni dello zodiaco si trovano sulla sfera delle stelle
fisse, bisogna dunque ipotizzare una loro discesa, oltre che in basso, latitudi-
naria? O forse curva? Non ci si rende conto che il Leone è il «domicilio» del
Sole e l’Acquario il suo «esilio», vale a dire il segno in cui rispettivamente si
rafforzano o si annullano i suoi poteri. Dire quindi che un’anima nella sua
discesa è nel Leone o nell’Acquario è come dire, ad esempio nel linguaggio
astrologico quando si compila un quadro natale, che il pianeta è «nel» tal
segno, cosa che significa semplicemente che, visto dalla terra, sembra attra­
versare quel segno. Come spiegherà chiaramente Macrobio nel corso di que­
sto capitolo, la discesa dell’anima attraverso le sfere planetarie rappresenta,
dal punto di vista escatologico, l’allontanamento e l’abbassamento della
psyche dalla dimensione divina; dal punto di vista astrologico questa caduta
costituisce la crescente caratterizzazione di un individuo che, ad ogni fase
della discesa, assume una nuova facoltà da un pianeta. L’intreccio delle due
prospettive è reso più complesso dal fatto che i dodici segni zodiacali, nel
tema natale, vanno considerati come fasi di un processo di discesa dell’ani­
ma concorrente a quello costituito dalle sfere planetarie. In altri termini, con­
siderando il Cancro e il Capricorno come porte del sole, rispettivamente la
porta settentrionale e quella meridionale, e più specificamente, il Cancro è la
porta della Luna (il Cancro è il suo domicilio: cfr. infra nota 407), la via della
generazione umida, attraverso la quale le anime discendono nell’incarnazio­
ne, mentre il Capricorno è la porta del Soie attraverso cui esse ascendono nel
luminoso Olimpo, quando un’anima sta per nascere alla vita terrena, essa
discende nei Segni Cancro, Leone, ..., Capricorno; alla morte risale attraver­
so Capricorno, Acquario,..., Cancro. Così le anime visitano i Segni nella stes­
sa sequenza del Sole, passando comunque attraverso le sette sfere planetarie,
205 Allusione alla festa dei Parentalia, celebrazione delle anime degli ante­
nati defunti, che si svolgevano dalle idi di febbraio, il 13, fino alla conclusio­
ne, il 21 dello stesso mese, con la solennità dei Feralia, giorno in cui la città
compiva offerte agli dèi Mani, su cui vedi sopra nota 191.
206 L’Acquario, domicilio notturno di Saturno, pianeta triste e freddo e il
più funesto (cfr. I, 21, 26), rappresenta la stagione delle piogge, del vento
pungente, della luce fredda e metallica dell'inverno: contristat Aquarius
annum (Orazio, Satire, I, 1, 36).
207 Nel mondo greco-romano, fin dai tempi di Empedocle e Parmenide,
la forma sferica è sempre vista come unità originaria perfetta e simbolo della
perfezione.
208 p er i rapporti tra monade/punto e diade /linea cfr. I, 5, 11; I, 6, 35;
II, 2,5.
209 Platone, Timeo, 35 a.
210 L’espressione greca «hyle» corrisponde al lavoro artigianale. Significa
anche bosco, ossia il legno, la materia prima, che serve per costruire e, per­
ciò, non ancora ordinata e sfruttata. In senso aristotelico è appunto la mate­
ria. In latino il bosco è «silva» e, infatti, Macrobio traduce «hyle» con silve­
stris tumultus, che noi abbiamo qui reso con «il turbinoso disordine che
regna nella materia». Il concetto di selva è l’intera materia del grande poema
di Bernardo Silvestre, De universitate mundi sive Megacosmus et Micro-
cosmus, e dunque percorre tutta la riflessione della scuola di Chartres. Ri­
compare ovviamente in Dante, nel Convivio, ma soprattutto nella Commedia ,
con la «selva oscura» dell’inizio del poema. Ultima di tutte le cose è hyle, che
«noi diciamo selva e che sta nel luogo più basso», preciserà Cristoforo
Landino, che recupera, come aveva già fatto Scoto Eriugena, anche il signi­
ficato proprio di hyle\ legno, materiale da costruzione. Il demiurgo che agi­
sce nella selva, per produrre le cose, è lignarius faber, e la selva «contiene un
legno scabro e informe».
211 Platone, Fedone, 79 c.
212 La costellazione del Cratere, o Coppa, si trova nell’emisfero australe,
vicino alla costellazione del Corvo, da cui la separa quella dell’idra. Il cata-
sterismo delle tre costellazioni è legato da un unico mito: il corvo era stato
incaricato dal dio Apollo, che doveva offrire un sacrificio a Zeus, di racco­
gliere l’acqua con una coppa da una sorgente, ma si attardò presso un fico
per raccoglierne i frutti non ancora maturi. Apollo dovette provvedere in
maniera diversa. Dopo qualche giorno, il corvo, sazio dei frutti, volò da
Apollo con la sua tardiva coppa colma d’acqua, imputando all’idra, un ser­
pente d’acqua, di non aver permesso l’awicinamento alla fonte. Apollo che
conosceva sempre la verità castigò il corvo a patire la sete tutta la vita. In
ricordo dell’accaduto 0 dio pose il Corvo, la Coppa e l’idra insieme in cielo.
Il cratere era il vaso o coppa in cui i greci mescolavano al vino l’acqua e
Libero è uno degli epiteti di Bacco o Dioniso.
213 Questo paragrafo ha strette attinenze con alcuni passi di Arnobio,
Adversus Nationes [Contro i gentili] (II, 16 e III, 28). La dottrina platonica
secondo la quale l’anima, dopo la caduta nel mondo della generazione, subi­
sce il potere dell’«opinione», conduceva alla conclusione che nel mondo ter­
reno ogni religione e filosofia avesse un valore relativo in rapporto al miste­
ro dell’assoluto intelligibile. Per l’apologista cristiano Arnobio (255 ca.-327
ca.) invece la convinzione dell’esistenza del divino è innata nell’anima, mal­
grado la sua materialità (I, 33) perché la rivelazione lo ha reso partecipe della
sapienza divina ed essa può pertanto raggiungere l’immortalità attraverso la
grazia di Dio.
214 Lectio significa «lettura» e traduce il vocabolo greco ctvdyvcoais che
ha, oltre al medesimo significato, anche quello di «riconoscimento». E la
nota dottrina socratica, di derivazione orfico-pitagorica, d eWanàgnosis, più
nota come anàmnesis (àvóiaviqaic; = reminiscenza). Platone (Fedone 72 e;
Fedro 249 c; Menone 81 d - 86 a) ritiene che l’anima, prima di legarsi ad un
corpo, abbia vissuto un’esistenza disincarnata nella quale ha potuto vedere le
idee, il cui ricordo viene risvegliato a contatto con la realtà sensibile. In que­
sto senso, conoscere equivale sia a recuperare la conoscenza sia a ricordare.
215 Fin dai poemi omerici ed esiodei nettare e ambrosia erano il nutri­
mento degli dèi che gli assicuravano l’immortalità e l’eterna giovinezza.
Originariamente indistinti, in seguito il nettare divenne la bevanda e l’am­
brosia il cibo.
216 Cfr. sopra I, 10, 10 e nota 180.
217 E verosimile che il mito della passione dello smembramento di Dio­
niso avesse una parte centrale e preminente nella rivelazione orfica. Diodoro
Siculo (80-20 ca. a.C.) scrive nella sua Biblioteca storica che «Orfeo ha tra­
smesso nelle cerimonie dei misteri lo smembramento di Dioniso» (V, 75, 4).
E in un altro passo Orfeo viene presentato come riformatore dei misteri dio­
nisiaci: «É per questo che le iniziazioni dovute a Dioniso sono chiamate orfi­
che» (III, 65, 6). Nel delitto dei Titani si riconosce, dunque, un antico scena­
rio iniziatico che raffigura la frantumazione, nel molteplice, della divinità
Una, che, dopo essere stata smembrata, va, per così dire, ri-membrata. Lo
smembramento dell’intero, la frantumazione e la pluralizzazione dell’Ori-
gine, è conoscenza del furore e del sacrificio di sangue, della passione del
corpo straziato e martoriato di Dioniso, della dissoluzione che ogni istante si
consuma, come un rituale eterno, della interezza del tutto e della sua scissio­
ne. La creazione è perciò concepita come una morte cosmogonica in cui
l’Uno, nella sua potenza concentrato, viene offerto e disperso, ma questa
discesa e diffusione della potenza divina sono seguite dalla sua risurrezione,
allorché i Molti vengono ricomposti nell’Uno. Il mito dello smembramento
di Dioniso, attestato sin dal VI secolo da Onomacito (Orphicorum fragmen­
ta, a cura di Otto Kern, Berlin, 1922, test. 194 e fr. 210), c’è pervenuto
soprattutto attraverso autori cristiani (Firmico Materno, Lerrore delle religio­
ni profane 6; Clemente Alessandrino, Protrettico ai Greci II, 17, 2 e 18;
Arnobio, Adversus Nationes V, 19), ma qui ha particolare importanza Ori-
gene (Contro Celso IV, 17) che afferma che i greci interpretano allegorica­
mente il mito della lacerazione delle membra e della loro riunione come alle­
goria della discesa dell’anima nel corpo umano e della sua risalita e lo para­
gona alla resurrezione di Cristo. Questo brano, insieme all’Iside e Osiride di
Plutarco (18), è stato la probabile fonte delle similitudini presenti nella sezio­
ne 15, 87 dell’Orató? de hominis dignitate di Pico della Mirandola, dove si
produce una sorta di sintesi dei due miti, in cui la morte assume il significa­
to di rinnovamento della vita (cfr. anche Commento sopra una canzone d’amo­
re diB enivienU , 8). Vedi anche Plutarco, Sull’ éì diT)elfi (9): «Quando il dio
si cambia e si distribuisce in venti, acqua, terra, stelle, piante e animali, i
sapienti occultano questo processo sotto i simboli della «lacerazione » e dello
«smembramento». Essi lo chiamano con i nomi di Dioniso... e creano miti
di morti e sparizioni, seguite da rinascite e palingenesi». Per voù<, ùÀikós,
mente materiale, cfr. Macrobio, Saturnali I, 18, 15, dove si ricorda che Orfeo
e in seguito a lui i physici chiamarono il sole Dioniso, il cui nome viene fatto
derivare da AiÒ$ voù$ (mente di Zeus), perché i fisici consideravano quest’a­
stro la mente del mondo.
218 Allusione all’òxTlMct, veicolo o cocchio di luce, etereo e splendente,
dell’anima, o corpo astrale, o corpo di luce che, dopo il Timeo, da Proclo in
poi assunse una notevole importanza nella tradizione esoterica ed escatologi­
ca occidentale, ma anche scita, dove viene chiamato corpo sottile. In
Occidente, dopo Macrobio appare nella Consolazione della Filosofia, diven­
tando un concetto famigliare nel Medioevo. In Dante, ad esempio appare nel
Purgatorio XXV, 88-108. Durante le rinascite del Platonismo a
Costantinopoli, nel XI e nel XV secolo, la dottrina del corpo astrale riemer­
se nelle opere dedicate agli Oracoli Caldaici di Michele Psello e di Giorgio
Gemisto Pletone. Per il rivestimento etereo dell’anima vedi sopra I, 11, 12 e
nota 200.
219 La dottrina della discesa (e del ritorno) dell’anima attraverso le sfere
planetarie e della sua acquisizione dei relativi influssi celesti ha antiche origi­
ni iranico-caldee. Qui Macrobio adotta il sistema eliocentrico detto «cal­
deo», dove il Sole occupa il quarto posto nella serie dei pianeti. Tre sono
posti più in alto di esso, Marte, Giove e Saturno, e tre sotto, Venere,
Mercurio e la Luna, mentre la sequenza planetaria egizia o ordine «platoni­
co» è il seguente: Luna, Sole, Venere, Mercurio, Marte, Giove e Saturno.
Quest’ultimo ordine, che si ritrova in Proclo e in Porfirio, sembra altrove (I,
19 e 21 e II, 3) essere accettato da Macrobio. Si ipotizza che la fonte di
Macrobio sia Numenio, attraverso perduti trattati di Porfirio.
220 L’elenco delle facoltà acquisite dall’anima nella sua discesa attraverso
le sfere planetarie risulta dalla sovrapposizione della tripartizione dell’anima
secondo Platone (ÀoytofiKÓv, 0 u h i k ó v , E T T i0upr|T iK Ó v = razionale, concupi­
scibile, irascibile; cfr. supra I, 6, 42 e nota 121) e secondo Aristotele (\oyi-
o t i k ó v , a i o 0 q T i K Ó u , c p u T ix ó v = razionale, sensitiva, vegetativa; cfr. infra I,
14, 7 e nota 240), a cui Macrobio aggiunge due qualità supplementari, per
Giove e per Mercurio, per arrivare al numero sette, equivalente a quello dei
classici pianeti. Anche in questo caso si ipotizza che la fonte dell’esposizione
di Macrobio risalga a Numenio. Nella contemplazione macrobiana della
scala del cielo planetario in rapporto alla dottrina orfico-pitagorica della
discesa dell’anima in Terra dal cielo superiore, il Sole è la facoltà che anima
i sensi e ne sintetizza le impressioni; il Sole è quindi l’archetipo della vita spi­
rituale e sensoriale. Secondo la visione sufi esposta da Abd al Karim al Jili
(1365-1428), nel suo libro A l Insan al Kdmil (L’uomo perfetto — vedine una
sua versione parziale in italiano sotto il titolo L’uomo Universale, tradotta dal
francese e a cura di Titus Burckhardt, Roma, 1975), il Sole rappresenta il
cuore (al-qalb), l’organo della conoscenza intuitiva ed armonizzatrice: allo
stesso modo in cui il Sole comunica la sua luce ai pianeti, così la luce del
cuore illumina tutte le facoltà dell’anima. A Giove è attribuita la risoluzione
(in arabo al-himmah): rappresenta, dunque, qualcosa come la forma spiritua­
le della volontà. A Marte corrisponde l’audacia; al Jili gli attribuisce anche
l ’immaginazione attiva (al-wahm); entrambe le proprietà si riferiscono alla
volontà demiurgica precipitata nel mondo. Per Macrobio, come per tutti i
cosmologi ellenisti, Venere è l’astro della passione amorosa, mentre per l’al­
chimista di Baghdad è, innanzitutto, il modello della forza immaginativa pas­
siva (al-khiydl) che si modella sull’immaginazione o fantasia marziale come la
cera al sigillo. Per tutti i cosmologi, Mercurio è l’esempio del pensiero anali­
tico (al-fikr), Macrobio attribuisce alla Luna la facoltà della generazione, il
movimento fisico, attributo che Alberto Magno descrive con precisione
come motus quos movet in sequendo naturam corporis, ut attrahendo, mutuan­
do, augendo et generando', che sono appunto le funzioni dello spirito vitale
(spiritus vitalis, ar-ruh) che al Jili assegna allo stesso astro.
221 Cfr. Plotino, Enneadi, I, 8, 13, 20.
222 Cicerone, Repubblica VI, 15 = Sogno di Scipione 3,5.
223 Platone, Fedone, 67 e.
224 Platone, Fedone, 61 d e in seguito per il § 6 cfr. 64 c-d e 67 d, per il §
8 62 b-c.
225 In I, 11, 1.
226I n i, 8, 8.
227 In Enneadi I, 9: il breve trattato II suicidio razionale (TTepi eiXóyou
É^aycoyfis).
22* Plotino, Enneadi I, 9, 10.
22^ Plotino, Enneadi I, 9, 14 sgg.
230 Plotino, Enneadi I, 9, 3 e 8 sgg.
231 Cfr. sopra I, 14, 19, dove questa idea è attribuita a Pitagora e a Filo­
lao. L’idea che un ritmo biologico unisse anima e corpo si ritrova in Aristide
Quintiliano, autore di un trattato Sulla musica (II sec.), in Plotino, Porfirio,
Giamblico e in numerosi trattati ermetici.
232 Virgilio, Eneide VI, 545. Il significato di questo verso, che conclude il
dialogo di Deifobo, figlio di Priamo, con Enea, è oscuro. Anche Servio (VI,
545) ne propone più interpretazioni, una delle quali si avvicina a quella di
Macrobio, il concetto cioè che l’anima non si allontana dal corpo finché non
ha finito il numero musicale, e fatale, col quale fin dalla nascita è stata con­
giunta allo stesso corpo. Vi è dunque un numero che non si può oltrepassa­
re, chiamato fato o corso fatale. Altri, invece che con completare questo
numero fatale, interpretano che Deifobo con la sua espressione sottintenda
completare il numero delle ombre, ossia che dichiari che ritornerà a far parte
del novero di esse, dopo il suo dialogo con Enea.
233 Plotino, Enneadi I, 9, 17 sgg.
234 Si allude al perduto trattato di Porfirio De reditu animae (TTepi yuxHS
ÈTtavóSou, di cui Agostino nella Città di Dio cita lunghi passi sotto il titolo
leggermente diverso De regressu animae. Tra le «dispute esoteriche» si può
ricordare la concezione egiziana, secondo cui i defunti non «giustificati», il
cui cuore sulla bilancia di Anubi risultava più pesante della piuma ma’at,
erano condannati a una morte definitiva e privati anche di quella forma sur­
rogatoria e del tutto parziale, sia nel tempo che nello spazio — come vedre­
mo nel prosieguo del testo di Macrobio —, di revivescenza e di gloria e in
qualche modo di socialità garantita dalla memoria dei posteri e dalla fama
estesa tra la gente.
235 Cicerone, Repubblica VI, 15 - Sogno di Scipione 3, 5.
236 l n I, 22.
237 L’idea che l’universo è il vero tempio di Dio è patrimonio della poe­
sia a partire da Ennio fino a Manilio. Si ritrova tra i retori come Dione Criso­
stomo e in opere filosofiche (Seneca, Porfirio, Plutarco). Nelle Leggi (II, 10,
26 —11, 27) Cicerone attribuisce l’idea ai magi persiani «per consiglio dei
quali si dice che Serse bruciò i templi della Grecia, perché rinchiudevano
entro pareti quegli dèi ai quali tutto dovrebbe essere aperto e libero, e dei
quali tutto questo mondo è tempio e sede. Meglio si comportarono invece gli
Elleni ed i nostri padri, i quali vollero che essi abitassero le stesse città nostre,
affinché aumentasse la pietà verso gli dèi; questa credenza sostiene infatti che
il culto sia utile alle città, se, come disse il dottissimo Pitagora, proprio allo­
ra la pietà ed il culto maggiormente si radicano negli animi, cioè quando ci
dedichiamo alle cose divine; e ricordiamo il detto di Talete, uno dei sette
sapienti, che gli uomini sono convinti che tutto [quanto] vedono debba esse­
re pieno di dèi; tutti saranno infatti più puri, come se si trovassero in templi
che ispirano la massima religiosità. Secondo questa concezione infatti, si pre­
senta una certa immagine degli dèi non soltanto negli animi, ma anche innan­
zi agli occhi».
238 Qui Macrobio, da buon grammatico, dovendo commentare un brano
dove Cicerone adopera il termine animus nel senso di mens (mente, intellet­
to) e poi in quello improprio di «soffio vitale», sottolinea la distinzione clas­
sica secondo la quale animus è la traduzione del greco voù$ ed ha come sino­
nimo in latino mens , mentre anima, traduzione del greco vyuxr), è il soffio
vitale, il pneuma, sinonimo dell’altro termine latino spiritus. Con l’avvento
del cristianesimo il sostantivo animus uscì dall’uso, soppiantato da anima,
intesa come parte spirituale e immortale dell’uomo. Solo nel secolo scorso la
distinzione tra animus e anima ritornerà ad essere fondamentale nella rifles­
sione junghiana.
239 Dato che qui e nei due seguenti § Macrobio descrive la teoria neopla­
tonica delie ipostasi per theologi devono qui intendersi i filosofi neoplatoni­
ci e in particolare Plotino. Macrobio usa qui pertanto un plurale maiestatis.
Per questi passi cfr. Plotino, Enneadi V, 2,1,1-22 e III, 4,2-3. La teoria ema-
natista, qui descritta da Macrobio nei § 6 e seguenti, ossia quella che postu­
la che Dio creò in principio l’intelligenza e che attraverso la sua mediazione
creò il resto del mondo sarà oggetto di critica di Meister Eckhart (Commento
alla Genesi I, 21).
240 gj tratta della tripartizione delle funzioni dell’anima d ’origine aristo­
telica [L’Anim a II (B), 2, 413 b) su cui vedi sopra nota 220. La distinzione fu
ripresa da Plotino, Enneadi, III, 4, 2-3.
241 L’idea era divenuta un tòpos dell’antropologia antica a partire da
Platone {Timeo 90 a-b; Cratilo 396 b-c): la si ritrova in Aristotele, Senofonte,
Cicerone, Sallustio, Ovidio, Manilio, Firmico Materno.
242 Forma sferica, e movimento circolare, sono caratteristiche del divino:
cfr. I, 12, 5 e nota 207. Secondo Platone (Timeo 44 d) la testa è l ’unica parte
del corpo rotonda, ad immagine del mondo, perché sede deH’intelletto, la
componente più omogenea al divino.
243 Cfr. Platone Timeo 91 c; Cratilo 596 a. Molti degli autori citati nella
precedente nota 241 associano alla stazione verticale dell’uomo il disprezzo
verso la posizione prona degli animali.
244 Cfr. Aristotele, L A nim a II (B), 2, 414 a-b; Plotino, Enneadi, III, 4, 2.
243 Virgilio, Eneide VI, 726.
246 Virgilio, Eneide Vili, 403.
247 Virgilio, Eneide VI, 727.
248 Virgilio, Eneide VI, 728.
249 Virgilio, Eneide VI, 731.
250 E un’immagine che si ritrova in Plotino (specialmente Enneadi 1 ,1, 8,
17-19 ma anche I, 4, 10).
251 L’immagine della catena d ’oro si trova in Iliade VIII, 19 sgg. per
descrivere l’onnipotenza assoluta di Zeus, che, anche se tirato con una cate­
na da tutti gii dèi e le dee, non potrebbe essere tirato giù dai cieio e tratto a
terra. Al contrario, se Zeus volesse, sarebbe in grado di trarre tutto, la terra
intera e il mare stesso, fino al cielo e, avvolgendo questa catena alla vetta
dell’Olimpo, potrebbe sospendere in cielo tutte le cose di questo mondo.
Sono le parole con cui Zeus cerca di mettere fine alla disputa tra gli dèi circa
la guerra di Troia: non impedirà che gli uomini continuino a battersi e nem­
meno che gli dèi prodighino i loro consigli, ma impedirà che vi s’immischi­
no con un loro intervento diretto, evitando che la guerra si estenda dalla terra
fino allo stesso Olimpo. Il passo ebbe numerose interpretazioni allegoriche.
Per Platone la catena d ’oro era un simbolo del Sole (Teeteto, 153 c);
Aristotele vi vedeva un’allusione, sotto il velo mitico, della sua dottrina del
Motore immobile. Gli Stoici ritenevano che fosse un’allegoria dell’interdi­
pendenza dei quattro elementi e dell’equilibrio del corso planetario. Una
perturbazione di questo equilibrio avrebbe condotto al cataclisma e «Zeus
non sarebbe attirato verso il basso, ma le cose in basso si sarebbero innalza­
te con il trionfo del fuoco» (Eustazio di Tessaloniea, Commento all’Iliade di
Omero). In Macrobio l’immagine è assunta neo-platonicamente come meta­
fora della degradazione della vita nella materia e del legame ininterrotto che
unisce le cose divine tra esse ed esse con l’uomo. Attraverso Macrobio e altre
simili interpretazioni neoplatoniche l’immagine è passata nel cristianesimo.
Dal Rinascimento in poi, l’interpretazione di questo simbolo ha ricevuto una
notevole impronta esoterica, in particolare negli scritti alchemici e teosofici,
e, nel XX secolo, si ritrova specialmente in Jung.
252 Cicerone, Repubblica VI, 15 = Sogno di Scipione 3, 4.
253 L’idea dell’anima ignea è molto antica. Servio nel Commento
all'Eneide (I, 83) ricorda la gravità per l’anima, secondo Omero, della morte
in mare, vale a dire in un elemento contrario. Anche il Logos di Eraclito è
legato al fuoco (cfr. infra al seguente § 14); addirittura Eraclito associava la
dissennatezza alT«inumidirsi dell’anima», owero al suo allontanarsi dal
Fuoco. Benché l’origine astrale dell’anima sia indiscussa e patrimonio di tutti
i «veri filosofi» (cfr. supra I, 9, 1 e nota 160) la formulazione di Cicerone è
indubbiamente di tenore stoico: le anime razionali sono delle particelle che
provengono dalla sostanza ignea degli astri. Per un neoplatonico come
Macrobio, che concepisce l’anima come un puro intelligibile, la concezione
stoica secondo cui ogni cosa, incluso Dio e l’Anima, è corporea — anche se
non proprio materialista come noi oggi intendiamo il termine —, doveva
apparire inaccettabile. DÌ qui la sottile, laboriosa e per certi versi artificiosa
esegesi del passo ciceroniano, con la manipolazione della preposizione de, di
cui Macrobio fa un sinonimo di unde. Per altro verso, quest’idea di un prin­
cipio igneo a carattere universale, a metà strada tra il naturale e il soprasen­
sibile, è di grande importanza neU’immaginario cosmologico occidentale e si
diversificherà in numerosi temi e motivi, divenendo per esempio una delle
idee più diffuse nel pensiero alchemico o nella medicina omeopatica.
254 Cfr. Platone, Fedro 245 c. Senza seguire un ordine cronologico né
secondo una suddivisione per «scuole», Macrobio, cominciando da Platone,
cita i filosofi che ritengono in qualche modo l’anima immateriale (oltre a
Platone, Senocrate, Aristotele, Pitagora, Filolao, Posidonio, Asclepiade); poi
quelli che la definiscono corporea e composta di un solo elemento
(Ippocrate, Eraclide Pontico, Eraclito, Zenone, Democrito, Critolao,
Ipparco — da intendersi Ippaso, cfr. infra nota 266 —, Anassimene,
Empedocle, Crizia), o di due elementi (Parmenide, Senofane, Boeto), o di tre
(Epicuro).
255 Senocrate (396-314 a.C.), discepolo di Platone, successe a Speusippo
nella direzione delTAccademia. Accentuò l’influenza pitagorica del pensiero
del suo maestro, assimilando le idee ai numeri. Di lui ci restano solo fram­
menti: quello qui citato è il fr. 68 Heinze (= 188 Isnardi Parente).
256 O èu8£ÀéxEla- La dottrina dell’endelecheia, termine greco derivante
da en (uno) e delechos (lunghezza, sostantivo poi eliminato da mekos ), che
significa appunto un movimento continuo e perenne, professata dal primo
Aristole in una perduta opera De Philosophia, che evidentemente conserva­
va il carattere platonico-accademico ed è essenzialmente diversa da quella
esposta nel De Anima, è stata messa in luce da Ettore Bignone {IlAristotele
perduto e la formazione filosofica di Epicuro, Firenze, 1973, 2a ed. accresciu­
ta, voi. I, pp. 202 sgg.). Più nota è la più tarda dottrina aristotelica dell'ente-
lécheia, termine composto da en (in) telos (compimento) ed eichein (avere),
ossia la realizzazione della potenza, vale a dire la caratteristica propria degli
enti in atto di avere ogni propria possibilità espressa nel proprio essere,
secondo la quale l’anima è, invece, un principio immobile che ha 0 proprio
fine in se stesso ed è forma del corpo, ossia principio che determina e speci­
fica il corpo cui dà vita. Fin dal Rinascimento il termine endelecheia che si
ritrova anche nelle Tuscolane di Cicerone (I, 22) fu quindi emendato in ente-
lécheia, considerandolo un errore, e così anche una parte della tradizione
manoscritta dei Commentarii di Macrobio. Altri traduttori preferiscono atte­
nersi alla lezione della maggioranza dei manoscritti mantenendo il termine di
ÈVTEÀéxeia in luogo di èvSeàéxeicc.
257 Filolao di Crotone (seconda metà del V sec. a.C.), filosofo, astrono­
mo e matematico, fu uno dei principali esponenti della scuola pitagorica, cui
si deve la prima organizzazione sistematica delle dottrine.
258 Posidonio di Apamea (135-51 a.C.) è il maggior esponente dello stoi­
cismo del periodo, che integrò con idee platoniche e aristoteliche. Fu visita­
to da Cicerone tra il 79 e il 77 a.C. Di lui restano pochi frammenti, ma gli si
attribuisce, tra le sue 23 opere, una intitolata Sull'anima. Può essere conside­
rato la fonte principale dell 'ellenismo orientalizzato e offre molti parallelismi
con Numenio (sul quale vedi supra nota 28): come questi, tenterà di interpre­
tare la teologia trascendente di Platone in funzione dell’Oriente. Posidonio
sembra avere mescolato la mistica inmanentista dello stoicismo con elemen­
ti orientali, e, se Cicerone utilizzò senza dubbio il Protreptikos di Posidonio
ne( suo Sogno d i Scipione, Macrobio s’ispirerà quasi certamente a Numenio
per il suo commento del Sogno.
259 Molto probabilmente, Asclepiade di Prusa (130-40 a.C.) medico e
filosofo atomista che fu amico di Cicerone. Ma c’è anche un Asclepiade di
Eretria (IV-III sec. a.C), membro della scuola platonica, oppure un altro
Asclepiade egiziano, profondo conoscitore della teologia egizia, citato da
Svetonio (Augusto, 94). L’identificazione non è agevole: vi sono non meno di
una trentina di personaggi con questo nome e, anche escludendo i poeti e i
tragici, va tenuto presente che fu un nome portato da diversi medici (ossia
fisici e perciò non distinguibili dai veri e propri filosofi), che assunsero tale
appellativo come titolo onorario in riferimento all’antica famìglia degli
Asclepiadi che si dichiaravano discendenti del dio della medicina Asclepio o
Esculapio, o perché effettivamente appartenevano ad essa.
260 Ippocrate (460-377 a.C.), membro degli Asclepiadi (su cui vedi la
nota sopra, nonché la nota 135), è il celebre medico deil’antichità, cui si attri­
buisce il Corpus Hippocraticum (circa 70 testi che raccolgono l’intera produ­
zione dell’antica medicina greca, alcuni dei quali certamente non suoi), oltre
all’altrettanto famoso testo etico noto come «giuramento d’Ippocrate».
261 Eraclide Pontico (390-310 a.C.), discepolo di Platone, lo sostituì nella
guida dell’Accademia durante il suo terzo viaggio a Siracusa. Notevoli le sue
teorie astronomiche sulla centralità del sole che furono d ’ispirazione a
Copernico.
262 La testimonianza su Eraclito (VI sec. a.C.), il celebre e oscuro filoso­
fo presocratico del divenire, è dovuta ad Aristotele, L A nim a I (A), 2, 405 a
25.
263 Zenone di Cizio (333-263 a.C.), da non confondersi con Zenone di
Elea, fu il fondatore dello stoicismo ed ebbe una concezione del mondo
come materia animata.
264 Democrito (460 ca.-370 ca. a.C.) fu il fondatore del primo atomismo
greco. Anche in questo caso la testimonianza è dovuta ad Aristotele, PIAnima
I (A), 2, 404 a.
265 II peripatetico Critolao (II sec. a.C.) fu il quinto scolarca del Liceo
dopo Aristotele, succedendo ad Aristone. È ricordato da Macrobio nei
Saturnali (I, 5) per la sua eloquenza colta e armoniosa.
266 Erroneamente Macrobio attribuisce a Ipparco (un pitagorico, mae­
stro di Epaminonda, che operò intorno al 380 a.C.) la dottrina dell’anima
come fuoco e principio di tutte le cose che va invece attribuita a un altro pita­
gorico ed eracliteo, Ippaso (cfr. Aristotele, Metafisica I (A), 3, 984 a), fonda­
tore della setta degli acusmatici in opposizione a quella dei matematici.
Questi operò nella prima metà del V sec. a.C. e fu accusato di aver divulga­
to il segreto dell’iscrizione del dodecaedro nella sfera. Anche Ipparco fu
espulso dai pitagorici per aver insegnato le dottrine della scuola pubblica­
mente, rivelando l’esistenza dei numeri irrazionali, nonostante le ingiunzioni
pitagoriche, e, forse, la confusione deriva da questo fatto. L’errore di attribu­
zione si ritrova in Tertulliano e Nemesio.
267 Anassimene di Mileto (586-528 ca. a.C.) appartenne alla scuola ioni­
ca. Per lui principio di tutte le cose è l’aria, sostanza mobile, origine quindi
anche dell’anima umana, intesa come soffio vivificante.
268 Empedocle di Agrigento, attivo nel V sec. a.C., espresse la sua filosofia
in versi con notevoli punti di contatto con la dottrina orfica sul ciclo delle
nascite. Pone la sede dell’attività razionale e del pensiero, appunto, nel sangue.
269 Crizia (460 ca.-403 a.C.), personaggio dei dialoghi platonici, fu uno
dei Trenta Tiranni. Frequentò il circolo socratico, ma le sue idee e i suoi pro­
positi furono più simili a quelli dei sofisti. Anche qui il riferimento alla sua
concezione dell’anima si ritrova in Aristotele, LA nim a I (A), 2, 405 b, atte­
stato dal fr. 23 Diels-Kranz.
270 Parmenide (prima metà del V sec. a.C.) fu uno dei grandi maestri di
Elea e autore del poema didascalico in esametri Sulla natura, di cui ci resta­
no alcuni frammenti. Anche per lui il riferimento alla sua concezione dell’a­
nima si ritrova in Aristotele, Metafisica I (A), 3, 984 b.
271 Senofane di Colofone (560 ca.-470 ca. a.C.), poeta e filosofo girova­
go, secondo Aristotele fu il fondatore della scuola eleatica.
272 Boeto di Sidone fu un filosofo stoico che visse prima di Crisippo (III
sec. a.C.) e scrisse diverse opere andate perdute, tra cui Sulla Natura e Del Fato.
27} Sulla concezione di Epicuro (341-270 a.C.), il celebre filosofo fonda­
tore del Giardino e della scuola che da lui prese nome, cfr. Lucrezio, La natu­
ra delle cose, III, 269-281.
274 Da qui fino al capitolo 9 del Libro Secondo segue una lunga sezione
dedicata alla cosmografia che ebbe un gran successo al punto di circolare
separatamente dal resto dei Commentarii, come opera autonoma, talvolta
unita ad altri estratti manoscritti del medesimo tenore.
275 L’osservazione ci fa ricordare che Macrobio è anche un fine gramma­
tico, autore di un De uerborum graeci et latini diferentiis uel societatibus. La
figura retorica qui descritta è la auveovuiiia che consiste nella ripetizione e
nella ricorrenza di termini aventi lo stesso senso in espressioni diverse, siano
esse sinonimi veri e propri o tropi. Naturalmente, si tratta per lo più di equi­
valenza, non di identità perfetta di senso. Oltre a questo significato lessicale,
la sinonimia si verifica anche stilisticamente, come accumulazione pleonasti­
ca, in figure come la perifrasi, l’iperbole e l’enfasi e, in particolare la dittolo­
gia (unione di due parole complementari e simili per significato: alcune rese
fisse dall’uso e spesso memorizzatali grazie all’allitterazione: «grandi e gros­
si, come mi pare e piace»), E a quest’ultimo caso stilistico che Macrobio
pensa nel commentare l’espressione ciceroniana sidera et stella. Sulla prima
e seconda definizione di sinonimia cfr. Quintiliano, Formazione dell’oratore
Vili, 3, 16: ... cum idem frequentissime plura significent, quod synonymia
vocatur, iam sunt aliis alia honestiora sublimiora nitidiora iucundiora vocalio­
ra. Nam ut syllabae e litteris melius sonantibus clariores, ita verba e syllabis
magis vocalia, et quo plus quodque spiritus habet, auditu pulchrius. Et quod
facit syllabarum, idem verborum quoque inter se copulatio, ut aliud alii iunc-
tum melius sonet\ e Isidoro di Siviglia Etimologie II - della retorica e dialetti­
ca, 21, 6: Synonymia est, quotiens in conexa oratione pluribus verbis unam rem
significamus, ut ait Cicero (Catii. 1,8): «nihil agis, nihil moliris, nihil cogitas».
276 Ariete e Toro sono le note costellazioni corrispettive ai primi due
segni dello zodiaco. L’Ariete è l’animale alato dal vello d ’oro che trasporta via
Frisso e la sua sfortunata sorella Elle per sottrarli alle persecuzioni della
matrigna Ino. Dopo essere stato sacrificato il suo vello fu oggetto dell’impre­
sa degli Argonauti. La costellazione del Toro ha due riferimenti mitologici: il
primo è relativo al rapimento di Europa, l’altro alla vergine Io, trasformata
in giovenca. Andromeda è una costellazione molto estesa sopra gli orizzonti
della zona temperata settentrionale per buona parte dell’anno. Secondo il
mito Andromeda, figlia della regina etiope Cassiopea, espiava le colpe della
madre che aveva offeso il dio del mare, vantandosi della bellezza della figlia.
Fu legata a uno scoglio dove avrebbe dovuto essere divorata da un mostro
marino, inviato da Poseidone a devastare il regno, ma fu salvata da Perseo,
di ritorno in patria dopo aver ucciso la Gorgone Medusa, che pietrificava
chiunque osasse guardarla negli occhi. Perseo trasformò il mostro (rappre­
sentato dalla costellazione di Ceto) in pietra, mostrandogli la testa di Medusa
e poi liberò e sposò Andromeda. La costellazione di Perseo, nel cuore di una
delle più splendenti regioni della Via Lattea nell’emisfero boreale, confina a
nord con Andromeda e a sud con l’Ariete e il Toro. La costellazione rappre­
senta Perseo in cielo mentre sorregge la testa della Medusa, il cui occhio fata­
le splende ancora nella stella Algol (che in arabo significa «occhio del diavo­
lo»). La Corona Boreale (ce n’è anche una australe, ma piccola e irrilevante)
ha un nome che le deriva dalla disposizione delle sue stelle più brillanti in
forma di ghirlanda. Secondo il mito si tratta della corona di Arianna, figlia di
Minosse, re di Creta. Dioniso gliene fece dono, per conquistarla e consolar­
la dell’abbandono di Teseo, in un’isola deserta, dopo l’impresa del Labirinto,
nel quale l’eroe aveva ucciso il Minotauro ed aveva ritrovato la strada del
ritorno grazie al filo donatogli da Arianna, che egli aveva sedotta.
277 Macrobio definisce da buon grammatico la terminologia corretta
nella maniera più scrupolosa. Nell'uso classico del latino stella si applica a
una stella a sé stante e può accadere tuttavia che designi una stella che fa
parte di una costellazione, ma considerandola isolatamente e non come parte
della costellazione. Se ci si riferisce ai pianeti, il termine appare raramente da
solo, ma stellae è solitamente accompagnato da un aggettivo come precisa
Macrobio: qui erraticae (vedi anche I, 18, 4; I, 20, 5); errantes (I, 14, 26); o
ancora vagae (I, 6,18; I, 11, 10; II, 4, 8); e vagantes (I, 6, 47; I, 14, 25). Sono
tutti la traduzione del greco (doxpa) TTÀavr|Td:, che significa precisamente
astri erranti e che designa appunto i pianeti, e la spiegazione di questa deno­
minazione è data da Macrobio nel § 26 (cfr. anche I, 6, 18 e nota 104).
Quanto a sidus, che originariamente aveva significati molto diversi (quali, ad
es., stagione, giorno brumale, clima, tempo, zona, regione, cielo) dal I sec.
a.C. cominciò ad assumere in ambito poetico (Catullo, Virgilio) il significato
di costellazione, che si estese in seguito anche presso i prosatori (Igino,
Plinio, ecc.).
278 Macrobio osserva anche l’ambiguità del termine sphaera (in greco
ocpaTpa) che può designare sia la sfera solida che costituisce gli astri (stelle
e pianeti), sia la sfera concava e immobile (àirXavris) del cielo che traspor­
ta le stelle, sia le sfere ugualmente concave e trasparenti, e nel sistema tole­
maico concentriche, su cui si muovono i pianeti.
279 E il classico termine astronomico con cui s’identificano il Sole e la
Luna, per distinguerli dagli altri cinque pianeti. Oltre alla loro luminosità, da
cui il termine duo lumina , ciò che li contraddistingue è la loro dimensione
apparente, la mancanza di retrogradazione e il fenomeno delle eclissi (richia­
mato in I, 15, 10-12).
280 Proseguendo nei suoi scrupoli di grammatico Macrobio continua i
suoi appunti sull’ambiguità del lessico astronomico latino. Benché circulus
significhi sempre cerchio, circonferenza, circolo, orbis resta un termine ambi­
guo soggetto a più interpretazioni. Come segnala Macrobio, può essere sino­
nimo di circulus come di solito in Cicerone. Ma talora nello stesso autore può
designare l’orbita d’una stella o di un pianeta. Infine, come si dice in questo
stesso passo, può essere l’equivalente di sphaera in ognuno dei sensi sopra
descritti in § 23 e nota 278. Globus si applica ad ogni sfera, sia piena che cava.
281 Cicerone, Repubblica VI, 16 = Sogno di Scipione 3, 6. Anticipazione
della citazione che sarà fatta in I, 15, 1.
282 Legitimus error. Le apparenti irregolarità del corso dei pianeti nelle
loro retrocessioni (cfr. supra I, 6, 18 e infra I, 18 e nota 104) che sono delle
deviazioni rispetto al percorso circolare rappresentava un problema per l’a­
stronomia antica, che approntò una serie di espedienti matematici estrema-
mente sofisticati per intendere il moto visibile dei pianeti come somma di
pure orbite circolari. Soltanto la circonferenza rappresenta infatti il movi­
mento perfetto, poiché solo il cerchio non conosce alcuna fine e alcun prin­
cipio: in ogni istante inizia e finisce. Fu perciò elaborato un sistema comples­
so secondo il quale ogni pianeta si muoveva in un piccolo cerchio chiamato
epiciclo, il centro del quale ruotava attorno alla terra descrivendo un cerchio
perfetto. Via via che sopravvenivano delle irregolarità, si dovevano ideare
degli altri epicicli, finché tutto il sistema divenne terribilmente artificioso e
complesso, allo scopo di farlo obbedire a certe leggi. Per la spiegazione che
ne dà Macrobio vedi infra I, 18, 4-9 e in particolare nota 340.
283 Si tratta di un principio costante nell’astronomia antica: vedi nota
precedente.
284 Macrobio spiegherà in I, 21, 5-6 che la differenza dei periodi dei pia­
neti, che viaggiano tutti alla stessa velocità, dipende dalla maggiore o minor
lunghezza dell’orbita da percorrere.
285 Cicerone, Repubblica VI, 16 = Sogno di Scipione 3, 6-7 (già citato in I,
4-5). Ciò che Cicerone chiama orbis lacteus è l’equivalente di y a À a K T i o j
k ù k A o s , il circolo latteo. Questa traduzione della Via lattea, pur non essendo
rara, è meno usuale in prosa di quella di lacteus circulus, adoperato ad es. da
Plinio, ma anche dallo stesso Cicerone.
286 p er |a concezione astronomica di Macrobio i circoli celesti sono undi­
ci: il circolo latteo (l’unico ad essere un circolo reale e non teorico), lo zodia­
co (la fascia di sfera celeste che circonda l’eclittica, detto anche circolo obli­
quo perché inclinato rispetto all’equatore, descritto in § 8-9), i cinque paral­
leli (cioè l’equatore, i due tropici e i due circoli polari, come in seguito spie­
gherà Macrobio in § 13), i due coluri (su cui vedi più avanti § 14 e nota 298),
il meridiano (il circolo massimo della sfera che passa per il polo nord celeste,
per lo zenit, per il polo sud celeste e per il nadir, descritto in § 15-16) e l’o­
rizzonte (cioè il piano, perpendicolare alla verticale, che passa per l’occhio
dell’osservatore, e delimita la parte visibile della sfera locale da quella invisi­
bile, descritto in § 17-19).
287 Allusione al mito del latte colato dalle mammelle di Era, mentre nutri­
va Eracle, che produsse la striscia lattea nel firmamento. Ma numerosi erano
i miti relativi alla Via Lattea. Un’altra versione favoleggia che Eracle, avendo
succhiato più latte di quanto la sua bocca ne potesse contenere, ebbe un
rigurgito. Altri ancora, come Filone, ne facevano la traccia del passaggio di
Ercole che conduceva il bestiame di Gerione. Secondo una tradizione mitica
diversa Rea aveva presentato a Crono una pietra modellata come un bambi­
no; ma il dio invece di inghiottire l’infante, come era solito fare, ordinò alla
moglie di allattarlo. La dea, che doveva fingere di allattare un neonato, pre­
mette la pietra contro la mammella con tanta forza da far sprizzare un fiotto
di latte che si sparse nel cielo stellato disegnando la Via Lattea. Un’altra ver­
sione narrava che la Via Lattea avesse avuto origine dall’incendio suscitato in
cielo da Fetonte durante la sua folle corsa con il Carro del Sole prima che
Zeus lo fermasse con la folgore. Per altri si trattava di una ruota abbandona­
ta dal Sole. I Pitagorici, ispirandosi al mito di Fetonte, affermavano che essa
si fosse prodotta dal]'uscita del Sole da] proprio cammino; in conseguenza di
ciò esso bruciò la parte di cielo attraversata lasciando traccia evidente del suo
passaggio. Per Ovidio la Via Lattea era il percorso che gli dèi facevano per
recarsi da Zeus. Un antico racconto popolare greco narrava che la Via Lattea
era stata tracciata dalle spighe di grano lasciate cadere da Iside che fuggiva
inseguita dal gigante Tifone.
288 Teofrasto (373 ca.-287 ca. a.C.), filosofo e scienziato greco, che fre­
quentò l’Accademia, durante la vecchiaia di Platone, per poi passare al liceo
di Aristotele, di cui divenne il pupillo e suo successore nella direzione della
scuola. Macrobio, dopo aver passato sotto silenzio le spiegazioni mitiche,
non menziona tutte le numerose spiegazioni fisiche dell’origine del circolo
galattico, ma nella sua dossografia fornisce una cernita selezionatissima.
289 Su Diodoro Siculo, fisiologo e matematico contemporaneo di
Cicerone e Cesare e autore di una storia universale, vedi anche sopra nota
217.
290 Su Democrito vedi sopra nota 264.
291 Su Posidonio vedi sopra nota 258.
292 In I, 12, 1-3: la descrizione delle «porte del sole».
293 Lo zodiaco, diversamente dagli altri circoli celesti, ha una larghezza
(cfr. I, 6, 53 e nota 131) sotto l ’aspetto geometrico, e non dal punto di vista
della realtà materiale, a differenza del circolo galattico (cfr. supra nota 286).
Si attribuisce tale dimensione per segnare lo spazio entro il quale i pianeti
compiono il loro giro. Mentre il sole compie la sua orbita apparente su una
stessa linea, detta eclittica (vedi § 8-9 e nota successiva), che è per l ’appunto
la metà della larghezza dello zodiaco, gli altri pianeti si allontanano dal
mezzo dello zodiaco, per circa 6° gradi per lato secondo gli Antichi (per un
totale di 12° — in realtà circa 17°).
294 Come spiega Macrobio il nome eclittica (èkXeitttikóv) deriva da
eclissi poiché su questo circolo avvengono le eclissi (dal greco ÉKÀeiyis, man­
care, venir meno, sparire, sottinteso, della luce). L’eclittica, inclinata rispetto
all’equatore, rappresenta la circonferenza sulla sfera celeste del percorso
apparente del Sole nell’arco di un anno e le eclissi avvengono durante l’alli­
neamento di Terra, Sole e Luna.
295 p er ]a lunghezza di tale ombra cfr. I, 20, 11 sgg.
296 Virgilio, Georgiche II, 478.
297 Paralleli è la traslitterazione del greco TrapàXXr|Xoi. N el sistema
delle coordinate celesti (del tutto analogo per proiezione a quello definito
sulla Terra) i cerchi della sfera celeste perpendicolari all’asse del mondo,
ossia ai poli, sono i paralleli. Il maggiore di essi è l’equatore (qui sintetica­
mente chiamato aequinoctialis perché su di esso giacciono i due punti diame­
tralmente opposti degli equinozi), gli altri cerchi paralleli a questo sono i due
polari, settentrionale e australe e i due tropici. N ell’astronomia geocentrica
l ’equatore celeste era definito come il luogo dei punti della sfera celeste equi­
distanti dai poli celesti. Macrobio, in questo passo, si attiene ad un’enumera­
zione di questo reticolato, senza darne una spiegazione.
298 Coluro è infatti un calco del termine greco KÓXoupoj «senza coda»,
composto di KÓXo$ «mutilato» e o ù p a «coda». I coluri sono i due circoli di
declinazione che passano l ’uno per i due equinozi e l’altro per i due solstizi,
marcando con la divisione dell’equatore e dello zodiaco le quattro stagioni
dell’anno. Secondo Proclo (De Sphaera 10) sono così denominati perché
sembrano aver la coda tagliata in quanto se ne vede solo una parte nell’oriz­
zonte dell’emisfero visibile.
299 Meridianus (circulus) è il calco del greco UEar)|i(3pivo$ (kùkXos).
Sempre nel sistema delle coordinate celesti proiettabili sulla Terra il meridia­
no è il circolo massimo passante per i poli celesti e per i punti detti zenit e
nadir di un dato luogo (punti opposti d’intersezione della verticale del luogo
con la volta celeste, rispettivamente superiore e inferiore).
300 Horizon è traslitterazione del greco ópi^cou (kùkXos). D ell’orizzonte
si possono dare due definizioni: a) l’orizzonte vero o celeste o astronomico,
ossia l’intersezione del piano tangente al luogo d’osservazione con la sfera
celeste o, in altri termini, il grande cerchio celeste che passa per il centro
della sfera e il cui piano è perpendicolare al meridiano di un dato luogo, deli­
mitando così la sfera in due emisferi di cui uno è teoricamente visibile, detto
anche orizzonte razionale; b) l’orizzonte visibile ossia il circolo che termina
intorno alla nostra vista e delimita la porzione di cielo visibile al di sopra
della terra, tanto più vasto quanto più è alto il punto d’osservazione.
Macrobio fornisce entrambe le definizioni, senza darne ulteriori spiegazioni.
301 Verosimilmente Macrobio si riferisce allo stadio di Eratostene, equi­
valente secondo alcuni studiosi a 157, 5 m e, secondo altri, a 185 metri. La
misura di lunghezza, il cui nome coincide con quello degli spazi dedicati alle
corse, alle gare di lotta e pugilato proprio perché erano lunghe uno stadio,
era comunque variabile a seconda delle località e mutò anche nel tempo.
Nell’epoca di Macrobio il più diffuso era quello detto «filiteriano», introdot­
to dagli Antonini, che corrispondeva ai nostri 210 metri.
302 Macrobio ripete questa stessa asserzione in Saturnali VII, 14, 15.
L’orizzonte visibile, sulla base dello stadio di Eratostene, dovrebbe quindi
variare a un dipresso tra i 28 e i 33 km (che raddoppiati danno una cifra di
circa 56/66 km. Cfr. nota seguente). In realtà per un uomo di statura media
è visibile, sul livello del mare, fino a 4, 5 km e solo a un’altezza di 100 m
diventa visibile fino alla distanza di 36 km.
303 E stato notato come l’espressione di Macrobio non sia particolarmen­
te chiara. In rotunditatem designa verosimilmente la sfericità della terra e si
collega a accessu deficiens, ossia al fatto che la curvatura della terra impedisce
allo sguardo di procedere oltre. Sembrerebbe dunque che l’osservatore giun­
to al limite dell’emisfero visibile, si volti e osservi il punto opposto a quello di
partenza. Resta tuttavia sorprendente l’uso dell’espressione verbale curuatur
nel senso di vertitur. Se si considera che effettivamente la rifrazione atmosfe­
rica influenza il raggio visuale dell’osservatore curvandolo e allungandone la
portata ci si è chiesti se Macrobio non alluda proprio a questo fenomeno.
304 Cicerone, Repubblica VI, 16 = Sogno di Scipione 3, 7. Macrobio nel
successivo § 7 non lascia alcun dubbio sul fatto che Scipione stia parlando
delle stelle vicine al Polo Sud, che non erano state mai osservate dai Romani,
ma la cui conoscenza poteva provenire da un’antica tradizione che si era tra­
smessa al suo tempo. Probabilmente il passo ispirò i versi di Dante Alighieri
(Purgatorio I, 22-27): I ’ m i volsi a man destra, e puosi mente / a l’altro polo, e
vidi quattro stelle / non viste mai fuor eh'a la prima gente. / Goder pareva 7
d e l di lor fiammelle: / oh settentrional vedovo sito, / poi che privato se’ di
mirar quelle!
305 I n i, 4,4-5.
306 Probabile allusione alla teoria di Cratete di Mallo che sarà illustrata
in 11,5, 13-17 e 27-36.
307 II fatto che la sfera celeste giri da est a ovest, e non da occidente a
oriente, non modifica in un luogo dato la delimitazione dell’orizzonte cele­
ste, di cui qui si tratta (cfr. sopra I, 15, 17 e nota 300). Macrobio vuol signi­
ficare che l’asse del movimento celeste è immutabile. Tuttavia non tiene
conto della precessione degli equinozi che illustrerà in I, 17,16-17 e non pre­
cisa neppure che le stelle visibili non sono le stesse a seconda della latitudi­
ne dell’osservatore, come aveva spiegato nella sua definizione di orizzonte. E
dunque implicito che, commentando il testo di Cicerone, vuole significare
che ragiona partendo dalla latitudine di Roma o meglio da quella della
Numidia dove si ritiene si sia svolto il sogno.
508 I septem triones, cioè secondo l’antica etimogia di Varrone (Lingua
Latina VII, 74) i sette buoi da lavoro o meglio i sette buoi per l’aratura, sono
le sette stelle dell’Orsa Maggiore o Gran Carro, perché presentano la figura
di sette buoi aggiogati a un carro, stelle che con il loro lento regolare e mae­
stoso giro attorno al polo richiamavano alla memoria l’aratura dei campi. E
noto che per la precessione degli equinozi il polo nord celeste si trovava anti­
camente in una zona vuota tra le due Orse.
309 Virgilio, Georgiche I, 246. Essendo le Orse costellazioni circumpolari
(cfr. nota precedente) nella latitudine europea non sorgono né tramontano,
ma sono sempre visibili, non scomparendo mai daU’orizzonte. L’immagine
da Omero in poi (Odissea V, 275) divenne un topos letterario destinato a cre­
scere progressivamente (Arato, Ovidio, Igino, Avieno).
310 Virgilio, Georgiche I, 242-243.
311 Che la Terra non è che un punto in proporzione all’estensione degli
spazi celesti era un’idea fondamentale nel sistema geocentrico, o meglio geo­
statico, degli Antichi. In seguito Macrobio preciserà che è un punto immo­
bile al centro dell’universo (cfr. I, 22, 3 e infra nota 414).
312 Da Aristotele in poi era noto che la Terra era molto più piccola di
molte stelle. In seguito per Manilio e Cleomede tutte le stelle sono più gran­
di della Terra.
313 Traduciamo letteralmente il termine latino fax con face, con cui si
indicano le stelle e gli astri, e non con fiaccola, perché si tratta di un vocabo­
lo, anche nella letteratura classica latina, quasi esclusivamente usato in poe­
sia e che anche nella letteratura italiana diventerà una metafora usuale per
indicare le stelle. In questo passo Macrobio allude ad Epicuro che afferma­
va (Lettera a Vitocle 91): «... la grandezza del sole, della luna e degli altri
corpi celesti, relativamente a noi, è tale quale appare», seguito da Lucrezio
(La Natura delle cose V, 555-556): «Né la ruota del sole può essere molto
maggiore, / né il suo calore molto minore di quel che appare ai nostri sensi»;
e ancora che i fuochi che scorgiamo sulla terra (ibidem 577-578): «si può con­
cludere che di pochissimo possono essere minori / di come ci appaiono o
d’un’esigua e breve parte maggiori».
314 Cfr. supra § 6 e nota 311.
315 Cfr. infra I, 20, 30-31. In realtà la misura angolare del diametro appa­
rente del Sole ha un valore medio di 31’ 59” (con valori oscillanti fra 31’ 31”
e 32’ 36”) secondo la distanza Terra Sole nel loro perielio e afelio. Non si
capisce bene da dove Macrobio abbia ricavato la misura angolare di 1° 40’,
nettamente superiore a quella reale. Alcuni studiosi, osservando che Macro­
bio, nel successivo capitolo 20 (dove spiegherà anche i dati sulla dimensione
del sole rispetto alla sua orbita e rispetto alla terra), attribuisce agli «Egi­
ziani» la misura del diametro apparente del sole, hanno proposto che si trat­
ti di un’errata interpretazione degli astronomi alessandrini, dato che la misu­
ra di 1° 40’ è quella che Tolomeo attribuisce al diametro del cerchio d ’om­
bra della terra sulla luna. In ogni caso la misura è assai distante da quella for­
nita da altri astronomi e commentatori antichi, quali Anassimandro (4°),
Archimede (54’/45’), Aristarco (30’), Posidonio (29’), Cleomede (28’ 48”),
Tolomeo (33’ 20”), Marziano Capella (36’). L’unico valore a cui si avvicina è
quello di 2° che Aristarco (attivo tra il 280 e il 264 a.C.) in un’opera giovani­
le, Sulla grandezza e la distanza del Sole e della Luna, attribuì al diametro
apparente del sole per poi in seguito formulare un valore più accurato e
approssimativamente esatto.
316 In I, 19, 9-10.
317 Cicerone, Repubblica VI, 17 = Sogno di Scipione 4, 1-3.
318 L’espressione quidam, «alcuni» utilizzata da Macrobio è estremamen­
te restrittiva se si tiene presente che la formula t ò Tràv per definire l’univer­
so è già ampiamente utilizzata dai presocratici, è presente fin da Platone nella
tradizione platonica e neoplatonica per non parlare dello stoicismo.
319 Virgilio, Eneide VI, 727.
320 Cfr. Platone, Fedro 245 c e Timeo, 36 e.
321 Macrobio, com’è solito fare, fornisce lo schema della sua prossima
esposizione, che occuperà tutto il Libro Primo da qui fino alla fine. Tratterà,
uno dopo l’altro, i seguenti argomenti: la rotazione del cielo delle stelle fisse
(I, 17, 8-17); il movimento dei pianeti (I, 18); l’ordine delle sfere planetarie
(I, 19, 18-27) aggiungendovi alcune osservazioni astrologiche (I, 19, 18-27) e
un’esposizione specifica sul sole (un chiarimento degli epiteti con cui
Cicerone qualifica il sole: I, 20, 1-8; il suo diametro: I, 20, 9-32); il movimen­
to che fa gravitare i corpi pesanti sulla terra (I, 22).
322 p er dimostrare il movimento del cielo Macrobio ricorre ad argomen­
ti ontologici e non astronomici. La sua fonte è Plotino, Enneadi II, 2, men­
zionato al § 11. E il trattato dal titolo II movimento circolare di cui adatta libe­
ramente il testo, scompigliandone l’ordine ma conservandone i concetti chia­
ve e i passaggi logici, dando prova, come è stato osservato, di una sapienza
consumata di traduttore. Per l’inizio di questo § 8 cfr. Plotino, Enneadi II, 2,
1, 1-4.
323 II cielo ha un movimento circolare eterno, in quanto ha ricevuto que­
ste qualità dal suo creatore, cioè l’Anima, vale a dire la terza ipostasi (cfr. §
12), anch’essa sempre in movimento come Macrobio dimostrerà in II, 13-16.
La nozione che il movimento del mondo sia dovuto all’anima cosmica risale
a Platone (Timeo, 36 e). Ne II Cielo, Aristotele si confrontò polemicamente
con la cosmologia pitagorico-platonica che postulava l’azione di cause intel­
ligenti, quali il Demiurgo e l’Anima. Aristotele si propose invece di spiegare
la costituzione e il movimento del cielo sulla base di principi rigorosamente
fisici: gli astri sono corpi naturali, per quanto nobili e perfetti, e come tali
hanno in sé il principio del movimento. L’etere, di cui sono formati il cielo e
gli astri, è per natura dotato di un movimento. Gli astri non si muovono libe­
ri intorno alla Terra, ma stanno incastonati sulle sfere. Sono le sfere che ruo­
tano, trascinando con sé i pianeti, i quali sono come dei nodi o ispessimenti
della sostanza eterea delle sfere, il cui movimento risulta comunque dall’azio­
ne di un primo motore immobile.
324 Cfr. Plotino, Enneadi II, 2, 1, 23-25 e 27-30.
325 Cfr. Plotino, Enneadi II, 2, 1, 45-49.
326 Si è qui osservato da parte di Macrobio un elaborato tentativo d’adat­
tamento del testo ciceroniano alla filosofia neoplatonica e alla sua dottrina
delle tre ipostasi, per la quale il dio supremo non può che essere la prima ipo­
stasi e non v’è ragione d'identificarlo a una realtà materiale, fosse anche la
sfera celeste. Anche in questo caso Macrobio si trae d’impaccio da questo
passo difficile grazie a una interpretazione acrobatica di summus e di deus. In
Cicerone, come nella maggior parte degli stoici, il summus deus, la divinità,
è l’etere, identificato con il cielo. Ma è consuetudine degli stoici usare meta­
fore organicistiche: come l’uomo è una sola realtà, nella quale però distin­
guiamo un elemento passivo, il corpo, e un elemento attivo che muove e che
comanda (perciò detto egemonico) l’anima o l’intelletto, così anche «il
mondo si regola secondo intelletto e provvidenza... L’intelletto compenetra
ogni sua parte, come in noi l’anima... Anche il mondo nella sua totalità è un
animale, animato e razionale, che ha nell’etere il proprio egemonico» (Dio­
gene Laerzio, Vite deifilosofi VII, 138-139). Del resto, la nozione di etere che
la filosofia indù considera il principio primo e originario ha una lunga storia
nella civiltà occidentale. Introdotto dai pitagorici, presente nei presocratici,
specialmente in Parmenide, è il suo allievo Zenone, fondatore dello stoici­
smo, che come ricorda Cicerone (La natura divina 1,36) identifica l’etere con
la divinità; l’etere è inoltre accennato da Platone nel Timeo e nelYEpinomide
e la «quinta combinazione» sarà in seguito sviluppata dai platonici e sfrutta­
ta da Aristotele.
327 Nei Saturnali (I, 18, 15) Macrobio ripete lo stesso concetto: «E per
mondo [i fisici] intendono il cielo, che chiamano Giove». E noto che il tema
originale dell’etimologia di Zeus, di Giove, come del resto del nostro termi­
ne dio, designa lo splendore, la luce, il giorno luminoso e il cielo. La paren­
tela etimologica tra lovis e dies era nota ai Romani (Varrone, op. cit. V, 66).
Nella religione arcaica romana il Giove primitivo altro non è che quanto
significa tale nome e proprio perciò Giove è innanzitutto signore del cielo.
Cicerone nel suo dialogo sulla Natura divina (II, 65) presta all’interlocutore
stoico, Quinto Lucio Balbo, una citazione del Tieste di Ennio («contempla
questo splendore in alto che tutti chiamano Giove») e la traduzione di un
passo di Euripide («tu vedi l’etere che si estende su in alto per uno spazio
incommensurabile / e che cinge del suo tenero abbraccio la terra: / lui devi
considerare come dio supremo, lui invocare col nome di Giove»).
328 È stato osservato che con il termine theologi i neoplatonici indicava­
no gli autori degli oracoli orfici e caldaici. È pero anche vero che con il ter­
mine si indicavano anche i cultori di quella branca della filosofia che si occu­
pava delle cose divine e in questo senso, dunque, anche Platone è un teolo­
go. Macrobio, d ’altra parte, ha già utilizzato questo termine in I, 14, 5 per
designare i filosofi neoplatonici, e in particolare Plotino (cfr. sopra nota 239).
Quest’ultimo afferma nelle Enneadi (V, 1, 7) che i misteri e i miti degli dèi
con Urano, Crono, Zeus alludono alle tre ipostasi (rispettivamente l’Uno,
l’intelletto, l’Anima cosmica). L’assimilazione di Zeus all’Anima del mondo
ha una storia più antica, tanto che si ritrova già nello stoico Crisippo (circa
281-204 a.C.) e tuttavia tra stoici e neoplatonici vi è una differenza fonda-
mentale: mentre tra i primi l’Anima del Mondo, cioè Zeus, occupa il grado
supremo, nell’allegoria plotiniana Zeus segue Urano e Crono come nella teo­
gonia esiodea e da quest’ultimo è generato.
329 Virgilio, Bucoliche III, 60.
330 II riferimento è alle prime parole del poema astronomico fenom eni di
Arato di Soli (circa 315-240 a.C.): «Cominciamo da Zeus». Macrobio nei Sa­
turnali (I, 18, 15), riferendosi ai fisici, le cita in originale: mundus autem voca­
tur caelum, quod appellant Iovem: unde Aratus de caelo dicturus ait ’Ek Aiòs
àpxcóneaOa («e per mondo intendono il cielo che chiamano Giove: perciò
Arato volendo parlare del cielo dice cominciamo da Zeus»), Le prime parole
del poema ellenistico, riduzione in versi delle opere astronomiche di Eu-
dosso di Cnido (tradotto in latino da Varrone Atacino, Cicerone, Germanico
e Avienio), sono citate e tradotte da molti autori latini (oltre a Virgilio ricor­
dato da Macrobio, fra gli altri Ovidio, Valerio Massimo, Quintiliano, Stazio)
tanto da divenire una tipica locuzione latina: A b love principium.
331 Allusione alla paronimia, in greco, tra 'H pa e ccrjp. L’identificazione
di Era-Giunone con l’aria, sulla base di questa etimologia popolare, che si
ritrova in Parmenide, Em pedocle e Platone, ripresa e resa popolare poi dagli
stoici, da Cicerone e da Servio, fu assai diffusa nella tradizione platonica
(Plutarco, Porfirio, Salustio, Marziano Capella, Lido) e citata da molti scrit­
tori della latinità cristiana (Tertulliano, Arnobio, Firmico Materno, Agosti­
no). Macrobio anche nei Saturnali (I, 15, 20; 17,54; III, 4, 8) accenna diverse
volte, più o meno direttamente, alla sua associazione con l’aria e quindi alla
sua personificazione allegorica dell’atmosfera. Era-Giunone è dunque l’aria,
mentre Zeus-Giove è il firmamento (l’etere degli Antichi); fratello e sorella a
causa della loro prossimità e sposi perché il firmamento è superiore all’aria
come il marito alla donna (Servio I, 47). Favonio Eulogio {op. cit. VI, 2) attri­
buisce ai theologi l’idea che sotto il mito la condizione di soror e coniunx di
Giunone adombrasse l’unione della diade alla monade/Giove.
332 Per le stelle fisse era semplice per gli Antichi postulare l’esistenza di
una sola sfera dotata di una rotazione diurna, circolare e uniforme. Le stelle
venivano considerate fisicamente incastonate (infixus è l’aggettivo utilizzato
da Macrobio che traduce il greco Èv5e|jèvos) nella sfera celeste. Non presen­
tano variazioni nei loro punti di levata o di tramonto e non sembrano cam­
biare posizione tra esse. Per l’osservatore sembrano essere portate dal movi­
mento della sfera del cielo e non avere un loro movimento proprio. Durante
l’apparente moto diurno delle stelle fisse da est a ovest due soli punti del
cielo, tra loro antipodici, erano ritenuti immobili: i poli celesti nord e sud. La
sfera celeste sembra quindi ruotare su se stessa attorno ad un asse passante
per i poli, l’asse celeste. Solo Ipparco e, in seguito a lui, Tolomeo attenuaro­
no questa rigida concezione dotandole di un pur lentissimo moto proprio:
cfr. nota seguente.
333 La tesi a cui va, con tutta evidenza, la simpatia dell’autore è quella
della precessione degli equinozi. Il fenomeno celeste è lo spostamento verso
occidente del punto vernale, ossia il punto d’incrocio dell’eclittica coll’equa­
tore celeste al momento dell’equinozio di primavera. Questo spostamento fu
notato per la prima volta da Ipparco nel 129 a.C. Confrontando osservazio­
ni distanti tra loro un secolo e mezzo circa, Ipparco si rese conto che l’asse
celeste era cresciuto di due gradi. Nella rappresentazione geocentrica, il Sole
si muove lungo l’eclittica, compiendo un giro completo nell’arco di un anno.
Due volte all’anno, all’equinozio, la durata del giorno è uguale a quella della
notte, e il Sole sorge esattamente ad est e tramonta esattamente ad ovest.
L’astronomo di Nicea concluse che l’intersezione che indica l’equinozio si
spostava lentamente in avanti, lungo l’eclittica, e chiamò questo movimento
precessione degli equinozi. Occorrono circa 26.000 anni per compiere un
giro completo. Nei tempi antichi, l’intersezione che indica l’equinozio di pri­
mavera si trovava nella costellazione dell’Ariete, e per questo motivo l’inter­
sezione talvolta è chiamata ancora il punto vernale delPAriete. Il lavoro di
Ipparco fu utilizzato successivamente nel II sec. d.C. da Tolomeo per l’ela­
borazione della sua teoria cosmologica.
334 Per spiegare la precessione degli equinozi (dovuta, come oggi sappia­
mo, al movimento a doppio cono dell’asse terrestre) l’astronomo alessandrino
Tolomeo (cfr. nota precedente) suppose che, al di sopra della sfera stellata, ve
ne fosse una nona: la sfera cristallina o Primum Mobile, che ruotava in dire­
zione opposta all’ottava e che faceva aumentare ogni anno di cinquanta secon­
di la longitudine di tutte le stelle. Qualche commentatore moderno ritiene che
Macrobio qui alluda a questo sistema con la sua distinzione tra caelum, sfera
delle stelle fisse, e un’altra sfera che l’ingloberebbe, extimus globus.
335 Macrobio farà un altro accenno al moto delle stelle fisse nel cap. 11
del Libro Secondo, identificando il Grande Anno con il ciclo della precessio­
ne degli equinozi, ossia l’intervallo di tempo impiegato dal punto vernale per
compiere un giro completo dell’eclittica, che Macrobio stima in 15.000 anni
(cifra molto lontana dalla realtà che è pari a circa 26.000 anni): cfr. note 165-
167 del Libro Secondo.
336 Questo capitolo è dedicato alla dimostrazione del movimento dei pia­
neti, negato da persone dall’intelligenza limitata (§ 2-3). Lo schema raziona­
le ed elegante, è fornito, come spesso accade, dallo stesso Macrobio in § 4:
dimostrazione del movimento dei pianeti (§ 5-6); dimostrazione del loro
movimento da occidente a oriente (§7-19), deducendolo dal moto della luna
(§ 8-11) e del sole (§ 12-18).
337 Cfr. I, 6, 18; I, 14, 25 (legitimus error) e relativa nota 282.
338 Macrobio semplifica molto il problema, trattando contemporanea­
mente il movimento dei due luminari e quello dei cinque pianeti visibili.
Infatti se nella rappresentazione geocentrica il movimento del sole e della
luna non sembra avere altro che i due movimenti combinati qui descritti da
Macrobio, diverso e più complesso è il caso dei cinque pianeti che sembra­
no muoversi da est ad ovest su base notturna (in realtà come conseguenza
della rotazione della Terra), ma che hanno anche un loro moto diretto verso
oriente e alternano a questa loro lenta progressione stazioni e moti retrogra­
di. Come già fatto in I, 6, 18 Macrobio parte da una concezione popolare e
rudimentale dei movimenti planetari, che non spiega il moto che, nel model­
lo geocentrico, faceva viaggiare i cinque pianeti in sofisticati epicicli e defe­
renti.
339 II moto apparente dei pianeti che avviene in senso inverso a quello
abituale delle stelle verso occidente, veniva spiegato dai peripatetici non
come moto retrogrado, ma come una progressione più lenta rispetto alla
rotazione della sfera celeste: è la teoria cosiddetta del «ritardo», ricordata da
Marziano Capella ed esposta da Gemino e Cleomede. Anassagora,
Democrito e Cleante ritenevano che tutti gli astri, indistintamente, si muo­
vessero da oriente verso occidente. Sono probabilmente i numerosi doctrina
initiati che non comprendono ciò che per Macrobio è evidente.
340 Macrobio non spiegherà in nessuna parte della sua esposizione la sofi­
sticata meccanica celeste, escogitata dai fisici a partire da Aristotele e dagli
astronomi fino a Tolomeo, che dimostrava la combinazione dei due movi­
menti inversi attribuiti ai pianeti. La riproduzione di queste irregolarità era
spiegata con gli epicicli, orbite circolari su cui il pianeta si muove di moto
uniforme. II centro dell’epiciclo si muove a sua volta, sempre di moto unifor­
me, su un’orbita circolare detta deferente. Anche se del tutto privo di senso
fisico, il sistema tolemaico geocentrico, costituiva una convincente grandio­
sa costruzione geometrica, capace di rappresentare in modo completo, par­
ticolareggiato ed anche quantitativo, tutti gli aspetti del cielo e di prevedere
il corso dei pianeti. Il metodo tolemaico era, comunque, estremamente com­
plicato: erano necessari, in qualche caso, fino a 33 epicicli su epicicli per
descrivere le più piccole irregolarità osservate nel moto dei pianeti. La sua
complessità spiega perché Macrobio non vi si addentri e si limiti a spiegazio­
ni rudimentali.
341 Vergiliae era, presso i Latini, la denominazione corrente del raggrup­
pamento di stelle chiamato dai Greci Pleiadi. Secondo il mito rappresentano
Atlante, Pleione e le loro sette figlie e sono un gruppo di stelle, avvolte in una
nebulosa, nella costellazione del Toro. Le Iadi sono una parte di questo
ammasso stellare e sono appunto le sette figlie di Atlante, trasformate in stel­
le da Zeus a causa del loro pianto per la morte del fratello Iade. Orione, che
trae il nome dal bellissimo cacciatore di cui esistono vari miti sulla causa della
sua sistemazione in cielo, è una grande costellazione equatoriale. Le Orse
(vedi anche supra nota 308) sono due costellazioni dell’emisfero boreale
verso il polo artico: entrambe composte di sette stelle, la Maggiore è detta
anche «Gran Carro», la Minore ha come ultima stella quella Polare. Il
Dragone (Macrobio, come Manilio, lo chiama più letteralmente Serpente,
Anguis, traduzione del greco "Oqng, mentre Vitruvio utilizza l’equivalente
vocabolo latino Serpens), la cui origine mitologica è molto controversa, è
un’altra costellazione molto vasta vicina alle due Orse. I più lo identificaro­
no con il mostro metà donna e meta serpente posto a guardia del giardino
delle Esperidi. Non essendo riuscito a impedire l’ingresso di Eracle, per il
suo fallimento fu messo eternamente in cielo a guardia del Polo Celeste.
342 Cfr. sopra note 337-339: Macrobio tratta con approssimazione il moto
dei pianeti, basandosi solo sull’osservazione della luna (e del sole) per dimo­
strare la regola nel modello geocentrico del movimento ben più complesso
degli altri pianeti.
343 La Bilancia è una costellazione di creazione relativamente recente.
Completamente sconosciuta in Grecia ad Arato (cfr. sopra nota 330), che nei
Fenomeni aveva fissato l’iconografia stellare sin dal II secolo a.C., come ad
Eudosso, era parte del suo vicino, lo Scorpione, e ne rappresentava le pinze
o chele. A Roma, invece, la Libra, Bilancia, è attestata già in Varrone e Ni­
gidio Figulo e fece fortuna come costellazione autonoma, lanciata in modo
definitivo da Virgilio nelle Georgiche, che descrisse il ripiegamento su se stes­
so dello Scorpione per lasciare posto al nuovo segno sotto cui era nato il divo
Ottaviano Augusto (IX Calenda di ottobre, corrispondente al 23 Settembre
del 63 a.C.). Bilancia, più che Chele come veniva indifferentemente chiama­
ta, sembrò nome più appropriato, considerando anche l’equilibrio tra giorno
e notte dell’equinozio d’autunno.
344 II Cane è il nome di due costellazioni dell’emisfero boreale: il
Maggiore ha come stella principale Sirio; il Minore, Procione (dal greco
«prima del cane», perché sorge prima del Cane Maggiore). Secondo alcuni
miti sono i cani del cacciatore Orione.
345 Virgilio, Georgiche I, 217-218. Auerso perché la testa del Toro è gira­
ta verso est, al contrario degli altri segni e quindi pare affrontare il Cane che
lo segue.
346 Macrobio sente forse il bisogno di giustificarsi per aver scelto come
punto di riferimento il tramonto del sole piuttosto della sua levata, perché
Gemino (circa 130-70 a.C.) nella sua Isagoge ai Fenomeni (XII, 5-10) per
procedere alla stessa dimostrazione utilizza come punto di riferimento le
costellazioni che sorgono prima del sole, probabilmente il metodo d ’osserva­
zione più usuale.
347 Cfr. supra § 2 e note 336-339.
348 L’esposizione dell’ordine delle sfere è trattata nei § 1-18. Lo schema
è il seguente: descrizione dell’ordine «caldeo» ed «egiziano» (§ 1-2); proble­
mi posti da Venere e Mercurio (§ 3-5); rispettive posizioni del sole, di
Mercurio e di Venere (§ 6-7); posizione e luminosità della luna (§ 8-13); posi­
zione «nel mezzo» del sole (§ 14-17). Segue un’esposizione astrologica (§ 18-
27): attribuzione di ciascun pianeta a una divinità (§ 18); spiegazione della
natura benefica o malefica dei pianeti secondo Tolomeo (§ 19-27).
349 Archimede (287-212 a.C.) fu tra i maggiori matematici e fisici della
storia. Cicerone riferisce che, dopo la conquista di Siracusa, ove Archimede
morì, il console romano Marcello aveva portato a Roma un globo celeste e
un planetario da lui costruiti.
350 Macrobio cerca di conciliare l’ordine dei pianeti, dato da Cicerone
nel Sogno , cosiddetto «caldeo» con quello cosiddetto «egiziano» riportato da
Platone, su cui vedi sopra note 198 e 219. Comunque nel corso dei Com­
mentarii Macrobio si contraddice. Nel capitolo 12 segue l’ordine «caldeo»,
mentre qui pone Mercurio tra il Sole e Venere e perciò con un ordine diver­
so da quello di Platone in Timeo 38 d che invece proporrà nel seguente capi­
tolo 20 e nel capitolo 1 del Libro II, dove pone Venere prima di Mercurio.
In realtà, nell’antichità, anche tra i seguaci dell’ordine «egiziano» vi erano
delle differenze sull’ordine di successione di pianeti. In questo capitolo
Macrobio sembra seguire l’ordine che veniva attribuito ad Eratostene e adot­
tato da Marziano Capella. Il punto è che, mentre la disposizione dei pianeti
cosiddetti superiori (Marte, Giove, Saturno) è facile da stabilire con la sem­
plice osservazione e vi è un consenso generale sulla vicinanza della luna alla
Terra, Mercurio e Venere creavano problemi, come illustra Macrobio nel §
5, perché la loro durata di rivoluzione è abbastanza simile a quella apparen­
te del Sole, dal quale non sembrano mai allontanarsi troppo, donde l’esisten­
za dell’ordine «caldeo» Luna, Mercurio, Venere, Sole, ecc, (e della sua
variante Luna, Venere, Mercurio, Sole, ecc.). Quest’ordine attribuito a
Pitagora e ai Pitagorici, ad Archimede, o più comunemente, come qui, ai
Caldei, fu anche quello adottato dagli astronomi Ipparco, Gemino,
Cleomede e Tolomeo e nel mondo romano in cui forse fu introdotto da
Posidonio. Cicerone lo segue nel Sogno e anche Macrobio, come si è detto,
in I, 12, 14.
351 La teoria presentata da Macrobio nei seguenti § 6-7 è quindi attribui­
ta agli Egiziani, come ripete nel § 5. In realtà, come vedremo {infra nota 355)
si tratta della teoria semi-eliocentrica di Eraclide di Ponto.
3521 dati forniti da Macrobio sono ovviamente approssimati, ma concor­
dano con larga parte della manualistica dell’antichità greco-romana. I perio­
di siderali, vale a dire il tempo per ritornare nello stesso punto dello zodia­
co, di Saturno, Giove, Marte e la Luna sono abbastanza esatti (rispettivamen­
te 29 anni e 167 giorni; 11 anni e 315 giorni; 1 anno e 322 giorni e 27, 3 gior­
ni per la Luna - ma il suo mese sinodico è di 29,5 giorni); meno esatti i dati
su Venere e Mercurio che secondo Macrobio compirebbero la loro rivoluzio­
ne in circa 1 anno, mentre il loro periodo siderale è, rispettivamente, di 224,
70 giorni e 87, 97 giorni.
353 Nell’antica astronomia geocentrica, dove i moti avvenivano attorno
alla Terra immobile, si misuravano come abbiamo veduto (cfr. nota prece­
dente) periodi siderali simili agli odierni per i tre pianeti cosiddetti superio­
ri al Sole (che oggi noi chiamiamo esterni all’orbita terrestre) allora noti per­
ché visibili ad occhio nudo: Marte, Giove e Saturno. Risultavano invece
diversi i periodi siderali di Mercurio e di Venere. I due pianeti cosiddetti
inferiori - che oggi chiamiamo interni - mostravano di non allontanarsi mai
troppo dal Sole e apparivano perciò condividerne il moto siderale annuo. La
massima elongazione, ovvero la loro massima distanza angolare dal soie, veni­
va arrotondata dagli Antichi per Venere a due segni, ossia 60° (48° in realtà),
e per Mercurio a un segno, ossia 30° (in realtà 28°). Tenuto conto che la loro
elongazione minima è per il primo pianeta di 45° e per il secondo di 18°, è
notevole la precisione di Plinio (Storia Naturale, II, 38 e 39) che dà per
Venere 46° e per Mercurio 22°, derivata quasi certamente dall’astronomo
alessandrino Sosigene (metà del sec. I a.C.) che, secondo Plutarco, fu tra gli
scienziati consultati da Cesare per l’elaborazione del suo nuovo calendario,
basato sull’adozione dell’anno solare di 365 giorni con l’aggiunta quadrien­
nale di un altro giorno e introdotto nel 46 a.C. (lo stesso Macrobio, nei
Saturnali, ci dice che l’anno precedente alla riforma fu annus confusionis ulti­
mus-. infatti fu un anno di 455 giorni!).
354 Per la durata della rivoluzione lunare cfr. sopra I, 6, 49-50 e nota 128.
355 Quasi tutti i commentatori moderni sono concordi nel riconoscere
qui la teoria semi-eliocentrica di Eraclide Pontico (vedi supra nota 261), cita­
to da Macrobio in I, 14, 19. Poiché non si poteva ignorare che Venere e
Mercurio non riuscivano a scostarsi mai più di tanto dal sole e quindi, salvo
brevi digressioni ad oriente e ad occidente di esso, erano obbligati ad appa­
rire perpetuamente congiunti, egli interpretò l’ossequenza al Sole di quei due
pianeti, attribuendo ad essi la qualità di satelliti del sole, ruotanti attorno al
sole, anziché attorno alla Terra, mentre il Sole e gli altri pianeti ruotavano
attorno alla Terra, che egli poneva al centro del mondo. Inoltre, per dar
conto dell’apparente rotazione diurna della sfera celeste, avanzò per primo
l’ipotesi che la Terra ruotasse attorno al proprio asse. La teoria semi-eliocen­
trica, di probabile derivazione pitagorica, fu nell’antichità lasciata cadere,
pur abbozzando l’ipotesi eliocentrica che sarà poi quella di Aristarco di
Samo. Nessun suo scritto scientifico ci è giunto; la teoria di Eraclide è atte­
stata per la prima volta da Vitruvio (I sec. d.C.), il famoso architetto e inge­
gnere romano, che lo cita (Architettura IX, 1, 6) in una lista di personaggi cui
si devono invenzioni e risultati di particolare importanza per lo sviluppo
delle scienze e della tecnica. Riappare in Teone di Smirne e nello storico lati­
no Calcidio (Commento al Timeo di Platone CIX-CXI) che afferma che
Eraclide fu il primo a sostenere la teoria dei moti di Mercurio e Venere intor­
no al Sole, pur mantenendo questo il suo moto intorno alla Terra, come pure
in Marziano Capella {Il matrimonio di Filologia e Mercurio V ili, 854 e 857).
Questa particolarità di considerare Mercurio e Venere orbitanti attorno al
Sole percorrerà tutto il Medioevo, riaffiorando qua e là, pervenendo infine a
Tyco Brahe e a Copernico, che citerà Eraclide di Ponto come uno dei suoi
precursori. Macrobio utilizza ingegnosamente la teoria semi-eliocentrica per
conciliare l’ordine «caldeo» con quello «egiziano», suggerendo che quando
Mercurio e Venere sono in posizione «inferiore», e quindi più osservabili, si
trovano tra la terra e il sole, dando modo all’ordine «caldeo», mentre quan­
do sono in posizione «superiore», e perciò meno osservabili a causa della
luce solare che s’interpone tra la terra ed essi, ritornano all’ordine «egizia­
no». Naturalmente si tratta di ipotesi teoriche che non hanno riscontro nella
realtà visiva! Comunque sia, l’adozione della teoria eraclidea è per Macrobio
un espediente momentaneo che non coinvolge la sua reale visione cosmolo­
gica: nel § 8 e soprattutto nel § 9 ritorna implicitamente al sistema «egizia­
no» puro (cfr. nota seguente).
356 y eriorem ordinem\ l’ordine più esatto tra l’«egiziano» e il «caldeo».
Dopo la dimostrazione precedente nei § 6-7, nessuno dei due ordini dovreb­
be prevalere sull’altro, poiché entrambi si spiegano con il sistema di Eraclide
Pontico. Tradendo il suo vero pensiero Macrobio smentisce Cicerone, insi­
stendo a dar ragione a Platone. Da qui in poi dimentica Eraclide e ritorna al
sistema «egiziano» di sfere concentriche che hanno come centro la terra (cfr.
I, 21, 1: septem sphaeras caelo diximus esse subiectas, exteriore quaque quas
intertus continet ambiente). In tale incoerenza non è il solo: Vitruvio dopo
aver adottato la teoria di Eraclide in IX, 1,6 (cfr. nota precedente) in IX, 1,
15 la smentisce con l’immagine delle sette formiche sulla ruota del vasaio,
obbligate a girare sulle rispettive scanalature della ruota in senso opposto alla
direzione impressale dal vasaio.
357 Già Talete giudicò giustamente la luna un corpo rischiarato dal sole.
Parmenide con le sue osservazioni dimostrò in maniera conclusiva l’intuizio­
ne di Talete, cioè che la luna non brilla di luce propria, ma riflette quella del
sole. Platone e Plutarco attribuiscono l’idea ad Anassagora (cfr. infatti Fram­
mento 18: «Il sole manda la sua luce alla luna»), mentre secondo Teone di
Smirne l’inventore fu Anassimene. All’epoca di Cicerone quest’antica idea,
se non l’unica, è la più condivisa. Macrobio ne deduce due conseguenze
destinate a sostenere l’ordine «egiziano»: 1) la luna si trova al di sotto del sole
(§ 8; deduzione per molti versi sorprendente perché, secondo gli Antichi
stessi, la fiamma e la luce potevano sia salire sia scendere); 2) la luna è la sola
a presentare questa caratteristica, perché è sprovvista di luce propria (§ 10;
ragionamento che mescola ontologia e astronomia non attestato altrove).
358 In II, 7, 6-8, che tratta delle fasce celesti. In questo brano vi è l’eco di
una concezione antichissima secondo la quale il sole ridistribuisce agli uomi­
ni una luce e un calore ricevuti dal resto del cielo: «Il pitagorico Filolao dice
che il sole è come un cristallo, perché accoglie il riflesso del fuoco ch’è nel
cosmo e rimanda a noi la luce e il calore» (44 A 19 Diels-Kranz = Ezio I I 20,
12). Per Empedocle il sole viene considerato solo come una riflessione di
fuoco, immagine dell’emisfero igneo che lo sovrasta. Quest’arcaica concezio­
ne sarà adottata dall’epicureismo e seguita da Lucrezio (op. cit. V 595 sgg.).
359 Cfr. I, 11, 7, dove questo appellativo è attribuito ai physici (Egizi,
Orfici e Pitagorici), e relativa nota 196. Per l’etere cfr. sopra nota 326. La
parola aether, la cui etimologia deriva dal verbo greco aì0co «ardo, brucio,
splendo», come sembra alludere Macrobio, è qui da lui molto utilizzata. Per
gli antichi l’etere, oltre alla concezione stoica del summus deus, era l’aria più
pura e più alta perché più vicina al Sole ed era anche la sostanza sottilissima
e immutabile, diffusa sopra la sfera dell’aria, che poteva accendersi per l’at­
trito delle sfere, ed essere altresì la materia del fuoco.
360 Cfr. infra I, 22, 3.
361 Cfr. infra I, 22, 5-6.
362 L’idea è già presente in Plutarco (Il volto della luna 929) e ancor prima
per Posidonio, secondo Cleomede, la luce solare invece di essere semplice-
mente riflessa sprofonda nella sostanza lunare che la modifica prima di rin­
viarla sulla terra.
363 Quartum locum : in quarta posizione secondo l’ordine «caldeo», adot­
tato da Cicerone, in seconda posizione secondo l’ordine «egiziano-platoni­
co» preferito da Macrobio. È vero che Macrobio ha «dimostrato» con l’au­
silio del sistema semi-eliocentrico di Eraclide di Ponto che i due sistemi in
fondo sono identici. Qui nondimeno, e in tutta la dimostrazione dei § 15-17,
Macrobio si rifà a un rigoroso sistema di sfere concentriche e omocentriche,
che non tengono assolutamente conto del modello di epicicli proposto da
Eraclide, senza rendersi conto della contradditorietà.
364 p er ja durata delle rivoluzioni di questi pianeti cfr. sopra § 3 e 5 e note
352, 353 e 128. Il ragionamento di Macrobio è snello ed ellittico: è infatti
taciuta perché scontata la premessa che tutti i pianeti si spostano con una
velocità uguale (cfr. supra I, 14, 26-27) su un’orbita rigorosamente circolare
(come ripeterà in 1,21, 6-7); dunque la distanza che percorrono è proporzio­
nale alla durata della loro rivoluzione. D ’altronde Macrobio conosce la for­
mula per calcolare la circonferenza di un cerchio in base al diametro, e quin­
di inversamente sa dedurne il diametro o come qui il raggio (cfr. I, 20, 15 e
20 e nota 387).
365 Virgilio, Georgiche I, 137.
366 Benché non abbiano mai raggiunto i progressi fatti più tardi dai Greci
in campo astronomico, furono i Caldei i primi a identificare i pianeti e que­
sta casta sacerdotale dei Babilonesi, che aveva mansioni di osservazione del
cielo soprattutto per fini astrologici e religiosi, li designò con i nomi di divi­
nità a cui erano consacrati (Venere ad esempio veniva indicato con il nome
Dil-Bat, corrispondente alla mesopotamica dea della fertilità Ishtar). Quando
la scienza astronomica penetrò in Grecia, gli elleni ne trasposero i nomi sce­
gliendo nel loro pantheon le divinità paragonabili a quelle dei Caldei, sotto
la cui protezione avevano posto i pianeti.
367 La genethlialogia o dottrina delle natività era la più antica forma di
astrologia greca, l’arte degli oroscopi, che determinava il cosidetto oroscopo
natale. Genethlialogi (traslitterazione esatta di y£VE0ÀiaKOi, dicitori d ’oro­
scopi) è termine più raro di genethliaci (utilizzato da Aulo Gellio).
D ’altronde non lo si può considerare un vero e proprio hapax legòmenon
perché appare in Tolomeo, Ieroclide e Giamblico.
368 Claudio Tolomeo (100 ca.-178), astronomo, geografo e matematico,
autore di un famoso trattato di astronomia in 8 libri, tramandatoci dagli arabi
col nome di Almagesto, e del Tetrabiblo, in cui esponeva il sistema che da lui
prese il nome. Fu anche autore dell’opera citata da Macrobio, più nota come
Harmonica in tre libri (pervenutaci incompleta, se ne conserva correttamen­
te il testo fino al capitolo II, 7) che trattava della musica secondo la conce­
zione scientifico-matematica degli Antichi, commentata anche da Porfirio.
La teoria astrologica richiamata da Macrobio, non presente nel Tetrabiblo,
doveva trovar posto negli Harmonica nel capitolo III, 16 di cui ci rimane il
titolo e una frase finale.
369 p er la iugahilis competentia vedi supra nota 111.
370 Macrobio tratterà estesamente l’argomento nel capitolo 1 del Libro
Secondo, a partire dal § 14.
371 Di queste due facoltà Macrobio ha già parlato in precedenza nel capi­
tolo 12, 14 e in I, 14, 7. Cfr. supra note 220 e 240.
372 I rapporti numerici tra i pianeti e i luminari erano probabilmente dei
rapporti musicali, fondati sulle distanze e le velocità orbitali rispettive degli
astri. Le teorie qui esposte, sintesi della tradizione antica della corrisponden­
za tra cosmo, matematica e armonia, deriva quasi certamente dai pressoché
perduti Harmonica tolemaici.
373 S’intende a un trattato di astrologia. E necessario infatti un quadro
astrologico per determinare la posizione in cui si trova il pianeta e gli aspet­
ti degli altri pianeti rispetto ad esso. La combinazione di questi elementi
assieme alle loro «qualità» possono essere molteplici.
374 E la traduzione esatta del titolo greco che Porfirio ha dato a Enneadi
II, 3, sull’influenza degli astri: TTepl to O eì ttoieT tò àcrrpa e di cui
Macrobio offre una sintesi complessiva e pertinente.
375 Cfr. Plotino, Enneadi II, 3, 3, 27-28. Nell’Antichità ci si poneva il pro­
blema di sapere se gli astri e i presagi in genere fossero segni e indizi o cause
necessarie degli eventi. Plotino, nella sua indagine, rispondeva che essi sono
soltanto segni che indicano il futuro, ma non ne sono la causa prima o il prin­
cipio. .
376 Cicerone, Repubblica VI, 17 = Sogno di Scipione 4, 2.
377 Platone, Timeo , 39 b.
378 Citazione altrimenti ignota.
379 L'etimologia di sol da solus era molto comune nella letteratura classi­
ca greco-romana. Cfr. Cicerone, Della divinazione II, 68: «Si dice sole vuoi
perché solo fra tutti gli astri raggiunge una considerevole grandezza, vuoi
perché, una volta sorto, oscura tutti gli altri corpi celesti e si scorge esso
solo». Ancora Macrobio nei Saturnali (I, 17, 7) riferisce a proposito di
Apollo, dio del sole, l’etimologia derivante da a-TTOÀXóv, con l’alfa privati­
vo, «perché è solo e non molti, ed infatti anche in latino fu chiamato sole per­
ché è solo ad avere tanto splendore». Sull’origine pitagorica di tale etimolo­
gia cfr. Plotino, Enneadi V, 5, 6.
380 Si tratta della teoria radio-solare di origine caldea e introdotta a Roma
da Posidonio. E illustrata in Cicerone, La natura divina II, 89, da Vitruvio,
Architettura IX, 1, 11 e in numerosi testi tecnici e anche poetici.
381 Cfr. sulla «mente del mondo» nota 326. Sulla mens mundi cfr. ancora
Cicerone, La natura divina, II, 22 e Amtniano Marcellino, Storie, XXI, I, 11.
La definizione del sole come mens m undi e cor caeli sarà ricordata da Boc­
caccio, De genealogiis deorum IV, 3 e ripresa da Giovanni Pascoli in Fanum
Apolinnis. La formula ciceroniana è di origine stoica. L’attività unificatrice,
ordinatrice, cioè la ragione, detta dagli stoici egemonico (cfr. supra nota 326)
o principio direttivo ha la sua sede nel cuore e viene identificata come l’ani­
ma razionale (Marco Aurelio la identifica appunto con il nous ). Siccome per
lo stoicismo il mondo è un grande organismo vivente, l’identificazione con il
sole o mente o cuore del mondo era conseguente, perché l’astro presiede ai
ritmi cosmici (giorno, notte, stagioni...). Sulla «mente del mondo» sempre
Macrobio nei Saturnali, I, 18, 15 (cfr. supra nota 217), fa dire a Pretestato
nella sua esposizione della teologia solare: Physici Aióvuoov Aiòs voùv, quia
solem mundi mentem esse dixerunt: mundus autem vocatur caelum, quod
appellant lovem («derivarono Dionisos da Dios nous (= mente di Zeus), per­
ché considerarono il sole la mente del mondo»).
382 Sempre nei Saturnali, l.c. in nota precedente e ancora I, 9, 11 come
infra in II, 11, 12 Macrobio dichiara che per mondo s’intende il cielo (nei
Saturnaliidentificato con Zeus).
383 In II, 7 dove si tratta delle zone celesti.
384 Eratostene di Cirene (275-195 a.C.), bibliotecario di Alessandria,
matematico e geografo, astronomo e grammatico, è noto per aver determina­
to, con un ingegnoso metodo, la circonferenza della terra. Vedi anche supra
nota 301 e infra nel Libro Secondo nota 106. L’opera citata da Macrobio è
andata perduta. Ma anche Galieno (Istituzioni logiche 12) testimonia che
Eratostene indagò le dimensioni e le distanze del sole e della luna e delle loro
eclissi. Secondo Plutarco, dalle sue osservazioni astronomiche nel corso delle
eclissi dedusse che la distanza dal Sole era di 804.000.000 di stadi, la distan­
za dalla Luna 780.000 stadi. In realtà il diametro del sole non è di 27 volte
quello della terra, ma di 109 volte, e la distanza dalla Luna circa il triplo di
quella calcolata da Eratostene, mentre il calcolo della distanza Terra-Sole, se
si assume il valore di 185 m (cfr. sopra ancora nota 301), è pari a 148.740.000
km, molto simile all’odierna misura dell’unità astronomica, realizzata, non
con calcoli trigonometrici, ma con l’ausilio di satelliti e segnali radar, che
hanno portato al valore di 149.597.870 km.
385 Su Posidonio vedi sopra nota 258. Alcuni studiosi ritengono non sicu­
ro che Posidonio abbia scritto un trattato sul tema, i più gli attribuiscono una
perduta opera di carattere scientifico Sulla grandezza del sole. È noto che
Posidonio centocinquanta anni dopo Eratostene utilizzò il suo stesso meto­
do partendo dalla distanza fra Rodi e Alessandria e usando la differenza di
altezza della stella Canopo sul meridiano dei due luoghi, ottenendo una cir­
conferenza terrestre di 240.000 stadi, valore molto simile a quello trovato da
Eratostene ma un po’ minore. Secondo Cleomede, Posidonio stimava l’orbi­
ta solare 10.000 volte più grande della circonferenza terrestre, ma non inter­
vengono le eclissi di luna né tanto meno viene fornita la giustificazione di
questo calcolo.
386 L e e c lxSSi sono descritte in I, 15, 10-12. Il loro meccanismo veniva in
effetti utilizzato per stabilire le dimensioni dei tre astri coinvolti.
387 Si tratta del calcolo di uso corrente degli antichi, da Archimede in poi,
per cui la misura della circonferenza è uguale alla frazione di 22/7 del raggio
(22/7 = 3,14). Archimede in una delle sue opere più famose, Sulla misurazio­
ne del cerchio, aveva calcolato un valore approssimato del P greco. Archi-
mede ottenne questo risultato partendo dalla considerazione, secondo cui la
lunghezza della circonferenza è maggiore del perimetro di un qualunque
poligono inscritto e minore del perimetro di un qualunque poligono circo-
scritto e che, pertanto, i perimetri dei poligoni inscritti costituiscono dei
valori approssimati per difetto e i perimetri dei perimetri circoscritti sono dei
valori approssimati per eccesso della lunghezza della circonferenza.
Partendo da semplici esagoni, raddoppiò via via il numero dei lati sino a per­
venire ai poligoni regolari, inscritto e circoscritto di 96 lati, riuscendo così a
determinare t t tra due numeri sempre più vicini tra loro e trovò che l’area del
cerchio di raggio era compreso tra 3+10/71 e 3+10/70 = 22/7 che è il dato
fornito da Macrobio.
388 L’affermazione che il cono d’ombra della terra si estende in altezza
per sessanta diametri terrestri non è dimostrata, ma è un postulato delle con­
cezioni astronomiche del tempo, in particolare platoniche. Tolomeo determi­
nava la distanza Terra-Luna (le cui principali fonti di errore erano legate alla
difficoltà di misurare direttamente le distanze angolari nella volta celeste e i
diametri apparenti) in 30 volte il diametro terrestre e poiché la distanza
Terra-Sole era considerata il doppio della distanza Terra-Luna (cfr. capitolo
3 del Libro Secondo), se ne ricava la misura di 60 volte il diametro della
terra.
389 Cfr. supra nota 385. Macrobio citerà di nuovo questa stima in II, 6, 3.
Si tratta della misura della circonferenza terrestre molto vicina al valore reale
che Eratostene ottenne partendo da alcune semplici ipotesi e utilizzando
strumenti molto elementari attraverso il confronto delle ombre formate dal
Sole nello stesso momento dell’anno a Siene e Alessandria d’Egitto. I
252.000 stadi, anche tenendo conto delle diverse valutazioni sull’effettiva
misura dello stadio (vedi sopra nota 301), sono comunque sia un valore sor­
prendentemente vicino al vero (40.009 km).
390 Utilizzando il complicato sistema, che Macrobio attribuisce agli egi­
ziani, si determina un diametro angolare del sole di 1/216 della sua orbita,
pari a un diametro apparente del sole di 1° 40’. Come abbiamo veduto è una
cifra che non si spiega e che è anche distante dai valori in genere accettati
dagli antichi. Ma Macrobio, evidentemente contaminando le fonti di cui si
avvale, non riesce a far combaciare i dati dell’esperimento «egiziano» con
quelli in precedenza forniti. Infatti 30.170.000 : 216 = 139.675,92 è il risulta­
to del diametro del sole. In base al postulato che Macrobio riferisce per cui
una sfera avente il diametro doppio di un’altra ha un volume maggiore otto
volte (si tratta del teorema di Euclide), è costretto ad accontentarsi di que-
st’ultima cifra come doppio approssimativo di 80.000 per poter affermare
che il sole è otto volte più grande della terra.
La ciotola descritta da Macrobio è simiie all orologio so/are descritto
da Erodoto (Storie II, 109), il TtóÀog, che però questi attribuisce come inven­
zione dei Babilonesi. Altri attribuiscono l’invenzione della meridiana al cal­
deo Beroso in Egitto. Un altro strumento simile è la csKacpr]E o hemisphae­
rium, detto anche scafa: attribuito, secondo Vitruvio (Architettura IX, 8, 1)
che descrive diverse tipologie di meridiane, ad Aristarco di Samo. Si tratta
dell’orologio emisferico tradizionale, cioè di un orologio ricavato in una
semisfera cava orizzontale, inizialmente in pietra come lo descrive qui
Macrobio e, in seguito, in bronzo (come in Marziano Capella, op. cit. VI,
597). Lo stilo si ipotizza disposto perpendicolare al piano orizzontale, ma
non è da escludere che nella tradizione antica esso fosse posto inclinato,
parallelamente all’asse terrestre, e che uno strumento simile potrebbe essere
stato il vero t t ó à o s (polo), da cui ne sarebbe derivata l’etimologia. Marziano
Capella (Vili, 860) descrive una misura del diametro della luna ottenuta
nella medesima maniera.
392 Per «metà del cielo» va inteso l’equatore celeste (svolgendosi l’espe­
rimento durante l’equinozio), donde la precisazione seguente «con la rivolu­
zione di un solo emisfero», cioè per la durata di un solo giorno.
393 Per quanto geometricamente corretta, la procedura illustrata da Ma­
crobio rende perplessi gli scienziati odierni, in quanto non tiene conto della
rifrazione solare (d’altronde nota agli Antichi), che richiedeva condizioni
d’osservazione piuttosto difficili. I tempi di emersione del disco solare sono
inoltre di pochissimi minuti e si trattava perciò di misurazioni delicatissime
e soggette a margini d’errore.
394 Cfr. supra I, 16, 10 e nota 315.
395 Nel precedente § 24.
396 S’intendono, naturalmente, i volumi delle due sfere, essendo le rispet­
tive sfere in rapporto di 2 a 1, i volumi sono dati dal rapporto di 2 S a l3 (=
8/ 1).
397 Cfr. supra I, 6, 47 e I, 14, 23. Qui Macrobio scarta risolutamente il
sistema di Eraclide Pontico, su cui sera appoggiato nel tentativo di concilia­
re l’ordine caldeo e quello egiziano dei pianeti: cfr. supra note 355 e 356.
398 p e r comprendere meglio l ’immagine metaforica cfr. per il vero signi­
ficato della parola vestibulum la lunga digressione di Macrobio in Saturnali
VI, 8, 14-23, con cui si identifica lo spazio tra la strada e l’ingresso dell’edi­
ficio dove «si sta molto».
399 Per la durata della rivoluzione di Saturno cfr. I, 19, 3 e 16; per quella
della Luna I, 6, 49-50 e I, 19, 5.
400 Cfr. 1, 15, 8 e nota 293.
401 L’attribuzione agli Egiziani, e non ai Caldei, della suddivisione dello
zodiaco in dodici segni è di derivazione neoplatonica. Le costellazioni degli
antichi Egizi non erano quelle dei Greci di derivazione babilonese, anche se
avevano la nozione dei decani ignota ad altri popoli. Se c’è qualcosa di «egi­
ziano» nell’astronomia e nell’astrologia risale al periodo alessandrino.
402 L’orologio ad acqua è uno dei primi, se non il primo, orologio della
storia: se ne è ritrovato un esemplare nella tomba del faraone Amenotep I,
risalente al XV secolo a.C. Questo dispositivo per la misura dello scorrere del
tempo basato su un flusso costante d’acqua in uscita da un contenitore e che
poteva servire anche alla divisione in dodici parti dello zodiaco fu chiamato
dai greci «Ae^ùSpa. Si tratta proprio della vera clessidra con cui noi oggi
invece chiamiamo impropriamente l’orologio composto da due bulbi di
vetro collegati attraverso uno stretto foro, al cui interno scorre sabbia finissi­
ma, avendo dimenticato che la sua etimologia greca significa letteralmente
«rubare acqua». Questi orologi erano in genere impiegati durante la notte,
ma non di giorno, quando erano disponibili le più precise meridiane.
Orologi ad acqua più complessi vennero in seguito creati, oltre che dai
Greci, dai Romani.
403 Un analogo sistema di vasi è ricordato da Cleomede (De motu circu­
lari corporum coelestium II, 75) e da Marziano Capella (op. cit. Vili, 861), ma
per determinare il diametro angolare del sole e della luna. Del resto l’esperi­
mento citato da Macrobio non conduce a una divisione dello zodiaco, posto
lungo l’eclittica, ma a una suddivisione in dodicesimi dell’equatore.
404 F u Cicerone il primo a chiamare lo zodiaco orbis signifer. Il termine
in seguito nella letteratura latina ebbe fortuna sia come aggettivo sia come
sostantivo.
405 La tradizione, da Posidonio ai giorni nostri, fa cominciare i segni
zodiacali con l’Ariete (cfr. supra I, 18, 8). Sia l’anno caldaico sia l’anno roma­
no cominciavano in primavera, stagione aperta da questo segno. Inoltre gli
astronomi egiziani ritenevano che la nascita del mondo fosse avvenuta sotto
questo segno in Medio Cielo, il punto più elevato del tema natale. Sulla geni­
tura mundi, ossia il tema natale del mondo ovvero la rappresentazione del
cielo a! momento della sua nascita, Firmico Materno è il primo a fornirci l’o­
roscopo del mondo, attribuendone la genealogia a Petosiride e Nechepso (un
sacerdote e un faraone) sotto il cui nome esiste un’opera di astrologia consi­
derata fondamentale in tutte le epoche. Scritta intorno al 150 a.C., secondo
Cumont quest’opera e altri primi trattati di astrologia, in particolare quelli
attribuiti ai primi autori dell’ermetismo come Asclepio e Anubio, non furo­
no scritti da astrologi alessandrini ma da sacerdoti ellenizzati, che vivevano
nei templi indigeni. Infine l’associazione dell’Ariete con la testa era già tradi­
zionale nel mondo antico e nell’astrologia in cui vi era perfetta corrisponden­
za fra macrocosmo (Universo) e microcosmo (Uomo): il primo segno corri­
spondeva alla testa così come l’ultimo, i Pesci, ai piedi.
406 L’astrologo romano Firmico Materno (IV sec.), poi convertitosi al cri­
stianesimo, nel libro III di Mathesis ha un medesimo trattamento del Thema
Mundi, o ipotetica carta astrale della creazione del mondo, con una dettaglia­
ta descrizione dei pianeti nei loro tipici domicili o «case».
407 Questo passo, come quello menzionato in nota 202, ricorda esplicita­
mente L’antro delle ninfe (22) di Porfirio che enumera in modo esauriente le
«case», i domicilia o domus ossia i segni in cui un pianeta è dominus. I domi­
cili si dividono in diurni (che Macrobio enuncia nel § 25) e notturni (serie in
§ 26). Solo i luminari hanno un unico domicilio: il Leone è il domicilio diur­
no del sole, mentre il Cancro è il domicilio notturno della luna.
408 Macrobio dà la disposizione dei pianeti come in I, 19, 2-4 secondo
l’ordine «egiziano» o platonico (cfr. supra nota 350 sull’ordine dei pianeti).
In II, 3, 14 invertirà i posti di Mercurio e di Venere, ma nell’antichità queste
due versioni dell’ordine «egiziano» coesistevano a causa della difficoltà di
osservazione degli spostamenti dei pianeti cosiddetti «inferiori» (cfr. supra
nota 355).
409 Macrobio in § 28-32 fornisce l’«indice degli argomenti» trattati da I,
17,5 a l, 21,27.
410 Cfr. I, 11, 6. Si tratta dì un’antica concezione dell’universo d’origine
orfico-pitagorica secondo la quale la luna separava il mondo superiore dal
mondo di quaggiù come un confine e una sorta di stazione in cui l’anima
nella sua discesa acquistava la materia e, al contrario, nella sua ascesa opera­
va una purificazione del corpo astrale prima che questo proseguisse nella sua
ascensione celeste. L’opposizione tra mondo sublunare e mondo superiore
divenne fondamentale nella cosmologia platonica del Timeo e anche in
Aristotele dove il primo, con i suoi quattro elementi, è mutevole e corrutti­
bile mentre il secondo è il dominio della quinta essenza inalterabile, l’etere.
411E verosimile che Macrobio si riferisca ai filosofi citati nella sua dosso-
grafia sull’anima in I, 14, 19 che la ritengono corporea, formata da uno o più
dei quattro elementi (vedi supra nota 254): cfr. il seguente § 35. Sull’origine
celeste dell’anima cfr. I, 9, 1; I, 14.
412 Accenno alla divisione classica dei quattro elementi, già affrontati nel
capitolo 6 riguardo ai loro legami. Sul «fuoco etereo» vedi sopra note 326 e
359.
413 Cicerone, Repubblica VI, 17 = Sogno di Scipione 4, 3.
414 Cfr. I, 19, 11 e ancor prima sull’idea che la terra non è che un punto
rispetto all’immensità dell’universo I, 16, 6 e supra nota 311. L’ipotesi appar­
tiene già all’epoca presocratica: Parmenide fu il primo a dichiarare che la
terra è sferica ed è posta al centro dell’universo, seguito da Anassimandro,
Anassagora ed Empedocle. Il modello geocentrico aveva ragioni geometrico-
matematiche e sembrava più consono all’uomo che, vivendo sulla Terra,
aveva per necessità una visione geocentrica dell’Universo. Macrobio presen­
ta l’immobilità della terra come risultato di un equilibrio d’ordine fisico nel
§ 7 e qui propone una dimostrazione matematica d’origine aristotelica.
415 Cfr. Cicerone, La natura divina II, 116: «il centro ... in una sfera è il
punto più basso».
416 Tutta questa parte del capitolo si rifà alla classica fisica aristotelica sul­
l’immobilità e centralità della terra e sulle posizioni dei quattro elementi
costituenti l’universo.
417 Verosimilmente con le teorie «assurde» e «ridicole» si allude agli epi­
curei, unici tra i filosofi a rifiutare il sistema geocentrico sulla base della teo­
ria dell’infinitezza dell’universo, che perciò non può avere un centro.

N o te a l L ibro secondo
1 Prendendo le mosse dalla breve citazione ciceroniana contenuta nei §
2-3 sull’armonia delle sfere, Macrobio compie un’esposizione sull’armonia
musicale che occupa i primi quattro capitoli del Libro Secondo. Nel capito­
lo 1 si postulano i princìpi matematici dell’armonia musicale; i princìpi fisici
della genesi o produzione del suono; esso nasce dall’aria colpita (§ 4-7); vi è
armonia solo quando il suono obbedisce a regole matematiche precise, sco­
perte da Pitagora (§ 8-13) e che consistono in rapporti proporzionali armo­
nici (§ 14-25). Nel capitolo II, premettendo la nozione dei solidi e dei corpi
matematici (§ 1-13) si spiega l’armonia celeste con l’ontologia aritmetica
descritta nel Timeo di Platone con la creazione dell’Anima del Mondo (§ 1-
24). Nel capitolo 3 sono descritti diversi simboli indizi della potenza della
musica osservabile nel mondo (le Sirene § 1; le Muse § 2-4; i riti § 5-6; i miti
d ’Orfeo e d’Anfione § 7-11). Segue la descrizione del meccanismo dell’armo­
nia delle sfere (la musica e gli intervalli planetari cap. 3, 12-16; la differenza
d ’altezza dei suoni celesti cap. 4, 1-7; l’accordo celeste costituito dalle sette
note § 8-9), descrizione che dev’essere contenuta (§ 10-12) ma che richiede
alcune precisazioni (l’armonia del modo diatonico § 13; il motivo per cui la
musica delle sfere non è udibile § 14-15).
2 II testo di Macrobio reca la lezione disiunctus, quindi «ineguali, diver­
si», mentre la tradizione diretta del brano di Cicerone reca la lezione coniunc-
tus , quindi «uniti, connessi». La stessa imprecisione si ritrova in Favonio
Eulogio (op. cit. 25, 6) nella sua citazione ciceroniana. D ’altronde questa
variante di disiunctus non può essere un errore di un copista, poiché
Macrobio lo riprende altre tre volte (II, 2, 21; II, 3, 12; II, 3, 16). E evidente
che entrambi i commentatori lavoravano su un testo di Cicerone recante tale
corruzione. Sia coniunctus sia disiunctus appartengono alla terminologia
musicale: cfr. Boezio, De Institutione musica I, 20 (Eptachordum quidem dici­
tur synemmenon, quod est coniunctum, octachordum vero diezeugmenon, quod
est disiunctum) che spiega come i rispettivi termini corrispondano in greco a
e SiE^EuypÉvoc;. Pertanto i due commentatori non dovevano
o u v rm n é v o s
stupirsi di trovare nel testo utilizzato un termine musicale, ma, come inesper­
ti di musica, non erano coscienti di quanto implicava quest’errore, Infatti
nell’antica musica greca la base del sistema musicale era il tetracordo (una
successione di quattro suoni congiunti discendenti, formanti un intervallo di
una quarta giusta, o meglio i cui estremi fissi formavano un intervallo di due
toni e un semitono), corrispondente ai toni della cetra. Nel corso del perio­
do arcaico l ’antica cetra vide aumentare le sue corde da quattro a sette,
numero che come abbiamo veduto nel Libro Primo ha caratteristiche sacra­
li. Vennero così a costituirsi eptacordo ed ottacordo, entrambi formati da
due tetracordi. Ma nell’eptacordo «congiunto», conìunctum , l’ultima nota
del primo tetracordo coincideva con la prima del secondo, mentre nell’otta-
cordo «disgiunto», disiunctum, i due tetracordi erano separati da un tono
(ossia in tutto sei toni e otto note, di cui la prima e l’ultima suonano all’otta-
va). Premesso che l’idea del cosmo presupponeva una similarità armonica, in
Cicerone come già nei pitagorici e soprattutto nel Timeo dì Platone, con l’an­
tica lira greca a sette corde, non è oggi facile capire se il modello cosmogoni­
co s’identificasse con la figura dell’eptacordo congiunto o dell’ottacordo
disgiunto. L’ipotesi interpretativa che ha preso corpo, anche per stringenti
motivi matematici che non è qui il caso di illustrare, oggi lo individua nel
tetracordo congiunto, anche perché richiamato nel Tilebo (VII, 17e-18e) per
chiarire la definizione di conoscenza. Ed infatti — ultimo paradosso — in II,
4, 9 Macrobio interpreta la scala dei suoni-pianeti e i suoi intervalli cui allu­
de il Timeo nel suo modello di Anima del Mondo, prodotta dal Demiurgo,
secondo le leggi dell’armonia musicale sul modo deU’eptacordo congiunto
(cinque toni e due semitoni non consecutivi) e non disgiunto.
3 Septem... distinctos interuallis sonos: «sette suoni distinti da intervalli».
Pochi altri traduttori moderni, come già Favonio Eulogio (op. cit. 21) prefe­
riscono interpretare «suoni distinti da sette intervalli». Vi sarebbero cioè otto
suoni, quanti le sfere celesti mobili e Cicerone penserebbe a un ottacordo
«disgiunto», in cui le due note estreme suonano all’ottava (cfr. nota prece­
dente) e perciò la sfera della luna e quella delle stelle fisse emetterebbero lo
stesso suono spiegando il numero sette ed è ciò che esprimerebbe l’espres­
sione in quibus eadem uis est duorum, «delle quali [sfere] due hanno la mede­
sima velocità». Ma Macrobio riferiva di certo il numerale a sonos, non solo
perché la sua interpretazione sarà legata all’eptacordo «congiunto» (cfr.
ancora nota precedente), ma sempre in II, 4, 9 attribuirà la medesima uis
sonora a Venere e Mercurio, e non di certo alla luna e alla sfera delle fisse.
4 Cicerone, Repubblica VI, 18 = Sogno di Scipione 5, 1-2. Quale può esse­
re stata la fonte precisa di questa teoria platonica per Cicerone? In passato si
pensava che avesse attinto la complessa conoscenza dell’armonia platonica
delle sfere da un ipotetico Commentano al Timeo di Posidonio. Oggi s’ipo­
tizza che l’abbia appresa dal suo amico Publio Nigidio Figulo (per altro cita­
to da Macrobio in Saturnali I, 9, 6). Cicerone nella traduzione al platonico
Timeo, ricordando l’estinzione dell’antica schola, presenta l’amico Nigidio
Figulo come il restauratore della disciplina pitagorica a Roma: denique sic
indico, post illos nobiles Pythagoreos, quorum disciplina extincta est quòdam
modo, cum aliquot saecla in Italia Siciliaque uiguisset, hunc extitisse, qui illam
renouaret (I, 1). Aulo Gellio arriverà ad accostarlo a Varrone, proclamando­
li i due massimi intellettuali della loro epoca. Ed è proprio Terenzio Varrone,
anch’egli legato a Cicerone, l’altro nome che viene fatto: della scienza delle
stelle si occupò infatti anche questo grande letterato dell’ultimo periodo
repubblicano.
5 Macrobio ha trattato il movimento della sfera celeste in I, 17, 8-17 e
quello delle sfere «inferiori», vale a dire planetarie, in I, 18, prendendo le
mosse dall’ultima citazione del Somnium ciceroniano (I, 17, 1-5).
6 Definizione risalente al pitagorico Archita, al quale si devono, nel IV
sec. a.C., i primi studi d’acustica. Fu il primo a determinare come il suono sia
prodotto da moto e come nasca da urto. Da tale scoperta, formulò l’ipotesi
che anche i corpi celesti, dotati di continuo movimento, dovessero produrre
rumore, tuttavia non percepibile dai sensi umani, essendo non intervallato,
ovvero continuo nel tempo.
7 Macrobio utilizza qui la definizione più corrente, l’aria colpita emette
un rumore, che si riscontra in innumerevoli esempi (Teone di Smirne,
Calcidio, pseudo-Plutarco, Boezio). Nondimeno in questo caso specifico, la
definizione è inesatta, perché implica che le sfere planetarie siano immerse
nell’aria. Il che si scontra con l’opinione più diffusa nella cosmologia antica,
secondo la quale l’aria è presente sotto la sfera lunare, mentre i pianeti sono
immersi nell’etere. Lo stesso Macrobio ha strenuamente sostenuto quest’ul-
tima opinione in I, 21, 33 e vi ritornerà in II, 5, 4. Sarebbe stato meglio per
Macrobio ispirarsi alla definizione più precisa di Aristotele che definisce il
suono come prodotto dall’urto di qualcosa contro qualcosa e in qualcosa e
questo mezzo può essere oltre all’aria anche l’acqua ili Anima, II (B) 8, 419
b) e, si può aggiungere, l’etere. E infatti Nicomaco di Gerasa (,Manuale di
armonica III) e Aristide Quintiliano (La Musica III, 20) precisano che i corpi
celesti producono un suono colpendo l’etere. Di fatto ogni strumento musi­
cale produce un suono grazie alla vibrazione di una corda, di una colonna
d ’aria, o di una membrana che mette in moto l’aria circostante allo stesso
modo, nel caso dell’aria di una bacchetta che la sferza o nel caso dell’acqua
di un sasso lanciato in uno stagno, dando luogo a un’onda sonora. Più velo­
ce è la vibrazione, più corta è la lunghezza d’onda, più acuta la nota prodot­
ta. A parità di altri fattori (quali, p.e., densità, spessore, tensione) la velocità
della vibrazione è inversamente proporzionale alla lunghezza del corpo
vibrante e questo consente di tradurre la pratica musicale in termini di rap­
porti matematici tra lunghezze, come intuì Pitagora.
8 Cfr. I, 21, 33. Il concetto che tutto nell’universo è regolato da leggi è
un’idea-forza dello stoicismo ed è comune a tutte le correnti filosofiche del­
l’epoca, ad eccezione dell’epicureismo.
9 Si tratta di un racconto tradizionale sulle consonanze definite da rap­
porti matematici: cfr. Nicomaco, Manuale di armonica VI; Giamblieo, La vita
pitagorica 26 e 115-119; Boezio, De Institutione Musica I, 10 sgg. Ora sappia­
mo che l’altezza di un suono è direttamente proporzionale non ai pesi ma alla
loro radice quadrata, come fu sperimentalmente verificato da Vincenzo
Galilei, padre di Galileo, e dimostrato qualche decennio dopo da Mersenne.
Comunque il legame del linguaggio musicale alla proporzionalità numerica
consacrò la musica a disciplina razionale.
10 È il fenomeno acustico della simpatia dei suoni armonici per cui un
corpo fin questo caso una corda) può vibrare semplicemente se a fianco vi è
un altro corpo che vibra e che abbia la stessa frequenza di vibrazione del
primo. In pratica, pizzicando una corda si mettono in vibrazione anche quel­
le altre che hanno la stessa frequenza di vibrazione della prima, che hanno
cioè rapporti reciproci di proporzione ben precisi con la corda che si è suo­
nata. Il fenomeno, fondamentale nell’ambito della musicoterapia da Pitagora
ai giorni nostri, fu considerato indizio della simpatia che univa tutte le parti
del mondo tra esse, negli Stoici e in Plotino, segno delle affinità tra le parti
del Tutto.
11 II sistema armonico che Macrobio descrive nei § 15-20 è il sistema pi­
tagorico vigente fino al XVI sec. che considera solamente i numeri 1, 2, 3 e
4 (fondamentale, ottava, quinta e doppia ottava), serie di numeri naturali che
viene chiamata appunto tetraktys pitagorica (cfr. supra nota 123 del Libro
Primo). L’individuazione delle consonanze si basava necessariamente sulla
sensazione uditiva: è l’udito a rivelare che esistono alcune coppie di suoni
che producono un’impressione unitaria, e possono dirsi consonanti, altre che
non la producono, e non possono dirsi tali. Nella speculazione numerico-
musicale dei Pitagorici soltanto lottava, la quinta e la quarta possono essere
chiamate aupcpcoviat, in quanto soltanto in questi tre casi si genera un tipo
di sensazione uditiva, tanto più gradevole all’orecchio quanto più il rappor­
to numerico delle lunghezze è semplice. I Pitagorici, confrontando tra loro le
dimensioni (lunghezza e spessore) dei corpi vibranti che producono i suoni
consonanti, ne ricavano infatti dei rapporti matematici: se, per esempio, due
corpi vibranti producono una consonanza di ottava, il suono più grave viene
emesso da quello più grande, e la dimensione di quest’ultimo è doppia
rispetto a quella del corpo vibrante che produce il suono più acuto. Si dice
perciò che la consonanza di ottava è espressa dal rapporto doppio (2:1).
Analogamente, la consonanza di quinta è espressa dal rapporto emiolio (3:2),
in quanto il corpo vibrante che produce il suono più grave è una volta e
mezza più grande di quello che produce il suono più acuto; la consonanza di
quarta è invece espressa dal rapporto epitrito (4:3). Stando alle fonti, questa
acquisizione risalirebbe ai primi Pitagorici, tra VI e V sec. a.C., e la tradizio­
ne neopitagorica tende a farla risalire allo stesso Pitagora, che, secondo
Teone di Smirne e Diogene Laerzio, avrebbe addirittura inventato il Kctvcóv
di una sola corda o monocordo. Questo strumento di indagine acustica era
costituito, secondo la descrizione datane da Tolomeo, da una corda in ten­
sione su sostegni sferici denominati pdyaSE<;: mantenendo costanti la ten­
sione e, ovviamente, lo spessore della corda, se ne poteva dividere in due
parti la lunghezza mediante un cursore mobile, e si potevano analizzare così
i rapporti reciproci tra il suono prodotto dalla vibrazione della corda intera
e quelli prodotti dalle parti di essa di volta in volta delimitate da uno dei
sostegni fissi e dal cursore. In pratica la corda tesa su una cassa di risonanza
fra due ponticelli e posata su un terzo ponticello-cursore intermedio che
poteva essere spostato a piacimento sotto di essa, con le sue due sezioni così
divise produceva con le sue vibrazioni suoni di altezza variabile. Gli esperi­
menti acustici condotti con il monocordo permettevano da un lato di visua­
lizzare gli intervalli musicali come relazioni lineari (lunghezze) e dall’altro di
esprimerli aritmeticamente come rapporti tra le misure. Osservando la rela­
zione fra porzione di corda vibrante e suono emesso, si trovò che, divisa la
corda in due parti uguali, si udiva la consonanza dell’unisono quando pizzi­
cate entrambe, la consonanza d ’ottava quando era posta in vibrazione prima
la sua metà poi l’intera corda. Se la corda veniva poi divisa per i due terzi
della lunghezza, pizzicando prima i due terzi poi l’intera corda si udiva la
consonanza di quinta. In tal modo, unisono, ottava e quinta furono rispetti­
vamente indicati coi rapporti 1:1, 1:2 e 2:3. Poiché infine la quinta e la quar­
ta costituiscono insieme un’ottava, la quarta equivale a 3:4, come risulta con­
fermato dall’esperienza. Le successive divisioni della corda per 1:2, 2:3 e 3:4
consentirono poi a Pitagora di ottenere una scala musicale completa.
L’eufonia dei principali accordi dipende infatti da semplici leggi fisiche.
Infatti tutte le civiltà, per quanto distanti tra esse, basano le loro scale musi­
cali sui principali accordi di ottava, di quinta e di quarta, matematicamente
espresse tramite i rapporti menzionati. Dato un suono i tre accordi principa­
li citati possono essere utilizzati per definire l’altezza di tre note ulteriori. In
termini più accessibili alla nostra moderna notazione musicale dato un DO
iniziale l’accordo di ottava definisce l’altezza del DO dell’ottava successiva,
quelli di quinta e di quarta rispettivamente del SOL e del FA intermedi. In
questo modo tra il FÀ e il DO si definisce un ulteriore intervallo di quarta,
mentre tra SOL e FA l’intervallo è pari a un tono (9:8). Poiché quattro note
sono poche per eseguire una qualsiasi melodia, il problema di riempire con
ulteriori note gli intervalli di quarta presenti agli estremi della scala è stato
risolto con modalità diverse nell’ambito delle varie civiltà. In Oriente o tra i
Celti s’individuarono solo due note ulteriori dando origine a scale pentatoni­
che. Nel caso della scala musicale pitagorica partendo da un suono iniziale,
corrispondente al DO, s’individuò un suono concordante, il SOL, prodotto
da una corda la cui lunghezza è pari a 2/3 di quella che ha prodotto il DO,
l’accordo DO-SOL così definito fu detto di quinta, perché cinque sono le
note che compongono l’intervallo; a sua volta una corda di lunghezza pari a
2/3 di quella che ha prodotto il SOL produrrà un suono ancora più acuto,
corrispondente al RE dell’ottava successiva; proseguendo in questo modo,
per quinte ascendenti, si definiscono in dodici passaggi tutti i toni e i semi­
toni dell’antica scala greca. Le stesse culture occidentali, influenzate dalla
teoria musicale pitagorica, danno luogo a scale composte da sette note,
aggiungendo quattro note ai tre principali accordi.
12 La terminologia utilizzata da Macrobio deriva da Aristosseno di Taran­
to, nato verso la metà del IV sec. a.C. e autore del più antico Trattato d’armo­
nia che ci sia pervenuto in buono stato. I nomi degli accordi Sia T E O o à p c o u
( X o p S a b v ) , Sia t t é v t e (xopScòv), 5ià -rraatóv (xopSòbv), rispettivamente
quarta, quinta e ottava, vale a dire letteralmente «attravero quatto (corde)»,
«attraverso cinque (corde)», «attraverso tutte (le corde)», derivano compren­
sibilmente dalla lira a otto corde o ottacordo (cfr. sopra nota 2). I musicogra­
fi raggruppano gli intervalli elencati da Macrobio sotto la denominazione di
«grandi intervalli». Il diatessaron (rapporto 4:3 chiamato anche sesquitertio
che separa il DO dal FA) la quarta «giusta» o «perfetta» o «naturale», com­
porta due toni e un semitono; il diapente (rapporto 3:2 chiamato anche ses­
quialtera che separa il DO dal SOL), la quinta giusta, tre toni e un semitono;
il diapason, la doppia (rapporto 2:1 detta anche dupla, che musicalmente
separa il DO con cui si apre la scala musicale dal DO dell’ottava successiva,
con un intervallo di otto note) è l’intervallo di ottava ed è composto di sei
toni; il diapason e diapente (tripla, ovvero 3:1), ossia una quinta più un’otta­
va, è l’intervallo di dodicesima; e il dysdiapason (quadrupla, ovvero 4:1), ossia
una doppia ottava, è l’intervallo di quindicesima.
13 II tono, che di fatto esprime la differenza tra una quinta ed una quar­
ta, nella prospettiva matematica pitagorica condivisa da Macrobio equivale a
trovare il rapporto di epogdo (detto anche sesquiottava o tono maggiore),
ossia quinta - quarta = (3/2)/(4/3) = 9/8. In pratica si sottrae un intervallo
dall’altro dividendo il rapporto che definisce il maggiore di questi intervalli
con il rapporto che definisce il minore. E inversamente per sommare due
intervalli, si moltiplicano i rapporti l’uno con l’altro, ossia la somma di due
intervalli corrisponde al prodotto dei loro rapporti: per esempio quinta +
quarta = (3/2) x (4/3) = 2/1 = ottava.
14 Nell’antichità vi erano due concezioni peculiari del semitono. La
prima, quella tecnica, che dimostrava che la quarta è commensurabile al
semitono (cosa che i Pitagorici non ammettevano) e che affermava che il tono
è divisibile in due parti uguali, introdotta da Aristosseno per primo nella pra­
tica musicate e seguita da quelli che Plutarco chiama, in contrapposizione ai
Pitagorici gli «Armonici». La seconda, quella dei teorici di obbedienza pita­
gorica che trattavano la musica come una scienza astratta senza scopi prati­
ci. Per i Pitagorici, nella cui linea diretta Macrobio s’iscrive, non era ammis­
sibile che il tono fosse divisibile in due parti eguali, perché il rapporto 9/8,
che si ottiene sottraendo una quarta da una quinta, non ha metà (cfr. pseu-
do-Euclide, Sectio Canonis prop. g e § 16; Plutarco, La generazione dell’ani­
ma nel Timeo 17, 1020 e; Teone di Smirne, Conoscenze matematiche utili alla
lettura di Platone, p. 112, ed. Dupuis). Per la scuola pitagorica non sono divi­
sibili in due parti uguali né la quarta, né il tono (cfr. infra nota 16), né l’otta­
va, né la quinta. Per Aristosseno e gli Armonici, la metà del tono esiste, essa
è un fatto di evidenza sensibile: è il semitono giusto; la quarta è anch’essa
divisibile in due intervalli uguali (1 tono 1/4 più 1 tono 1/4). Aristosseno
negava qualsiasi valore reale a calcoli di pura costruzione numerica, e per
altro complessi, dei Pitagorici che secondo lui non avevano alcun senso in
musica, anticipando così un sistema perfettamente temperato che si sarebbe
raggiunto solo con l’arrivo del 1600 e di Bach, nel quale l’ottava fu divisa
matematicamente in 12 semitoni uguali. In tal modo venne meno l’influenza
della matematica e del simbolismo numerico nei problemi relativi all’accor­
datura pratica della scala musicale e la musica uscì definitivamente dalle
discipline matematiche del quadrivium.
15 Cfr. Teone di Smirne, op cit. p. 88, ed. Dupuis.
16 Macrobio mostra di sapere che i Pitagorici non ammettevano che il to­
no fosse divisibile in due parti eguali, perché il rapporto 9/8, che si ottiene
sottraendo una quarta da una quinta, non ha metà. Si sbaglia però nel soste­
nere che nella frazione 9/8 è il 9 a non poter essere diviso in due parti ugua­
li (stesso errore in Teone di Smirne, op. cit. p. 53). Ugualmente conosce il
valore approssimativo del tono di due parti ineguali, il limma (256/243, dove
il valore approssimato della radice quadrata di 9/8 è 17/16 secondo Platone),
ma ignora, come lo ignoravano i Pitagorici che non sapevano estrarre la radi­
ce quadrata, che il semitono giusto sarebbe la radice quadrata di 9/8, in
modo che, moltiplicata per se stessa, essa dia il rapporto 9/8 che definisce il
tono intero. Attraverso la loro matematica discreta i Pitagorici procedevano
in questo modo: il semitono (termine approssimativo) è «ciò che resta» quan­
do dalla quarta (definita, come si è visto, dal rapporto 4/3) si sottrae un dito­
no, ossia due toni. Si è visto sopra in nota 13 la procedura per sottrarre due
intervalli e inversamente per sommarli. Così per ottenere un ditono, si mol­
tiplicava l’epogdo, che definisce il tono, per se stesso, ossia 9/8 x 9/8 =
(9/8)2. Così il semitono, concepito come la differenza tra la quarta e il dito­
no, veniva espresso con il calcolo seguente:
(4/3) : (9/8)2 = 4/3 : 81/64 = 4/3 x 64/81 = 256/243.
Questo semitono era un po’ più piccolo della metà del tono (infatti
256/243 x 256/243 non raggiunge il tono pitagorico (9/8). I Greci chiamava­
no la differenza tra il tono e il semitono giusto apotome , che significa «taglia­
to via», che verrà detto anche semitono maggiore, e si otteneva con questo
calcolo:
9/8 : 256/243 = 9/8 x 243/256 = 2187/2048.
17 Anche qui Macrobio mostra di sapere come il termine diesis apparten­
ga all’antica terminologia pitagorica (l’uso per descrivere l’intervallo di
256:243 è attribuito a Filolao), e come in seguito, per definire il semitono
giusto o diatonico o minore, si sia introdotto il termine limma (àeTkuo, let­
teralmente «il resto, la parte lasciata») attribuendolo a Platone (anche se il
termine nei suoi scritti non appare direttamente). Cfr. Plutarco, l. c «Uno
degli intervalli è quello chiamato tono, la cui misura esprime di quanto il dia­
pente è maggiore del diatessaron. Gli Armonici ritengono di riuscire a divi­
derlo a metà e di farne due intervalli che chiamano ambedue semitoni. Ma i
Pitagorici riconobbero impossibile la divisione in due parti uguali e delle due
parti disuguali chiamarono la minore leimma (resto), perché resta al di sotto
della metà». Al di fuori della scuola pitagorica, il diesis designava intervalli
più piccoli del limma'. ad es. in Aristosseno il cosiddetto quarto di tono.
18 L’estensione della voce musicalmente utile è di circa due ottave, ma, a
rigore, l’attitudine della laringe all’emissione del suono supera ampiamente
tale limite, giungendo fino a circa quattro ottave. Vi sono anche stati risulta­
ti-limite di sette ottave e un quarto, ma in cui solo sei ottave avevano valore
musicale. Nella trattatistica antica si riteneva che siccome la voce umana non
poteva superare l’estensione di due ottave, anche la medesima tessitura era
quella percepita dall’orecchio umano, la cui percezione in realtà si estende su
dieci ottave circa. Basti pensare che un semplice pianoforte moderno copre
un’estensione superiore a otto ottave.
19 II diapason con diapente è pari alla somma di un’ottava e una quinta,
consonanza che risulta da una tripla, ossia l’intervallo di una dodicesima.
L’armonia celeste giunge dunque fino a quattro duodecime secondo
Macrobio. Tuttavia si è giustamente osservato che Macrobio, o per inavver­
tenza o perché utilizzava un testo corrotto, abbia omesso alla sua addizione
il tono. Infatti per testimonianza di Teone, un autore precedente a Macrobio,
Platone conduce la scala musicale sottesa alla formazione dell’Anima del
Mondo nel Timeo «fino alla quarta S ia Tiaacòv Kai S ia ttévte e un tono»
(op. cit. p. 104). Infatti la scala completa che comporta quattro ottave, una
quinta e un tono permette, addizionando i rapporti numerici che definisco­
no questi intervalli secondo le modalità sopra descritte, di ottenere il nume­
ro 27, il maggiore nella costruzione dell’Anima del Mondo descritta nel
Timeo 35 b.
20 Cfr. nota 2 sulle differenti possibilità di divisione dei gradi del tetra­
cordo.
21 p er l’espressione iugabilis competentia cfr. supra I, 6, 24; I, 6, 31; I, 6,
33; I, 19, 21 e infra II, 2, 18 e relative note,
22 Platone, Timeo 35 a-36 b, parzialmente tradotto in seguito nel § 15.
23 Cfr. I, 5, 9. Le nozioni che stanno per essere trattate nei § 3-13 sono
già state trattate in generale in I, 5, 5-13.
24 Per i corpi matematici o incorporei cfr. I, 5, 7; I, 6, 35.
25 Sul punto indivisibile cfr. I, 16, 10. Su punto, superficie, solido cfr. I,
5, 11-12; 1,6, 35; I, 12,5.
2^ Cfr. I, 5, 9 e infra nota 30.
27 Sulla monade intesa come punto cfr. I, 12, 5 e non come numero, ma
origine dei numeri cfr. I, 6, 7.
28 Cfr. I, 5, 15.
29 Sulla monade origine del pari e del dispari cfr. I, 6, 7.
30 Si tratta dei numeri lineari, piani (o quadrati), solidi (o cubici): nozio­
ne che appare nel Timeo 32 a-b e che rinvia all’aritmetica pitagorica. Presso
i Pitagorici la geometria non si considerava distinta dall’aritmetica e, in un
certo senso, l’aritmetica assumeva una forma geometrica. Dei numeri, infat­
ti, si dava una rappresentazione geometrica o, per così dire, fisica, tramite
un’opportuna configurazione di punti-sassolino formanti delle figure. Ad
esempio si chiamavano lineari i numeri che si potevano ottenere disponendo
i punti in segmenti: per ottenere una linea ne occorrevano almeno due, e se
si considera la serie dei numeri dispari, almeno tre. Quindi 0 tre, come dice
Macrobio, dà la prima linea dispari. I Pitagorici chiamavano invece piani,
vale a dire a due dimensioni, lunghezza e larghezza, e che risultano dal pro­
dotto di due fattori, i numeri corrispondenti a gruppi di sassolini disposti in
quadrato: i primi sono nella serie dei pari il quattro, e in quella dei dispari il
nove. Quanto ai numeri solidi, ossia aventi tre dimensioni, lunghezza lar­
ghezza altezza, si ottengono con il prodotto di tre fattori e i primi delle serie,
pari e dispari, sono rispettivamente l’otto e il ventisette.
31 Cfr. I, 6, 2-3 e I, 6, 46 e nota 87 del Libro Primo. C’è nuovamente da
chiedersi se Macrobio qui utilizzi lo schema lineare o a lambda. Nel seguen­
te § 17 lo schema lineare sembra esplicitamente descritto, ma qui pare segui­
re il lambdoma.
32 Platone, Timeo 35 a-36 b, la cui traduzione è nel seguente § 15.
33 Le sette parti della divisione corrispondono ai numeri 1 ,2 ,3 ,4 ,9 , 8,27.
Il 9 precede l’8 perché il demiurgo per garantire l’ordine della sequenza,
intreccia alternativamente la potenza del doppio e del triplo. Il secondo
numero è il doppio del triplo, il terzo è il triplo del primo, il quarto è dop­
pio del secondo, il quinto è il triplo del terzo, il sesto è doppio del quarto e
il settimo è triplo del quinto. In altri termini, dopo la monade, si alternano le
serie pari e dispari, facendo seguire i numeri lineari (2 e 3), poi i quadrati (4
e 9) e i cubici (8 e 27): cfr. supra nota 30. Altro schema di raffigurazione è
quello a lambda su cui cfr. precedente nota e nota 87 del Libro Primo. Tutto
il passo è, com’è noto, di notevole difficoltà, ma verosimilmente, essendo i
numeri che corrispondono alle prime sette parti dell’Anima del Mondo,
vanno associati ai pianeti in base a quelli che si ritenevano rapporti delle
distanze di questi pianeti dalla terra.
34 I sette numeri della nota precedente danno alle due progressioni geo­
metriche 1,2, 4, 8 e 1, 3, 9, 27, con ragione rispettivamente 2 e 3 e quindi
quaterne di primi numeri pari e dispari. Sono gli intervalli della prima e della
seconda progressione numerica, che vengono colmati con due medietà attra­
verso la proporzione armonica a : b - x - a : b - x e quella aritmetica a - x =
x - b.
35 Platone, Repubblica X 617 b: «Su ciascuno dei suoi cerchi, in alto, si
muoveva una Sirena, anch’essa trascinata dal moto circolare. Ognuna emet­
teva una sola voce di un unico tono; ma da tutte otto quant’erano risultava
una sola armonia». Si tratta di un’immagine dell’armonia dei cieli d’origine
sicuramente orfico-pitagorica, in cui le Sirene rappresentano il cielo delle
stelle fisse e i sette pianeti e il loro canto è quindi la musica delle sfere cele­
sti.
36 II nome ^eipfjv non ha un etimologia sicura. Alcuni lo fanno derivare
dal greco a e t p i o j «splendente, ardente», altri da o ó p c o «attraggo, trascino»
e G E i p ó c o «incateno, lego». Macrobio mette in relazione la parola con o i c p ,
forma dorica di 0rjcp, «divinità».
37 Sui theologi, termine già presente in I, 10, 16 e 17 con cui si designa­
vano i poeti autori di teogonie, vedi anche I, 14, 5 e I, 17,14 e rispettive note
239 e 328 del Libro Primo, passi in cui, più probabilmente, il termine si
applicava ai filosofi che si sono occupati del divino. L’identificazione delle
Sirene con le Muse è riferita da Plutarco e da Proclo, ma entrambi la attri­
buiscono agli «antichi». Porfirio la riferisce allo stesso Pitagora. I teologi
sarebbero dunque sapienti antichi, che quasi precedono i «filosofi». E illu­
minante in proposito un passo di Marsilio Ficino nella sua introduzione alle
Enneadi di Plotino: «Era costume degli antichi teologi nascondere i divini
misteri sotto formule matematiche e metafore poetiche, perché non venisse­
ro diffusi al volgo».
38 Trascrizione in latino del nome OOpavta, «la celeste». Nella raffigu­
razione ha come suo attributo la sfera stellata. Musa dell’astronomia presie­
de alla scienza delle cose celesti.
39 Cfr. Esiodo, Teogonia 77-79. Il verso citato per esteso è l’ultimo.
Nell’elenco esiodeo Calliope è la nona delle Muse e, come indice della sua
supremazia, le è consacrato un verso intero, mentre le altre otto sono elenca­
te in soli due versi.
40 La traduzione non riesce rendere giustizia alla ricchezza semantica
della parola latina uox , su cui Macrobio gioca, poiché il termine significa
tanto «voce» quanto «suono». Così non simboleggia la risonanza di una sfera
celeste, ma il concerto che nasce dalle voci di ciascuna delle sfere.
41 Apollo Musagete, cioè conduttore delle Muse, figlie di Zeus e
Mnemosine, di cui dirige il coro.
42 Cicerone, Repubblica VI, 17 = Sogno di Scipione 4, 2. Macrobio ha
commentato questo passo in I, 20, 1-8. Apollo con la cetra circondato dalle
Muse appare in Esiodo, Teogonia 201-206. Macrobio lo associa all’armonia
delle sfere in Saturnali 1 ,19,15: lyra Apollini chordarum septem tot caelestium
sphaerarum motus praestat intellegi, quibus solem moderatorem natura consti-
tuit («la lira di Apollo, di sette corde, rappresenta il moto di altrettante sfere
celesti, regolato per natura dal sole»),
43 Le Camene, ninfe profetiche delle fonti e delle acque dell’antica reli­
gione italica (la più nota fu Egeria che istruì il re Numa), furono ben presto
identificate con le Muse. La più antica testimonianza risale a Livio Andro­
nico (III sec. a.C.). Per i loro doni profetici il loro nome fu associato al ter­
mine carmen e al verbo canere, come attestano Varrone (Lingua Latina ),
Festo {De verborum significatu) e Servio (Commento a Virgilio).
44 Cfr. supra nota 37 e altri passi e note ivi richiamate. In questo caso i
theologi ci sembrano da identificare con coloro che istituirono i riti.
45 Altri preferiscono tradurre tibia con flauto, allo stesso modo con cui
viene tradotto il termine corrispettivo greco aùÀój, Preferiamo mantenere la
traduzione letterale, perché l’altra consueta traduzione è sbagliata. La tibia,
antico strumento a fiato pastorale in origine e spesso costruito con le tibie
degli animali, formata da una sola canna o più sovente da due canne diver­
genti ma con un’unica imboccatura, più che a un flauto, per la potenza di
fiato che richiedeva (come mostrano le pitture vascolari e i rilievi), assomi­
gliava a un oboe, mentre per il suono penetrante, insistente ed eccitante, era
più simile a una cornamusa.
4() Come testimonia nel suo trattato di metrica, noto col titolo Enchiridion
de metris il grammatico Elio Festo Aftonio [Hephaestio Alexandrinus] (III
sec.): «Gli antichi cantavano le lodi degli dèi racchiuse in versi girando attor­
no ai loro altari: il primo giro, che iniziava muovendo verso destra [in senso
antiorario], lo chiamavano strophé [cioè ‘evoluzione’, detto anche dell’avvi-
cendarsi delle stagioni]; poi, il secondo giro, compiuto al termine del primo
in senso opposto muovendo verso sinistra [in senso orario], la chiamavano
antistrophé... si tramanda che con il canto sacro così ripartito l’uomo inten­
da imitare l’armonia e il movimento dell’universo. In essi infatti le cinque
stelle dette “erranti” e in più il sole e la luna, come riferiscono i più dotti tra
i filosofi, rilucendo nelle loro orbite producono dei suoni gradevolissimi.
Così, imitando l’armonia e il movimento dell’universo, il coro cantava, dap­
prima danzando verso destra, poiché il cielo dall’alba al tramonto ruota verso
destra; poi ritornava verso sinistra, poiché dal tramonto all’alba il sole, la
luna e gli altri astri detti “erranti” ruotano verso sinistra...».
47 Note a Roma, ad esempio, erano le neniae, i canti funebri eseguiti dalle
prèfiche. Per la Grecia si possono ricordare i threnoi.
48 Orfeo, il mitico cantore tracio, fu uno degli Argonauti. Sposo di
Euridice, alla sua morte, ottenne dagli dèi di ricondurla sulla terra, a patto di
non voltarsi mai a guardarla lungo il percorso. Avendo disobbedito, la perse
per sempre. Fu in seguito considerato il profeta delTorfismo. La leggenda
secondo cui con la magia del suo canto trascinava uomini, animali, piante e
pietre è ben nota, a partire da Eschilo ed Euripide. Più raramente evocato di
Orfeo riguardo ai poteri della musica è Anfione. Figlio di Zeus e d ’Antiope,
fu allevato da un pastore sul Monte Citerone con il suo fratello gemello Zeto.
Anfione, istruito meravigliosamente da Ermes nel suono della lira, divenuto
adulto, col fratello mosse alla volta di Tebe per vendicare la madre dei sopru­
si che aveva subito da Lieo e dalla sua nuova compagna Dirce. Dal suo stru­
mento sapeva trarre suoni cosi delicati e commoventi che, quando si accinse
a costruire le mura di Tebe le stesse pietre accorsero a collocarsi da sole, una
sull’altra.
49 La storia della musica militare è straordinariamente lunga e variegata.
Si ha notizia di suonatori di strumenti, prevalentemente a fiato, ma anche a
percussione che seguivano gli eserciti mesopotamici prima, egizi poi, infine
greci e romani per consentire ai combattenti di obbedire agli ordini del
comandante. Le ragioni della limitazione a due classi di strumenti per uso
militare sono evidenti: i soldati avevano bisogno di strumenti che potessero
essere suonati agevolmente in piedi, durante la marcia, e che fossero anche
trasportabili con una certa facilità.
50 Virgilio, Eneide IV, 244.
51 Si tratta di una nozione tipicamente pitagorica attestata in innumere­
voli fonti. Condivisa da Platone, anche Aristotele e i suoi continuatori sotto­
linearono il potere catartico della musica sulle passioni. La concezione del
potere terapeutico della musica divenne pressoché comune tra musicologi e
filosofi, che, a cominciare da Platone, sottolinearono il suo ruolo nell’educa­
zione. Sull’influenza della musica sullo spirito cfr. Varrone, Satire Menippee,
fr. 365 b: saepe totius theatri tibiis crebro flectendo commutari mentes, frigi
animos eorum , «che spesso le tibie, con le loro frequenti modulazioni, muti­
no lo stato di spirito di un teatro intero, risvegliando i loro animi».
52 L’uso terapeutico della musica era una comune nozione pitagorica,
attestata da Aristosseno già dal IV sec. a.C. Come testimonia Giamblico: «...
era un mezzo tutt’altro che secondario di procurarsi la “catarsi”. Era questo
il nome che [Pitagora] dava alla cura operata per 0 tramite della musica» {La
vita pitagorica, I, 25, 110), Il verbo praecinere, «cantare» ma anche «pronun­
ciare una formula magica» richiama un contesto di cerimoniali, pratiche e
formule magiche, in cui queste ultime avevano un’unità strettissima con le
manifestazioni musicali, con la loro forza immaginifico-evocativa, al punto
che canto e incantesimo erano indistinguibili, come testimonia anche il ter­
mine latino carmen, che assume entrambi i significati, o il derivato francese
charme che significa anche incantesimo.
53 Usignolo e cigno sono tuttora le immagini letterarie, poetiche e musi­
cali per definire il cantore per eccellenza. Come ricorda anche Isidoro nelle
sue Etimologie (XII, 7, 18 e 37) i loro stessi nomi sono associati al canto.
L’usignolo è «come se cantasse per la luce»: infatti in latino lusciniolus è
diminutivo di luscinia, voce composta di lux, luce, e cinia, da ano usato nei
composti per cano, canto. L’usignolo è infatti noto soprattutto per il suo
canto molto ricco e musicale, anche notturno. Anche la voce cycnus, cigno, è
reputata derivare dallo stesso verbo, cino/cano, cantare. Gli Antichi credeva­
no che il cigno prossimo a morire cantasse nel modo più soave. Il mito dei re
dei Liguri Cicno, attestato la prima volta in un frammento di Esiodo, narra
che aveva avuto in dono da Apollo la soavità del canto e che piangendo la
morte dell’amante Fetonte con un lungo canto fu trasformato nell’uccello
che porta il suo nome e in seguito posto da Apollo fra le stelle. Oggi perciò
in senso traslato s’intende con «cantare come un usignolo» cantare bene e
con «canto del cigno» l’ultima e la più alta opera o azione compiuta da qual­
cuno, in special modo da un artista, in ricordo del mito sopra riportato.
54 Virgilio, Eneide VI, 728-729. Parte del primo verso è citato anche 1 ,14,
14 (cfr. nota 248 del Libro Primo).
55 Su Archimede cfr, sopra nota 349 del Libro Primo. Archimede misu­
rava le distanze degli astri dalla terra in stadi con un sistema di numerazione
moltiplicativo di tipo esponenziale, di cui Macrobio non ci dà ragguagli ma
che respinge in quanto non platonico. Da osservare che qui Macrobio attri­
buisce correttamente ad Archimede l ’ordine di successione «caldeo» (su cui
cfr. note 219 e 350 del Libro Primo), mentre esponendo la teoria dei plato­
nici viene seguito l’ordine «egiziano» attribuito a Platone, diverso da quello
attribuito ad Eratostene riferito nel capitolo 19 del Libro Primo.
56 Gli intervalli doppi e tripli in progressione geometrica a ragione due
(2, 4, 8) e a ragione tre (3, 9, 27) sono quelli utilizzati dal Demiurgo del Ti­
meo per fabbricare l’Anima del Mondo (cfr. la traduzione di Macrobio in I,
2, 159). Questi stessi numeri si ritrovano rispecchiati nel Corpo del Mondo.
57 In I, 19, 3-5 erano implicitamente proposte distanze molto differenti.
Secondo il calcolo proposto da Macrobio, che parte dall’unità che rappre­
senta la distanza della Terra dalla Luna e ogni distanza è un multiplo della
precedente con la serie matematica del Timeo, risultano i seguenti valori:
Terra-Luna = 1; Terra-Sole = Terra-Luna x 2 = 2; Terra-Venere = Terra-Sole
x 3 = 6; Terra-Mercurio = Terra-Venere x 4 = 24; Terra-Marte = Terra-
Mercurio x 9 = 216; Terra-Giove = Terra-Marte x 8 = 1728; Terra-Saturno =
Terra-Giove x 27 = 46656. Se, invece, si fa il calcolo sulla base delle durate
di rivoluzione enunciate in I, 19, 3-5 ne risulterebbero le seguenti distanze:
Terra-Luna = 1; Terra-Sole/Mercurio/Venere = 12; Terra-Marte = 24; Terra-
Giove = 144; Terra-Saturno = 360. Quali effettive misure corrispondano a
questi numeri Macrobio non lo dice. Ma se si accostano al dato che si ricava
in I, 20, 21 (che utilizza tutt’altro metodo), per cui il raggio dell’orbita sola­
re è di 4.800.000 stadi, equivalente alla distanza Terra-Sole, ne risulterebbe­
ro, soprattutto nel caso del primo calcolo, numeri enormi. Una diversa inter­
pretazione si ritrova in Calcidio (Commentario al Timeo di Platone, XCVI).
Nell’opera, di poco precedente a quella di Macrobio, si utilizza la progres­
sione aritmetica, intendendola come un multiplo diretto della distanza Terra-
Luna, per cui risultano i valori seguenti: Terra-Luna - 1; Terra-Sole = 2;
Terra-Venere = 3; Terra-Mercurio = 4; Terra-Marte = 8; Terra-Giove = 9;
Terra-Saturno = 27. Calcidio in questo modo giunge a numeri meno gigan­
teschi di quelli di Macrobio, ma si può osservare che è obbligato nella suc­
cessione numerica, ad invertire l’8 con il 9, per non collocare Marte sopra
Giove. Un altro problema è il fatto che qui i pianeti sono disposti secondo
l’ordine «egiziano» o «platonico», mentre il sistema descritto nel Sogno di
Cicerone è, come abbiamo veduto (cfr. note 198, 219, 350 del Libro Primo),
quello «caldeo». Macrobio aveva tentato di risolvere la contraddizione ricor­
rendo al sistema semi-eliocentrico di Eraclide Pontico (cfr. I, 19, 6-7 e relati­
va nota 355 del Libro Primo), ma qui questo sistema creerebbe ulteriori dif­
ficoltà.
58 Porfirio di Tiro (233-305), filosofo neoplatonico, fu a Roma discepolo
di Plotino di cui scrisse una Vita e pubblicò le Enneadi. Avversario del cri­
stianesimo, fu tuttavia famosa anche la sua Isagoge, introduzione alle catego­
rie di Aristotele, che ebbe un’enorme influenza sul pensiero medioevale. Solo
qui Macrobio cita Porfirio e il suo perduto commento al Timeo come sua
fonte.
59 Sul limma, rapporto pitagorico 256/243, cfr. sopra nota 16 e 17.
60 Si sono calcolati gli intervalli armonici che risultano dai rapporti tra le
distanze planetarie offerte da Macrobio. Dato che, come si è veduto, quan­
do si sommano due intervalli i rapporti che li definiscono vanno moltiplicati
(cfr. sopra nota 16), ne risultano: Sole-Luna (rapporto 2/1), un’ottava (Sia
TTaocòv); Venere-Sole (rapporto 3 = 2/1 x 3/2), un’ottava più una quinta
(Sia Ttaacòv Kai Sia ttévte); Mercurio-Venere (rapporto 4 - 2/1 x 2/1),
una doppia ottava (Bis Sta Ttaacòv); Marte-Mercurio (rapporto 9 = 2/1 x
2/1 x 2/1 x 9/8), tre ottave e un tono; Giove-Marte (rapporto 8 = 2/1 x 2/1
x 2/1), tre ottave; Saturno-Giove (rapporto 27 = 2/1 x 2/1 x 2/1 x 2/1 x 3/2
x 9/8), quattro ottave, una quinta e un tono. Tra i due suoni prodotti dai pia­
neti estremi, l’intervallo totale è quindi di quindici ottave e tre toni, in con­
traddizione con quanto affermato da Macrobio in I, 1, 24 (per non parlare
della sua probabile omissione di trascrizione) su cui cfr. supra nota 19. In
Calcidio (cfr, sopra nota 57) l’intervallo totale è di 27, ovvero quattro ottave,
una quinta e un tono. Comunque sia, anche confrontando le interpretazioni
dei vari commentatori del Timeo si ritroveranno più varianti nell’ampiezza
degli intervalli planetari, ma il princìpio generale è sempre lo stesso, ossia il
fatto che i suoni celesti sono concepiti sul modello delle corde della lira.
61 La maggioranza degli autori antichi attribuiva il suono più acuto alla
sfera più elevata, perché la sua rivoluzione era più veloce, e il suono più grave
alla più bassa. Altri autori come Nicomaco e Plutarco percorrevano la scala
secondo una direzione ascendente.
« In II, 1,5.
63 Macrobio sembra contraddirsi rispetto a quanto affermato in maniera
netta in 1 ,14,27 e 1,21,6 sul fatto che tutti i pianeti si spostano ad una mede­
sima velocità e che la differenza di durata delle loro rivoluzioni è determina­
ta dalla diversità di lunghezza delle loro orbite.
64 Sul concetto di soffio, spiritus, che appare per tre volte nei § 5-7
Macrobio è un po’ ellittico. Si può completare il ragionamento di Macrobio
dicendo che il soffio, che proviene dall’alto, s’indebolisce gradualmente avvi-
dnandosi nella sua discesa alla terra. La provenienza di questo soffio che
anima 0 Corpo del Mondo è la stessa Anima: cfr. i passi supra II, 3, 12 e infra
II, 16, 26.
65 Si è giustamente affermato come la corrispondenza di un suono più
acuto per i pianeti che ruotano con un moto più rapido e di un suono più
grave con i pianeti che ruotano più lentamente sia in palese contraddizione
con quanto Macrobio ha affermato nel capitolo 21 del Libro Primo (cfr.
sopra nota 63). In esso Macrobio dichiarava che tutti pianeti si muovono alla
stessa velocità e che le loro rivoluzioni durano un tempo maggiore o minore
a seconda della loro distanza dalla terra. Si è però ribattuto che Macrobio
non riteneva di cadere in contraddizione, perché presupponeva una velocità
angolare o di rotazione identica per tutti i pianeti e una velocità assoluta pro­
porzionale alla distanza di ciascun pianeta dalla terra, quindi differente
rispetto al sistema di riferimento. Un esempio è quello di due ciclisti affian­
cati con pedali di diverse lunghezze, che pur avendo, a parità di rapporto,
un’identica velocità angolare, avranno una differente velocità di rotazione
delle gambe rispetto al sistema di riferimento.
66 Qui Macrobio, nel suo paragone, incorre in un errore. Mentre i flauti
più lunghi hanno un suono più grave e i più corti hanno un suono più acuto,
non è affatto vero che il suono più acuto è quello emesso dai fori più prossi­
mi alla bocca e quello più grave dal più lontano, essendo semmai vero il con­
trario. E altresì vero che, nel flauto, alla cavità più piccola del foro corrispon­
de un suono più acuto. Altro errore di Macrobio è la sua confusione tra altez­
za e intensità del suono, laddove dichiara che un suono più intenso è anche
più acuto e, viceversa, un suono più debole è anche più grave. Ma i due erro­
ri si riscontrano già in Archita e in Teone di Smirne.
67 In I, 22, 7-10. Cfr. anche 22, 1, 4.
68 Cicerone, Repubblica VI, 17 = Sogno di Scipione 4, 1. La citazione era
già in I, 17, 3, dove, in conformità al testo, Macrobio scrive ceteros (concor­
dando l’aggettivo con un orbes vel globos sottinteso). Qui traspone l’aggetti­
vo ceteros ai femminile per concordarlo a uno sphaeras sottinteso.
69 Macrobio ritorna su nozioni già espresse e familiari al lettore: la sfera
stellata (I, 17, 6-17); il moto retrogrado dei pianeti (I, 18), l’immobilità della
terra (I, 22, 1-3).
70 L’affermazione che Mercurio e Venere, «satelliti» del sole, hanno una
medesima velocità è in palese contraddizione con l’osservazione fatta nel pre­
cedente capitolo (II, 3, 14) in cui si attribuiva a Mercurio un orbita di raggio
quadruplo rispetto a quello di Venere. Ma che Mercurio e Venere sono iso­
dromi del sole è già stato affermato in I, 19, 4. Qui la contraddizione può
spiegarsi sia per la difficoltà di dover commentare un passo in cui trovava la
lezione disiunctus (su cui cfr. sopra note 2 e 3), sia per la difficoltà di conci­
liare l’ordine dei pianeti «caldeo» dato da Cicerone con quello platonico (su
cui cfr. le numerose note relative del Libro Primo e sopra note 55 e 57).
Comunque sia la scala musicale celeste è modellata su quella dell’eptacordo
a tetracordi congiunti, in cui l’ultima nota del primo tetracordo è la stessa
della prima nota del secondo, che qui equivalgono alle note prodotte da
Venere e Mercurio (cfr. supra nota 2).
71 Cicerone, Repubblica VI, 18 = Sogno di Scipione 5, 2, già citato in I, 3.
72 Nel capitolo 6 del Libro Primo dove si spiega che nel sette sono con­
giunte le proprietà del quattro e del tre.
73 Nete e hypate (letteralmente la più bassa e la più alta) erano le corde
estreme di una lira. L'hypate, la più alta dal punto di vista fisico e non del
tono (in quanto la lira veniva tenuta in posizione eretta, parallela al corpo),
era quella destra, più vicina al corpo, che emetteva il suono grave, viceversa
la nete, a sinistra, emetteva il suono acuto. Con la stessa nomenclatura si indi­
cavano i suoni della scala eptatonica e dell’eptacordo citato sopra in note 2 e
70. Gli altri nomi delle note, ricavati dalla posizione delle corde sulla lira
erano paranete, trite, paramese, lichanos (percossa con il dito indice), parhy-
pate. Ovviamente, Yhipate, dal suono grave, era attribuita a Saturno e la nete ,
acuta, al circolo lunare. Purtroppo nel VI libro della Repubblica Cicerone
dava un ordine contrario, attribuendo alla luna un suono «gravissimo», così
come riporta Macrobio in uno dei precedenti capoversi. E verosimile che
Macrobio, che mostra scarsa dimestichezza con la musica, non abbia voluto
addentrarsi in una polemica, non tanto per la scarsa pertinenza del tema,
quanto per non sottolineare I’aporia di Cicerone. Cosa che invece doveva
aver fatto un ignoto commentatore verso il quale si dirigono i successivi stra­
li di Macrobio. Quanto al tono e al semitono, il limma, Macrobio è coscien­
te di averne a malapena sfiorato le nozioni (cfr. II, I, 20-23 e supra note 16 e
17).
74 Favonio Eulogio (op. cit. 22) accenna rapidamente che alle lettere in
musica corrispondono i suoni, alle sillabe gli intervalli, alle parole i sistemi.
Altri e numerosi trattati musicali, per noi perduti, dovevano evidentemente,
a proposito delle corrispondenze tra musica e cosmologia, essersi spinti a
livelli teorici di difficile comprensione per i non esperti di musica. Si spiega
così la precisa dichiarazione di reticenza di Macrobio nel successivo § rispet­
to all’inserimento di troppi dettagli tecnici.
75 Dei tre generi della musica greca antica (diatonico, enarmonico e cro­
matico) basati sul tetracordo (una serie di quattro note, la più alta e la più
bassa delle quali erano a distanza di una quarta giusta), il diatonico era costi­
tuito da due intervalli di tono ed uno di semitono ed era il genere predomi­
nante; il cromatico era costituito da un intervallo di terza minore e due inter­
valli di semitono e perciò le due note intermedie distavano approssimativa­
mente un tono e un semitono da quella più bassa; il genere enarmonico era
costituito da un intervallo di terza maggiore e due micro-intervalli di un
quarto di tono, quindi le due note centrali erano l’una a distanza di un inter­
vallo di un quarto di tono e l’altra di un semitono da quella più grave. La pro­
gressione del genere diatonico era la più naturale e quella corrispondente
all’armonia delle sfere. Ma il livello di corrispondenza tra scala musicale e
ordine planetario era giunto a gradi teorici di difficile comprensione per i
non iniziati e si spiega pertanto la dichiarazione di reticenza di Macrobio
riguardo l’inserimento di troppi dettagli tecnici. Basti qui dire che, nel Ti­
meo, il Demiurgo «riempì tutti gli intervalli d ’uno e un terzo con l ’intervallo
di uno e un ottavo e lasciò una particella di ciascuno di essi in modo che l’in­
tervallo lasciato da questa particella avesse i suoi termini nello stesso rappor­
to numerico tra loro come 256 sta a 243», owero un semitono: cosa che ben
rappresenta il tetracordo diatonico.
76 Letteralmente nell’originale Catadupa. I Catadupi, come spiega
Cicerone, sono la zona in cui, da monti altissimi, il Nilo si getta a precipizio.
Corrispondono quindi alle sue prime cateratte (e così viene anche tradotto il
vocabolo) ai confini dell’Etiopia (odierna cascata di Wady Halfa presso
Assuan). T à K aTàSoirna sono già citati da Erodoto Storie , II, 17.
77 Macrobio qui riassume un passo del Sogno (Repubblica VI, 19 = Sogno
di Scipione 5, 3) che non ha citato: Hoc sonitu oppletae aures hominum obsur­
duerunt; nec est ullus hebetior sensus in uobis, sicut, ubi Nilus ad illa, quae
Catadupa nominantur, praecipitat ex altissimis montibus, ea gens, quae illum
locum adcolit, propter magnitudinem sonitus sensu audiendi caret. Hic uero
tantus est totius mundi incitatissima conuersione sonitus, ut eum aures homi­
num capere non possint... («Le orecchie degli uomini, riempite di questo
suono, divennero sorde; né infatti vi è in voi senso che sia più debole di que­
sto, tanto è vero che, dove il Nilo, presso quelle cascate chiamate Catadupi,
precipita da altissimi monti, la gente che abita quel luogo è del tutto priva del
senso dell’udito a causa della potenza del suono. In verità il suono delle velo­
cissime rotazioni celesti è così grande che le orecchie degli uomini non pos­
sono percepirlo...»).
78 Giamblico (La vita pitagorica 65) narra che Pitagora udisse la musica
celeste prodotta dalla rotazione delle sfere e dei corpi celesti.
79 Cicerone, Repubblica VI, 20-21 = Sogno di Scipione 6, 1-3. Macrobio,
tra questa citazione e la precedente (II, 4, 1 e 9), omette un brano del testo
ciceroniano: quello contenente le due analogie con le quali Tullio spiega per­
ché gli uomini non odono la musica celeste: analogia con la sordità provoca­
ta dalle cascate del Nilo (parafrasata in II, 4, 14 e sopra citata in nostra nota
77); analogia della potenza dei raggi del sole: ... sicut intueri solem adversum
nequitis, eiusque radiis acies vestra sensusque vincitur («.. .allo stesso modo in
cui non potete fissare il sole, perché la vostra percezione visiva è vinta dai
suoi raggi»). Dallo spettacolo del firmamento, Scipione l’Africano trae una
lezione morale che impartisce al nipote: la gloria umana, vista dal cielo, ovve­
ro sub specie aeternitatis, appare veramente poca cosa. Da questo passo segue
l’esposizione geografica di Macrobio.
80 Con la consueta cura Macrobio riassume gli argomenti fin qui trattati
da Cicerone e perciò da lui stesso nel suo commento, facendo il punto della
propria esposizione: il cielo è stato commentato in I, 15, 1 - I, 17, 17; l’ese­
gesi dell’ordine e del moto delle sfere inferiori, ossia dei pianeti, si è svolta in
I, 18, 1 - 1, 21, 27; la musica celeste dovuta al loro moto figura in II, 1-4; la
questione dell’aria sottostante la luna e del mondo sopra-lunare è stata trat­
tata in I, 21, 33-35; infine, seguendo il Sogno di Cicerone, è giunto a trattare
dell’immobilità della terra, centro del cosmo, in I, 22, la descrizione della
quale a questo punto riprende andando ad occupare i capitoli 5-9 del Libro
Secondo.
81 In seguito alla «descrizione della stessa terra» di Cicerone, Macrobio,
come si è detto, compirà un’esposizione lungo cinque capitoli della sua
opera. Nei cap. 5 e 6 figurano le zone terrestri (II, 5, 8-21: fasce terrestri e
clima; II, 5, 22-36: fasce terrestri e mondi abitati; II, 6: dimensioni delle fasce
terrestri); il cap. 7 tratta della corrispondenza tra fasce terrestri e celesti; il
cap. 8 chiarisce un’affermazione sconcertante di Virgilio che potrebbe, a
torto, contraddire l’esposizione di Macrobio; infine il cap. 9 è dedicato
all’Oceano. Quella di Macrobio è una geografia matematica e non una
descrizione empirica della morfologia terrestre.
82 L’espressione di Macrobio tantum non coloribus fa pensare all’esisten­
za di modelli di sfere, rappresentanti il globo terrestre ma anche modelli
ridotti del cosmo intero, di cui lo stesso Cicerone attesta l’esistenza nella sua
Repubblica (I, 14). Dal primo di Talete, a quello di Eudosso di Cnido, fino
alla sfera di Archimede (su cui cfr. nota 349 del Libro Primo), non è impro­
babile che questi modelli meccanici fossero colorati, anche per dare concre­
tezza alle diverse zone climatiche.
83 Mentre nel mito Oceano, figlio di Urano, era il maggiore dei Titani e
padre di tutti i fiumi, oltre tremila, generati da Teti, e di altrettante figlie, le
Oceanine, rappresentanti ruscelli e fonti, metafora della potenza feconda del
mare, era anche la personificazione delle acque che, nelle arcaiche concezio­
ni geografiche, circondavano l 'ecumene, ossia le terre note e abitate. La Terra
era, infatti, considerata come un disco piatto, attorniato dal fiume Oceano
che segnava i confini del mondo conosciuto e la sua raffigurazione allegori­
ca più nota era l’omerico scudo d ’Achille. Con il progredire della scienza, fu
acquisita la sfericità della Terra. Nella logica della sferica o geometria della
sfera s’iscriveva la possibilità dell’esistenza di continenti sconosciuti, conte­
nuta in germe nella leggenda platonica d ’Atlantide. Fu Cratete di Mallo,
verso il 170 a.C., a costruire una sfera di grandi dimensioni (circa 3 m di dia­
metro) rappresentante il globo terrestre che conteneva, sulla sua superficie,
quattro mondi abitati simmetrici separati da cinture oceaniche. E questa teo­
ria che Macrobio crede di ritrovare nelle parole di Cicerone, che sembrano
indicare una pluralità di luoghi abitati e non un unico habitat.
84 In II, 5, 22-36. Cicerone già negli Academicorum Priorum attribuisce a
Lentulo la credenza negli antipodi.
85 Cicerone ha trattato delle fasce celesti nel brano citato all’inizio di que­
sto cap. 5. Anche Virgilio nelle Georgiche (I, 232-239) ha parlato di zonae
celesti: Quinque tenent caelum zonae; quarum una corusco / semper sole
rubens et torrida semper ab igni; / quam circum extremae dextra laevaque tra-
huntur / caeruleae, glacie concretae atque imbribus atris; / has inter mediam-
que duae mortalibus aegris / munere concessae divom, et via secta per ambas,
/ obliquus qua se signorum verteret ordo («Cinque zone segnano il cielo: /
quella in centro rosseggia sempre / al fulgore del sole / e sempre arde alla sua
fiamma; / ai suoi lati le più lontane / si estendono a destra e sinistra / traspa­
renti nella compattezza del ghiaccio / e nere di tempesta; / tra queste e quel­
la in centro / due zone furono concesse, / per dono degli dei, ai miseri mor­
tali, e tra le due fu tracciata una via / lungo la quale ruotano / in ordine pre­
stabilito le costellazioni»), Macrobio discuterà tre versi di questo brano nel
cap. 8. Qui evidenzia innanzi tutto una differenza terminologica: Virgilio uti­
lizza il vocabolo zona, trascrizione del greco Scovrì («cintura, fascia, zona»),
originariamente termine poetico prima di passare alla prosa scientifica, men­
tre Cicerone, stilisticamente, evita gli ellenismi e preferisce l’equivalente lati­
no cingulus. In seguito in II, 7,1-3 spiegherà che non vi è contrasto tra i due
brani, dato che nella globalità del cosmo le fasce terrestri sono la proiezione
geometrica delle zone celesti.
86 Sulla terra nona e ultima sfera cfr. 1,22, 1-2. L’orizzonte è già stato trat­
tato in I, 15, 17-19.
87 La terra è un punto rispetto all’insieme del cosmo: I, 16, 6 (e nota 311
del Libro Primo); I, 16, 10; I, 16, 13 e infra II, 9, 9.
88 L’opinione più diffusa tra gli antichi era che la zona torrida dove passa
la linea equinoziale fosse inabitabile, per avere il sole più dominio in quel
luogo che in alcuna altra parte della sfera, stando continuamente fra i due
tropici del Cancro e del Capricorno. Questa zona intermedia sarà definita in
II, 6, 4 e in II, 7, 6. In II, 8, 4 Macrobio spiegherà che per alcuni autori la
zona intertropicale non coincide necessariamente con la zona torrida inabi­
tabile. La rappresentazione macrobiana del mondo era basata sulla teoria
delle fasce termiche, nel IV secolo comune ed accettata, che definiva le zone
abitate e impraticabili della Terra. Secondo tale teoria, dovuta forse a
Parmenide, l’inabitabilità era dovuta al freddo rigido delle regioni polari e al
calore eccessivo della zona equatoriale. Plinio dice lo stesso parlando delle
zone temperate: le due zone abitate sono inaccessibili l’una all’altra, a causa
dell’ardore del Sole che brucia quelle da cui sono divise. Macrobio, come
abbiamo veduto, è ancora più esplicito ed assicura che quelli che abitano le
due zone temperate non hanno mai intrattenuto alcun commercio e che è
impossibile che ne avessero a causa del caldo eccessivo che le separa tra loro:
oltre l’estremo ardore del Sole, gli Antichi avevano un’altra ragione per cre­
dere che le zone temperate fossero tra loro inaccessibili. Erano dell’opinione
che l’Oceano cingesse tutta la Terra e estendendosi sotto la linea, da oriente
ad occidente, dividesse come in due, il globo della terra, separando così le
due zone temperate. Ecco perché, secondo Gemino, Omero e gli antichi
poeti, il Sole si alzava dell’oceano e vi tramontava. I sacerdoti dell’Egitto
garantivano che il Nilo traesse la sua sorgente dall’Oceano che circonda tutta
la Terra. Ovidio ci dice che Vulcano aveva inciso sulle porte del palazzo del
sole, l’oceano che cingeva tutta la Terra divisa in due parti uguali, Orazio
chiama l’oceano Oceanus circum vagus. Orazio lo chiama cingente, e per la
stessa ragione, Cicerone e Strabone affermano che la terra da noi abitata è
un’isola; i primi cristiani non erano di diversa opinione, San Clemente chia­
ma i paesi localizzati sotto la zona australe, temperati.
89 Parafrasi di Virgilio, Eneide I, 387-388: auras / vitalis carpis, «respiri
l’aria vitale», e forse anche reminiscenza di Lucrezio, La natura delle cose VI,
1227-1228: nam quod ali dederat uitalis aeris auras / uoluere in ore licere...,
«infatti, ciò che ad uno aveva dato la possibilità di continuare a respirare i
vitali aliti dell’aria...». I due venti principali del nord e del sud saranno men­
zionati nei § 20-21.
90 La figura fornita da Macrobio diventerà, dal Medioevo in poi, un
modello fortunato per le mappe del mondo, le cosiddette «carte a zone», di
cui forniamo nel capitolo una serie di esempi. Nel mappamondo fornito da
Macrobio la Terra è suddivisa in zone temperate e fredde: le prime sono
Europa, Africa e India, situate al centro della carta; le terre fredde ed inabi­
tabili, definite frigide, si trovano ai poli. Il continente australe è vastissimo,
separato dal continente africano da un grande oceano. Si tratta di un’ennesi­
ma testimonianza dell’utilizzo, come noi, da parte degli Antichi delle carte
geografiche su cui descrivevano i paesi che gli erano noti: Anassimandro,
discepolo di Talete, è famoso per la sua sfera e per la sua carta generale della
Terra; Eratostene corresse questa carta di Anassimandro che era molto erro­
nea ed imperfetta; e Ipparco, a sua volta, corresse quella di Eratostene. In un
aneddoto, che ricorda molto la vanità della gloria sottolineata a Scipione dal
suo avo, si narra che Socrate, presentando al suo discepolo una carta del
mondo, disse un giorno ad Alcibiade, orgoglioso delle sue terre e della loro
estensione, di mostrargli la Grecia e l’Africa. Avendo fatto ciò, Socrate disse
ad Alcibiade di indicargli le sue terre nell’Attica; ma dopo che Alcibiade
ebbe risposto che le sue terre non erano abbastanza considerevoli da essere
segnate sulla carta, Socrate gli replicò che poiché le sue terre, benché tanto
estese, non riuscivano a trovare neanche posto in una carta, doveva di con­
seguenza valutare il posto che occupava nel Mondo, lui che era solamente un
uomo. Floro al principio della sua Epitome afferma di imitare coloro che
hanno l’abitudine di rappresentare tutti i paesi della Terra su una piccola
carta, rinchiudendo tutta la storia e riportando in poche parole molte cose.
Anche Plutarco al principio della Vita di Teseo, paragona in generale la sto­
ria a una carta geografica, e Properzio dichiara che era obbligato ad appren­
dere la situazione delle diverse parti del globo su una carta dove erano segna­
te. Varrone ci dice che trovò suo suocero Lucio Caio Tondano che guardava
con qualcun altro una carta d ’Italia che era stata disegnata sul muro. È indu­
bitabile dunque che gli Antichi utilizzassero come noi le carte, sia generali sia
particolari. Potevano essere fatte abbastanza esattamente, ma rispetto alle
nostre contenevano certamente o molti vuoti o molto d’immaginario e di
falso.
91 Macrobio si è già occupato dei circoli paralleli in I, 15, 13. Nel preci­
sare qui per la prima volta che il sistema delle coordinate celesti è del tutto
analogo per proiezione a quello definito sulla Terra (cfr. nota 297 del Libro
Primo relativa al § testé citato), descriverà il circolo equinoziale in II, 7, 4-6,
mentre le dimensioni delle fasce terrestri, compresa quella equinoziale, con­
trassegnate dalle lettere della figura saranno descritte in II, 6, 2-4.
92 Virgilio, Georgiche I, 237-238. Questi versi saranno commentati nel
seguente cap. 8,
93 L’etimologia di meriggio, dal latino meridies, deriva infatti da medidies,
composto di media , «mezzo» e dies, «giorno». Macrobio fa la stessa afferma­
zione nei Saturnali I, 3, 14: ad meridiem, hoc est ad medium diei («a mezzo­
giorno, cioè a meta del giorno»).
94 II passo riecheggia un’antica polemica degli Stoici nei confronti degli
Epicurei. Ma è stato giustamente notato che, non esistendo più al tempo di
Macrobio la setta degli epicurei, si potrebbe ravvisare come bersaglio di
Macrobio i cristiani, i quali, come Lattanzio e Agostino, ritenevano inaccet­
tabile l’esistenza degli antipodi, perché i tre quarti degli abitanti della terra
sarebbero stati esclusi dalla redenzione. Al contrario Origene professava la
dottrina degli antipodi, citando le opinioni di san Clemente. Anche in segui­
to, nel medioevo cristiano l’esistenza di un continente australe immenso fu
da alcuni confutata senza possibilità di prova in base a considerazioni pura­
mente teologiche. Alcuni giunsero a propugnare che la Terra fosse piatta, o
addirittura, in più varie e strane maniere, a forma di Tabernacolo e con cielo
emisferico. Comunque si precludeva l’esistenza di un emisfero australe e di
un continente agli antipodi (cfr. infra nota 99), sotto il peso di una condan­
na dell’interpretazione cosmografica, solo perché appartenente alla storia
pagana, e per alcuni secoli si smarrì una traccia sicura d’una dottrina geogra­
fica, che era pur tra le conquiste più preziose e sicure, trasmesse dalla cultu­
ra antica. In questa incertezza, anche un erudito di vasta fama come Isidoro,
vescovo di Siviglia (560 ca.-636), le cui opere principali (Etimologie e Natura
delle cose), illustrate da generazioni di disegnatori di mappe che persistero­
no nel fare mappe tripartite, avranno una grande fortuna per tutto il
Medioevo, sulla sfericità della terra si esprime in termini assai vaghi, pur
assumendo che la Terra presenti le cinque zone climatiche, descritte da
Macrobio. Altri autori si dimostreranno più precisi e sulle orme di Macrobio,
come di Marziano Capella, si collocano nel solco dell’Antichità e si pronun­
ciano senza ambiguità a favore della forma sferica della Terra. E, per fare
qualche esempio, il caso del monaco anglosassone Beda il Venerabile (700
circa) o del grande enciclopedista Guillaume de Conches (1080-1154).
95 Diogene Laerzio (Vite dei filosofi V ili, 26) attribuisce ai Pitagorici l’o­
pinione «che ci sono anche degli antipodi, e che quello che per noi è sotto è
sopra per quelli che sono ai nostri antipodi». Sostenendo ciò era implicita
l’interpretazione esatta della legge di gravità.
96 Cfr. Plinio, Storia Naturale II, 161: Ingens hic pugna litterarum contra-
que vulgi, circumfundi terrae undique homines conversisque inter se pedibus
stare, et cunctis similem esse verticem, simili modo et quacumque parte media
calcari, illo quaerente, cur non decidant contra siti, tamquam non ratio praesto
sit, ut nos non decidere mirentur illi («Grande è qui la battaglia fra la scienza
e l’opinione popolare; da un lato, si dice che gli uomini sono sparsi all’intor­
no su tutta la terra e che hanno i piedi contrapposti, e che per tutti è simile
lo zenit, e che da ogni parte si cammina stando allo stesso modo nel centro
della terra. Dall’altro, si chiede perché non cascano giù i nostri antipodi,
come se anche loro non avessero tutte le ragioni di stupirsi perché non
caschiamo noi»),
97 Citazione di Cicerone, Repubblica VI, 17 = Sogno di Scipione 4, 3, già
fatta da Macrobio I, 22, 1.
98 In I, 22, 4-13, attraverso l’esempio della caduta della pioggia. Già
Platone nel Timeo (63 a) a seguito di uno stringente ragionamento aveva
affermato che poiché l’universo è di forma sferica, non era ragionevole affer­
mare che possiede un alto e un basso. Soltanto gli Epicurei contestavano la
forza d’attrazione del centro.
99 La polemica di Macrobio non può essere diretta alla setta degli Epicu­
rei, ormai non più esistente alla sua epoca, né tanto meno al volgo ignoran­
te: cfr. sopra nota 94. Nell’individuare a chi si rivolgesse Macrobio, senza
nominarli, ci sono d’aiuto due passi: uno di Campanella e l’altro di Voltaire.
Nel 1616 Tommaso Campanella, nella sua Apologia per Galileo, scriveva:
«Lucio Ceciiio Firmiano (Lattanzio) e Sant’Agostino, sebbene saggi e que­
st’ultimo Santo, negarono l’esistenza di esseri negli antipodi, mossi dal loro
fervore religioso e a causa dell’infallibilità delle Sacre Scritture, come si
deduce dagli argomenti che da esse derivano: ovvero, sia perché tali esseri
umani non avrebbero potuto discendere da Adamo, e quindi contrario alle
Scritture, sia perché sarebbe stato impossibile che qualche nostro antenato
fosse emigrato fin là attraversando l’Oceano insuperabile. Però oggi, che
abbiamo conoscenze matematiche e cosmografiche adeguate, sappiamo che
tutti questi argomenti sono fallaci, quindi anche le Sacre Scritture furono
malamente interpretate». Voltaire, dal canto suo, nel Dictionnaire alla voce
‘Cielo degli antichi’ affermava: «Così sant’Agostino tratta l’idea degli antipo­
di come un’assurdità, e Lattanzio dice espressamente: ‘C’è dunque gente così
insensata da credere che esistano uomini la cui testa sta più in basso dei
piedi?’». Infatti, il teologo africano Lattanzio, nel IV secolo, scriveva nelle
sue Divine istituzioni (III, 24): «Che cosa intendono poi dire coloro che cre­
dono all’esistenza di punti contrari e corrispondenti ai nostri piedi? agli An­
tipodi, dico; vi può essere qualcuno tanto sciocco da credere che vi siano
uomini le cui orme restino più alto delle loro teste? e che quanto noi vedia­
mo al basso, colà abbia invece una posizione opposta diametralmente? che le
messi e gli alberi crescano volti al basso e le piogge e le nevi e la grandine
cadano in terra da una direzione contraria? Questa ridicola favola degli anti­
podi deriva dalla credenza nella rotondità della terra...». Quanto al Padre
della Chiesa Agostino, affermava nella Città di Dio (XVI, 9): «Non v’è dimo­
strazione scientifica per ammettere quel che alcuni favoleggiano sulla esisten­
za degli antipodi, cioè che uomini calcano le piante dei piedi in senso inver­
so ai nostri dall’altra parte della terra, dove il sole sorge quando da noi tra­
monta. Non affermano infatti di averlo appreso in seguito a una esperienza
storicamente verificatasi, ma prospettano col ragionamento una ipotesi per­
ché la terra sarebbe sospesa nella volta del cielo e avrebbe lo stesso spazio in
basso e al centro. Suppongono perciò che l’altra faccia della terra, quella di
sotto, non può esser priva di abitanti. Non riflettono, anche se si ritiene per
teoria o si dimostra scientificamente che il pianeta è un globo e ha la forma
sferica, sulla non consequenzialità che anche dall’altra parte la terra è libera
dalla massa delle acque e anche se ne è libera, non ne consegue necessaria­
mente, di punto in bianco, che è abitata dagli uomini. Difatti in nessun modo
la sacra Scrittura mentisce perché con la narrazione dei fatti del passato
garantisce l’attendibilità che le sue predizioni si avverino. D ’altronde è trop­
po assurda l’affermazione che alcuni uomini, attraversata l’immensità del-
l’Oceano, poterono navigare e giungere da questa all’altra parte delia terra in
modo che anche là si stabilisse la specie umana dall’unico progenitore...».
Nella metà del VI secolo, il mercante e viaggiatore bizantino Cosma, nativo
di Alessandria d’Egitto, soprannominato Indicopleuste («che ha viaggiato
verso l’ìndia»), intraprese lunghi viaggi in Arabia e nell’Africa orientale. Ri­
tiratosi dalle imprese commerciali si diede alla vita monastica, probabilmen­
te fra i nestoriani, compose trattati di cosmografia, di geografia e di esegesi
biblica. La sua Topografia Cristiana è tra le sue opere la sola sopravvissuta. La
sua mappa rettangolare descrive una terra parimenti rettangolare circondata
da un oceano, contornato a sua volta da un bordo di terra «dove vivevano gli
uomini prima del Diluvio». Anche se nel suo testo può essersi lontanamente
ispirato al sistema cratetiano proposto da Macrobio e Capella per ritrarre la
sua terra oltre l’Oceano, stabilì tuttavia che questa terra, ora deserta, era abi­
tata dagli uomini soltanto prima del diluvio, poiché, dopo la traversata con
l’Arca, Noè approdò in Persia, da dove la sua progenitura si sparse in questa
parte di mondo ch’è ora abitata. Ma d’altra parte rinnegando la rappresenta­
zione sferica del mondo e fondandosi sulla Bibbia, perveniva a una forma
piatta della Terra, al di sopra della quale il cielo si inarca a volta, chiusa da
quattro pareti come l’immagine del tabernacolo della rivelazione di Mosè. Al
di là dell’Oceano che circonda la terra abitata, Cosma contemplava che sulla
terra, non più abitata dai tempi di Noè, sorgesse il Paradiso terrestre di
Adamo, isolato dall’umanità a seguito del peccato originale: inaccessibile
eppure reale, come raccontano le Scritture, esso è collegato al mondo umano
attraverso i quattro fiumi che, nati dalle sue montagne, «risgorgano nella
nostra terra» e le danno vita. La questione degli antipodi rimase, dunque, per
secoli confinata alla discussione più di natura teologica che scientifica e
cosmografica. Da un lato era impossibile che all’evangelizzazione impartita
dal Cristo fossero stati posti ostacoli insormontabili, quali il calore torrido
della zona equatoriale e soprattutto la presenza dell’Oceano, ritenuto non
attraversabile, deducendone, come fra gli altri il missionario anglosassone
Bonifacio (675 ca.-754), che gli antipodi non potevano esistere. Era questa
l’opinione di alcuni religiosi, tra cui il summenzionato Bonifacio. Dall’altro
si risolveva la questione affermando l’esistenza degli antipodi, ma postulan­
do una semi-ferinità dei loro abitanti o addirittura la loro mancanza d ’anima
e quindi l’inutilità della loro evangelizzazione (si tratta di una linea argomen­
tativa che condusse, in seguito alla conquista dell’America, a terribili soffe­
renze umane per i popoli conquistati fino alla celebre controversia di
Valladolid del 1550). Solo nel 1471 i navigatori portoghesi dimostrarono la
fattibilità della traversata della zona equatoriale, impresa che andò immedia­
tamente a favore dell’esistenza degli antipodi. Si può dire in generale che,
durante tutto il Medioevo, la discussione sugli antipodi restò riservata al
clero. Per i laici si trattava di una discussione pericolosa che poteva essere
considerata eresia. Di ciò fece triste esperienza l’astronomo e poeta Cecco
d ’Ascoli, condannato al rogo per questo «errore della fede» a Bologna nel
1327. Al contrario, nel mondo arabo, grazie all’influenza neoplatonica, fin
dall’alto medioevo l’idea della sfericità della terra e della sua divisione in
quattro continenti, due nell’emisfero nord e due nell’emisfero sud, era così
comune che le mappe venivano chiamate «immagini del quarto abitato della
Terra».
100 Cicerone è già stato Iodato per la sua concisione in I, 10, 8.
101 Cfr. sopra § 20. Macrobio è in procinto di esporre la teoria di Cratete
di Mallo su cui cfr. sopra nota 83. il principale esponente della scuola di
Pergamo, durante la sua permanenza a Roma come ambasciatore, dette ini­
zio alla filologia latina che annoverò numerosi autori come Elio Stilone,
Marco Terenzio Varrone, Nigidio Figulo, Verrio Flacco, Aulo Gellio,
Apollonio Discolo, Elio Donato, Servio, lo stesso Macrobio e Prisciano. A
Pergamo era fiorita una scuola, antitetica a quella alessandrina, che propone­
va una lettura allegorica del testo. Quest’interpretazione si differenziava da
quella grammaticale o letterale, in quanto si avvaleva di una lettura aperta ai
significati mitici, storici e, in definitiva, a qualsiasi elemento utile alla lettura
stessa. Cratete commentò i testi poetici di Omero, di Esiodo, di Euripide e
di Arato. Fu anche maestro dello stoico Panezio che si recò più volte a Roma,
dove entrò in contatto, probabilmente per intervento di Polibio, col circolo
culturale di Scipione PF,miliario, e l’autorità di questo suo allievo contribui a
far prevalere la tendenza stoico-pergamena. Il principale interesse di Cratete
fu rivolto alla geografia omerica. Oltre al bello e al dilettevole si potevano
trovare in Omero anche dati scientifici sulla struttura del mondo, perché il
poeta conosceva già tutti i segreti della natura. Il globo terrestre di Omero è
per lui a forma sferica e la corrente oceanica, passando per la zona torrida, si
spinge verso ognuno dei due poli a circondare la terra. Il viaggio fortunoso
di Ulisse è trasferito dal Mediterraneo all’oceano Atlantico. Secondo lui,
Omero avrebbe conosciuto le notti polari; il Tartaro oscuro corrispondereb­
be quindi per Cratete alla zona artica. La terra era dunque una sfera immen­
sa, coperta per la maggior parte dall’Oceano da cui emergevano quattro isole
abitate simmetriche. Questa sua concezione originale, unita alla trovata di
costruire un modello del globo da lui immaginato, dà un’idea della sua fisio­
nomia singolare e fa comprendere il seguito che ebbe negli ambienti più illu­
minati di Roma.
102 È da notare che in questa frase il uobis di Cicerone, con cui Scipione
l’Africano si rivolge a Scipione l’Emiliano, rappresentante l’umanità, è tra­
sformato da Macrobio in nobis.
103 Nella suddivisione del globo terrestre in quattro regioni abitate
Macrobio, come si è detto (cfr. sopra note 83 e 101) s’ispira a Cratete di
Mallo (210-150 a.C.), a cui, in contrasto con la teoria cartografica di
Eratostene che prevedeva un unico ecumene, Strabone (Geografia I, 2, 24)
attribuisce il modello d ’un globo terrestre. Di esso alla fine di questo capito­
lo (dopo i diagrammi a zone macrobiani) si offrono alcune ricostruzioni, Gli
anteci, c t v t o i k o i , sono coloro che vivono nello stesso meridiano e alla stessa
latitudine ma nell’emisfero opposto al nostro e quindi gli obliqui. Gli antipo­
di, con cui traduciamo il successivo termine adversi di cui vien data la defi­
nizione in tal senso, sono gli abitanti diametralmente opposti alla nostra
parte abitata. I tranversi sono coloro che abitano nel medesimo parallelo, ma
sul meridiano opposto, vale a dire nell’emisfero opposto differenziato di 180
gradi. Macrobio in quest’ultimo caso non utilizza il termine tecnico perieci,
perché questo definiva anche i celebri antichi abitanti dei dintorni di Sparta,
privi di diritti politici. Si tenga però presente che, nell’antichità, le definizio­
ni, e in particolare quella degli antipodi, erano fluttuanti a seconda dei vari
autori e le nomenclature non sempre coincidono. Ciò anche, a seconda del­
l’inclinazione che l’osservatore dava al modello di sfera, dove l’orizzonte era
magari determinato da un meridiano e non dall’abituale linea dell’equatore.
Nel caso delle osservazioni di Macrobio, l’orizzonte è quello di Rodi, che,
con le Colonne d’Èrcole (stretto di Gibilterra), a 36° di latitudine era il punto
di riferimento abituale degli antichi geografi (vedi esempio di ricostruzione
nella figura a p. 481 = Fig. 37). Origene dice a proposito dei mondi che sono
al di là dell’oceano che San Clemente ha fatto menzione di quelli che i greci
chiamano anteci che abitano un luogo della Terra tra 0 quale, e quello che
noi abitiamo, non può esserci nessuna comunicazione: Sant’Agostino che
confonde sotto il nome di antipodi, gli anteci e gli antipodi, era così convin­
to che le due zone temperate fossero tra esse incomunicabili, che sosteneva
che la zona australe non era affatto abitata, perché gli abitanti non potevano
discendere da Adamo: perché, dice questo Padre, è assurdo credere che gli
uomini abbiano potuto attraversare l’immensità dell’oceano. Infine gli Stoici
davano una ragione fisica del fatto che l’oceano si estendeva in questo modo
sotto l’equatore: abbiamo detto che questi filosofi stoltamente credevano che
il fuoco degli astri sì nutrisse dei vapori e delle esalazioni del globo terrestre;
ed anche secondo loro il Sole, la Luna e gli altri pianeti non si scostavano
dalla linea equatoriale, per essere sempre nelle condizioni di ricevere il nutri­
mento che l’oceano gli forniva; è la stessa ragione che faceva credere che ci
fossero degli Anteci, cioè degli abitanti sotto la zona australe del nostro emi­
sfero. Si giudicava che potevano esserci anche degli antipodi, ossia degli abi­
tanti sotto la nostra stessa zona nell’altro emisfero. La figura sferica della
Terra faceva congetturare gli uni e gli altri, ma non ce n’era nessuna certez­
za. I Pitagorici credevano che ci fossero degli antipodi; gli Stoici pensavano
la stessa cosa; Plinio non osa prendere posizione. Ed è certo che se ne parla­
va con ancor più cautela di quanto si facesse nel caso degli anteci. I primi
Cristiani che si accorsero che questa opinione non concordava con le
Scritture, la ritennero una fantasticheria dei filosofi, ed è in questo senso che
si spiega Sant’Agostino circa questa opinione. Si sa che San Virgilio (Vili
sec.), di origine irlandese e vescovo di Strasburgo, autore di una Cosmografia,
accusato da San Bonifacio di credere «contrariamente alle Scritture» nella
sfericità della terra e nell’esistenza di altri uomini oltre a quelli del mondo
conosciuto, fu quasi scomunicato dal Papa Zaccaria per avere di fatto soste­
nuto la teoria degli antipodi e chiunque l’avesse pensata in questo modo,
prima della scoperta dell’America, non mancava di essere guardato come un
eretico sostenitore di una teoria perversa. Dopo Isidoro (cfr. supra nota 94),
in questo stesso secolo V ili, fu altrettanto cauto il Venerabile Beda (673-735)
che sottoscrisse la sfericità della terra ma non l’abitabilità degli Antipodi (De
Natura Rerum XLVI e De temporum ratione XXXII, XXXIV). Anche nelle
mappe dei diversi manoscritti del Commentario all’Apocalisse del Beato di
Liebana (circa 730-798), monaco benedettino spagnolo e teologo, una delle
autorità più avvincenti ed enigmatiche in II Nome della Rosa di Umberto
Eco, la zona meridionale viene descritta come inabitabile, terra australis inco­
gnita. Beato di Liebana prese parte alla controversia adozionista, ma è
soprattutto noto per il suo Commentario, pubblicato nel 776. Il commento fu
popolarissimo e sopravvive in oltre 30 manoscritti (di solito chiamati beatus)
del X-XIII secolo, molti dei quali abbondantemente illustrati da miniature in
stile mozarabico. Benché il manoscritto e la mappa originali non siano
sopravvissuti, la copia della mappa è una delle più antiche del mondo cristia­
no e mostra una curiosa sintesi tra le mappe rappresentanti la sola parte della
terra conosciuta e abitata e tra quelle di stampo macrobiano.
Cfr. Cicerone, Academicorum priorum II, 123: qui aduersis uestigiis
stent contra nostra uestigia, quos antipodas uocatis.
105 Cfr. sopra II, 5, 13-15 e Figg. 39, 40 e 41, p. 493.
106 La divisione della circonferenza terrestre in sessantesimi è dovuta ad
Eratostene (su cui cfr. nota 384 del Libro Primo). Eratostene con il suo cal­
colo era giunto a una misura di 250.000 stadi, che arrotondò a 252.000. Ciò
permetteva di ottenere un numero divisibile in dodicesimi e, soprattutto, in
sessantesimi e di esprimere così con un numero tondo (700 stadi) la lunghez­
za di un grado. Sulla misura dello stadio cfr. nota 301 del Libro Primo.
107 Cfr. II, 7, 4-6, dove si spiega che le demarcazioni delle zone tra le
quali si calcolano le larghezze sono ottenute per proiezione sul globo terre­
stre dei circoli artici e tropici del cielo. La larghezza A N, essendo di 4 ses­
santesimi, corrisponde a 24° (cfr. sopra nota 106), che è l’inclinazione dell’e­
clittica sull’equatore arrotondata dagli Antichi (in realtà 23,46°) e che defini­
sce, conseguentemente, la latitudine dei tropici. Poiché gli Antichi avevano
scelto come riferimento la latitudine di 36° (cfr. sopra nota 103) il circolo
artico è a 36° gradi dal polo e la larghezza della zona temperata, definita per
sottrazione, equivale a 30°.
108 Si tratta delle metà superiori e inferiori definite dall’orizzontale di
Rodi (cfr. sopra nota 103 e vedi Fig. 37 a p. 481) e non dall’equatore.
109 Sulle definizioni e differenza di meridiano e orizzonte cfr. I, 15, 15-19
e anche II, 5, 9. Macrobio, rendendosi conto della difficoltà del lettore di raf­
figurarsi un meridiano di fronte su una figura con una retta verticale, invita il
lettore a immaginarselo, perché gli appaia la curva della terra, come il meridia­
no che limita la figura a destra (formante il semicerchio e segnato da C A D),
meridiano che deve avere per l’osservatore esterno la funzione d’orizzonte.
110 Cfr. II, 5, 7 e nota 85.
111 Tra le nozioni classiche che facevano parte del bagaglio culturale di
ogni uomo dotto nel mondo greco-romano vi era quella che se la terra è sfe­
rica come il cielo, il globo terrestre, al centro della sfera celeste, ne è come la
replica e, analogamente ai circoli celesti fondamentali, i circoli terrestri, omo­
nimi dei primi, dividono la terra in zone che si caratterizzano per la tempe­
ratura e, quindi, per l’abitabilità. La dottrina dei cinque circoli celesti e ter­
restri, secondo Diogene Laerzio, risale a tempi antichi, Plutarco riferisce che
furono Talete e Pitagora a dividere il cielo in cinque zone e quest’ultimo a
trasferire per primo le zone celesti alla terra (cfr. De Placitis philosophorum 3,
14), mentre, secondo Strabone, Posidonio attribuiva la paternità della dottri­
na a Parmenide e sempre Strabone la dice condivisa da Aristotele.
112 Questi «confini precisi», come Macrobio indicherà nei seguenti § 4-
5, sono, secondo gli usi della geografia matematica, i grandi circoli paralleli
della sfera celeste, circoli artici e tropici.
113 Le misure dei circoli celesti si traggono dalle larghezze attribuite da
Macrobio alle fasce terrestri in II, 6, 4-6 (cfr. sopra nota 107). Essendo una
proiezione, fissare le posizioni dei primi equivale ad indicare quelle delle
seconde e viceversa.
114 Cfr. II, 5, 7 e nota 85.
115 Cfr. I, 5, 13, dove, facendo l’elenco dei circoli paralleli, ha già delimi­
tato la zona torrida come compresa tra i due tropici.
116 Questa variazione nel moto (apparente) del sole è infatti alla base del­
l’etimologia del termine solstizio, derivato dal composto latino di sol, «sole»,
e sistere, «fermarsi, arrestarsi» (cfr. Varrone, Lingua Latina VI, 8: solstitium,
quod sol eo die sistere videbatur). I solstizi sono i due giorni dell’anno nei
quali il Sole raggiunge il punto più meridionale o settentrionale della sua
corsa apparente nel cielo, rispettivamente al tropico (dal greco T p o n f | ,
«rivolgimento») del Capricorno e al tropico del Cancro rispetto al piano del­
l’eclittica (ma vedi in proposito anche note 201 e 202 del Libro Primo). Per
quanto concerne la simbolica dei due segni, chiamati «porte del sole» (su cui
cfr. I, 12, 1-3), Macrobio afferma nei Saturnali (I, 17, 63) che Cancro e
Capricorno ebbero questi nomi perché il gambero ovvero il cancro è un ani­
male che cammina all’indietro e obliquamente, e analogamente il sole in tale
costellazione comincia a retrocedere, come al solito in linea obliqua; d ’altra
parte risulta consuetudine della capra al pascolo tendere sempre verso l’alto,
e pure il sole nel Capricorno comincia a risalire dal punto più basso verso
l’alto». Il solstizio d ’estate è solitamente, nell’emisfero nord, il 21 giugno o il
22 ed è la data del giorno più lungo dell’anno, e di conseguenza della notte
più corta. Al momento del solstizio, il Sole raggiunge la sua massima decli­
nazione ed è allo zenit al tropico del Cancro. Il solstizio d’inverno è, nell’e­
misfero nord, il 21 dicembre, o il 22. La data del solstizio d’inverno coincide
col giorno più corto dell’anno e della notte più lunga. Il Sole raggiunge la sua
minima declinazione ed è allo zenit al tropico del Capricorno. Come quello
estivo, il solstizio d’inverno ha rappresentato nei secoli occasione di festività,
come a Roma i Saturnalia, cui Macrobio ha consacrato l’altra sua celebre
opera. Nell’emisfero sud le date dei solstizi sono invertite. Attraverso i punti
solstiziali sono tracciate le linee immaginarie parallele alla linea equinoziale,
a nord del tropico del Cancro e a sud di quello del Capricorno, entrambe
poste dagli antichi a una distanza dall’equatore arrotondata da essi a 24° (cfr.
supra nota 107).
117 Macrobio qui riecheggia debolmente un’altra concezione, dovuta a
Posidonio, circa la divisione delle fasce terrestri, ricordata da Strabone,
Cleomede e Achille Tazio e basata sulla proiezione dell’ombra. Posidonio
distingueva le zone con una terminologia interessante che vale la pena di
riportare, anche se non ebbe successo, pur essendo fondata su un criterio
rigorosamente astronomico. In primo luogo per Posidonio vi era la zona
fredda o zona dei perisci (paese dalle ombre circolari), le regioni dei circoli
polari i cui abitanti hanno ombre che d ’estate descrivono un cerchio comple­
to e che sono lunghissime; quindi tra i circoli polari e i tropici la zona tem­
perata o zona degli eterosci, regioni i cui abitanti hanno un’ombra più o
meno lunga che gira sempre nello stesso senso, da ovest verso est passando
sempre per nord nell’emisfero settentrionale e per sud nell’emisfero meridio­
nale (come dice Macrobio nel § 13); infine la zona torrida o zona degli amfi-
sci: denominazione di quelle regioni della Terra comprese tra il Tropico del
Cancro e quello del Capricorno; in cui l’ombra si alterna secondo le stagioni
dirigendosi sia verso settentrione sia verso meridione (§ 14) o che non hanno
ombra perché il sole è esattamente allo zenit.
118 Cfr. infra II, 8, 2-4 e nota 125.
119 A Siene, l’odierna Assuan, a mezzogiorno nel giorno del solstizio d’e­
state, lo gnomone non proietta alcuna ombra. Eratostene, che Macrobio non
nomina, calcolò che ad Alessandria, nello stesso giorno, la distanza meridia­
na del Sole dallo zenit era pari a 1/50 della circonferenza del cielo.
Quest’angolo giro rappresentava dunque la differenza di latitudine tra le due
città. Sapendo che Siene ed Alessandria si trovavano a un dipresso sullo stes­
so meridiano e conoscendo la loro distanza di 5.000 stadi, con una semplice
proporzione Eratostene stimò la circonferenza della Terra pari a circa
250.000 stadi. Siene si trovava nel confine meridionale della Tebaide in pros­
simità del tropico del Cancro. Macrobio non determina in quale grado si
trovi, ma usa certamente l’espressione generica certam partem Cancri, per
evitare di entrare in un dibattito tecnico. I superiores montes sono le monta­
gne dell’Etiopia. Lo stilus hemisphaerii monstrantis horas; quem gnomona
uocant è simile a quello già descritto in I, 20, 26-27 ed è anche la scaphe già
descritta da Vitruvio (su cui cfr. nota 391 del Libro Primo). La scafa o emi-
sferio è la classica meridiana con lo stilo, o più propriamente gnomone, ed è
il più antico orologio greco: lo si vuole inventato da Aristarco di Samo e
modificato da Beroso.
120 Lucano, Bellum civile II, 587. Macrobio aveva di fronte a sé un testo
che reca la lezione numquam «mai», altri presentano nusquam «da nessuna
parte», una variante che avrebbe reso più accettabile a Macrobio il verso di
Lucano (39-65 d.C.), autore stoico peraltro dotato di buone conoscenze geo­
grafiche ed astronomiche. Sulla base di ciò altri commentatori ritengono che
sia Macrobio ad aver mal compreso la citazione di Lucano: questa richiame­
rebbe i criteri di Posidonio (cfr. sopra nota 117): nella zona degli amfici l’om­
bra del sole allo zenit cade per sei mesi verso nord e negli altri sei mesi verso
sud (umbra flectitur), mentre a Siene, nella zona degli eterosci, l’ombra, sem­
pre allo zenit del sole, cessa di avere questi cambiamenti per proiettarsi sem­
pre (numquam) verso nord (tranne che nel solstizio estivo quando non dà
ombra).
121 Questi § 17-18 vanno accostati a 1,20, 8 e 1 ,15, 7 (e note relative); cfr.
anche II, 7, 2 e nota 111.
122 Cfr. I, 22, 9.
123 La Palude Meotide (Palus Maeotis) era il nome latino del Mar d’Azov.
Il Tanai (Tanais) quello del fiume Don che sfocia nel precedente mare. L’Istro
(Hister) denominava l’odierno Danubio e più precisamente la sua metà infe­
riore fino alle foci. La Scizia (Scythia) era la regione in cui scorreva il Tanai,
situata dal nord del Mar Nero e del Caspio sino all’interno dell’Asia
Orientale. Gli Iperborei (Hyperborei) erano un popolo favoloso che abitava
l’estremo settentrione; il primo a parlarne fu Ecateo di Mileto, vissuto nel VI
sec. a.C., che li colloca geograficamente tra i misteriosi monti Rifei, dove
nasce la borea, e l’Oceano, in seguito tutti gli autori che se ne occuparono gli
attribuirono strani costumi e li collocarono nelle regioni più diverse, dall’e­
stremo occidente all’estremo nord, ma in genere situandoli come gli abitanti
della Germania settentrionale, della Polonia e della Moscovia. Qui Macrobio
li pone come vicini a nord degli Sciti. Non si tratta certamente di una regio­
ne così nordica e immersa nel gelo, ma come abbiamo veduto sopra in nota
107 il circolo artico, per convenzione degli Antichi si trovava a 36° dal polo
e quindi a 54° di latitudine nord, corrispondente all’Irlanda. Trovandosi la
Scizia al cinquantesimo parallelo, la fantastica regione degli Iperborei imma­
ginata da Macrobio è dunque vicina a questo parallelo. Al tempo di
Macrobio, anche se le esplorazioni avevano permesso di conoscere l’esisten­
za di vita oltre il cinquantaquattresimo parallelo, egli mantiene questa con­
venzione teorica. Invece, in seguito, come si vedrà in II, 8, 2, trattando del
limite meridionale abitabile, Macrobio si porrà la questione se esso veramen­
te coincide con il confine teorico.
124 Virgilio, Georgiche I, 237-239. Parte di questi versi sono già stati men­
zionati nel capitolo 5 (cfr. nota 92).
125 Cfr. II, 7, 14.
126 Ognuno dei tre luoghi citati era un punto di riferimento geografico
abituale per gli Antichi. Su Siene (circa 24° di latitudine nord, sul tropico
estivo) cfr. sopra nota 119. Meroe, sulla riva destra del Nilo tra la sesta e la
quinta cataratta, è un’antica città della Nubia (oggi nel Sudan), situata tra il
tropico del cancro e l’equatore a circa 17° di latitudine nord, ricca di templi
e citata da Erodoto come «capitale degli altri Etiopi» (Storie II, 29).
Diversamente da Macrobio che indica la sua distanza da Siene in 3.800 stadi,
tutti i geografi (Eratostene, Ipparco, Strabone, Plinio) davano Siene come
equidistante tra Alessandria e Meroe, tutte da essi collocate sullo stesso meri­
diano per le indicazioni inesatte dello gnomone, quindi a una distanza di
5.000 stadi. La terra cinnamoni ferax è da identificarsi con la Costa dei
Somali, a circa 12° di latitudine nord, distante da Meroe per Eratostene
3.400 stadi e per Ipparco 3.800 stadi e non soltanto 800 come indica il com­
mentatore latino (ma potrebbe esserci una lacuna nel testo archetipo). Oltre
a questo punto, per questi geografi, cominciava la terra inabitata, lasciando
quindi circa 8.000 stadi per la distanza da questo punto all’equatore. Il cin­
namomo, l’odierna cannella, secondo Erodoto, proveniva dall’Abissinia e
dalle paludi del Sud, ma Plinio, nel VI libro della Storia Naturale, ci rivela
che in realtà era trasportato sulla costa somala da barche a bilanciere prove­
nienti dall’isola di Tabropane (oggi Sri Lanka).
127 Letteralmente per poeticam tuba. L’espressione della sonorità della
tromba per indicare la poesia epica e anche il discorso enfatico si trova già in
Marziale e altri autori. L’espressione sarà ripresa dalTAriosto: «come la tuba
di Virgilio suona» {Orlando furioso XXXV, 26, 2),
128 Virgilio, Georgiche I, 245.
129 Sulle costellazioni del Serpente o Dragone e delle Orse vedi nota 341
del Libro Primo. In effetti la costellazione del Dragone «serpeggia» tra le due
Orse e le rinserra e non le attraversa affatto.
130 Questa teoria dell’esistenza di due oceani, due grandi fasce d’acqua
che separavano la terra in quattro parti uguali e simmetriche tra esse, deriva
da Cratete (su cui cfr. sopra nota 83, 101 e anche 103).
131 II fenomeno delle maree veniva, nell’antichità, generalmente spiegato
per l’influsso dei cicli lunari e per i movimenti del sole. L’originale teoria di
Macrobio secondo la quale derivano dall’urto dei bracci occidentale e orien­
tale dell’Oceano deriva dalle dottrine di Cratete di Mallo, come testimonia
Ezio, Placita, III, 17 (in H. Diels, Doxographi Graeci, Berlin, 1928, p. 383).
132 In II, 5, 28-36.
133 La figura cui si riferisce Macrobio divenne il prototipo delle più
comuni mappae mundi medioevali, di cui in fondo al capitolo si fornisce una
serie di esempi. Sui manoscritti dal IX al XV secolo, vi sono infatti rappre­
sentazioni del globo sul modello cosmografico di Macrobio, in cui si distin­
guono le 5 zone, basate sull’abitabilità climatica: 1) la zona fredda polare,
inabitabile: Frigida septentrionalis inhabitabilis', 2) la zona temperata e abita­
ta, caratterizzata dall’Europa: Temperata habitabilis-, 3) la zona torrida igno­
ta e inabitabile: Perusta inhabitabilis-, 4) un’altra zona temperata, antipode
della prima, ma sconosciuta: Temperata habitabilis antipodum nobis incogni­
ta-, 5) una zona fredda australe inabitabile: Frigida australis inhabitabilis.
134 Da Erodoto sino ad Aristotele il Caspio era stato creduto un mare
interno, ma secondo Macrobio, come alcuni geografi dell’antichità riteneva­
no (Ecateo di Mileto, Strabone, Pomponio Mela, Plinio), a nord il Mar
Caspio si apriva sull’Oceano Boreale. Eratostene (276-195 a.C.), pietra milia­
re nella storia della cartografia, così lo raffigurava. Secondo Plinio (Storia
Naturale VI, 12 sgg.) era addirittura un fiume che penetrava dall’Oceano nel
continente. Tolomeo ritornò nella sua Geografia a considerarlo un mare chiu­
so. Ma anche in questo caso Macrobio non segue l’ultima moda scientifica e
il suo errore è condiviso da Marziano Capella.
135 La tradizione manoscritta della carta sembra aver creato enormi diffi­
coltà ai copisti. Alcuni manoscritti recano addirittura uno spazio vuoto e solo
pochi tra essi offrono qualcosa che possa assomigliare a una carta. Dunque,
qui ci avvaliamo della carta apparsa nella cinquecentina bresciana, da allora
più volte utilizzata con qualche leggera variante che proponiamo tra le varie
figure in fondo al capitolo. Tra i più dignitosi esempi di carte nei manoscritti
segnaliamo la carta in p. 503 (- Fig. 51), orientata a sud, che anche se mal­
destramente tracciata, presenta l’indicazione delle zone terrestri e quella del
doppio corso deU’Oceano, e quella in p. 504 (= Fig. 53), più elaborata della
precedente, ma per il resto inferiore. Si tenga inoltre presente, riguardo alla
loro diffusione nel Medioevo, che queste mappe, oggi denominate dagli stu­
diosi di cartografia antica «mappe di tipo Cratete di Mallo» (poiché derivano
il nome dal classico prototipo, il globo di Cratete: cfr. note 83, 101 e 103)
erano abbastanza rare nella cartografia ecclesiastica, perché la Chiesa con­
trastava l’esistenza degli antipodi (cfr. note 94 e 99). Oltre a quelle comunque
numerose nei manoscritti del commentario macrobiano, qualche esempio di
mappe di questo tipo si ritrovano nei manoscritti di Marziano Capella e nei
Libri Carolini del vescovo Teodulfo (Vili sec.). Occorre, infine, menzionare
la diffusione e l’influenza di tali carte che accompagnavano il Commento nei
manoscritti. Ci basterà menzionare, tra i tanti, un esempio illustre: Cristoforo
Colombo ne possedeva un manoscritto, annotato di suo pugno, e la descrizio­
ne di Macrobio delle terre abitate contribuì alla raffigurazione che si fece del
mondo il navigatore genovese prima d’intraprendere la sua scoperta.
156 La clamide era una sopraveste usata dai greci, un mantello corto chiu­
so sulle spalle portato dai cavalieri e dagli efebi, la cui forma distesa assomi­
gliava a un tronco di cono steso sul piano e tagliato in due nel senso dell’al­
tezza. Lo stesso paragone, proveniente da Eratostene, è utilizzato da Stra-
bone per descrivere la forma del mondo abitato (Geografia II, 5, 6; 9 e 14) e
dell’area della città di Alessandria (XVII, 8).
Cicerone, Repubblica VI, 23 = Sogno di Scipione 7, 1.
138 Si tratta del tema sviluppato da Cicerone nella parte andata perduta
della Repubblica VI che precedeva il Sogno. Cfr. la breve citazione che apre
I, 4, 2 («Sebbene i saggi trovino nella coscienza delle proprie nobili azioni la
più alta ricompensa per la loro virtù...») e nota 55 del Libro Primo.
Concetto già più volte enunciato da Macrobio: cfr. I, 16, 6 ( nota 311
del Libro Primo); II, 5, 10 (e nota 87) e II, 9, 9.
140 Cfr. supra II, 5-6 con la descrizione dei luoghi abitati secondo le teo­
rie di Cratete.
141 Tra la precedente citazione del Sogno in II, 5, 1, 3 (Repubblica VI, 20-
21 = Sogno di Scipione 6, 1-3) e quella che apre questo capitolo 10 (Repub­
blica VI, 23 - Sogno di Scipione 7,1), Macrobio ha omesso solo una breve
parte, che qui sintetizza e che corrisponde all’intero § 22 della Repubblica (=
Sogno di Scipione 6, 4), dove l’Africano spiega al nipote: Ex his ipsis cultis
notisque terris num aut tuum aut cuiusquam nostrum nomen vel Caucasum
hunc, quem cernis, transcendere potuit vel dium Gangem tranatare? Quis in
reliquis orientis aut obeuntis solis ultimis aut aquilonis austrive partibus tuum
nomen audiet? Quibus amputatis cernis profecto, quantis in angustiis vestra se
gloria dilatari velit. Ipsi autem, qui de nobis loquuntur, quam loquentur diu?
(«Forse che da queste stesse terre abitate e conosciute il nome tuo o di qual­
cun altro di noi ha potuto valicare il Caucaso, che scorgi qui, oppure oltre­
passare il Gange, laggiù? Chi udirà il tuo nome nelle restanti, remote regio­
ni dell’oriente e dell’occidente oppure a settentrione o a meridione? Se le
escludi, ti accorgi senz’altro di quanto sia angusto lo spazio in cui la vostra
gloria vuole espandersi. E la gente che parla di noi, fino a quando ne parle­
rà?»), Se si dovesse prestare qualche fede a ciò che gli antichi storici hanno
detto di Alessandro, si dovrebbe credere che questo principe fosse penetra­
to fino al Gange così come Bacco aveva fatto prima di lui, ma non è molto
verosimile che abbia spinto così lontano le sue conquiste. Dal modo in cui
tutti gli storici parlarono di questo fiume, si vede chiaramente che non gli è
mai stato molto noto né il suo corso né le sue condizioni e, comunque sia, è
certo che avevano solo una nozione confusissima dei paesi situati al di là
dell’indo e non ne avevano nessuna di quelli posti oltre il Gange.
142 L’esistenza di una mitica età dell’oro, posta all’inizio dei tempi, nell’e­
poca di Crono è narrata da Esiodo (Le opere e i giorni 109-201). Il poeta
greco descrive l’esistenza di uomini, commensali degli dèi, che vivevano in
pace, liberi da ogni fatica e al riparo da ogni pericolo, nutriti dalla generosa
terra che procurava loro ciò di cui avevano bisogno. Il furto del fuoco ad
opera di Prometeo segnò la caduta dell’uomo; alla aurea aetas seguì una lenta
e progressiva corruzione della storia e, conseguentemente, della razza umana
nelle quattro ere successive: dell’argento, del bronzo, degli eroi e del ferro. Il
mito fu ripreso da Platone, nel Politico, con la descrizione del regno di Cro­
no, i cui fondamenti erano la giustizia, la pace e l’assenza di proprietà e dove
gli uomini erano governati da dèmoni e dèi. La struttura del mito esiodeo,
piuttosto complessa e ambigua e che peraltro presenta una frattura nella sua
tendenza verso la degenerazione con l’età degli eroi, fu resa più omogenea e
semplificata nella tradizione latina rappresentata da Cicerone, Orazio,
Virgilio e Ovidio, e che Macrobio segue. La sua forma ciclica, in ogni modo
sia, rafforza l’idea dì una tendenza della storia al raggiungimento della perfe­
zione originaria, accentuando il carattere paradigmatico e di modello che in
tale contesto il mito assume. Si può far cenno qui alla forte ripresa del tema
nell’età rinascimentale (la nuova aurea aetas), nel classicismo settecentesco e
nel XX secolo con la corrente «perennialista» di scuola guénoniana.
143 II mito della leggendaria regina di Babilonia Semiramide, celebre per
la sua lussuria e che successe al trono assiro dopo la morte di Nino (donde il
nome della città di Ninive) si era manifestato nell’antichità a partire da Ctesia
di Cnido (445 - dopo il 392 a.C, ca.), che, con i suoi perduti libri (spesso cita­
ti come «Assyriakà», storia assira), fu fonte di Diodoro Siculo (Biblioteca sto­
rica II, 1-20). Citata già prima di Diodoro da Erodoto che ne esalta le opere
pubbliche, la tradizione raccolta da Macrobio (secundum quosdam) che ne fa
la figlia di Nino non è attestata altrove: viene invece detta cugina e sposa di
Nino, e figlia della dea-pesce Derceto e del giovane siriano Caistro. Oggi si
pensa che la mitica regina sia forse identificabile con Sammuramat, moglie
del re assiro Shamshi Adad V e reggente in nome del figlio dall’811 all’808
a.C.
144 L’opinione dei philosophi sul tema viene riportata nel seguente § 9. Si
tratta della tesi tradizionale pitagorico-platonica, e in particolare di Porfirio,
sull’eternità del mondo e sulla comparsa del tempo dopo il mondo.
145 Si possono accostare queste argomentazioni a quelle d ’Agostino (La
città di Dio XII, 10.1): «Alcuni infatti, come hanno supposto per il mondo,
sono d’opinione che gli uomini siano sempre esistiti... E qualora loro si chie­
desse, nell’ipotesi che da sempre sia esistito il genere umano, a che titolo la
loro storia dice la verità, quando narra degli inventori dei vari utensili, dei
pionieri delle discipline liberali e delle altre arti, dei primi abitanti di quella
o di un’altra regione e parte della terra, di quella o di un’altra isola, rispon­
dono che a causa di diluvi e cataclismi per un certo tempo non tutti i territo­
ri ma molti si spopolarono. Così gli uomini si ridurrebbero ad un esiguo
numero, dalla cui discendenza viene ristabilito il ripopolamento. Quindi
certi dati, che a causa dei cataclismi erano interrotti o scomparsi, si presen­
terebbero e si formerebbero come originari, mentre sono soltanto riemersi.
Del resto, aggiungono, l’uomo soltanto dall’uomo può venire all’esistenza.
Ma dichiarano una loro ipotesi e non una conoscenza scientifica». E in un
passo immediatamente successivo (ibidem, 11) Agostino menziona la tesi di
quanti sostengono «che a causa di alluvioni o fenomeni vulcanici i quali,
secondo loro, non si verificherebbero in tutta la terra, sopravvivano pochi
individui, da cui si abbia il ripopolamento». Come si vede le argomentazioni
sono insolitamente simili a quelle di Macrobio e ciò ha fatto pensare a molti
studiosi che entrambi gli autori si rifacciano al per noi perduto Commento al
Timeo di Porfirio. Cosa che non esclude, naturalmente, interventi autonomi
di Macrobio, com’è il caso del suo esempio dei Galli paragonati ai Romani
nel § 6.
146 Quasi tutta la tradizione filosofica greca ed ellenistica interpretò la
nascita del tempo nel Timeo 28 b come allegorica, in favore di una versione
della procedenza causale in toto del tempo perpetuo dall’eternità. La dottri­
na dell’eternità del mondo aveva probabilmente avuto origine nel trattato
giovanile di Aristotele Sulla filosofia, scritto quando egli era ancora allievo di
Platone. Plotino nelle Enneadi III 7 studiò approfonditamente il rapporto tra
il tempo e l’eternità: «il cosmo trascendente è ciò che non inizia in alcun
tempo; perciò anche il mondo sensibile non ha alcun inizio temporale, poi­
ché la causa del suo essere dona ad esso il ‘prima’». U punto sarà elaborato
da Porfirio, che lo contrapporrà alla tesi cristiana della creazione del mondo
e alla sua visione di un tempo lineare, contraria a quella di un tempo ciclico.
147 Nei Saturnali I, 8, 7, Macrobio afferma che i fisici riconducono la
genealogia mitica di Urano (il cielo) e Crono (il tempo) ad un’allegoria sulla
non esistenza del tempo, durante il caos primordiale, dato che «il tempo è
una dimensione determinata dalla rivoluzione del cielo». Cfr. Platone, Timeo
37 d-38 c e Plotino, Enneadi III, 7, 12. La soluzione metafisica qui proposta
sulla disputa circa l’eternità del mondo è, come si è detto, di sicura ascenden­
za porfiriana.
148 Ex parte maxima-, cfr. il successivo § 14, dove Macrobio spiega come
e perché gli Egiziani siano al riparo dai cataclismi.
149 Già Eraclito affermava che il fuoco era l’elemento che a tutto dà la
vita e che tutto distrugge. Nel Timeo 22 c-e un vecchio sacerdote egiziano
spiega a Solone la ragione del perché i Greci siano giovani e mancanti di una
prisca tradizione: «Molte sono e in molti modi sono avvenute e avverranno
le perdite degli uomini, le più grandi per mezzo del fuoco e dell’acqua...».
Apprendiamo da Censorino (Il giorno natalizio XVIII, 11: Est praeterea
annus, quem Aristoteles maximum potius, quam magnum appellat: quem solis
et lunae vagarumque quinque stellarum orbes conficiunt, cum ad idem signum,
ubi quondam simul fuerunt, una referuntur; cuius anni hiemps summa est
cataclysmos, quam nostri diluvionem vocant, aestas autem ecpyrosis, quod est
mundi incendium: nam his alternis temporibus mundus tum exignescere tum
exaquescere videtur («C’è inoltre l’anno chiamato da Aristotele supremo,
piuttosto che grande, e che è determinato dalle rivoluzioni del sole, della
luna e dei cinque pianeti, quando tutti questi astri sono ritornati nel punto in
cui erano partiti. Questo anno ha un grande inverno, chiamato dai Greci
K a x c c K À u a u ò s , che nella nostra lingua significa diluvio; poi, una grande esta­
te, detta ÈKTTupcoais, o incendio del mondo. Il mondo, infatti, sembra esse­
re ora inondato ora bruciato in ognuna di queste epoche»), Seneca
(Questioni naturali III, 29, 1) ci trasmette la dottrina dell’antica cosmologia
secondo la quale il mondo si rinnova con la multipla congiunzione dei pia­
neti in Cancro (distruzione attraverso il fuoco) o in Capricorno (diluvio):
«Beroso, che si è fatto interprete di Belo, sostiene che questi fenomeni dipen­
dono dal corso degli astri, e lo afferma con tale convinzione da determinare
il momento della conflagrazione e del diluvio: dichiara che tutte le cose ter­
rene saranno ridotte in cenere quando tutti gli astri che ora seguono orbite
diverse si saranno riuniti nel segno del Cancro, disposti lungo una stessa trac­
cia, in modo tale che una linea retta possa passare per i centri di tutti i globi;
l’inondazione avverrà quando la stessa moltitudine di astri si sarà riunita nel
segno del Capricorno. Il Cancro dà luogo al solstizio d’estate, il Capricorno
al solstizio d ’inverno: sono costellazioni che esercitano un considerevole
influsso, dato che intervengono nei cambiamenti dell’anno». In genere tutti
gli Stoici aderirono al mito dell’eterno ritorno: il mondo nasce e perisce
secondo una vicenda ciclica (come già aveva sostenuto Empedocle), dopo un
periodo di parecchie migliaia di anni, ha luogo una ekpyrosis, una conflagra­
zione universale, nella quale tutto si dissolve nel fuoco; poi il fuoco artefice,
che coincide con la ragione divina, contenente le ragioni seminali di tutte le
cose, provvede a ricostruire il mondo {palingenesi), che ripercorre quindi un
altro ciclo. La concezione del tempo basata sulla ciclicità, sull’esempio delle
stagioni meteorologiche, del ciclico ripresentarsi delle costellazioni nel cielo
e dei ritmi biologici naturali, rimase sempre un patrimonio comune di tutta
la civiltà greco-romana. Come si è detto l’idea moderna di un tempo rettili­
neo emerse solo con il cristianesimo. Macrobio, dopo aver terminato di trat­
tare dei cataclismi in questo capitolo, dedicherà il prossimo capitolo al tema
del Grande Anno.
150 Cfr. Plutarco, Iside e Osiride 41: «Gli Stoici sostengono che il sole è
acceso e alimentato dal mare, e che invece sono le acque di fonti e paludi a
trasmettere alla luna un’esalazione dolce e morbida». Cfr. anche Porfirio,
L’antro delle ninfe, 11: «Del resto, taluni sostengono che gli esseri dell’aria e
del cielo si nutrono dei vapori umidi, (che si liberano) dalle fonti e dai fiumi,
e delle altre esalazioni. Parve poi agli Stoici che il sole si nutrisse delle esala­
zioni del mare, la luna di quelle delle acque delle sorgenti e dei fiumi, gli astri
dell’esalazione della terra. E per questo il sole trova la sua esistenza quale
massa di intelletto accesa dal mare, la luna dalle acque dei fiumi, e le stelle
dall’esalazione della terra». Questa concezione, unanimemente adottata dagli
Stoici, risale ad un’epoca presocratica ed è già nota ad Aristotele che se ne
beffava.
In II, 9, 4.
152 Nei Saturnali (1,23,2) Macrobio spiega chi sono i fisici fautori di que­
sta teoria: sicut et Posidonius et Cleanthes adfirmant, solis meatus a plaga
quae usta dicitur non recedit, quia sub ipsa currit oceanus qui terram et ambit
et dividit, omnium autem physicorum adsertione constat calorem humore
nutriri («Come infatti Posidonio e Cleante affermano, il moto del sole non si
scosta mai dalla zona chiamata torrida, perché sotto di essa corre l’oceano
che circonda e separa la terra; del resto per concorde affermazione di tutti i
fisici il calore si nutre di umidità»).
153 II riferimento è a Iliade I, 423-425. Cfr. anche ibidem XXIII, 205-207
e Odissea I, 22-26. Il banchetto di Zeus accompagnato dagli altri dèi, presso
gli Etiopi, è interpretato come un’allegoria. Ha certamente una parentela con
la «mensa del sole» citata da Erodoto (Storie, III, 17-19): «Questa mensa del
sole, si dice, è fatta più o meno così: nei dintorni della città c’è un prato pieno
di carni cotte di quadrupedi di ogni specie; di notte provvedono a deporvi le
carni quelli fra i cittadini che di volta in volta ricoprono le cariche pubbliche;
di giorno chiunque lo voglia può venire a mangiare; la gente del luogo sostie­
ne che ogni volta è la terra stessa a produrre tali carni». In seguito YElio-
trapezio, ovvero Tavola del Sole, sarà ricordata da Pomponio Mela (De C o ­
rografia III, 9, 87) e l’inaudita usanza sarà citata da Giovanfrancesco Pico
della Mirandola (Strega) e da Giordano Bruno (Orazione di congedo) che la
attribuisce ai gimnosofisti etiopi, casta sacerdotale di modello braminico, fio­
rente soprattutto a Meroe, in continui rapporti con i collegi sacerdotali egi­
ziani con cui si riunivano annualmente, offrendo sacrifici comuni al dio
Amon e celebrando il sacro rito festoso della mensa del sole. I tre versi ome­
rici sono anche citati nei Saturnali (I, 23, 2) in cui viene data un’interpreta­
zione simile a quella del Commento'. lovis appellatione solem intellegi
Cornificius scribit, cui unda oceani velut dapes ministrat («Cornificio scrive
che con la denominazione di Giove si deve intendere il sole, a cui l’onda del­
l’oceano somministra per così dire le vivande»). Segue quindi la citazione di
Cleante e Posidonio sopra menzionata in nota 152. Cornificio Longo (I sec.
a.C.) è autore dell’opera De etymis deorum, citata anche da Macrobio {Sa­
turnali 1, 9, 9).
154 Per l’Oceano sulla cui riva abitano gli Etiopi cfr. sopra cap. 9. Si trat­
ta del braccio oceanico che racchiude la terra lungo l’equatore. Secondo
quanto riferisce il geografo Strabone, ispirandosi a Cratete, l’attuale Africa
comprendeva sostanzialmente due regioni: la Lybia a ovest e VAegyptus a est
sulle coste del Mediterraneo, mentre tutto lo spazio a sud di esse, da circa il
2° grado di latitudine settentrionale fino al 25° grado di latitudine sud, costi­
tuiva l’Etiopia, che occupava la costa meridionale di tutto il nostro mondo
abitato affacciandosi sull’Oceano (cfr. Geografia I, 2, 24).
155 Allusione all’etimologia di Etiope, da aI0co «brucio» e óvy «volto»,
per cui gli Etiopi erano quelli dal volto bruciato. Secondo il mito, fu la disor­
dinata corsa del carro del Sole guidato da Fetonte che arse la pelle degli
Etiopi tanto da farla diventare scurissima. Mentre Omero (nei passi citati
sopra in nota 153) attribuisce loro sempre un epiteto, traducibile con «inno­
centi, pii», aggiungendo che in conseguenza di questa loro pietà verso gli
Dei, gli Etiopi ricevettero in premio di non essere mai sottoposti alla servitù
d’un principe straniero e di conservare sempre la libertà, l’altro più antico
epiteto letterario è quello di Erodoto, che (nel primo paragrafo citato nella
medesima nota richiamata) li appella macrobioi, ossia «longevi». In questa
coincidenza con il nome del nostro autore qualche commentatore moderno
adombra un argomento a favore dell’origine africana di Macrobio.
156 II riferimento è al racconto di Solone su ciò che aveva appreso in
Egitto e sulle grandi catastrofi e i grandi diluvi ciclici, che tuttavia risparmia­
no l’Egitto, in Platone, Timeo 22 a sgg., un cui brano è evocato in nota 149.
157 Lo stato primitivo d’innocenza degli uomini è un tema frequente nella
letteratura latina (Ovidio, Germanico, Seneca, Avieno, Boezio).
158 Da queste ultime parole di Macrobio si comprende la distanza tra il
concetto tradizionale, per il quale l'avvicendarsi dei cicli nel mondo terrestre
era lo stampo del modello archetipico dell’orbe celeste, e la dottrina cristia­
na. Al tempo ciclico i cristiani sostituivano un tempo lineare (per Macrobio
non solo erroneo dal punto di vista metafisico ma anche sotto l’aspetto strin­
gentemente logico) che aveva come traguardo la città celeste mentre la città
umana diventava solo il riflesso speculare negativo della città celeste, sentina
d’ogni vizio e condannata ad un tragico e buio destino apocalittico.
159 Cicerone, Repubblica VI, 24 = Sogno di Scipione 7, 2-4. Si tratta di un
passo che nella tradizione diretta del Sogno presenta più varianti in taluni ter­
mini.
160 Letteralmente metae. Le mete erano le colonnette coniche all’estremi­
tà del circo romano attorno a cui le bighe dovevano girare sette volte ed erano
di solito tre per ogni estremità della spina, il muro tirato lungo il mezzo del
circo. La metafora che mette la corsa dei cocchi nell’arena in analogia con il
corso degli astri è molto frequente nella poesia e nella prosa latine (Cicerone,
Lucrezio, Virgilio, Manilio, Ovidio, Seneca, ecc.). D ’altra parte il circo era una
complessa rappresentazione del cosmo (per esempio, i colori delle quattro
fazioni in gara rappresentavano le stagioni, i dodici cancelli i mesi, ecc.).
161 Cfr. Platone, Timeo 39 c: «...per queste ragioni ebbero origine la
notte e il giorno, che rappresentano il periodo del movimento circolare unico
e più sapiente. Il mese si compie invece quando la luna raggiunge il sole dopo
aver percorso la sua orbita, e l’anno quando il sole ha percorso la sua orbita.
Quanto ai cicli degli altri pianeti, poiché gli uomini, salvo pochi tra molti,
non li conoscono, non gli danno un nome e non si misurano in numeri,
mediante l’osservazione, i loro rapporti reciproci. Sicché, così per dire, gli
uomini non sanno che il tempo è misurato anche dai moti di questi pianeti,
di quantità smisurate e straordinariamente vari». L’«anno» qui definito da
Macrobio per ciascun pianeta è quindi la sua rivoluzione siderale, ovvero il
tempo impiegato per ritornare allo stesso punto rispetto alle stelle fisse.
162 Si tratta dell’etimologia comunemente accettata. La linguistica
moderna ne riconosce l’etimologia in una radice indoeuropea men- che desi­
gna il misurare e quindi la luna. Infatti per gli Antichi la luna era l’astro che
misurava, in quanto con le sue fasi forniva l’idea della divisione del tempo e
quindi del mese.
163 Virgilio, Eneide III, 284. Lo stesso verso è citato da Macrobio nei
Saturnali!, 14, 5. Nel paragrafo precedente il commentatore spiegava la cor­
rispondenza dell’anno lunare al mese, perché la luna compie il giro dello
zodiaco in poco meno di un mese, mentre l’anno solare va calcolato sul
numero dei giorni che il sole impiega nella sua corsa per ritornare sul segno
da dove è partito, donde la denominazione di anno corrente, o grande, men­
tre quello della luna è l’anno breve.
164 Cfr. I, 19, 3-5.
165 L'annus mundanus è quindi non solo il vero anno corrente, ma anche
il vero grande anno. Macrobio usa l’espressione annus mundanus invece di
magnus annus, più comune ma equivocabile, come abbiamo visto nell’esem­
pio che fa di Virgilio (cfr. nota 163), il quale utilizza l’espressione per indica­
re l’anno solare. L’aggettivo mundanus introdotto in modo originale da Ma­
crobio ha anche il vantaggio, come dice nel seguente § 12 , di estendere l’idea
di rivoluzione al cielo delle stelle fisse. Quella del Grande Anno, ciclo uni­
versale in cui tutti i corpi celesti ritornano alle loro primitive posizioni di par­
tenza, è una teoria derivata da Platone e descritta in Timeo 38 d-e, nel passo
immediatamente seguente a quello citato in nota 161: «Tuttavia non è impos­
sibile capire che il numero perfetto del tempo realizza l’anno perfetto
[ t é X e o s è v i a u T Ò s ] quando le velocità di tutti gli otto cicli, compiendosi
nello stesso tempo rispettivamente, ritornano al punto di partenza, misurate
con il ciclo dell’identico che si muove in modo uniforme. In questo modo e
per questa ragione furono generati tutti gli astri che percorrono il cielo e
hanno ritorni, perché questo mondo fosse il più simile possibile a quell’esse­
re vivente perfetto e intelligibile, in virtù dell’imitazione della sua eterna
natura». Di fatto la concezione del Timeo è una sistematizzazione delle tesi
pitagoriche sul tempo, retaggio d’una sapienza antica e antecedente al mae­
stro di Samo, di una religione astrale diffusa da più di un millennio nel
Mediterraneo, che aveva come princìpi la variabilità ciclica e l’armonia
cosmica nella sincronizzazione delle trasformazioni psico-fisiche e dei ritmi
planetari.
166 Già in I, 17, 16-17 Macrobio si era espresso sulle due teorie, l’una sul­
l’immobilità delle stelle fisse e l’altra, «più prossima alla verità», sulla loro
rivoluzione e, quindi sulla precessione degli equinozi (cfr. note 333-335 del
Libro Primo).
*67 U numero 15.000 per la durata del Grande Anno non sembra trovar
riscontro in altri autori. Pur essendo tale dottrina dominante in tutta la cul­
tura greco-romana, l’intervallo di tempo dopo il quale tutto il sistema cosmi­
co ritrova un’identica configurazione è molto variabile tra i diversi autori.
Calcoli svariatissimi portavano a cifre altrettanto disparate: ad esempio
Eraclito calcolava questi lunghi periodi di tempo in 10.800 anni, Firmico
Materno in 300.000 anni. L’«anno perfetto» di Platone (Timeo, 39 d), in pra­
tica quello che la Terra impiega per percorrere con moto retrogrado i dodici
segni zodiacali corrisponde, in effetti, a quasi 26.000 anni (diversamente da
altri commentatori moderni non ci permettiamo di dare un numero preciso
perché questo ciclo in realtà è variabile per diverse e complicate ragioni di
meccanica celeste). Oggi il grande anno viene anche chiamato «anno plato­
nico». Vero è però che il periodo che nelle diverse tradizioni appare con
maggior frequenza non è tanto quello della precessione degli equinozi quan­
to la sua metà, calcolato dai Caldei e dai Greci a un dipresso in 12.000 o
13.000 anni. Infatti Cicerone nell’Ortensio, secondo una testimonianza di
Tacito, definiva per esso una durata di 12.954 anni solari e il dato trova con­
ferma nel citato brano del Somnium.
168 Cfr. I, 20, 8 , dove Macrobio dice che il caelum è giustamente chiama­
to mundus, e nota 382 del Libro Primo. La stessa affermazione è ripetuta in
due passi dei Saturnali (I, 9, I l e i , 18, 15).
169 Secondo la tradizione, Romolo sparì alle None Caprotine di Quintile
(7 Luglio), dopo una notte di tempesta, in una mattina in cui il sole era oscu­
rato (ma altri parlano solo di tempesta), salendo in cielo, sul carro di Marte,
per divenire Quirino, protettore del popolo romano. L’evento è registrato da
Cicerone, oltre che nel Sogno, in altri passi (Repubblica, I, 25; II, 10; II, 17).
Secondo Plutarco, Romolo fu concepito durante un’eclissi di Sole e morì,
assunto in cielo come divinità, durante un’altra. Curiosamente, si è calcolato
che il 17 luglio 709 a.C. avvenne a Roma un’eclisse di sole con magnitudo
93,7%, con inizio alle 5.04 (alba a Roma) e termine alle 6.57.
170 Gli anni di regno di Romolo indicati da Macrobio non corrispondo­
no ai trentasette anni di regno indicati ancora da Cicerone (Repubblica II, 10;
II, 17) e da Plutarco (Romolo 29 e Numa 2). Anche Tito Livio (I, 2 1 ) affer­
ma che Romolo regnò per 37 anni dopodiché fu trucidato dal Senato o
disparve nel trentottesimo anno di regno. La morte di Romolo, in base al
computo dato da Cicerone, avvenne dunque nel 716 a.C., mentre il sogno di
Scipione è ambientato nel 149 a.C. Un po’ più di due anni dopo, nel 146,
avvenne la distruzione di Cartagine. Tra la morte di Romolo e la data del
sogno, trascorsero quindi 567 anni e non i 573 anni indicati da Macrobio.
Nonostante questa piccola differenza, dal computo di questo periodo, 1/20
del Grande Anno, si ricava in ogni modo una cifra inferiore ai 12.000 anni,
generalmente indicata come intervallo del Grande Anno, o ai 12.954 anni,
stimati da Cicerone nell’Ortensio (cfr. sopra nota 167), come pure al ventesi­
mo dei 15.000 anni di Macrobio, pari a 750 anni.
171 Cicerone, Repubblica VI, 26 = Sogno di Scipione 8 , 2 . La tradizione
diretta del Sogno presenta alcune varianti.
172 Com’è sua abitudine, in un modo quasi didascalico, Macrobio fa il
punto sull’avanzamento della sua opera. L’annuncio della morte di Scipione
l’Emiliano è stato commentato nei cap. 5-7 del Libro Primo; la promessa
d’immortalità per il saggio e il buon cittadino è stata discussa nei cap. 8-12
dello stesso Libro; la dissuasione al suicidio e gli insegnamenti sul posto del­
l’anima nella gerarchia degli esseri sono stati trattati nei cap. 13-14; l’esposi­
zione sulla natura, la musica celeste e le stelle si è svolta nei cap. 15-22 del
Libro Primo e nei cap. 1-4 del Libro Secondo; infine l’idea che la gloria è
limitata nello spazio e nel tempo è stata commentata nei cap. 10-11 di que­
st’ultimo Libro. E chiaro, com’è nelle intenzioni di Macrobio, che l’insegna­
mento della fisica (astronomia, geografia, ecc.) è solo un propedeutico desti­
nato a purificare l’uomo dai suoi pregiudizi e dalle sue passioni, quali l’attac­
camento alla fama, per renderlo capace di accedere alle verità metafisiche.
173 L’immagine dello spogliamento (già apparsa in I, 13, 6 : «l’anima... si
spoglia... dei piaceri...») ha la sua spiegazione in I, 11 , 12 , dove si descrive
il progressivo rivestimento eterico e infine terreno dell’anima nella sua disce­
sa. Si tratta di una concezione orfico-pitagorica. Per la purificazione cfr. I, 8 ,
8-9.
174 La divinità dell’anima umana e quindi implicitamente dell’uomo è già
stata affermata da Macrobio nei capitoli 14 e 21 del Libro Primo. La nozio­
ne della divinità e immortalità dell’anima sarà argomentata in questi ultimi
capitoli. Il concetto d’immortalità dell’anima era insieme patrimonio del pla­
tonismo (imbevuto dell’antica tradizione orfico-pitagorica), dell’aristoteli-
smo e dello stoicismo. Il concetto dell’immortalità dell’anima, anche grazie
all’aristotelismo, risultò molto gradito agli scrittori cristiani e questo è forse
uno dei motivi per cui il Somnium e il suo commento macrobiano scamparo­
no dal Medioevo. Quanto alla divinità dell’anima (Deum te igitur scito esse)
è l’affermazione più alta del Somnium-, se la vera essenza dell’uomo è l’anima
e questa partecipa alla natura divina, l’uomo è un dio. Tale affermazione già
impiegata da Empedocle («... io tra di voi dio immortale, non più morta­
le...»), era nozione comune, pur partendo da premesse diverse, al platoni­
smo e allo stoicismo. Il cristianesimo in parte la fece propria, riprendendo la
tesi biblica dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio: infatti una cosa
è affermare che l’anima è divina e un’altra dire che l’uomo è un dio.
175 Osserviamo il consueto elogio a Cicerone (già apparso in I, 10, 8 ; II,
5, 4 e 28) per la sua concisione di parole che compendia, riassume e organiz­
za una moltitudine di conoscenze e una profonda sapienza. La stessa lode
per la sua sapiente sintesi è estesa a Plotino. La necessità, nel linguaggio, di
un’economia di parole nella trasmissione di un sapere non intaccabile dall’u­
sura del tempo e universale è sempre stato un principio tradizionale.
176 Quid animai, quid homo è la traduzione latina del titolo di Enneadi I,
1: Ti t ò C,cbov «ai ti '5 avTpoTrog. Nei § 8-16 Macrobio riunisce e sintetiz­
za con salda concezione diversi concetti sparsi in vari capitoli del testo di
Plotino.
177 Cfr. Plotino, Enneadi I, 1,1.
178 Traduzione fedele della formula di Plotino in Enneadi 1 ,1, 10. Si trat­
ta dell’elemento bestiale che convive in noi assieme all’elemento divino intel­
lettivo. La traduzione più corrente di questa formula plotiniana, quella di
Giuseppe Faggin, recita: «la bestia è il corpo vivente». In questo caso, per
parte nostra, abbiamo preferito dare una traduzione letterale — e soprattut­
to quanto più omofona all’originale latino — di animai esse corpus animatus
(«l’animale è un corpo animato»), perché il participio passato utilizzato da
Plotino £ógo0èv («fatto vivo, animato») è stato reso da Macrobio col suo sim­
metrico animatum con lo scopo deliberato di riecheggiare animai, traduzio­
ne del greco 0r|piov («animale, bestia»).
179 Plotino, Enneadi 1, 1, 4, 10.
180 Plotino, Enneadi 1, 1, 9, 1; I, 1, 4, 20.
181 Plotino, Enneadi I, 1,7, 15-20. L’idea che l’uomo sia ciò che si serve
del corpo e lo governa e che non ci sia altro che se ne serve se non l’anima,
è di origine platonica: cfr. Platone, Alcibiade Maggiore 129 c-130 a.
182 La dottrina dell’analogia macrocosmo/microcosmo — l’uomo riassu­
me nella sua natura l’insieme del cielo e degli astri — è molto antica e molto
diffusa nell’antichità. Se ne situa l’origine in Oriente e si trova abbondante­
mente attestata in Grecia nei presocratici. Difatti, in Anassimandro, l’ordine
sociale o politico (ttóàij) è in tutto simile a quello che regge il mondo. Pur
essendo assenti dai suoi testi i termini di macrocosmo e di microcosmo, la
rappresentazione di una società come un piccolo mondo che si comporta
all’immagine del grande denota già un «organicismo» che li lega immediata­
mente; con Eraclito, si arriva già ad un paragone dell’uomo con l’universo:
siamo composti di fuoco, di acqua e di terra, e ciascuno di questi elementi
esercita la stessa funzione sull’uno e altro piano. All’armonia (.KÓapos) che si
trova al centro di una tale concezione si aggiunge, con ì pitagorici, la nozio­
ne di equilibrio, come dimostra l’utilizzo della parola novapxia in Alcmeo-
ne per designare la malattia. Ma è soprattutto la convinzione che il reale
aveva i numeri come fondamento, essendone anche i simboli, che dà luogo,
nella scuola pitagorica, ad una visione unificata del mondo. I neo-pitagorici,
più tardi, assoceranno i numeri, ma anche la musica mundi, o armonia delle
sfere, al microcosmo. Già, stando a Platone e Aristotele, la concezione che
aveva Pitagora dell’anima era proprio quella di un’armonia del corpo. Pita­
gora, secondo la tradizione, sarebbe stato anche il primo ad adoperare la
parola KÓapoj per descrivere l’universo in quanto ordinato. La dottrina
entrerà a far parte di tutte le correnti filosofiche antiche, eccettuata quella
degli Epicurei, e ritornerà ad avere un importante sviluppo gnoseologico nel
Rinascimento.
183 Virgilio, Georgiche IV, 226,
184 Cfr. in Ovidio (Metamorfosi XV, 165) il celebre aforisma del discorso
di Pitagora: Omnia mutantur, nihil interit («Tutto cambia, nulla muore»).
185 II riferimento è a Plotino, Enneadi II, 1 , il cui titolo, che Macrobio
diversamente da prima non ricorda, è Sul mondo (TTep'i kóckou).
186Cfr. Plotino, EnneadiW, 1, 1, 5.
187 Cfr. Plotino, Enneadi II, 1,3, 1.
188 Cfr. Plotino, Enneadi II, 1, 4, 25.
189 Cicerone, Repubblica VI, 27-28 = Sogno di Scipione 8 , 3-9, 1.
190 Si tratta infatti della traduzione quasi letterale di Platone, Fedro 245
c-246 a. Cicerone riutilizzò questa stessa traduzione nelle Tuscolane (I, 22 ,
53-54) dove è presentata come la dimostrazione platonica sviluppata da
Socrate nel citato dialogo, da lui stesso, come precisa, già posta nel sesto
libro della Repubblica. Le tre traduzioni di cui disponiamo — quella diretta
del Sogno, quella delle Tuscolane e quella citata da Macrobio — presentano
delle leggere varianti di scarsa importanza.
191 Comincia qui la dimostrazione più propriamente filosofica dell’im­
mortalità dell’anima, fondata sulla sua automotricità. Una prima parte (§ 9-
12 di questo cap. 13) è basata su sillogismi ripresi da seguaci di Platone. Una
seconda parte (cap. 14) espone, sempre sotto forma di sillogismi, la confuta­
zione aristotelica circa il movimento dell’anima, Primo Motore immobile. La
terza e ultima parte (cap. 15-16) confuta l’argomentazione aristotelica.
192 Cfr. Platone, Fedro 245 c e Leggi 896 a.
193 Cfr. Platone, Fedro 245 c.
194 p e r ]a triplice serie di sillogismi, come per la loro sintesi cfr. ancora
Platone, Fedro 245 c-e.
195 Secondo gli Stoici il principio attivo, il logos divino ed eterno, è imma­
nente nella materia.
196 Cfr. Aristotele, L'Anima I (A), 3, 405 b 30- 406 a.
197 Cfr. Aristotele, Fisica V ili (©), 3,254 a sgg. e L'Anima I (A), 3,406 a.
198 Cfr. Aristotele, Fisica V ili (©), 5 e L’Anima I (A), 3, 406 a.
199 Cfr. Aristotele, Fisica V ili (©), 4, 254 a 20 e 3, 253 a-254 b. I due
passi della prima obiezione dello Stagirita sono divisi da un «dice». Il movi­
mento continuo dei corpi degli astri, inserito in questa obiezione, è tratto da
vari passi dell’aristotelico II cielo.
200 Infatti nell’VIII e ultimo libro della Fisica che postula sillogisticamen­
te l’esistenza di un Primo Motore immobile ed eterno, Aristotele non dice
che si tratti dell’anima. L’identificazione del primo mobile con l’anima emer­
ge soltanto ne II cielo.
201 Cfr. Aristotele, Fisica V ili (0 ), 4, 254 b 5-256 a.
202 Cfr. Aristotele, Fisica VIII (0), 4, 254 b 5 sgg.
203 Cfr. Aristotele, Fisica VIII (0), 4, 254 b 10. Aristotele distingue tra le
cose mobili quelle che si muovono da sé e quelle che si muovono per qual­
cos’altro e tra queste ultime distingue quelle che si muovono secondo natu­
ra e quelle che si muovono per forza contrariamente alla loro natura. Come
esempio di quest’ultima distinzione, la più difficile da analizzare (254 b 30),
Aristotele pone i gravi che si muovono verso il basso e il fuoco verso l’alto
(255 a 1-10), i quali per forza possono essere mossi in direzione opposta.
Aristotele dimostra che non si muovono da sé, da una parte perché non pos­
sono arrestarsi (al contrario di animali ed esseri viventi), dall’altra perché in
essi è indistinguibile ciò che muove da ciò che è mosso (255 a 5-15).
204 Si tratta della distinzione richiamata nella nota precedente: tra le cose
che si muovono da sé alcune sono mosse per propria azione, altre sono mosse
da qualcos’altro (Fisica VIII (0), 4, 254 b 10).
205 Cfr. Aristotele, Fisica VIII (0), 4, 254 b 20-255 b 1 sgg.
206 Cfr. infra II, 15, 4-23.
207 La parte dal § 16 fino a questo punto del § 18 è una parafrasi di Aristo­
tele, Fisica VIII (0), 5, 256 a 10-25, che giunge alla conclusione: «se, dunque,
tutto ciò che è mosso è mosso da qualcos’altro, e il primo motore è mosso, ma
non da qualcos’altro, allora necessariamente esso stesso si muove da sé». La
confutazione di questa prima obiezione sarà ampiamente trattata in II, 15,4-32.
208 Parafrasi di Aristotele, Fisica VIII (0), 5, 256 a 20-b 5.
209 Parafrasi di Aristotele, Fisica V ili (0), 5, 257 b 25-258 a 1.
210 Estrema sintesi di Aristotele, Fisica V ili (0), 5, 256 a 15-258 b 5.
211 Cfr. infra II, 15, 27.
212 Sul punto principio della linea cfr. Aristotele, Sulla linea indivisibile,
971, a 16, e, in altri contesti, lo stesso Macrobio in I, 6 , 35; I, 12 , 5; I, 2 , 5.
Sul principio del numero, ossia l’Uno o monade, che non è un numero cfr.
Aristotele, Metafisica XIV (N), 1, 1088 a 5 e ancora Macrobio, sempre in
altro contesto, in I, 6 , 7.
213 I confronti possibili sono con Aristotele, Metafisica XII (A), 4, 1070
b 15; X (I), 1, 1052 b 23; V (A), 15, 1021 a 13 e XIII (M), 9, 1086 a. Si trat­
ta della seconda obiezione di Aristotele che sarà confutata in II, 16, 2-4.
214 p er la terza obiezione i confronti possibili sono con Aristotele, Fisica
I (A), 6 , 189 a 30; III (D, 3, 202 a 20 sgg.; V ili (0), 4, 255 a 10 e 257 b 10
e anche L’Anima I (A), 3, 407 b 17. Questa obiezione aristotelica sarà confu­
tata in II, 16, 5.
215 Per la quarta obiezione Macrobio traduce abbastanza fedelmente
Aristotele, L’Anima I (A), 3, 406 a 16-18 («se l’essenza dell’anima è muover­
si da sé, non accidentalmente le apparterrà il movimento»); Categorie, X, 12
b, 40 («Non è possibile che il fuoco sia freddo né che la neve sia nera»). La
confutazione di quest’argomentazione si troverà in II, 16, 6-9.
2lf) Di questa quinta obiezione non si trovano nello Stagirita riscontri
diretti. Questo quinto argomento sarà confutato in II, 16, 10-13.
217 Per la sesta obiezione i possibili confronti sono con Aristotele, Fisica
V ili (0 ), 5, 256 a 22; 256 b 14 sgg. e 256 b 20; cfr. anche L’A nima III (D,
10, 433 b 13 sgg. La confutazione di questo argomento aristotelico sarà fatta
in II, 16, 14.
218 La settima obiezione può essere riscontrata, come un riassunto, dei
ragionamenti di Aristotele, Il Anima I, 3, 406 a 20 - 406 b 5. Sarà confutata
in II, 16, 15-19.
219 Per l’ottava e ultima obiezione aristotelica i vari riferimenti possono
essere stati ripresi da LAnima e da varie sezioni della Fisica. Per il primo trat-
tato cfr. I (A), 3, 406 a 11 sgg. Per il secondo cfr. II (B), 1 , 192 b 13-16; V
(E), 1, 224 b 11; 225 a 25-b 2; VII (H), 2, 243 a 6-10 e 26 sgg.; V ili (©), 7,
261 b 28 sgg.; 31-36; 8 , 262 a 12-14; 265 a 6 sgg.; 9, 265 a 14-22; a 29 sgg.;
265 b 1-8. La confutazione dell’ultima obiezione sarà svolta in II, 16, 20-25.
220 Verosimilmente Macrobio si riferisce a Porfirio e a Plotino e altri
diversi trattati di Platonici, oggi perduti, di cui Macrobio fornisce una sinte­
si organica delle loro confutazioni.
221 La dimostrazione aristotelica è stata data sopra in II, 14, 15-18: cfr.
inoltre nota 207.
222 La confutazione della duplice posizione aristotelica si svolge in due
parti: a) confutazione di II, 13, 4-23: dimostrazione che il Primo Motore si
muove in II, 15, 4-33; b) confutazione di II, 13, 24-35: dimostrazione che il
Primo Motore è l’anima nel seguente cap. 16. Per i testi platonici che oggi ci
sono rimasti, le argomentazioni di Macrobio possono tutt’al più essere rap­
portate a Plotino, ma il lessico di Macrobio è abbastanza lontano dalla lette­
ra del testo plotiniano.
223 Letteralmente praestigiae-, «frode, impostura, gherminella, trucchi da
illusionista, giochi di prestigio». Per Cicerone praestigiae verborum erano i
giochi di parole, le sottigliezze della dialettica. Macrobio, in un contesto
simile, è anche ricorso all’immagine dello scurrilis iocus (cfr. I, 22 ,10 e II, 16,
14).
224 Confutazione dell’argomentazione aristotelica in II, 14,10-13. Sulla non
esistenza di cose che si muovono da sé, secondo Aristotele, cfr. II, 14, 7-9.
225 Macrobio per confutare la prima obiezione rinvia alle considerazioni
da lui svolte nel precedente capitolo 13 e introduce il concetto platonico di
aùxoKivriTos, attributo essenziale dell’anima, che, per Platone, è, per defi­
nizione, movimento allo stato puro, per cui è piuttosto evidente il fatto che
immortale è ciò che si muove sempre.
226 Macrobio qui approva, come ha anticipato all’inizio del § presente,
l’argomento aristotelico contenuto in II, 14, 10.
227 Cfr. Plotino, Enneadi \ I, 6 ,1, 33. La discussione è intorno alle catego­
rie di Aristotele, in seguito al quale Plotino distingueva due specie di quali­
tà: 1 ) quelle che sono differenze della sostanza (come bipede o quadrupede,
o il bianco per la neve) e che aggiungendosi a un genere ne definiscono la
specie: sono un complemento della sostanza e un loro costituente; 2 ) quelle
che sono soltanto un accidente della sostanza (come il bianco per l’uomo) e
che sono solo qualità.
228 Cfr. Platone, Fedro 245 c e Leggi X, 896 a.
229 Esempio plotiniano: «Quanto poi al fuoco, dobbiamo rispondere che
il calore non è un’immagine del fuoco, a meno che non si dica che nel calo­
re c e ancora del fuoco; se così fosse, il calore si produrrebbe senza il fuoco.
E poi, quando il fuoco si allontana, il corpo riscaldato cessa, anche se non
subito, di riscaldarsi e si raffredda» {Enneadi VI, 4, 10, 15-20).
230 Idea aristotelica su cui cfr. II, 14, 10 e nota 224.
231 Da qui fino a tutto il § 19 non esistendo nella coniugazione italiana
una forma equivalente a quella latina, siamo costretti a mantenere i termini
verbali originali. Macrobio qui mostra l’ambiguità delle forme latine passive,
che possono talvolta avere un senso «medio» (nel senso che il soggetto com­
pie l’azione ricevendone direttamente gli effetti) o altrimenti detto «depo­
nente» (nel senso che abbandonano il significato passivo pur mantenendone
la forma) ed essere quindi l’equivalente del nostro riflessivo pronominale,
cosicché moveri può significare sia «muoversi» sia «essere mosso».
232 Anche Calcidio, in un contesto simile riguardante il movimento del­
l’anima secondo Platone, utilizza l’esempio di secari: hic uero communis, qui
commotus mouet, operatio mouentis est in eo quod mouetur, ut sectio operatio
secantis in eo quod secatur {Commentario al Timeo disiatone, CCLXII). E da
notare che nello stesso passo di quest’altra opera di fondamentale importan­
za per la conoscenza di Platone in tutto il Medioevo è inserita una parafrasi
del brano delle Leggi di Platone che Macrobio, per parte sua, cita nel succes­
sivo § 25 (Animae item duplex motus: unus qui alia mouet, ipse a nullo moue­
tur sed proprio genuinoque motu, alius qui alia mouens ab alio mouetur... ).
233 Cfr. il trattato di grammatica dello stesso Macrobio De uerborum
Graeci et Latini differentiis uel societatibus (di cui restano solo ampi excerp­
ta): Nam et in actiuo, et in passiuo debent omni modo duae, et administrantis
et sustinentis, subesse personae (Macrobii Excerpta Varisina, GL V 627, 25-26
= De verborum graeci et latini differentiis vel societatibus excerpta, a cura di
Paolo De Paolis, Urbino, 1990, p. 163).
234 Virgilio, Eneide VI, 652.
235 Si tratta infatti di un cosiddetto verbo di stato. Si tratta di verbi che
descrivono appunto uno stato o una condizione che non cambia o è impro­
babile che cambi, e che hanno perciò in latino un significato fortemente pas­
sivo, pur non essendo dei passivi. La loro differenza rispetto ai verbi di moto
è, ad esempio, molto importante nella grammatica inglese.
236 Cfr. supra II, 14, 11. Quello del fuoco è un esempio aristotelico: cfr.
nota 203.
237 Cfr. Aristotele, Fisica VIII, 5, 257 b 1 sgg. in riferimento a Platone,
Fedro 245 c, citato sopra in II, 13, 1 (Cicerone, Repubblica VI, 27 - Sogno di
Scipione 8, 3).
238 Si tratta del titolo di una delle celebri commedie di Terenzio, rappre­
sentata nel 163 a.C., dove si narra il pentimento e le punizioni che sconta e
s’infligge il vecchio Menedemo per il comportamento tenuto nei riguardi del
figlio Clinia, indotto ad arruolarsi come mercenario in Asia per ostacolarne
le nozze con una fanciulla di umili origini.
239 Cfr. per l’argomentazione aristotelica II, 14, 10-13 e note 204-205.
240 Cfr. II, 14, 20 e nota 208.
241 Piatone, Leggi X, 894 b-e per il movimento che muove se stesso e le
altre cose oppure muove ed è mosso da altro; 895 e-896 a per il movimento
dell’anima; e infine X, 896 b per il movimento dei corpi. Per la traduzione di
Calcidio dello stesso passo vedi sopra nota 232.
242 Platone, Leggi X, 896 a; Fedro 245 e; e Cicerone, Natura degli dei II, 32:
cui [Fiatoni] duo placet esse motus, unum suum, alterum externum, esse autem
diuinius, quod ipsum ex se sua sponte moueatur quam, quod pulsu agitetur alie­
no. Hunc autem motum in solis animis esse ponit, ab isque principium motus
esse ductum putat («Secondo lui [Platone] esisterebbero due tipi di movimen­
to, uno proprio, l’altro di origine esterna; e tutto ciò che si muove spontanea­
mente di per se stesso parteciperebbe della natura divina in grado maggiore di
ciò che si muove per spinta altrui. Unica sede di questo movimento spontaneo
sarebbe l’anima e dall’anima soltanto trarrebbe origine ogni movimento»).
243 E il sillogismo conclusivo enunciato in II, 14, 23.
244 Cfr. Plotino, Enneadi IV, 7, 2, dove si dimostra, contro i materialisti,
la necessità di un principio che ordini e che sia causa del miscuglio.
245 È la risposta, esposta sillogisticamente, alla prima e più articolata
delle obiezioni aristoteliche (su cui cfr. sopra nota 199), sintetizzata nel sillo­
gismo aristotelico di II, 14, 23.
246 Argomentazione aristotelica enunciata in II, 14, 24. Tutto il capitolo
16 è infatti la confutazione delle obiezioni aristoteliche, dalla seconda all’ot­
tava, esposte in II, 14, 24-35, come sarà segnalato nelle note seguenti.
247 Macrobio cita la definizione di anima come moto aÙT0 Kivr|T0 s, già
citato in II, 15, 6 e più volte presente in Platone (ad. es. Fedro 245 d; 246 a;
Leggi X, 896 a), a completamento della discussione della seconda obiezione
aristotelica su cui cfr. sopra nota 213. Questo riferimento a Platone era già
stato fatto in II, 13, 6 riguardo al Fedro.
248 E l’obiezione aristotelica enunciata in II, 14, 25.
249 Sulla terza obiezione cfr. sopra nota precedente e nota 214.
250 Cfr. II, 14, 26.
251 Cfr. Plotino, Enneadi I, 1, 13, 1-5 e anche IV, 7, 8, 5.
252 II sogno è stato spesso al centro delle indagini di Aristotele. Il rappor­
to tra l’anima e l’esperienza onirica è testimoniato da varie opere, quali ad
esempio, oltre L'Anima, Sui sogni, Sulle divinazioni nel sonno e Del sonno e
della veglia.
253 Sulla quarta obiezione cfr. sopra nota 250 e nota 215.
254 E la quinta obiezione aristotelica enunciata in II, 14, 27.
255 Cfr. Aristotele, Categorie X, 12 b 35 sgg.
256 Sulla quinta, e facilmente confutabile, obiezione aristotelica cfr. sopra
note 254 e 216. L’affermazione che il fuoco è per sua natura caldo (come è
natura della neve l’essere bianca) è tratta dallo stesso Aristotele, Categorie X,
12 b 39.
257 Si tratta della sesta obiezione aristotelica enunciata in II, 14, 28.
258 Sulla sesta obiezione cfr. sopra nota precedente e nota 217.
259 Obiezione enunciata in II, 14, 29,
260 Cfr. I, 13, 6 («L’uomo, infatti, muore quando l’anima abbandona il
corpo, da cui si scioglie per una legge di natura») e soprattutto 11-12 in cui
si afferma che l’anima è legata al corpo da un rapporto numerico preciso e
quest’ultimo muore quando si dissolve questo ciclo numerico. Su questa idea
cfr. nota 232 del Libro Primo.
261 Sulla settima obiezione cfr. sopra note 259 e 218. Sull’attaccamento
dell’anima al corpo cfr. I, 9, 4-5.
262 Obiezione aristotelica enunciata in II, 14, 30-35
263 Sulla ottava obiezione cfr. sopra nota 262 e nota 219.
264 Per la definizione di Platone e Cicerone vedi rispettivamente Platone,
Fedro 245 c — ma anche 105 c — (TTriyii Kai à p x n kivtìoegos) « fonte e
principio di movimento » e Cicerone, Sogno di Scipione 8, 3-9, 1. (=
Repubblica VI, 27 ) citato in II, 13,1 (hicfons hoc principium est movendi) che
ne è la traduzione latina.
VeJf anche Platino, Enneadi IV, 7, 12, 4 sull’immortabtà deìl’anima
del mondo e nostra, entrambe principio di movimento.
Cfr. Plotino, Enneadi III, 8, 10, 5-9. Quanto alla metafora della fonte
è usatissima da Plotino per descrivere l’Uno trascendente, così come il rap­
porto Dio-mondo, essendo un’immagine simbolica e adatta all’immediata
comprensione, per far intendere che tra principio e generazione non c’è il
rapporto creazionistico che separa creatore e creatura, ma che ciò che viene
emanato dalla fonte è sempre legato alla fonte stessa.
267 SullTstro e il Tanai vedi sopra nota 123. L’Eridano, protagonista della
caduta dal carro del sole di Fetonte, figlio di Apollo, è l’antico nome del Po.
268 L’osservazione si riscontra in Platone, Leggi X, 896 e sgg. e si ritrova
in Plotino, Enneadi VI, 4, 15
269 Cicerone, Repubblica VI, 29 = Sogno di Scipione 9, 2-3.
270 Attraverso questi quattro aggettivi è ovvio il richiamo alle quattro
virtù «cardinali» esaminate e definite nel cap. 8 del Libro Primo, in cui
Macrobio ha utilizzato soprattutto gli scritti di Piotino e Porfirio (cfr. in par­
ticolare nota 150 del Libro Primo). Quanto alle virtù attive e virtù contem­
plative anch’esse sono state discusse nello stesso capitolo (cfr. le relative note
del Libro Primo).
271 Cfr. la descrizione dell’uomo che pratica le virtù purificatrici in I, 8, 8.
272 Nei Saturnali Macrobio dedica ampio spazio all’opera politica di
Romolo: invenzione del calendario romano (I, 12, 3-38), divisione del popo­
lo in anziani o maiores e giovani o iuniores «affinché gli uni difendessero lo
stato con il consiglio, gli altri con le armi» (I, 12, 16), Sull’ascesa in cielo del­
l’eroe — che lo rende predecessore dei due Scipioni e Paolo Emilio del
Sogno — cfr. supra nota 169. Si noti che Giulio Proculo nel Romolo di
Plutarco giura di aver sognato il primo re di Roma che rivela al vecchio amico
«che gli dèi hanno voluto che dopo aver vissuto per un tempo determinato
con gli uomini..., dopo aver fondato una città che si eleverà all’impero e alla
gloria più alta, io ritornassi al cielo da dove sono venuto» (28, 2). I presup­
posti di questa concezione sono naturalmente nella concezione pitagorica e
platonica dell’eternità dell’anima, che ascende dopo la morte al cielo attra­
verso una serie di passaggi, simili a quelli descritti da Macrobio in I, 8, che
Plutarco sintetizza nel finale della Vita di Romolo: «e, se hanno trascorso tutti
i giorni della loro vita, come quelli dell’iniziazione ai misteri, nell’innocenza
e nella santità, se hanno fuggito tutte le passioni e tutti i desideri d’una carne
terrena e mortale, allora le loro anime, innalzate alla natura degli dèi, non per
decreto pubblico, ma per la verità stessa, e per le ragioni più giuste, gioisco'
no della condizione più bella e più felice» (28, 7-8).
273 Licurgo e Solone sono i due più noti legislatori, il primo di Sparta e
il secondo di Atene, Del primo vaghe e incerte sono le notizie sulla sua figu­
ra, per quanto riguarda sia la cronologia sia la stirpe. Vissuto in un’epoca
antichissima, variabile secondo le fonti tra il XII e l’VIII sec. a.C. le riforme
legislative gli sarebbero state suggerite da un responso oracolare di Delfi o
secondo altri da dodici saggi cretesi ed erano fissate non da leggi scritte, ma
da norme consuetudinarie. Le severe leggi regolavano l’ordinamento dello
stato spartano nelle sue istituzioni politiche, sociali, economiche e militari.
Licurgo, sempre secondo Plutarco che gli accredita la duplice perfezione, sia
nel campo della saggezza che in quello dell’azione politica: «mostrò, a chi
crede irrealizzabile la figura del saggio com’è delineata nella teoria, una città
intera praticare l’amore per la saggezza, e superò giustamente per fama gli
statisti greci di qualsiasi epoca» (Licurgo, 31). Diversamente Solone, uno dei
Sette Savi della Grecia antica, è un personaggio storico (640-560 a.C.). Non
solo uomo politico e legislatore, ma anche poeta, avviò nel 594 a.C. una rifor­
ma politica — anche lui sotto la dettatura dell’oracolo di Delfi — che favorì
uno sviluppo in senso democratico delle istituzioni ateniesi, proibendo la
schiavitù per debiti, suddividendo i cittadini in quattro classi censitarie, delle
quali solo le prime due godevano del diritto elettorale passivo e istituendo, a
fianco dell’Areopago, un consiglio popolare di quattrocento membri.
Platone, suo discendente per parte di madre, ne fa uno dei protagonisti del
Timeo, dove gli fa riferire il mito di Atlantide, e nello stesso dialogo lo defi­
nisce «sapientissimo nelle altre cose, ma anche il più nobile fra tutti i poeti».
274 Numa Pompilio fu, secondo la tradizione, il secondo re di Roma e
avrebbe regnato tra il 715 e il 674 a.C. Gli si ascrive la riforma del calenda­
rio inventato da Romolo (cfr. nota 272), che passò da 10 a 12 mesi, con l’ag­
giunta di gennaio e febbraio, e che inoltre distinse in giorni fasti e nefasti
(Macrobio, Saturnali, I, 13 e I, 16, 2). Oltre al calendario luni solare, a lui si
attribuisce anche l’istituzione del culto e la fondazione dei collegi sacerdota­
li. Secondo una tradizione più tarda sarebbe stato consigliato nella sua opera
dalla ninfa Egeria e sarebbe stato discepolo di Pitagora, nonostante l’eviden­
te anacronismo e, infatti, Macrobio attribuisce la sua opera alla «sola guida
del suo ingegno... o forse informato delle osservazioni dei Greci» (op. cit., I,
13, 2). Marco Porcio Catone Censore (234-149 a.C.), uomo d’armi, politico,
oratore, agricoltore e scrittore enciclopedico, rivestì numerose cariche pub­
bliche, ma è soprattutto ricordato come severissimo censore e avversario
delle idee ellenistiche. Macrobio nei Saturnali (Prefazione 14-15; II, l, 15) lo
ricorda solo per le sue arguzie. E invece storicamente nota la sua dura lotta
contro l’immoralità dei costumi romani e contro il lusso femminile. I proces­
si che nel 187 e nel 184 intentati contro gli Scipioni e il loro raffinato circo­
lo intellettuale costituiscono il più evidente e clamoroso atto della sua oppo­
sizione alla cultura pitagorica ed ellenistica. E stato perciò giustamente osser­
vato che Macrobio, in questo caso, non si riferisce certamente al personaggio
storico, ma all’immagine idealizzata descritta e prodotta da Cicerone in vari
suoi scritti (Pro Murena, De legibus, Laelius de amicitia, De officiis) e princi­
palmente nel Cato Maior de senectute, ambientato nel 150 a.C., l’anno prece­
dente la morte di Catone, in cui l’autorevole e prestigioso anziano impartisce
una lezione sull’immortalità dell’anima, ricordando il bene compiuto e la sua
vita ancora attiva, in attesa di quella dopo la morte. Diversamente da questa
immagine letteraria, la realtà di Marco Porcio Catone Uticense (95-46 a.C.),
pronipote di Catone il Censore, è quella di un politico celebre per la rettitu­
dine e per l’attaccamento alla tradizione, insieme uomo d’azione e filosofo.
Eroico anticesariano (combattè per i pompeiani in Sicilia, in Asia, a Durazzo
e in Africa) fu anche modello dello Stoico romano, che rinuncia alla vita per
la libertà e che la notte prima del suo suicidio si dà alla lettura del Fedone.
Macrobio nei Saturnali (II, 4, 18) ne ricorda addirittura le lodi di Augusto
per il suo attaccamento agli ideali della conservazione della forma repubbli­
cana, invece di deplorarlo per la sua ostinazione, come pretendeva un adula­
tore dell’imperatore.
275 La lista degli esponenti delle virtù attive e contemplative è quasi del
tutto coincidente con i personaggi citati da Dante nel Convivio (Romolo: IV, 5,
10 sgg.; Pitagora: II, 13, 18 e 15, 12; III, 5, 4 sgg.; IV, 1, 1; Solone: III, 11, 4;
Numa: III, 21, 3 e IV, 5, 11; Catone vecchio il Censore: IV, 21, 9; 27, 16 e 28,
6; Catone l’Uticense o Marco Catone: III, 5, 12; IV, 5, 16; 6, 10 e 28, 13-19).
276 Si tratta della philosophiae mors, la morte filosofica illustrata chiara­
mente in I, 13, 5-9, particolarmente centrale nel Fedone di Platone e nel trat­
tato sul suicidio di Plotino (cfr, note 223-230 del Libro Primo).
277 In un testo di legge, l’enunciato della lex, ossia il dettato squisitamen­
te normativo, detto rogatio, è seguito dalla sanctio, che compendia l’insieme
delle clausole tendenti ad assicurare il rispetto della legge. Una nota triparti­
zione ulpinianea, risalente al III sec., classificava le leggi in: 1) leges perfectae,
quelle che vietano un atto previsto dal ius, impongono una sanzione e dichia­
rano la nullità dell’atto; 2) leges minus quam perfectae, le leggi che vietano un
atto ma non lo annullano, prevedendo per il contravventore una sanzione; 3)
leges imperfectae, leggi che vietano il compimento di un atto ma non annul­
lano l’atto se esso viene compiuto, né, come ricorda qui Macrobio, sanziona­
no una pena. Nel diritto romano, col passare dei secoli, queste ultime erano
verosimilmente divenute le più numerose, finché nel 439 una Novella del­
l’imperatore Teodosio dichiarò nullo ogni atto contrario alla legge, impeden­
do in tal modo l’esistenza di leges imperfectae. La data del 439 potrebbe dun­
que rappresentare un terminus ante quem per la composizione del Com­
mento di Macrobio.
278 Cfr. Platone, Repubblica X, 615 a-c. La misura della pena è di dieci
volte cento anni per ogni capo d’accusa.
279 Le anime quae corpus tamquam peregrinae incolunt sono quelle di cui
si è trattato nel precedente § 6, come anche in I, 13, 10, Per il ritorno dell’a­
nima in cielo, sua dimora d ’origine, cfr. I, 12, 17. Sulla possibilità di sfuggire
al ciclo delle reincarnazioni attraverso una perfetta purificazione e riguada­
gnare il soggiorno celeste cfr. I, 13, 15-16.
280 L’allusione è all’antichissima e diffusissima dottrina della metempsi­
cosi, più propriamente definibile come «metensomatosi» è di derivazione
indù. Macrobio l’ha enunciata e approvata in I, 9, 5. La sua influenza in
Grecia si può già riscontrare nell’orfismo, a cui s’ispirò Pitagora, diffonden­
dosi quindi nel mondo greco-romano. L’idea nasce dal presupposto che, se
l’anima è immortale, mentre il corpo è mortale, la prima conoscerà una serie
di trasmigrazioni, ovvero di ritorni a una condizione corporea. Questa con­
dizione sarà però diversa a seconda della condotta dell’anima durante la pre­
cedente esistenza: un’anima che si lascia coinvolgere dalla corporeità cono­
scerà reincarnazioni in forme di vita sempre più basse; un’anima che seguirà
invece le regole della virtù incontrerà forme di vita terrena sempre più alte,
fino ad abbandonare definitivamente il ciclo di nascite e morti e riprendere
la sua condizione divina.
281 La chiave dell’opera di Macrobio si trova in tutte queste ultime righe
del Commento, dove egli conclude il suo scritto celebrando la perfezione del­
l’opera che ha provveduto a commentare. Il Sogno, afferma, è un’opera com­
piuta in quanto abbraccia le tre parti che costituiscono l’insieme della filoso­
fia, la morale (pars moralis), la fisica (pars naturalis) e la logica (pars rationa­
lis,I.
La tripartizione macrobiana della filosofia in morale, naturale e raziona­
le, corrispondente a etica, fisica e logica, che potrebbe a prima vista sembra­
re del tutto peculiare è in realtà una classificazione tripartita, già presente
nell’Accademia di Platone, e fatta propria dalle principali scuole filosofiche
in età ellenistica (epicureismo, scetticismo, stoicismo). Furono gli Stoici a
sostituire alla dialettica dei primi seguaci di Platone la logica. Se nell’ambito
originario platonico fra le tre parti della filosofia esisteva una gerarchia, fon­
data sulla medesima gerarchia dei domini studiati, per cui la filosofia s’innal­
zava dalla contingenza umana fino alla trascendenza divina, gli Stoici ebbero
una concezione fortemente unitaria e sistematica della filosofia. Tra queste
parti intercorrono legami organici indisgiungibili ed essi utilizzarono varie
metafore per illustrare questo aspetto: la logica è simile alle ossa e ai nervi in
un corpo vivente, l’etica alle sue carni e la fisica all’anima, oppure la logica è
analoga al guscio in un uovo, l’etica all’albume e la fisica al tuorlo. Pur dive­
nuta patrimonio comune agli Stoici e ai Platonici, questa tripartizione, sotto
l’influenza dello stoicismo aveva però condotto ad una degradazione della
logica (che per loro comprendeva la retorica, o scienza dei discorsi, e la dia­
lettica, scienza del vero e del falso) facendone perdere lo statuto di scienza
metafisica che permetteva di accedere alle Idee. La classica tripartizione
viene rinnovata e rimodellata, a partire dal I sec., in ambito medio- e neopla­
tonico, con l’introduzione dell’«epoptica» che si occupa dell’intelligibile, del
puro e dell’incontaminato. Si veda in proposito l’analoga definizione
dell’«epoptica» in Plutarco (Iside e Osiride 77) secondo il quale furono
Platone e Aristotele a chiamare così l’ultima parte della filosofia: «quanti
siano riusciti a superare con la ragione il mondo dell’opinabile, del compo­
sto, del multiforme, si slanciano verso quell’essere primo, semplice e imma­
teriale; e se giungono a toccare in qualche modo la verità, pura riguardo
all’essere, questa è per loro la rivelazione ultima e perfetta della filosofia». Il
termine è iT O T T T d a allude al terzo grado, il grado supremo del percorso ini­
ziatico eleusino, dopo i Piccoli Misteri i Grandi Misteri (cfr. Platone,
Simposio), l’ultima tappa della conoscenza. Sebbene il termine «epoptica»
non sia direttamente attestato né in Piatone né in Aristotele, per contro, lo
s’incontra nel medio- e neoplatonismo (cfr. Teone di Smirne, Expositio rerum
mathematicarum ad legendum Platonem utilium, ed. E. Hiller, Lipsiae, 1878,
p. 14; Clemente d’Alessandria, Stromata I, 28, 176, 1-3; Origene, In Canti­
cum canticorum , ed. W. A. Baehrens, Leipzig, 1925 p 75, 6), Le stesse
Enneadi di Plotino sono ordinate da Porfirio in conformità a questo schema
tripartito e, allo stesso modo, Macrobio concepisce la successione di questi
tre domini all’interno del Sogno, come lui stesso dichiara e come chiarisce nel
seguente § 16, e, di conseguenza del suo stesso Commento. Anche se
Macrobio, diversamente dal suo contemporaneo Calcidio (Commentano al
Timeo di Platone CXXVII: primariae superuectaeque contemplationis... quae
appellatur epoptica-, e CCLXXII), non utilizza questo termine, ci si accorge
che, nell’ambito della sua tripartizione, la pars rationalis, ovvero la logica,
riveste lo stesso dominio, poiché «è quella che ha per oggetto gli esseri imma­
teriali comprensibili soltanto con l’intelletto». Non solo Calcidio, ma anche
Macrobio è debitore della sistemazione di Porfirio. Nel summenzionato § 16
si riconoscono in filigrana le concezioni neoplatoniche sopra menzionate: il
tema dell’iniziazione misterica (secreta commemorat), cui è improntata la
metafora dell’«epoptica» e quella della gerarchia delle parti della filosofia,
con l’immagine dell’altezza (ad altitudinem philosophiae rationalis ascendit).
282 Sull’immagine degli arcani e dei misteri applicata allo studio della
natura cfr. I, 2, 17-18 e nota 27 del Libro Primo, oltre alla precedente nota.
283 Si è giustamente osservato che la perfezione filosofica del Somnium è
anche indice di completezza del commento di Macrobio. La sua perfezione
si trasferisce, immediatamente, al Commento la cui struttura è ricalcata su
quella del Sogno. La parte etica del Commento consiste nei capitoli I, 8-14:
comprende, non inaspettatamente, l’esposizione sulle virtù; ma poiché que­
ste virtù prendono la loro stessa sorgente nell’origine celeste e trascendente
dell’anima ed assicurano d ’altra parte il ritorno di essa al cielo, la sezione
etica del Commento v’inserisce la descrizione della discesa dell’anima e della
sua incarnazione, della sua morte, o meglio delle sue morti, la discussione
sulla collocazione degli Inferi e il ritorno dell’anima al cielo. La sezione dedi­
cata alla fisica corrisponde alla parte «scientifica» (matematica, astronomia,
musica e geografia). Infine la logica, definita, dal Sogno, come la parte che
tratta del movimento e dell’immortalità dell’anima, si ritrova sotto questa
stessa definizione nel Commento (II, 12-16).
Dunque, seguendo il movimento — perfetto — del Sogno, Macrobio
costruisce a sua volta u n ’opera che riproduce questa perfezione realizzando
contemporaneamente la progressione dell’insegnamento dei neoplatonici in
etica-fisica-logica/epoptica (pur essendovi talora alcuni particolari slittamen­
ti: l’esposizione sulle tre ipostasi, che si collega per eccellenza agli incorporei
percepibili con la sola intelligenza, dipende dalla logica ma tuttavia si effet­
tua in I, 14, 5-7, in seno alla parte dedicata all’etica; lo stesso accade per la
dossografia sulla natura dell’anima, esposta in I, 14,19-20, che meglio si col­
locherebbe nella parte logica). In ogni caso, nel complesso il propositum ed
il filo conduttore del Commento consistono nel fare percorrere al lettore l’in­
sieme del campo della filosofia conducendolo al tempo stesso in un cammi­
no spirituale ascendente, conformemente alla pratica delle scuole neoplato­
niche, conferendo ad esso un carattere di summa del sapere e insieme di pro­
gressione del cammino interiore verso l’elevazione individuale a uno stato
superiore dell’essere a cui molte generazioni di lettori hanno attinto e attin­
geranno.
A p p e n d ic e I
I l S o g n o d i S c ip io n e
d i M a r c o T u l l io C ic e r o n e

Il Sogno di Scipione era in origine Ia parte conclusiva del libro VI


del De re publica (§§ 9-29) di Cicerone al quale l’Arpinate lavorò lun­
gamente fra il 54 e il 51 a.C., e in cui si discute se sia compito del sag­
gio interessarsi di politica, passando poi a identificare la migliore
forma di Stato tra quelle sperimentate nella storia. Il dialogo si svol­
ge nel passato, nel 129 a.C., presso la villa suburbana di Scipione
Emiliano, che, con l’amico e collaboratore Lelio, è uno dei principa­
li interlocutori. Il testo che si conosce sotto il titolo di Somnium
Scipionis non è, dunque, un’opera autonoma, ma tale è il titolo che
reca questo estratto della Repubblica di Cicerone sia nei manoscritti
medioevali di Macrobio sia in quelli di Favonio Eulogio, l’altro com­
mentatore del Sogno a noi noto, la cui opera ha per titolo appunto
Disputatio de Somnio Scipionis (cfr. Bibliografia).
Questo brano, tra i più brillanti della prosa latina, è, come spiega
lungamente Macrobio, una narratio fabulosa, una finzione letteraria
che ha la propria origine nelle dissertazioni filosofiche come esempli­
ficato nei testi di Platone (ad esempio, l’utilizzo del mito nella Re­
pubblica). Nel racconto adatto ai filosofi «la nozione delle cose sacre
può essere coperta da un casto velo di invenzioni» — sacrarum rerum
nodo sub pio figmentorum uelamine honestis 1. Il principale perso­
naggio del dialogo, Scipione l’Emiliano, racconta l’indimenticabile
sogno che aveva avuto vent’anni prima, quando, giovane comandan­
te di legione, era andato in Africa per prendere parte alla terza guer­
ra punica. Accolto dal vecchio re Massinissa, aveva trascorso la sera­
ta ad ascoltare l’evocazione dei ricordi del suo avo adottivo, Scipione
l’Africano. Coricatosi, aveva sognato d’innalzarsi nelle regioni celesti,
in cui veniva accolto proprio dall’Africano e dal padre naturale,
Paolo Emilio. Costoro, dall’alto della Via Lattea, dove si trova, gli
fanno contemplare il cielo, gli astri e la terra, descrivendogli la mira­
bile struttura dell’universo. E, mentre gli assicurano l’immortalità
dell’anima, gli rivelano che, dopo la morte, le anime dei benemeriti
della Repubblica s’innalzeranno nello splendore dei cieli, dove
vivranno beate in eterno.

1 Macrobio, Commento al Sogno di Scipione II, 2, 11.


Il Sogno di Scipione è un testo che ha avuto una storia singolare,
curiosa, ed interessante. Non abbiamo prove che il Somnium
Scipionis, prima di divenire oggetto di commenti, abbia avuto
nelI’Antichità una sua destinazione editoriale autonoma o che sia
stato inteso come un’unità specifica. E, però, ciò che indubbiamente
è accaduto nel Medioevo, e questo ad opera di Macrobio, a cui il
Sogno deve la sua sopravvivenza, anche grazie a numerosi manoscrit­
ti medioevali del Commento, in cui appariva in appendice a quest’ul­
timo. Il Sogno ebbe così una sua trasmissione separata.
Delle opere di Cicerone nessuna raggiunge la perfezione e bellez­
za del suo trattato della Repubblica e per questo motivo nel Rina­
scimento, quando ci si propose l’importante impegno culturale di
pubblicare il corpus dei libri di Cicerone, ci si scontrò con la spiace­
vole novità che non esisteva un solo manoscritto della sua Repubblica,
conosciuta unicamente attraverso i riferimenti di alcuni autori, tra cui
il nostro Macrobio e Sant’Agostino. Il De re publica fu dato per perso
per 400 anni fino a che, nel dicembre 1819, il grande filologo ed eru­
dito e futuro Cardinale Angelo Mai (1782-1854) lo ritrovò in un
palinsesto vaticano (Vaticano lat. 5757), che riportava un’edizione
dei Commenti ai Salmi di Sant’Agostino. Il gesuita Mai si aiutò con
dei reagenti chimici a base di noce di galla che gli permisero di por­
tare alla luce ampie parti dell’opera ciceroniana (buona parte dei libri
I e II e frammenti dei libri III-V). La scoperta gli meritò la celebre
ode di Giacomo Leopardi Ad Angelo Mai: quand'ebbe trovato i libri
di Cicerone della Repubblica scritta nel gennaio del 1820.
Seguendo l’esempio dei numerosi manoscritti medioevali, nonché
di talune edizioni moderne, ci è parso opportuno annettere, alla pre­
sente edizione, il testo del Somnium Scipionis a quello del Commento
di Macrobio.
La presente traduzione è basata sulla versione di Macrobio2 che

2 Le varianti sono circa una ventina. Bastino qui un paio di esempi tra i più
lampanti: conseruatores in Cicerone, Repubblica VI, 13 ~ Sogno di Scipione 3,1;
seruatores in Macrobio, Commento al Sogno di Scipione I, 8,1 e I, 9,1. Coniunctus
in Repubblica VI, 18 = Sogno di Scipione 5,1; disiunctus in Commento al Sogno di
Scipione II, 2, 21; II, 3, 3; II, 3, 12. Le varianti che si osservano, da una parte, tra
il Sogno così come tradito dai manoscritti a seguito del Commento, e, dall’altra, le
citazioni che ne dà Macrobio nel corso della sua opera, sono non solo rivelatrici
di due tradizioni testuali differenti, ma ci offrono anche la certezza che Macrobio
non ha utilizzato l’archetipo di queste copie del Sogno per il suo commento e che
non ha nemmeno accluso il testo alla sua opera. Se Macrobio avesse avuto in
mano l’archetipo di queste edizioni autonome del Somnium, non avrebbe potuto
esimersi dall’armonizzare le sue citazioni con tale testo. Un altro indizio mostra
che Macrobio non utilizzava un’edizione autonoma dal Sogno di Scipione: è infat­
ti in grado di situare il Sogno in seno al libro VI del De republica e di citarne il
contesto come fa nel suo Commento I, 4, 2-3. Salvo il Sogno, le citazioni qui men-
presenta alcune varianti rispetto al testo tràdito e sull'interpretazio­
ne che egli dà delle parole di Cicerone. In qualche caso, perciò, si
discosta dal significato che si proponeva Cicerone 3.

zionate, con alcune altre rare e brevi testimonianze indirette, sono tutto ciò che
ci resta del Libro VI del De republica. Tutto ciò mostra che Macrobio aveva sotto
gli occhi, mentre scriveva, un esemplare completo del trattato di Cicerone.
Aggiungiamo infine che talvolta si dà la pena, per meglio evidenziare la citazione
che commenta, di riassumere il Somnium in tutto o in parte (Commento al Sogno
di Scipione II, 5, 1; II, 12, 1). Non ne avrebbe avuto il bisogno se avesse avuto l’in­
tenzione di unire al suo Commento il testo integrale del Somnium, offrendo così
al lettore la possibilità di potervi fare riferimento in qualsiasi momento. Sono
dunque gli editori medievali ed essi solo che hanno unito il Sogno al Commento,
ad uso di lettori che non avevano il De republica nella loro biblioteca e che non
potevano altrimenti conoscere il testo di Cicerone, con una scelta tanto più sag­
gia in considerazione del naufragio del De republica, ben presto sparito nei gor­
ghi del Medioevo.
3 Accurate traduzioni in italiano della versione e quindi del significato cice­
roniano si possono trovare, tra le più recenti, in: Somnium Scipionis / Cicerone,
introduzione e commento di Alessandro Ronconi, 2a ed. riv, F. Le Monnier,
Firenze, 1992; Il sogno di Scipione / Cicerone, a cura di Fabio Stok, Marsilio,
Venezia, 20036; Il sogno di Scipione; Il fato / Marco Tullio Cicerone, introduzione,
traduzione e note di Andrea Barabino, Garzanti, Milano, 20023. Per un studio
particolareggiato del Sogno di Scipione vedi Pierre Boyancé, Etudes sur le Songe
de Scipion: essais d’histoire et de psychologie religieuses, New York-London, 1987
(ripr. dell’ed. Feret et fils, Bordeaux, 1936); Id., Sur le Songe de Scipion, in
Lantiquité classique, voi. 11, n. 1, Bruxelles, 1942; Karl Buchner, Somnium
Scipionis: Quellen, Gestalt, Sinn, Steiner, Wiesbaden, 1976.
1 (VI. 9) Cum in Africam venissem M. Manilio consuli ad quar­
tam legionem tribunus, ut scitis, militum, nihil mihi fuit potius quam
ut Masinissam convenirem regem, familiae nostrae iustis de causis
amicissimum. Ad quem ut veni, complexus me senex conlacrimavit
aliquantoque post suspexit ad caelum et «Grates» inquit «tibi ago,
summe Sol, vobisque, reliqui Caelites, quod, ante quam ex hac vita
migro, conspicio in meo regno et his tectis P. Cornelium Scipionem,
cuius ego nomine ipso recreor; itaque numquam ex animo meo
discedit illius optimi atque invictissimi viri memoria.» Deinde ego
illum de suo regno, me de nostra re publica percontatus est, multi-
sque uerbis ultro citroque habitis ille nobis consumptus est dies. (
2 (VI. 10) Post autem apparatu regio accepti sermonem in mul­
tam noctem produximus, cum senex nihil nisi de Africano loquere­
tur omniaque eius non facta solum, sed etiam dicta meminisset.
Deinde, ut cubitum discessimus, me et de uia fessum, et qui ad mul­
tam noctem uigilassem, artior quam solebat somnus complexus est.
Hic mihi (credo equidem ex hoc quod eramus locuti; fit enim fere, ut
cogitationes sermonesque nostri pariant aliquid in somno tale quale
de Homero scribit Ennius, de quo uidelicet saepissime uigilans sole­
bat cogitare et loqui) Africanus se ostendit ea forma, quae mihi ex
imagine eius quam ex ipso erat notior; quem ubi agnoui, equidem
cohorrui, sed ille «Ades» inquit «animo et omitte timorem, Scipio, et,
quae dicam, trade memoriae.»
3 (VI. 11) «Uidesne illam urbem, quae parere populo Romano
coacta per me renouat pristina bella nec potest quiescere?» (ostende­
bat autem Carthaginem de excelso et pleno stellarum illustri et claro
quodam loco) «ad quam tu oppugnandam nunc uenis paene miles.
Hanc hoc biennio consul euertes, eritque cognomen id tibi per te
partum, quod habes adhuc a nobis hereditarium. Cum autem
Carthaginem deleueris, triumphum egeris censorque fueris et obieris
legatus Aegyptum, Syriam, Asiam, Graeciam, deligere iterum consul
1 (VI. 9) Quando arrivai in Africa come tribuno militare della
quarta legione al servizio del console Manio Manilio *, come sapete,
niente mi stette più a cuore che di incontrare Massinissa 2, un re che
per fondati motivi era molto amico della nostra famiglia. Non appe­
na giunsi da lui, il vecchio, abbracciandomi, scoppiò in lacrime e,
dopo un po’, levò gli occhi al cielo e disse: «Ti ringrazio, sommo Sole,
come pure voi, altre divinità celesti, perché, prima di migrare da que­
sta vita, ho la possibilità di vedere nel mio regno e sotto il mio tetto
Publio Cornelio Scipione, al cui nome mi sento rinascere; infatti dal
mio cuore non è mai svanito il ricordo di quell’uomo ottimo e valo­
rosissimo. 3» Quindi io gli chiesi notizie sul suo regno ed egli mi chie­
se della nostra repubblica: così, tra le tante parole spese da parte mia
e sua, trascorse quella nostra giornata.
2 (VI. 10) Poi, dopo essere stati accolti con un banchetto regale,
prolungammo la nostra conversazione fino a notte fonda, mentre il
vecchio non parlava d’altro che di Scipone l’Africano e ricordava non
solo tutte le sue imprese, ma anche i suoi discorsi. Poi, quando cì
congedammo per andare a dormire, un sonno più profondo del soli­
to s’impadronì di me, stanco sia per il viaggio sia per la veglia fino a
tarda notte. Quand’ecco che (credo, a dire il vero, che dipendesse
dall’argomento di cui avevamo discusso: accade infatti di solito che i
nostri pensieri e le conversazioni producano nel sonno qualcosa di
simile a ciò che Ennio scrive a proposito di Omero 4, al quale, è evi­
dente, era solito pensare e parlargli da sveglio) mi apparve l'Africano,
in quell’aspetto che mi era noto più dal suo ritratto che dalle sue reali
fattezze 5; appena lo riconobbi, provai davvero un brivido; tuttavia
quegli disse: «Rassicurati e scaccia ogni timore, Scipione, e tramanda
alla memoria ciò che ti dirò».
3 (VI. 11) «Vedi quella città che, da me costretta ad obbedire al
popolo romano, rinnova le antiche guerre e non riesce a rimanere in
pace?» — Da un luogo elevato, cosparso di stelle e tutto splendente
di luce, mi mostrava poi Cartagine — «Tu adesso vieni ad assediarla
come soldato semplice, ma in due anni la distruggerai in qualità di
console 6 e otterrai, per tuo personale merito, quel soprannome che
finora hai ereditato da noi7. Quando poi avrai distrutto Cartagine e
avrai celebrato il trionfo, avrai rivestito la carica di censore 8 e per­
corso, in qualità di legato, l'Egitto, la Siria, l’Asia e la Grecia 9, verrai
absens bellumque maximum conficies, Numantiam exscindes. Sed
cum eris curru in Capitolium inuectus, offendes rem publicam con­
siliis perturbatam nepotis mei.
4 (VI. 12) «Hic tu, Africane, ostendas oportebit patriae lumen
animi, ingenii consiliique tui. Sed eius temporis ancipitem uideo
quasi fatorum uiam. Nam cum aetas tua septenos octies solis anfrac­
tus reditusque conuerterit, duoque hi numeri quorum uterque
plenus, alter altera de causa habetur, circuitu naturali summam tibi
fatalem confecerint, in te unum atque in tuum nomen se tota
conuertet ciuitas; te senatus, te omnes boni, te socii, te Latini intue­
buntur, tu eris unus in quo nitatur ciuitatis salus, ac, ne multa, dicta­
tor rem publicam constituas oportet, si impias propinquorum manus
effugeris». Hic cum exclamasset Laelius ingemuissentque uehemen-
tius ceteri, leniter arridens Scipio «St! quaeso» inquit, «ne me e
somno excitetis, et parumper audite cetera.»
5 (VI. 13) « Sed quo sis, Africane, alacrior ad tutandam rem
publicam, sic habeto: omnibus, qui patriam conseruarint, adiuuerint,
auxerint, certum esse in caelo definitum locum ubi beati aeuo sem­
piterno fruantur. Nihil est enim illi principi deo, qui omnem
mundum regit, quod quidem in terris fiat, acceptius quam concilia
coetusque hominum iure sociati, quae ciuitates appellantur. Earum
rectores et seruatores hinc profecti huc reuertuntur.»
6 (VI. 14) Hic ego etsi eram perterritus, non tamen mortis metu
quam insidiarum a meis, quaesiui tamen uiueretne ipse et Paulus
pater et alii quos nos extinctos esse arbitraremur. «Immo uero»,
inquit, «hi uiuunt, qui e corporum uinclis tamquam e carcere euo-
lauerunt: uestra uero quae dicitur esse uita mors est. Quin tu aspicis
ad te uenientem Paulum patrem?» Quem ut uidi, equidem uim
lacrimarum profudi, ille autem me complexus atque osculans flere
prohibebat.
7 (VI. 15) Atque ego ut primum fletu represso loqui posse coepi,
«Quaeso», inquam, «pater sanctissime atque optime, quoniam haec
est uita, ut Africanum audio dicere, quid moror in terris? Quin huc
ad uos uenire propero?» — «Non est ita» inquit ille. «Nisi enim cum
scelto, benché assente, come console per la seconda volta e porrai a
termine una guerra importantissima, raderai al suolo Numanzia 10.
Ma, dopo che su un carro trionfale sarai portato in Campidoglio, tro­
verai la repubblica sconvolta dai piani di mio nipote n ».
4 (VI. 12) «Allora occorrerà che tu, Africano, mostri alla patria la
luce del tuo coraggio, del tuo ingegno e anche del tuo senno. Ma per
quel frangente vedo un bivio per quella che si potrebbe dire la stra­
da del tuo destino. Infatti, quando la tua età avrà percorso uno spa­
zio di otto volte sette giri e ritorni del sole, e quando il concorso di
questi numeri, tutti e due reputati pieni, ma per ragioni differenti,
avrà con questa rivoluzione naturale prodotto la somma fatale che ti
è assegnata, tutto lo stato si volgerà verso di te e verso il tuo nome;
verso di te il senato, i buoni cittadini, gli alleati, i Latini volgeranno
gli occhi, ti guarderanno come l’unico sul quale possa appoggiarsi la
salvezza dello Stato; in una parola, sarai nominato dittatore e incari­
cato di riorganizzare la repubblica, se riuscirai a sfuggire alle mani
empie dei tuoi congiunti.» A questo punto, poiché Lelio 12 levò un
grido e tutti gli altri cominciarono a gemere più forte, Scipione, sor­
ridendo serenamente disse: «Sst! Vi prego, non destatemi dal mio
sonno e ascoltate ancora per un momento il seguito.»
5 (VI. 13) «Ma al fine, o Africano, d’ispirarti maggior ardore nel
difendere lo stato, sappi questo: per coloro che avranno salvato, dife­
so, ingrandito la loro patria c’è nel cielo un posto particolare e ben
definito dove, beati, possono godere di un’eterna felicità. Al sommo
dio che regge tutto l’universo, nulla di ciò che accade in terra è infat­
ti più caro delle comunità e aggregazioni di uomini, legate sulla base
del diritto, che vanno sotto il nome di Stati. Coloro che li reggono e
ne custodiscono gli ordinamenti come sono partiti di qui, così poi vi
ritornano.»
6 (VI. 14) A questo punto, benché fossi rimasto atterrito non
tanto dal timore della morte, quanto dall’idea delle insidie dei miei
parenti, gli chiesi tuttavia se fossero ancora in vita lui stesso, mio
padre Paolo 13 e gli altri che noi ritenevamo estinti. «Anzi» fu la
risposta «sono costoro i veri vivi, coloro che sono sfuggiti con un
colpo d’ala dai vincoli del corpo come da una prigione, mentre la
vostra, che ha nome vita, è in realtà una morte. Non vedi tuo padre
Paolo, che ti viene incontro?» Non appena lo vidi, scoppiai a piange­
re a dirotto, mentre egli, abbracciandomi e baciandomi, cercava di
frenare il mio pianto.
7 (VI. 15) E io, non appena riuscii a trattenere le lacrime, potei
riprendere a parlare: «Ti prego» dissi «padre mio santissimo e otti­
mo: se qui è la vita, a quanto sento dire daH’Africano, perché mai
indugio sulla terra? Perché invece non mi affretto a raggiungervi
quassù?» — «Non è così» rispose il padre «Se non ti avrà liberato da
deus is, cuius hoc templum est omne quod conspicis, istis te corporis
custodiis liberauerit, huc tibi aditus patere non potest. Homines
enim sunt hac lege generati qui tuerentur illum globum, quem in
templo hoc medium uides, quae terra dicitur, hisque animus datus est
ex illis sempiternis ignibus, quae sidera et stellas uocatis, quae, glo­
bosae et rotundae, diuinis animatae mentibus, circulos suos orbesque
conficiunt celeritate mirabili. Quare et tibi, Publi, et piis omnibus
retinendus animus est in custodia corporis nec iniussu eius, a quo ille
est uobis datus, ex hominum uita migrandum est, ne munus adsigna-
tum a deo defugisse uideamini.
8 (VI. 16) «Sed sic, Scipio, ut auus hic tuus, ut ego qui te genui,
iustitiam cole et pietatem quae cum magna in parentibus et propin­
quis tum in patria maxima est. Ea uita uia est in caelum et in hunc
coetum eorum qui iam uixere et corpore laxati illum incolunt locum
quem uides» (erat autem is splendidissimo candore inter flammas cir­
cus elucens), «quem uos, ut a Grais accepistis, orbem lacteum nun­
cupatis.» Ex quo omnia mihi contemplanti praeclara et mirabilia
uidebantur. Erant autem eae stellae quas numquam ex hoc loco
uidimus, et eae magnitudines omnium, quas esse numquam suspicati
sumus, ex quibus erat ea minima, quae ultima a caelo, citima terris
luce lucebat aliena: stellarum autem globi terrae magnitudinem facile
uincebant. Iam ipsa terra ita mihi parua uisa est, ut me imperii nostri,
quo quasi punctum eius attingimus, paeniteret.
9 (VI. 17) Quam cum magis intuerer «Quaeso» inquit Africanus,
«quousque humi defixa tua mens erit? Nonne aspicis, quae in templa
ueneris? Nouem tibi orbibus uel potius globis conexa sunt omnia,
quorum unus est caelestis extimus, qui reliquos omnes complectitur,
summus ipse deus, arcens et continens ceteros, in quo sunt infixi illi
qui uoluuntur stellarum cursus sempiterni. Huic subiecti sunt
septem qui uersantur retro contrari o motu atque caelum. E quibus
unum globum possidet illa quam in terris Saturniam nominant;
deinde est hominum generi prosperus et salutaris ille fulgor qui dici­
tur louis; tum rutilus horribilisque terris quem Martium dicitis;
deinde de septem mediam fere regionem sol obtinet, dux et princeps
et moderator luminum reliquorum, mens mundi et temperatio, tanta
questi legami corporei quel dio che governa tutto il tempio celeste
che vedi, non può accadere che a te sia permesso l’accesso quassù.
Gli uomini sono infatti generati in base a questa legge: che veglino su
quel globo, chiamato terra, che tu scorgi al centro di questo tempio
celeste; ad essi viene fornita un’anima presa dai fuochi sempiterni cui
voi date nome di astri e stelle, quei solidi sferici che, animati da intel­
ligenze divine, compiono le loro circonvoluzioni e orbite con un’am­
mirevole velocità. Anche tu, perciò, Publio, come tutti gli uomini pii,
devi conservare l’anima sotto la custodia del corpo, né è permesso
abbandonare la vita umana senza il consenso di colui che ve l’ha data,
perché non sembri che intendiate sottrarvi al compito assegnatovi
dalla divinità.
8 (VI. 16) «Orsù, Scipione, come questo tuo avo, come me che ti
ho generato, coltiva la giustizia e la pietà, che come dev’essere gran­
de verso i nostri genitori e parenti, così soprattutto dev’essere gran­
dissima verso la patria. Tale condotta di vita è la strada che conduce
al cielo e al consesso di quelli che hanno già vissuto, e che, liberati dal
corpo, abitano il luogo che vedi» — vi era, appunto, quel circolo che
risplende di luminosissimo candore tra i fuochi celesti — «e che voi,
come avete appreso dai Greci, chiamate circolo latteo». Da quel
luogo, mentre contemplavo tutto l’universo, tutto mi appariva
magnifico e meraviglioso. C’erano, tra l’altro, certe stelle che da qui
non abbiamo mai visto e tutte erano di una grandezza che non avrem­
mo mai pensato possibile; fra esse la più piccola, che è la più lontana
dalla volta celeste e la più vicina alla terra, brillava di luce riflessa: i
globi stellari, poi, superavano nettamente la grandezza della terra.
Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò talmente piccola, che
provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così
dire, solo un punto del globo.
9 (VI. 17) Poiché guardavo la terra con più attenzione, l’Africano
mi disse: «Posso sapere fino a quando la tua mente rimarrà fissa a
terra? Non ti rendi conto a quali spazi celesti sei giunto? Davanti a te
tutto l’universo è compaginato in nove orbite, anzi, in nove sfere.
Una sola di esse è la sfera celeste, la più estrema, che abbraccia tutte
le altre, essa stessa divinità suprema che racchiude e contiene in sé
tutte le restanti sfere, in cui sono confitti i sempiterni moti circolari
delle stelle. A questa sfera sottostanno sette sfere che ruotano in dire­
zione opposta, con moto contrario all’orbita del cielo. Di tali sfere un
globo è quel pianeta chiamato sulla terra Saturno; quindi si trova
quella fulgida stella — propizia e salutare per il genere umano — che
è detta Giove; poi, rutilante e terrificante per la terra, c’è il pianeta
che chiamate Marte; sotto, ecco, il Sole che occupa la regione a un
dipresso nel mezzo: è guida, sovrano e regolatore di tutti gli altri astri,
mente e moderatore dell’universo, di tale grandezza che colma con la
magnitudine ut cuticta sua luce lustret et compleat. Hunc ut comites
consecuntur Veneris alter, alter Mercurii cursus; in infimoque orbe
luna radiis solis accensa conuertitur. Infra autem eam nihil est nisi
mortale et caducum, praeter animos munere deorum hominum
generi datos; supra lunam sunt aeterna omnia. Nam ea quae est
media et nona, tellus, neque mouetur et infima est et in eam feruntur
omnia nutu suo pondera.»
10 (VI. 18) Quae cum intuerer stupens, ut me recepi «Quid hic»,
inquam, «quis est qui complet aures meas tantus et tam dulcis
sonus?» — «Hic est», inquit, «ille qui interuallis disiunctus impar­
ibus sed tamen pro rata parte ratione distinctis, impulsu et motu
ipsorum orbium efficitur, et, acuta cum grauibus temperans, uarios
aequabiliter concentus efficit. Nec enim silentio tanti motus incitari
possunt, et natura fert ut extrema ex altera parte grauiter, ex altera
autem acute sonent. Quam ob causam summus ille caeli stellifer cur­
sus, cuius conuersio est concitatior, acute excitato monetur sono,
grauissimo autem hic lunaris atque infimus. Nam terra, nona, immo­
bilis manens, una sede semper haeret, complexa mundi medium
locum. Illi autem octo cursus in quibus eadem uis est duorum,
septem efficiunt distinctos interuallis sonos: qui numerus rerum
omnium fere nodus est. Quod docti homines neruis imitati atque
cantibus aperuerunt sibi reditum in hunc locum, sicut alii, qui prae­
stantibus ingeniis in uita humana diuina studia coluerunt.
11 (VI. 19) «Hoc sonitu oppletae aures hominum obsurduerunt;
nec est ullus hebetior sensus in uobis, sicut, ubi Nilus ad illa, quae
Catadupa nominantur, praecipitat ex altissimis montibus, ea gens,
quae illum locum adcolit, propter magnitudinem sonitus sensu audi­
endi caret. Hic uero tantus est totius mundi incitatissima conuersione
sonitus, ut eum aures hominum capere non possint, sicut intueri
solem aduersum nequitis, eiusque radiis acies uestra sensusque uinci-
tur.» Haec ego admirans referebam tamen oculos ad terram identi­
dem.
12 (VI. 20) Tum Africanus: «Sentio» inquit «te sedem etiam nunc
hominum ac domum contemplari; quae si tibi parua, ut est, ita uide­
tur, haec caelestia semper spectato, illa humana contemnito. Tu enim
quam celebritatem sermonis hominum aut quam expetendam conse-
sua luminosità ogni cosa. Gli vanno appresso, come compagni di
viaggio, ciascuno secondo il proprio corso, Venere e Mercurio, men­
tre nell’orbita più bassa ruota la Luna, illuminata dai raggi del Sole.
Al di sotto di essa, poi, non ce ormai più nulla, se non mortale e
caduco, eccetto le anime, assegnate per dono degli dèi al genere
umano; al di sopra della Luna tutto è eterno. La sfera che è centrale
e nona, ossia la Terra, non è infatti soggetta a movimento, rappresen­
ta la zona più bassa delle sfere e verso di essa sono attratti tutti i gravi,
per una forza che è loro propria.»
10 (VI. 18) Dopo aver osservato questo spettacolo, non appena
mi riebbi, esclamai: «Ma che suono è questo, così intenso e armonio­
so, che riempie le mie orecchie?» dissi. «È il suono» rispose «che
separato in funzione d’intervalli ineguali, eppure distinti da una
razionale proporzione, è cagionato dalla spinta e dal moto delle sfere
stesse e che, temperando i toni acuti con i bassi, realizza varie e pro­
porzionate armonie. Del resto, movimenti così grandiosi non potreb­
bero svolgersi in silenzio e natura esige che le estremità risuonino di
toni bassi l’una, acuti l’altra. Ecco perché l’orbita stellare suprema, la
cui rotazione è la più veloce, si muove con suono più acuto e conci­
tato, mentre questa sfera lunare, la più bassa, produce il suono più
grave. La Terra, infatti, nono globo, poiché resta immobile, rimane
sempre fissa in un’unica sede, occupando il centro dell’universo. Le
rimanenti otto orbite, poi, all’interno delle quali due hanno la mede­
sima velocità, producono sette suoni distinti dai loro intervalli, il cui
numero è, per così dire, il nodo di tutte le cose. I dotti che hanno
saputo imitare quest’armonia per mezzo delle budelle dei loro stru­
menti e con i canti si sono aperti la via del ritorno in questo luogo
come quegli altri che, grazie all’eccellenza dei loro ingegni, durante
la loro esistenza terrena hanno coltivato gli studi divini.
11 (VI. 19) «Le orecchie degli uomini, riempite da tale suono,
sono diventate sorde. Nessun organo sensoriale, in voi mortali, è più
debole: allo stesso modo, là dove il Nilo, da monti altissimi, si getta a
precipizio nella regione chiamata Catadupa, abita un popolo che, per
l’intensità del rumore, manca dell’udito. Il suono, per la rotazione
vorticosa di tutto l’universo, è talmente forte, che le orecchie umane
non hanno la capacità di coglierlo, allo stesso modo in cui non pote­
te fissare il sole, perché la vostra vista è vinta dai suoi raggi». Io, pur
contemplando tali meraviglie, volgevo tuttavia a più riprese gli occhi
verso la terra.
12 (VI. 20) Allora l’Africano disse: «Mi accorgo che continui a
contemplare la sede e la dimora degli uomini; ma se davvero ti sem­
bra così piccola, quale in effetti è, non smettere mai di tenere il tuo
sguardo fisso sul mondo celeste e non tener conto delle vicende
umane. Tu infatti quale celebrità puoi mai raggiungere nei discorsi
qui gloriam potes? Vides habitari in terra raris et angustis locis, et in
ipsis quasi maculis ubi habitatur uastas solitudines interiectas, eosque
qui incolunt terram non modo interruptos ita esse ut nihil inter ipsos
ab aliis ad alios manare possit, sed partim obliquos, partim transuer-
sos, partim etiam aduersos stare uobis, a quibus expectare gloriam
certe nullam potestis.
13 (VI. 21) «Cernis autem eandem terram quasi quibusdam
redimitam et circumdatam cingulis, e quibus duos maxime inter se
diuersos et caeli uerticibus ipsis ex utraque parte subnixos obriguisse
pruina uides, medium autem illum et maximum solis ardore torreri.
Duo sunt habitabiles, quorum australis ille, in quo qui insistunt
aduersa uobis urgent uestigia, nihil ad uestrum genus; hic autem alter
subiectus aquiloni quem incolitis cerne quam tenui uos parte contin­
gat. Omnis enim terra quae colitur a uobis, angusta uerticibus, late­
ribus latior, parua quaedam est insula, circumfusa illo mari quod
Atlanticum, quod Magnum, quem Oceanum appellatis in terris; qui
tamen tanto nomine quam sit paruus uides.
14 (VI. 22) «Ex his ipsis cultis notisque terris num aut tuum aut
cuiusquam nostrum nomen uel Caucasum hunc, quem cernis, tran­
scendere potuit uel illum Gangen tranatare? Quis in reliquis orientis
aut obeuntis solis ultimis aut aquilonis austriue partibus tuum nomen
audiet? Quibus amputatis cernis profecto quantis in angustiis uestra
se gloria dilatari uelit. Ipsi autem, qui de nobis loquuntur, quam
loquentur diu?
15 (VI. 23) «Quin etiam si cupiat proles futurorum hominum
deinceps laudes uniuscuiusque nostrum acceptas a patribus posteris
prodere, tamen propter eluuiones exustionesque terrarum, quas
accidere tempore certo necesse est, non modo non aeternam sed ne
diuturnam quidem gloriam adsequi possumus. Quid autem interest
ab iis, qui postea nascentur, sermonem fore de te — cum ab iis nul­
lus fuerit, qui ante nati sunt, 16 (VI. 24) qui nec pauciores et certe
meliores fuerunt uiri — praesertim cum apud eos ipsos, a quibus
audiri nomem nostrum potest, nemo unius anni memoriam consequi
possit. Homines enim populariter annum tantummodo solis, id est
unius astri, reditu metiuntur; re ipsa autem, cum ad idem unde semel
profecta sunt cuncta astra redierint, eandemque totius caeli descrip­
tionem longis interuallis retulerint, tum ille uere uertens annus appel-
della gente e quale gloria che sia degna di essere ricercata? Vedi che
sulla terra i luoghi abitati sono rari e angusti e che questa sorta di
macchie in cui si risiede è inframmezzata da enormi solitudini e che,
inoltre, gli abitanti della terra non solo sono separati al punto che, tra
di loro, nulla può propagarsi dagli uni agli altri, ma alcuni sono
disposti, rispetto a voi, in posizione obliqua, altri trasversale, altri
ancora si trovano addirittura all’opposto. Da essi, non potete di certo
attendere alcuna gloria!
13 (VI. 21) «Nota, d’altro canto, che questa stessa terra è in un
certo senso avvolta e cinta da fasce: due di esse, le più lontane possi­
bili l’una dall’altra e poste sotto gli stessi poli opposti del cielo, sono
assediate, come vedi, dal ghiaccio e dalla galaverna, mentre la fascia
centrale, la più estesa, è arsa dalla vampa del sole. Due sono le zone
abitabili: di esse l’australe, nella quale gli abitanti lasciano impronte
opposte alle vostre, non ha nulla a che fare con la vostra razza.
Quanto a quest’altra, invece, esposta ad Aquilone, che abitate voi,
guarda in che minima misura vi appartiene. Infatti tutta la terra che
è da voi abitata, stretta ai vertici e più larga ai lati, è per così dire un
isolotto circondato da quel mare che sulla terra chiamate Atlantico,
Mare Magno o Oceano, ma che, a dispetto del nome altisonante, vedi
bene quanto sia minuscolo.
14 (VI. 22) «Forse che da queste stesse terre abitate e conosciute
il nome tuo o di qualcun altro di noi ha potuto valicare il Caucaso,
che qui scorgi, oppure oltrepassare il Gange, laggiù? Chi udirà il tuo
nome nelle restanti regioni remote dell’oriente e dell’occidente oppu­
re a settentrione o a meridione? Se le escludi, ti accorgi senz’altro di
quanto sia angusto lo spazio in cui la vostra gloria vuole espandersi.
E la gente che parla di noi, fino a quando ne parlerà?
15 (VI. 23) «E anche nel caso che le future generazioni umane
desiderassero a loro volta tramandare ai posteri le lodi di uno di noi,
dopo averle ricevute dai loro padri, tuttavia, a causa dei diluvi e degli
incendi delle terre, che devono inevitabilmente prodursi in certe epo­
che, non saremo in grado di conseguire una gloria non dico eterna,
ma neppure duratura. Cosa importa, dunque, che discuta sul tuo
conto chi nascerà dopo di te, se riguardo a te non parlava la gente
nata prima? E questi uomini furono non meno numerosi e, senza
dubbio, migliori. 16 (VI. 24) A maggior ragione perché presso que­
sti stessi, da cui può essere udito il nostro nome, nessuno può racco­
gliere di sé un ricordo che duri più di un anno. Gli uomini, infatti,
misurano ordinariamente l’anno soltanto dopo il ritorno del sole,
cioè di un unico astro; è quando, invece, tutti quanti gli astri saranno
ritornati nell’identico punto da cui una prima volta sono partiti e
avranno nuovamente tracciato, dopo lunghi intervalli di tempo, l’i­
dentico disegno di tutta quanta la volta celeste, che solo allora si
lari potest, in quo uix dicere audeo quam multa hominum saecula
teneantur. Namque, ut olim deficere sol hominibus extinguique uisus
est cum Romuli animus haec ipsa in templa penetrauit, quandoque
ab eadem parte sol eodemque tempore iterum defecerit, tum, signis
omnibus ad idem principium stellisque reuocatis, expletum annum
habeto. Cuius quidem anni nondum uicesimam partem scito esse
conuersam.
17 (VI. 25) «Quocirca si reditum in hunc locum desperaueris, in
quo omnia sunt magnis et praestantibus uiris, quanti tandem est ista
hominum gloria, quae pertinere uix ad unius anni partem exiguam
potest? Igitur alte spectare si uoles atque hanc sedem et aeternam
domum contueri, neque te sermonibus uulgi dedideris nec in praemi­
is humanis spem posueris rerum tuarum; suis te oportet inlecebris
ipsa uirtus trahat ad uerum decus; quid de te alii loquantur, ipsi
uideant, sed loquentur tamen. Sermo autem omnis ille et angustiis
cingitur iis regionum, quas uides, nec umquam de ullo perennis fuit
et obruitur hominum interitu et obliuione posteritatis exstinguitur.»
18 (VI. 26) Quae cum dixisset, «Ego uero» inquam, «Africane,
siquidem bene meritis de patria quasi iimes ad caeli aditum patet,
quamquam a pueritia uestigiis ingressus patris et tuis decori uestro
non defui, nunc tamen tanto praemio exposito enitar multo uigilan-
tius.» Et ille «Tu uero enitere et sic habeto non esse te mortalem, sed
corpus hoc. Nec enim tu is es quem forma ista declarat, sed mens
cuiusque is est quisque, non ea figura quae digito demonstrari potest.
Deum te igitur scito esse, si quidem est deus qui uiget, qui sentit, qui
meminit, qui prouidet, qui tam regit et moderatur et mouet id corpus
cui praepositus est quam hunc mundum ille princeps deus; et ut ille
mundum quadam parte mortalem ipse deus aeternus, sic fragile cor­
pus animus sempiternus mouet.
19 (VI. 27) «Nam quod semper mouetur, aeternum est, quod
autem motum adfert alicui quodque ipsum agitatur aliunde, quando
finem habet motus, uiuendi finem habeat necesse est. Solum igitur
quod se ipsum mouet, quia numquam deseritur a se, numquam ne
moueri quidem desinit; quin etiam ceteris quae mouentur hic fons,
potrà parlare, a ragione, del volgersi di un anno, nel quale a fatica oso
dire quante generazioni di uomini vi siano contenute. Come un
tempo, infatti, il sole sembrò agli uomini venir meno e spegnersi,
allorché l’anima di Romolo entrò nelle nostre sacre dimore, così,
quando di nuovo, dallo stesso lato del cielo e nel medesimo istante, il
sole verrà meno, allora, una volta che saranno ricondotte al loro
punto iniziale tutte le costellazioni e le stelle, considera compiuto
l’anno. Sappi, comunque, che di un tale anno, non è ancora trascor­
sa la ventesima parte.
17 (VI. 25) «Di conseguenza, se non avrai la speranza di ritorna­
re in questo luogo, verso cui sono poste tutte le aspirazioni degli
uomini grandi e illustri, quanto vale in fin dei conti codesta vostra
gloria umana, che può riguardare a stento una parte esigua di un solo
anno? Se vorrai, pertanto, mirare in alto e fissare il tuo sguardo su
questa sede e dimora eterna, non prestare attenzione ai discorsi del
volgo e non riporre le speranze della tua vita nelle ricompense
umane: la virtù stessa, con le sue proprie attrattive, deve condurti
verso la vera dignità. Quali parole gli altri pronunceranno su di te
non ri riguarda, eppure parleranno; tutto quel loro discorrere, però,
è limitato dalle angustie di queste regioni che vedi e mai stato dura­
turo per nessuno: viene sepolto con la morte degli uomini e con l’o­
blio dei posteri si estingue.»
18 (VI. 26) Dopo che ebbe detto queste cose, gli dissi: «Allora, o
Africano, se è vero che ai benemeriti della patria si apre una sorta di
via per l’accesso al cielo 14, io, sebbene fin dall’infanzia, calcando le
orme di mio padre e le tue, non sia mai venuto meno al vostro deco­
ro, ora tuttavia, con la prospettiva di un premio così grande, mi impe­
gnerò con più sollecita attenzione». Allora egli: «Impegnati dunque
e tieni sempre per certo che non tu sei mortale, ma lo è questo tuo
corpo. Tu, infatti, non sei questa forma sensibile apparente, ma l’es­
sere di ciascuno di noi è la mente, non certo la figura esteriore che si
può indicare col dito. Sappi, dunque, che tu sei un Dio, se davvero è
un Dio colui che ha forza, percepisce, ricorda, provvede, colui che
regge, regola e muove il corpo cui è preposto, così come il Dio supre­
mo fa con questo universo; e negli stessi termini in cui quel Dio eter­
no dà movimento all’universo, mortale sotto un certo aspetto, così
l’anima sempiterna muove il fragile corpo.
19 (VI. 27) «Infatti ciò che sempre si muove è eterno, ciò che,
invece, trasmette il movimento ad altro e a sua volta trae impulso da
una forza esterna, quando il movimento ha un termine, deve avere
necessariamente una cessazione di vita. Pertanto, solo ciò che si
muove per se stesso, in quanto non può mai essere abbandonato da
se stesso, non cessa mai neppure di muoversi; anzi, per tutte le altre
cose che si muovono, è la fonte, è il principio del movimento. Non vi
hoc principium est mouendi. Principii autem nulla est origo. Nam e
principio oriuntur omnia, ipsum autem nulla ex re alia nasci potest:
nec enim esset id principium quod gigneretur aliunde. Quod si
numquam oritur, ne occidit quidem umquam. Nam principium
extinctum nec ipsum ab alio nascetur, nec ex se aliud creabit, si qui­
dem necesse est a principio oriri omnia. Ita fit ut motus principium
ex eo sit quod ipsum a se mouetur. Id autem nec nasci potest nec
mori, uel concidat omne caelum omnisque natura, et consistat
necesse est, nec uim ullam nanciscatur, qua a primo impulsu mouea­
tur.
20 (VI. 28) «Cum pateat igitur aeternum id esse quod ipsum se
moueat, quis est qui hanc naturam animis esse tributam neget?
Inanimum est enim omne quod pulsu agitatur externo; quod autem
est animal, id motu cietur interiore et suo. Nam haec est propria
natura animi atque uis; quae si est una ex omnibus quae se ipsa
moueat, neque nata certe est et aeterna est.
21 (VI. 29) «Hanc tu exerce optimis in rebus; sunt autem opti­
mae curae de salute patriae, quibus agitatus et exercitatus animus
uelocius in hanc sedem et domum suam peruolabit; idque ocius faci­
et, si iam tum cum erit inclusus in corpore, eminebit foras, et ea quae
extra erunt contemplans quam maxime se a corpore abstrahet.
Namque eorum animi qui se corporis uoluptatibus dediderunt,
earumque se quasi ministros praebuerunt, impulsuque lubidinum
uoluptatibus oboedientium deorum et hominum iura uiolauerunt,
corporibus elapsi circum terram ipsam uolutantur, nec hunc in
locum nisi multis exagitati saeculis reuertuntur.» Ille discessit; ego
somno solutus sum.
è origine, poi, per un principio. Infatti, dal principio si generano tutte
le cose, mentre esso non può essere generato da nessun’altra cosa: se
fosse generato da qualcos’altro non potrebbe, infatti, essere un prin­
cipio. E come non è mai generato, così non muore mai. Infatti, un
principio estinto non rinascerà da un’altra cosa e non ne genererà
un’altra da se stesso, se è inevitabile che ogni cosa si generi da un
principio. Ne consegue che il principio del movimento consiste in ciò
che si muove da sé. Non può, quindi, né nascere né morire, altrimen­
ti sarebbe inevitabile che tutto il cielo crolli e che tutta la natura si
fermi e che non si trovi più alcuna forza per dare al loro movimento
l’impulso iniziale.
20 (VI. 28) «Siccome, quindi, risulta dimostrato che ciò che
muove se stesso è eterno, chi potrebbe negare che le anime abbiano
ricevuto questa natura in retaggio? È inanimato, effettivamente, tutto
ciò che è mosso da un impulso esterno; ciò che invece è un essere ani­
mato si muove per un moto interno e proprio. Tale è infatti la natu­
ra peculiare dell’anima, tale la sua essenza; e se, tra tutti gli esseri, è
l’unica a muoversi da sé, non è stata certamente generata ed è eterna.
21 (VI. 29) «Tu esercitala nelle azioni più nobili; orbene, le occu­
pazioni più nobili riguardano la salute della patria; l’anima, stimola­
ta ed esercitata da esse, trasvolerà più rapidamente verso questa sede
e dimora a lei propria; e lo farà con velocità ancor maggiore, se, già
da quando sarà chiusa nel corpo, si eleverà al di fuori e, mediante la
contemplazione dell’aldilà, si distaccherà il più possibile dal corpo 15.
Infatti per coloro che si sono abbandonati ai piaceri del corpo, che si
sono offerti quasi come loro complici e che, sotto la spinta delle libi­
dini obbedienti ai piaceri, violarono le leggi divine e umane, una volta
scivolate fuori dai corpi, si aggirano in volo intorno alla terra e non
ritorneranno in questo luogo, se non dopo aver peregrinato per molti
secoli». Egli se ne andò; io mi riscossi dal sonno.
1 Nel 149 a.C. il giureconsulto Manio Manilio Nepote fu console in quel­
l’anno con Lucio Marcio Censorino. Durante la terza guerra punica iniziò
con scarso successo l’assedio di Cartagine intimando ai Cartaginesi, in nome
del Senato Romano la consegna delle armi e l’abbandono della città.
L’attacco alle mura della cittadella di Manilio fu sanguinosamente respinto e
il contrattacco dei difensori distrusse parte delle macchine belliche.
Censorino tentò di bloccare il porto con la flotta e cercò di attaccare il borgo
di Neferi. In tale attacco si distinse Scipione l’Emiliano, che riuscì a portare
dalla sua parte, nel campo romano, milleduecento cavalieri cartaginesi.
2 Massinissa, re dei Numidi, alleato di Roma nella seconda guerra puni­
ca, assistè materialmente Scipione il Maggiore nello sconfiggere Annibale nel
202 a.C. Sulla base dei termini del trattato di pace, grazie alla sua zelante
cooperazione, oltre ai suoi domini ereditari ottenne il possesso di Cirta e di
gran parte del territorio che aveva strappato al suo vicino avversario Siface.
Rimase alleato di Roma per tutto il suo lungo regno (morì all’età di novan­
tan n i nel 148 a.C.). Nel 151 a.C. la ripresa delle ostilità tra Cartagine e
Massinissa fu usata come pretesto dai romani per intraprendere una terza
guerra contro Cartagine.
3 Publio Cornelio Scipione Africano il Maggiore, colui che sconfisse
Annibaie nel 202 a.C. e nonno adottivo del narratore di questo sogno, Publio
Cornelio Scipione Africano il Minore. Il re della Numidia, il vecchio
Massinissa, un tempo amico e alleato del nonno adottivo Scipione Africano
il Maggiore, ha quasi la sensazione di rivedere nel giovane Emiliano la figu­
ra dell’Africano.
Publio Cornelio Scipione Emiliano Africano Numantino, nato nel 185 o
184 a.C., fu il figlio di Paolo Emilio (Emiliano ha dunque valore di patroni­
mico). Divenuto per adozione un Cornelio Scipione, fu, infatti, com’era pras­
si comune tra i patrizi dell’antica Roma privi di figli ed eredi, adottato da
Publio Cornelio Scipione, il figlio di Publio Cornelio Scipione Africano. La
sua carriera, militare e politica, lo rese uno dei personaggi più brillanti della
Repubblica romana. Soldato eccezionale, fece la sua prima esperienza belli­
ca a Pidna, nel 168. Nel 149, data in cui si svolge il Sogno (cfr. supra nota 1),
raggiunse come tribuno militare in Africa l’esercito impegnato contro
Cartagine, dove si distinse tanto da essere eletto, nel 147, al consolato, non­
ostante le disposizioni della lex annalis che prevedevano un’età maggiore
della sua per l’assunzione della suprema magistratura. E dunque come pro­
console che, il seguente anno, conquistò Cartagine e l’annientò, mettendo
fine alla terza guerra punica: donde un primo trionfo e il soprannome di
Africano che fu già quello di suo nonno adottivo (per distinguerli, infatti, si
utilizzano gli epiteti il Maggiore e il Minore, oppure il Vecchio e il Giovane).
Nel 133, la presa di Numanzia, al termine di un assedio per fame tanto cele­
bre quanto crudele, gli valse il suo secondo trionfo e il soprannome di
Numantino. Gli ultimi anni della sua vita furono agitati da lotte politiche. Si
oppose vigorosamente all’azione di suo cognato Tiberio Gracco, al punto
che la sua morte improvvisa, nel 129, darà adito a voci di omicidio familiare
(cfr. Macrobio, Commento al Sogno di Scipione I, 5, 2 e afferente nota).
Scipione Emiliano che Macrobio definisce come uir non minus philosophia
quam uirtute praecellens (Commento al Sogno di Scipione I, 3, 16) fu anche
uomo di elevatissima cultura. Allevato fin da giovane all’ellenismo grazie alle
cure del padre Paolo Emilio che aveva circondato i propri figli di maestri e
precettori greci (tra i quali Polibio), prima di offrir loro, prelevati dal botti­
no di Pydna, la ricca biblioteca del re di Macedonia Perseo. In seguito,
Scipione Emiliano riunirà intorno a lui una brillante cerchia di intellettuali
greci e romani tra cui Panezio, Polibio, Terenzio, Lucilio — il cosiddetto cir­
colo degli Scipioni. Cicerone vede in lui il paradigma dell’uomo di stato,
tanto atto alla riflessione teorica nutrita di cultura greca quanto all’azione
guidata dall’esperienza e dai precetti familiari. Di fatto, attraverso il «circolo
degli Scipioni» si elaborò una sintesi tra la cultura etico-estetica dell’elleni­
smo da un lato e la virtus e il senso pratico dei romani dall'altro dando forma
a una concezione neostoica della vita, di tipo aristocratico, che per lungo
tempo costituì l’ideologia della classe dominante romana.
Il suo avo per adozione, Publio Cornelio Scipione Africano, nato circa il
235 a.C., è restato celebre per il suo valore militare e la sua integrità, fatti che
tuttavia non gli risparmiarono delusioni nella vita pubblica. Console nel 207,
riesce a farsi inviare dal Senato in Africa per proseguire la guerra contro
Cartagine. Là, dopo avere annodato dei legami di alleanza e di amicizia col
giovane re Massinissa, ottiene nel 202 su Annibaie la decisiva vittoria di
Zama, che pone termine alle seconda guerra punica e che gli vale, il seguen­
te anno, il trionfo e l’appellativo di Africano. Una decina d’anni dopo,
affronta in Oriente, come legato di suo fratello Lucio, il re di Siria Antioco
III, resistendo, con virtù tutta romana, ai suoi tentativi di corruzione, prima
della disfatta di Antioco a Magnesia nel 190 e alla successiva pace di Apamea
nel 188. La fine della sua carriera politica, per quanto prestigiosa — divenne
censore nel 199, princeps senatus ed ebbe un secondo consolato nel 194 —,
fu oscurata da una campagna denigratoria, da astiose rivalità e dall’ostilità
del partito ultra-conservatore guidato da Catone. Dopo la sua morte, avve­
nuta nel 183 a Literno, in Campania, nella villa ove, amareggiato, si era riti­
rato, Scipione l’Africano entrò nella leggenda militare e civile di Roma. E a
questo prestigioso antenato che Cicerone affida il compito di iniziare
Scipione il Giovane ai segreti dell’aldilà e del cosmo.
4 Cfr. Lucrezio, La natura delle cose I, 124-126; Cicerone, Academicorum
priorum II, 51; Persio, Satire VI, 10-11. Quinto Ennio, spesso citato sempli­
cemente come Ennio (239-169 a.C.), è stato un poeta considerato fra i padri
della letteratura latina. Scrisse tragedie e commedie, un poema epico
(Annales) ed altre opere di vario genere, tutte pressoché perdute. Nacque a
Rudiae (oggi Grottaglie, presso Taranto). Entrò in contatto con Scipione
l’Africano: fu anzi uno dei massimi esponenti del cosiddetto circolo scipioni­
co. Nel proemio del poema degli Annales l’ombra di Omero gli appare in
sogno e gli illustra la natura dell’universo e la dottrina pitagorica della
metempsicosi, secondo cui l’anima di Omero si era incarnata prima in un
pavone e successivamente in Ennio stesso, donde l’onorifico titolo di alter
Homerus, «secondo Omero», con cui Orazio (Epistole II, 1, 50) si riferisce a
Ennio.
5 Ai discendenti dei cittadini romani che avevano ricoperto le magistra­
ture supreme era concesso il diritto-privilegio di esporre una loro maschera
di cera o imago nell’atrio della propria domus. Cicerone (De senectute XIX)
colloca la morte di Scipione l’Africano e la nascita di Scipione l’Emiliano nel
185 a.C.; Polibio (Livio, Ab urbe condita XXXIX, 52) segnala la data della
morte di Scipione il Maggiore nel 183.
6 Eletto console (l’equivalente di un primo ministro moderno) nel 147
a.C., Scipione era proconsole quando distrusse Cartagine nel 146. Dopo sei
giorni di feroce combattimento corpo a corpo nelle strade circostanti la cit­
tadella fu catturata e di Cartagine non rimase pietra su pietra. Lo storico
Polibio, presente alla scena, riferisce che Scipione, osservando i resti fuman­
ti e informi della città, un tempo potente e superba, disse che si trattava di
un momento di gloria, ma che aveva un temuto presentimento: che un gior­
no lo stesso decreto fatale sarebbe stato pronunciato sulla sua stessa città che
ne aveva voluta la fine, giacché gli Stati come gli uomini hanno la loro vita
che muta nel tempo, e un giorno sarebbe toccata a Roma la stessa sorte.
L’epoca delle guerre puniche e deU’imperialismo romano (di cui oggi è scon­
tata l’equazione con l’imperialismo americano) è anche quella che più, nella
memoria scolastica, si ammanta di episodi leggendari e incredibili. Come
dimenticare, dunque, l’immagine tragica di Scipione Emiliano che piange su
Cartagine distrutta, dopo che i suoi uomini ne hanno abbattuto gli edifici,
arato il suolo e cosparso di sale le rovine? Meglio dimenticarla, in effetti, per­
ché nessuna delle fonti antiche tramanda che fu sparso il sale sulle rovine per
evitare che mai Cartagine risorgesse su quella terra. Si tratta di un caso da
manuale di leggenda che si autogenera (probabilmente per l’emotività e la
retorica di qualche storico), ma suona subito così affascinante e convincente
da diventare un caposaldo della rappresentazione successiva. Sulla dinamica
di questo processo vedi, per esempio, Ronald T. Ridley, To be taken with a
pinch o f salt: thè destruction o f Carthage, in Classical Philology, 80, 1986, pp.
140-146; G. Piccaluga, "Chi” ha sparso il sale sulle rovine di Cartagine, in
Cultura e scuola, 105, 1988, pp. 153-165.
7 Si intende 1’agnomen di Africano. L'agnomen, usato di solito come sem­
plice soprannome, che si aggiungeva al praenomen, nomen e cognomen, alcu­
ne volte, come in questo caso, fu usato come titolo onorifico per ricordare
un’impresa importante. Il cittadino romano a pieno diritto (il cosiddetto civis
romanus optimo iure) era contraddistinto in genere da tre nomi: il praeno­
men, cioè il nome proprio, il nomen, che designava la gens (gruppo genetico
di più famiglie imparentate fra loro) e il cognomen che indicava la familia.
Quando un romano veniva adottato, perdeva i suoi tre nomi e acquistava i
tre nomi del padre adottivo. In ricordo della sua origine, manteneva, tutta­
via, un nome derivato col suffisso in -ianus dopo il cognomen. Perciò Emilio,
membro della gens Emilia, adottato da Publio Cornelio Scipione, finì per
chiamarsi Publio Cornelio Scipione Emiliano.
8 Nel 142 a.C.
9 Cicerone (.Academicorum priorum II, 5) colloca la data dell’ambasciata
prima di quella della carica di censore.
10 Nuovamente eletto console nel 134 a.C., Scipione il Minore distrusse
Numanzia nel 133 a.C. dopo un assedio di quindici mesi.
11 II riferimento è Tiberio Gracco. Cfr. note 43 e 54 del Libro Primo del
Commento al Sogno di Scipione di Macrobio, rispettivamente in p. 584 e p.
586.
12 Carissimo amico di Scipione il Minore e uno degli interlocutori nel
dialogo di Cicerone De amicitia. Su Lelio cfr. anche nota 54 del Libro Primo
del Commento al Sogno di Scipione a p. 586. Qui Cicerone interrompe il rac­
conto di Scipione che viene ripreso nel paragrafo seguente.
13 Lucio Emilio Paolo Macedonico è il terzo personaggio del Sogno, che
resta però, in esso, un po’ in disparte. Tuttavia fu anch’egli un eroe naziona­
le. Nato intorno al 228 a.C., figlio dell’omonimo console morto a Canne nel
216, fu anche lui console nel 182 e una seconda volta nel 168. Combattè con
grande valore i Liguri e i Lusitani. Richiamato al consolato, dopo una vita
proba e appartata e dedita all’educazione dei figli, divenne uno dei maggio­
ri eroi di Roma per la sua vittoria su Perseo, re di Macedonia, nella battaglia
di Pidna del 168. Filoelleno, fu anche un abile oratore. Suo figlio, lo Scipione
che sogna, fu adottato dal figlio di Scipione Africano il Maggiore. Il suo
ruolo qui è più sentimentale di quello dell’Africano: vero padre di Scipione
Emiliano, legato a lui da tenero affetto, spetta a lui dissuadere il figlio dal rag­
giungerlo prima del tempo attraverso il suicidio. Su Lucio Emilio Paolo vedi
anche nota 42 del Libro Primo del Commento al Sogno di Scipione a p. 584.
14 Lungo tutto il Sogno è sotteso un sistema di linguaggio figurato che i
lettori romani e cristiani del tempo riuscivano a cogliere e che oggi molti dei
lettori stentano a capire. Occorre, innanzitutto, prestare attenzione alla
maniera in cui Cicerone utilizza l’immagine centrale del Sogno: il Tempio di
Giove sul Campidoglio. Vengono infatti sottilmente utilizzate delle preposi­
zioni con lo scopo di creare un senso di movimento e prospettiva che corri­
spondono ai movimenti spirituali dell’anima di Scipione mentre progredisce
nell’istruzione iniziatica offertagli dalPAfricano. Allo stesso modo in cui i
suoi movimenti dell’anima procedono verso la virtù, Scipione si muove fisi­
camente in direzione del Campidoglio, verso il Tempio di Giove. Cicerone
suggerisce diverse fasi che possono venire osservate dal punto di vista di chi
si avvicina a un tempio: prima la visione dal basso, quindi la visione dal podio
della porta, poi la visione dell’interno e infine quella della statua di culto
della divinità. La descrizione di Cicerone del progresso psicagogico di
Scipione come un ingresso fisico nel Tempio di Giove Capitolino corrispon­
de anche ampiamente a quelli che sono i suoi scopi: collocare il proprio rac­
conto morale aU’interno di una raffigurazione che fosse famigliare ai Romani.
Tutto ciò poteva essere racchiuso soltanto nella maniera più nota a un roma­
no dell’apoteosi, ossia di divenire simile a un dio, e che era quella attraverso
il corteo trionfale verso il Tempio capitolino (cfr. cum eris curru in Capitolium
invectus, «quando sarai portato in Campidoglio sul carro trionfale», Sogno di
Scipione 2, 1; in Macrobio, Commento al Sogno di Scipione I, 4, 5). Cicerone
indica l’ingresso fisico al tempio in maniera molto sottile. Quando Scipione,
all’inizio, descrive la posizione dell’Africano nel momento in cui gli appare,
afferma che questi gli indica Cartagine de excelso et pleno stellarum, illustri
et claro quodam loco, «da un luogo elevato, cosparso di stelle e tutto splenden­
te di luce» (ibidem). De può voler dire sia «in mezzo a», cioè che c’è una
Cartagine celeste fra le stelle (cosa improbabile nella migliore delle ipotesi),
sia, più conformemente al senso della radice della preposizione, «in giù da»,
ossia che PAfricano è sopra Scipione e sta indicando «giù da un luogo eleva­
to». Il che dovrebbe suggerire che Scipione vede il nonno adottivo da sotto
e, come la leggenda spesso lo dipinge, in cima al tempio di Giove, sopra
l’Urbe, da dove si vuole che traesse l’ispirazione divina per i suoi atti (cfr.
Tito Livio Ab Urbe Condita XXVI, 19: ad hoc iam inde ab initio praeparans
animos, ex quo togam uirilem sumpsit nullo die prius ullam publicam priua-
tamque rem egit quam in Capitolium iret ingressusque aedem consideret et ple­
rumque solus in secreto ibi tempus tereret, «per preparare fin dall’inizio gli
animi, dal giorno in cui indossò la toga virile, non fece alcun azione, pubbli­
ca o privata, senza recarsi nel Campidoglio, senza entrare nel santuario e
senza restarvi per la maggior parte del tempo solo e in segreto»), Scipione
comincia poi a salire, sia fisicamente sia spiritualmente, sul podio. Deve
ascendere alla posizione di suo nonno per vedere «il percorso del fato»,
ovvero, il suo futuro che l’Africano sta osservando (eius temporis ancipitem
video quasi fatorum viam, «ma per quel frangente vedo un bivio, per così
dire, sulla strada del tuo destino», Sogno di Scipione 2,2), e che corrisponde­
va a Roma, molto probabilmente, alla vista della via Sacra. Scipione non è
ancora in grado di vedere tutto, ma gli è dato vedere solo gli eventi. Come
Enea che segue ciecamente i suoi oracoli, Scipione non è ancora nella condi­
zione d’intendere le ragioni per cui è destinato a tutto questo. Per capirlo,
deve contemplare nella sua interezza che cosa è e che cosa significa il Tempio
di Giove (certum esse in caelo definitum locum, ubi beati aevo sempiterno
fruantur. Nihil est enim illi principi deo qui omnem mundum r e g i t . «è riser­
vato in cielo un luogo ben preciso, dove da beati godono di un’eterna felici­
tà. Al sommo dio che regge tutto l’universo, nulla di ciò che accade in
terra...», Sogno di Scipione 3, 1; in Macrobio, Commento al Sogno di Scipione
I, 8, 1). L’edificio spirituale abbraccia non solo la fine, ma anche la via, che
comprende la vita nel mondo (cuius hoc templum est omne quod conspicis,
«che governa tutto il tempio celeste che vedi», Sogno di Scipione 3, 5, in
Macrobio, Commento al Sogno di Scipione I, 13, 3; ea vita via est in caelum,
«tale condotta di vita è la strada che conduce al cielo», Sogno di Scipione 3,
5, in Macrobio, Commento al Sogno di Scipione I, 4, 4). Il giovane Scipione
vede che la porta gli è preclusa mentre è ancora in vita (huc tibi aditus pate­
re non potest, «non può accadere che a te sia permesso l’accesso quassù»,
Sogno di Scipione 3, 5; in Macrobio, Commento al Sogno di Scipione I, 13, 3).
Il culmine della lezione è una speciale dispensa a guardare per un momento
l’interno del tempio dell’universo (Nonne aspicis quae in templa veneris?
«Non ti rendi conto a quali spazi celesti sei giunto?», Sogno di Scipione 4, 3).
Da questa posizione di favore scorge dapprima l’armonia delle sfere e tutto
quello che il mondo esterno è in realtà. Ma — cosa che è più importante di
tutte —, vede in seguito il mondo interiore dell’anima. Cicerone paragona
ciò a una visione della stessa statua di culto (ìgitur alte spedare si voles atque
I n d ic e g e n e r a l e

SAGGIO INTRODUTTIVO di Daria Ramelli 5


M a c r o b io a l l e g o r i s t a n e o p l a t o n i c o e i l t a r d o
P la to n is m o la t in o
1. Macrobio: breve inquadramento biografico e culturale 7
2. Gli scritti principali: I Saturnali e il commento al Sogno di Scipione 10
3. Il Sogno di Scipione; contenuti filosofici e struttura 14
4. Il commento di Macrobio: fonti primarie e linee portanti di pensiero;
il fine dell’opera 20
5. Analisi del commentario, sue problematiche filosofiche, fonti e
processi argomentativi. Platonismo e tradizione esegetica allegorica 31
6. Il contesto del Platonismo latino di IV e inizi V secolo 80
6.1. Calcidio commentatore del "Timeo" e Macrobio 82
6.2. Mario Vittorino: Medio- e Neoplatonismo e Cristianesimo tradotto
in filosofia 95
6.3. Il circolo neoplatonico milanese e s. Ambrogio 99
6.4. La formazione neoplatonica di s. Agostino 106
6.5. Marziano Capella e Macrobio 119
6.6. Servio, Macrobio, il commentario e l’immagine di Virgilio 127
7. Cenni alla fortuna del Commento macrobiano al Sogno di Scipione 128
N o t e al sa g g io in t r o d u t t iv o 133

B iblio g r a fia 165


Edizioni in latino 166
Traduzioni in altre lingue 175
Traduzioni commentate 176
Bibliografia dei principali autori antichi e moderni utilizzati
nell’apparato critico 178
S o m m a r io a n a l it ic o d e l C o m m e n t o d i M ac r o bio
a l S o g n o d i S c ip io n e 225

MACROBIO AMBROGIO TEODOSIO


COMMENTO AL SOGNO DI SCIPIONE 233

LIBRO PRIMO 235


LIBRO SECONDO 435

N o t e e A p p e n d ic i 573
N o t e al testo 575

A p p e n d ic e I. Il S o g n o d i S c ip io n e d i M. T. C i c e r o n e 689
N o t e a l t e s t o d i C ic e r o n e 707
A p p e n d ic e II. S c ip io n e : s o g n i e m a g n a n im it à n e l l e arti 713

A p p e n d ic e III. S c ip io n e d i P a o l o A n t o n io R o lli 80 9

A p p e n d ic e IV. Il s o g n o d i S c ip io n e d i P i e t r o M e t a s t a s io 857

I n d ic i e I l l u s t r a z i o n i 877

I n d ic e d e l l e c o se n o t e v o l i 879
I n d ic e d e l l e il l u st r a z io n i 903
I n d ic e g e n e r a l e 915

I c o n o g r a f ia S c ip io n ia n a ( fuo ri t e s t o ) i -l x x x

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