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Traduzione, bibliografia,
note e apparati di Moreno Neri
In appendice:
B O M P IA N I
IL PENSIERO OCCIDENTALE
© 2 0 0 7 R . C . S . Libri S .p .A ., M ila n o
I edizione B o m p ia n i
II P ensiero O c c i d e n ta l e aprile 2 0 0 7
SAGGIO INTRODUTTIVO
di
Ilaria Ramelli
S o m m a rio a n a l i t i c o
d el C o m m e n t o d i M a c r o b io
al S o g n o d i S c ip io n e
LIBRO PRIMO
CAPITOLO I
Preambolo: differenza e conformità tra la Repubblica di Platone e quel
la di Cicerone. Perché essi hanno inserito in questi trattati, il primo,
l’episodio della rivelazione di Er; il secondo, quello del Sogno di
Scipione.
CAPITOLO II
Risposta alle critiche dell’epicureo Colote che pensa che a un filosofo sia
vietato ogni sorta di mito. Le diverse categorie dei miti in letteratu
ra. I miti ammessi dalla filosofia e gli argomenti nei quali sono con
sentiti.
CAPITOLO III
Tipologia dei sogni: i loro cinque generi. Quello di Scipione racchiude i
primi tre generi.
CAPITOLO IV
Natura e scopo del Sogno di Scipione.
CAPITOLO V
Breve riassunto del preambolo. Prima citazione del Sogno. Esposizione
aritmologica: la nozione di pienezza aritmetica. Benché tutti i
numeri siano perfetti, il sette e l’otto lo sono particolarmente. Virtù
del numero otto.
CAPITOLO VI
Virtù del numero sette. La combinazione di pari (otto) e di dispari
(sette). Le combinazioni che producono il sette, Uno più sei, virtù
dell’uno e virtù del sei. Due più cinque: virtù del due e virtù del cin
que. Tre più quattro: capacità di legame di questi due numeri.
L’unione degli elementi secondo il Timeo di Platone. La doppia
capacità di legame del sette. Virtù specifiche del sette: ontologiche,
astronomiche (cicli lunari, solari e celesti), cicli delle maree, cicli
della vita umana (sviluppo dell’embrione, periodo post-natale,
infanzia e giovinezza, età adulta e vecchiaia), anatomia umana.
Conclusione dell’esposizione aritmologica. Le numerose proprietà
che fanno meritare al numero sette la qualifica di numero pieno.
CAPITOLO VII
Sulla divinazione. Ambiguità e mistero dei sogni e dei presagi relativi
alle avversità. In che modo racchiudano tuttavia circostanze che pos
sono, comunque, condurre sulla strada della verità l ’investigatore
dotato di perspicacia.
CAPITOLO VIII
Sull’anima. Seconda citazione del Sogno. L e virtù filosofiche sono le
sole a dare la felicità? I quattro generi di virtù nel sistema di
Plotino: virtù politiche, virtù purificatrici, virtù dell’anima già puri
ficata e virtù esemplari. Dato che la virtù costituisce la felicità e dato
che le virtù del primo genere appartengono a coloro che dirigono le
istituzioni politiche, ne consegue che le virtù politiche danno la feli
cità.
CAPITOLO IX
La dimora celeste dell’anima. In che senso si deve intendere che i reg
gitori delle istituzioni politiche sono scesi dal cielo e che lì ritorne
ranno.
CAPITOLO X
Terza citazione del Sogno. Opinione degli antichi teologi sugli inferi e
quello che bisogna intendere, secondo essi, con vita o morte dell’a
nima.
CAPITOLO X I
Opinione dei platonici sugli inferi e sulla loro dislocazione. In quale
modo concepiscono la vita o la morte dell'anima. La prima, la
seconda e la terza tesi platonica.
CAPITOLO X II
La strada che percorre l’anima, scendendo dalla parte più elevata del
l’universo, attraverso le sfere celesti, verso la parte inferiore che noi
occupiamo.
CAPITOLO X III
Quarta citazione del Sogno. Sul suicidio. Suo divieto secondo Platone
e secondo Plotino. Vi sono per l’uomo due tipi d i morti: una ha
luogo quando l’anima lascia il corpo, la seconda, quando l’anima,
restando unita al corpo, rifiuta i piaceri dei sensi e compie la rinun
cia ad ogni godimento e sensazione materiale. Quest’ultima morte
deve essere l’oggetto dei nostri voti; non dobbiamo affrettare la
prima, ma aspettare che Dio stesso rompa i vincoli che legano l’ani
ma al corpo.
CAPITOLO XIV
Quinta citazione del Sogno. Natura dell’anima. Perché l’universo è
chiamato tempio di Dio. Delle diverse accezioni delle parole anima
e animus. L’emanazione delle ipostasi. La creazione delle anime
umane. Gli altri esseri viventi: animali e vegetali. Interpretazioni
allegoriche di Virgilio e di Omero (la catena aurea). Applicazione di
queste nozioni al testo di Cicerone e in che senso bisogna intendere
che la parte intelligente dell’uomo è della stessa natura di quella
degli astri. Diverse opinioni sulla natura dell’anima. Esposizione
astronomica e sua terminologia: in che cosa differisce una stella e un
astro; che cos’è una sfera, un cerchio, un circolo; da dove viene il
nome di corpo errante dato ai pianeti.
CAPITOLO XV
I circoli celesti: la Via Lattea; lo zodiaco; l’eclittica; i paralleli; i coluri;
il meridiano; l’orizzonte.
CAPITOLO XV I
Sesta citazione del Sogno. Le stelle: le stelle che non possiamo vedere
dell’emisfero australe; la loro dimensione in generale.
CAPITOLO XVII
Settima citazione del Sogno. L e sfere celesti. Sommario dell’esposizio
ne. Perché il cielo si muove incessantemente e sempre in senso cir
colare. La sfera stellata. In che modo va inteso chi sia il Dio supre
mo. Se le stelle che si sono chiamate fisse hanno un movimento pro
prio.
CAPITOLO XV III
Le sfere planetarie. Tesi da dimostrare: le stelle erranti hanno un movi
mento propriocontrario a quello del cielo. Direzione dello sposta
mento dei pianeti. Esempi del movimento della luna e di quello del
sole.
CAPITOLO X IX
Dell’opinione di Platone e di quella di Cicerone sul posto che occupa il
sole tra i corpi erranti. Della necessità in cui si trova la luna di pren
dere in prestito la sua luce dal sole, in modo che illumini, ma non
riscaldi. Della ragione per la quale si dice che il sole non è esatta
mente al centro, ma quasi al centro dei pianeti. Origine d ei nomi
dei pianeti. Le loro influenze astrologiche: perché vi sono dei piane
ti che ci sono funesti e altri favorevoli.
CAPITOLO X X
Trattato sul sole: i differenti nomi del sole; le sue funzioni nell’univer
so; la sua grandezza. M etodi fallaci per misurare il sole e il corretto
metodo “egiziano”. Il calcolo della circonferenza e la lunghezza del
l’ombra della terra. Circonferenza e diametro terrestre. Lunghezza
dell’orbita solare. Misura del diametro solare.
CAPITOLO X X I
Lo zodiaco e i suoi segni. Perché si dice che i pianeti si spostino “nei”
segni dello zodiaco. Della causa della disuguaglianza di tempo nella
durata delle loro rivoluzioni. Dei mezzi che gli Egiziani hanno ado
perato per dividere lo zodiaco in dodici parti. Perché l’Ariete è il
primo dei segni. I domicili zodiacali. Sommario degli ultimi cinque
capitoli. L ’aria: mondi supralunare e sublunare.
CAPITOLO X X II
Perché la terra è immobile al centro del mondo e perché tutti i corpi
gravitano verso di essa con il proprio peso. Dimostrazione: la cadu
ta delle piogge.
LIBRO SECONDO
CAPITOLO I
Prima citazione del Sogno. Esposizione musicale. Princìpi dell’armonia
musicale: l'aria colpita emette un suono. Dell’armonia prodotta dal
movimento delle sfere. Mezzi adoperati da Pitagora per conoscere i
rapporti matematici dei suoni armonici. Dei valori numerici propri
agli accordi musicali e del numero di questi rapporti armonici.
CAPITOLO II
La musica delle sfere. In quale proporzione, secondo il Timeo di
Platone, Dio adoperò i numeri nella composizione dell’Anima del
Mondo. Preliminari: i solidi e i diversi corpi matematici. Da questa
organizzazione dell’anima universale risulta l’armonia dei corpi
celesti.
CAPITOLO III
Si possono apportare ancora altre prove e dare altre ragioni della neces
sità dell’armonia delle sfere. Interpretazioni allegoriche: le Sirene;
le Muse; i riti religiosi; miti d ’Orfeo e d ’Amfione. Musica delle sfere
e intervalli planetari.
CAPITOLO IV
Descrizione dell’armonia che scaturisce dalle sfere planetarie. Della
causa per cui, tra le sfere celesti, ve ne sono alcune che danno dei
suoni bassi e altre dei suoni acuti. Larmonia celeste è costituita da
sette note. Limiti della presente esposizione musicale. Dei generi
deU’armonia. D el perché l’uomo non può sentire la musica delle
sfere.
CAPITOLO V
Seconda citazione del Sogno. Esposizione geografica e suo schema. Il
nostro emisfero è diviso in cinque zone. Zone terrestri e loro clima.
Delle fasce terrestri soltanto due sono abitabili (le zone temperate):
una di esse è occupata da noi, l’altra da uomini la cui specie ci è sco
nosciuta. I nomi dei punti cardinali. I venti. L e zone abitate sulla
terra: l’emisfero opposto è simmetrico al nostro. Anche l’emisfero
australe è abitato dagli uomini. La teoria delle quattro regioni abi
tate.
CAPITOLO VI
Della dimensione delle fasce della terra abitate e di quelle deserte.
CAPITOLO VII
Corrispondenza delle zone della terra e di quelle celesti. Il corso del
sole, cui dobbiamo il clima, ossia il caldo o il freddo, a seconda che
esso si avvicini o si allontani da noi, ha fatto immaginare queste dif
ferenti zone.
CAPITOLO VIII
Dove si dà, per inciso, il modo d’interpretare un passo virgiliano delle
Georgiche, apparentemente sconcertante, che riguarda il circolo
dello zodiaco.
CAPITOLO IX
Il nostro globo è avvolto dall’oceano, non in un senso, ma in due diffe
renti sensi. Oceano e regioni abitabili. La form a della parte che abi
tiamo: ristretta verso ip o li e più larga verso il suo centro. Della scar
sa superficie dell’oceano che ci sembra così grande e della terra.
CAPITOLO X
Terza citazione del Sogno. Esposizione astronomica: i cicli cosmici.
Benché il mondo sia eterno, l’uomo non può sperare di perpetuare,
tra i posteri, la sua gloria e la sua fam a; perché tutto ciò che contie
ne questo mondo, la cui durata non avrà mai fine, è soggetto, come
dimostrano argomenti leggendari, storici e filosofici, a l periodico
alternarsi di distruzione e di riproduzione. La rinascita della civiltà.
CAPITOLO XI
Quarta citazione del Sogno. C’è più di un modo di valutare gli anni.
G li anni planetari. Hanno del mondo: sua definizione. Il grande
anno, l’anno veramente perfetto, comprende quindicimila dei nostri
anni.
CAPITOLO X II
Quinta citazione del Sogno. Il perché della citazione a questo punto del
Sogno. Esposizione metafisica: l’anima immortale è un dio; l’uomo
non è corpo, ma spirito. Dimostrazione della tesi sull’immortalità
dell’anima da parte di Plotino e opinione di Cicerone. In questo
mondo nulla muore, nulla si distrugge.
CAPITOLO X III
Sesta citazione del Sogno. L’anima autocinetica è immortale.
Definizione dell’immortalità e del movimento. Dei tre sillogismi
platonici che provano l’immortalità e l’autocinesi dell’anima.
CAPITOLO XIV
G li otto argomenti di Aristotele per dimostrare, contro il parere di
Platone, che l’anima non ha movimento di per sé. Prima obiezione.
Seconda obiezione. Terza obiezione. Quarta obiezione. Quinta obie
zione. Sesta obiezione. Settima obiezione. Ottava obiezione.
CAPITOLO XV
Argomenti dei Platonici a favore del loro maestro per confutare
Aristotele. Metodo utilizzato dall’autore. Confutazione della prima
obiezione: dimostrazione dei platonici dell’esistenza di qualcosa che
si muove di per sé e che questa sostanza non è altro che l’anima.
Considerazioni grammaticali: l’attivo e il passivo. L e prove fornite
dai Platonici distruggono la prima obiezione di Aristotele.
CAPITOLO XVI
Nuovi argomenti dei platonici contro le altre sette obiezioni di
Aristotele. Conclusione generale della confutazione.
CAPITOLO XVII
Settima citazione del Sogno. Conclusioni: ricompensi e castighi dell'a
nima dopo la morte; la pratica delle virtù assicura la felicità e i con
sigli dell’Africano a suo nipote hanno avuto anche per oggetto le
virtù contemplative e le virtù attive. Il destino delle anime malva
ge. Il Sogno di Scipione di Cicerone non ha trascurato nessuna
delle tre parti della filosofia: sua perfezione.
MACROBII AMBROSII TH EO D O SII
VIRI CLARISSIMI E T E T ILLVSTRIS
IN SOMNIVM SCIPIONIS
COMMENTO
AL SOGNO DI SCIPIONE
1. 1. Inter Platonis et Ciceronis libros, quos de re publica
uterque constituit, Eustachi fili, uitae mihi dulcedo pariter et
gloria, hoc interesse prima fronte perspeximus quod ille rem
publicam ordinauit, hic retulit; alter qualis esse deberet, alter
qualis esset a maioribus instituta disseruit. 2 . In hoc tamen uel
maxime operis similitudinem seruauit imitatio quod, cum
Plato in uoluminis conclusione a quodam uitae reddito quam
reliquisse uidebatur indicari faciat qui sit exutarum corporibus
status animarum, adiecta quadam sphaerarum uel siderum non
otiosa descriptione, rerum facies non dissimilia significans a
Tulliano Scipione per quietem sibi ingesta narratur.
3. Sed quid uel illi commento tali uel huic tali somnio in his
potissimum libris opus fuerit, in quibus de rerum publicarum
statu loquebantur, quoue attinuerit inter gubernandarum
urbium constituta circulos orbes globosque describere, de stel
larum modo de caeli conuersione tractare quaesitu dignum et
mihi uisum est et aliis fortasse uideatur, ne uiros sapientia prae
cellentes nihilque in inuestigatione ueri nisi diuinum sentire
solitos aliquid castigato operi adiecisse superfluum suspice
mur. De hoc ergo prius pauca dicenda sunt ut liquido mens
operis de quo loquimur innotescat.
4. Rerum omnium Plato et actuum naturam penitus inspi
ciens aduertit in omni sermone de rei publicae institutione
proposito infundendum animis iustitiae amorem, sine qua non
solum res publica sed nec exiguus hominum coetus nec domus
quidem parua constabit. 5. Ad hunc porro iustitiae affectum
1. 1. Tra i due trattati sulla Repubblica, scritti uno da
Platone e l’altro da Cicerone, abbiamo in primo luogo consta
tato, Eustazio, mio caro figlio, dolcezza e gloria insieme della
mia vita, la seguente differenza: l’organizzazione della repub
blica del primo è ideale, quella del secondo è effettiva. Platone
discute su quali dovessero essere le istituzioni e Cicerone sul
modo in cui furono organizzate dai nostri antenati. 2 . C ’è tut
tavia un punto in cui l’imitazione ha, senza dubbio, marcata-
mente mantenuto la somiglianza con il modello. Mentre
Platone, a conclusione del suo libro, si serve di un personag
gio, richiamato alla vita che sembrava aver perduta, per fargli
indicare quale sia la condizione delle anime una volta liberate
dei loro corpi, con in più una descrizione non inutile delle sfere
celesti e degli astri, Cicerone fa raccontare al suo Scipione una
scena dello stesso genere, vista in sogno 1.
3. Ma, in quegli scritti dedicati alla politica, che necessità vi
era per Platone di una simile trovata e per Cicerone di un simi
le sogno? E a che prò unire alle leggi fatte per governare le
società umane, quelle che determinano il cammino dei pianeti
nelle loro orbite e il sistema 2 delle stelle fisse, trascinate col
cielo in un movimento comune? La questione, che mi è parsa
degna d’indagine — e questo interesse sarà senza dubbio con
diviso da altri — , assolverà due uomini, eminenti per sapienza
e che nella ricerca del vero non hanno avuto che ispirazioni
divine, dal sospetto d’avere aggiunto qualcosa di superfluo a
produzioni tanto perfette. Bisognerà prima di tutto dire alcune
cose, affinché risulti chiaro il succo dell’opera di cui si parla.
4. Osservatore profondo della natura di ogni cosa e del
movente delle azioni umane, Platone non perde mai l’opportu
nità, in tutta l’esposizione che forma il codice della sua Re
pubblica, di infondere nei nostri animi l’amore per la giustizia,
senza la quale non potrebbe esistere non solo lo Stato, ma
nemmeno la più piccola comunità di uomini, o addirittura reg
gersi la più modesta famiglia3. 5. Giudicò dunque che il mezzo
pectoribus inoculandum nihil aeque patrocinaturum uidit
quam si fructus eius non uideretur cum uita hominis termina
ri. Hunc uero superstitem durare post hominem qui poterat
ostendi nisi prius de animae immortalitate constaret? Fide
autem facta perpetuitatis animarum consequens esse anima-
duertit ut certa illis loca nexu corporis absolutis pro contem
platu probi improbiue meriti deputata sint. 6 . Sic in Phaedone
inexpugnabilium luce rationum anima in ueram dignitatem
propriae immortalitatis adserta sequitur distinctio locorum
quae hanc uitam relinquentibus ea lege debentur quam sibi
quisque uiuendo sanxerunt. Sic in Gorgia post peractam pro
iustitia disputationem de habitu post corpus animarum morali
grauitate Socraticae dulcedinis admonemur. 7 . Idem igitur
obseruanter secutus est in illis praecipue uoluminibus quibus
statum rei publicae formandum recepit. Nam postquam prin
cipatum iustitiae dedit docuitque animam post animal non
perire, per illam demum fabulam — sic enim quidam uocant
— quo anima post corpus euadat uel unde ad corpus ueniat in
fine operis adseruit ut iustitiae uel cultae praemium uel spretae
poenam animis quippe immortalibus subiturisque iudicium
seruari doceret.
8 . Hunc ordinem Tullius non minore iudicio reseruans
quam ingenio repertus est: postquam in omni rei publicae otio
ac negotio palmam iustitiae disputando dedit, sacras immorta
lium animarum sedes et caelestium arcana regionum in ipso
consummati operis fastigio locauit indicans quo his peruenien-
dum uel potius reuertendum sit qui rem publicam cum pru
dentia iustitia fortitudine ac moderatione tractauerint.
9. Sed ille Platonicus secretorum relator Er quidam nomine
fuit, natione Pamphylus, miles officio, qui cum uulneribus in
proelio acceptis uitam effudisse uisus duodecimo demum die
più efficace d’ispirarci nei petti questa inclinazione verso il giu
sto fosse di persuaderci che i frutti della giustizia non hanno
termine con la vita umana. Ma chi era in grado di mostrare che
questo frutto sopravvive all’uomo, se non ci si fosse prima di
tutto resi conto dell’immortalità deH’anima? Una volta stabili
ta l’eternità delle anime, Platone dovette assegnare, di conse
guenza, delle dimore particolari alle anime liberate dai legami
del corpo, in ragione dei loro meriti o demeriti. 6 . Così, nel
Fedone, dopo avere dimostrato, alla luce di ragioni inconfuta
bili, i diritti dell’anima al conseguimento dell’immortalità,
distingue le dimore, che saranno irrevocabilmente assegnate a
coloro che lasciano quest’esistenza, in funzione della legge che
ciascun individuo, secondo il modo in cui avrà vissuto, ha san
cito per s é 4. Ancora del pari, nel Gorgia, dopo una dissertazio
ne in favore della giustizia, prende a prestito la morale dolce e
grave di Socrate per esporci lo stato delle anime che hanno
lasciato il corpo 5. 7. Questo modo di procedere, che adotta
costantemente, si fa particolarmente notare in quei libri dedi
cati all’organizzazione della repubblica. Comincia col dare alla
giustizia il primato tra le virtù, poi insegna che l’anima non
perisce con l’essere animato; poi, grazie a questo mito — è l’e
spressione che adoperano certe persone — , determina, alla
fine del suo trattato i luoghi dove si reca l’anima dopo essere
uscita dal corpo e da dove venga quando viene ad abitarlo. Tali
sono i suoi mezzi per persuaderci che le nostre anime immor
tali saranno giudicate, quindi ricompensate o punite, secondo
il nostro rispetto o il nostro disprezzo per la giustizia.
8. Cicerone, conservando quest’ordine, mostra un discerni
mento non inferiore al genio, stabilendo dapprima, con una
ponderata discussione, che alla giustizia spetta la palma della
virtù, in ogni affare pubblico o privato dello Stato 6; poi collo
ca nel punto culminante della sua opera che ha terminato 7 lo
sviluppo sulle sacre dimore delle anime immortali e sui miste
ri delle regioni celesti, dove devono recarsi, o meglio ritornare,
le anime di coloro che hanno amministrato con prudenza, giù-
stizia, fortezza e temperanza 8.
9. Ma in Platone colui che racconta questi segreti è un uo-
mo di nome Er, pamfilo d’origine 9, soldato di mestiere; lascia
to come morto in seguito alle ferite ricevute in combattimento,
inter ceteros una peremptos ultimo esset honorandus igne,
subito seu recepta anima seu retenta quicquid emensis inter
utramque uitam diebus egerat uideratue tamquam publicum
professus indicium humano generi enuntiauit. Hanc fabulam
Cicero licet ab indoctis quasi ipse ueri conscius doleat irrisam,
exemplum tamen stolidae reprehensionis uitans excitari narra
turum quam reuiuiscere maluit.
e in seguito:
Anna soror,
quae me suspensam insomnia terrent
[Anna, sorella,
Quali sogni mi han dato ansia e sgom ento!] 36
4 9
16 27
Figg. 01 - 02 - 03 - 04
Alcuni esempi di raffigurazione dello schema a lambda o lambdo-
ma platonico.
Fig. 05
Altra illustrazione del lambda platonico. Frontespizio di Fran-
chinus Gafurius [Franchino Gaffuriol, Theorica musice, Milano,
1492.
4. Hoc quoque notandum est quod, superius adserentes
communem numerorum omnium dignitatem, antiquiores eos
superficie et lineis eius omnibusque corporibus ostendimus;
procedens autem tractatus inuenit numeros et ante animam
mundi fuisse, quibus illam contextam augustissima Timaei
ratio, naturae ipsius conscia testis, expressit. 5. Hinc est quod
pronuntiare non dubitauere sapientes animam esse numerum
se mouentem.
Nunc uideamus cur septenarius numerus suo seorsum
merito plenus habeatur; cuius ut expressius plenitudo nosca
tur, primum merita partium de quibus constat, tum demum
quid ipse possit inuestigemus. 6 . Constat septenarius numerus
uel ex uno et sex, uel ex duobus et quinque, uel ex tribus et
quattuor. Singularum compagum membra tractemus, ex qui
bus fatebimur nullum alium numerum tam uaria esse maiesta-
te fecundum.
7. Ex uno et sex compago prima conponitur. Vnum autem
quod monas, id est unitas, dicitur, et mas idem et femina est,
par idem atque impar, ipse non numerus sed fons et origo
numerorum. 8 . Haec monas, initium finisque omnium neque
ipsa principii aut finis sciens, ad summum refertur deum eius-
que intellectum a sequentium numero rerum et potestatum
sequestrat, nec in inferiore post deum gradu frustra eam desi-
deraueris. Haec illa est mens ex summo enata deo, quae, uices
temporum nesciens, in uno semper quod adest consistit aeuo,
cumque, utpote una, non sit ipsa numerabilis, innumeras
tamen generum species et de se creat et intra se continet. 9.
Inde quoque aciem paululum cogitationis inclinans, hanc
monadem reperies ad animam referri. Anima enim, aliena a
siluestris contagione materiae, tantum se auctori suo ac sibi
debens, simplicem sortita naturam, cum se animandae immen
sitati uniuersitatis infundat, nullum init tamen cum sua unitate
diuortium. Vides ut haec monas, orta a prima rerum causa,
adusque animam ubique integra et semper indiuidua continua
tionem potestatis obtineat.
4. Si può anche notare che, se, nel capitolo precedente,
mostrando l’eccellenza dei numeri in generale, abbiamo stabi
lito che essi sono anteriori alla superficie e alle sue linee, così
come a tutti i co rp i89, proseguendo nella trattazione si è trova
to che i numeri sono anche anteriori rispetto all’Anima del
Mondo, poiché è dalla loro tessitura che essa fu formata,
secondo la sublime testimonianza di Timeo, conoscitore dei
segreti della natura. 5. Perciò anche dei filosofi non esitarono
ad affermare che l’anima è un numero semovente 90.
Esaminiamo adesso perché il numero sette merita per virtù
propria di essere considerato «pieno». Per rendere più esplici
ta questa pienezza, analizzeremo dapprima le proprietà delle
parti che lo compongono 91, poi le sue qualità specifiche. 6 . Il
numero sette è il risultato di uno e sei, di due e cinque, di tre e
quattro. Esaminando le parti di ciascuna di queste combinazio
ni, ci convinceremo che nessun altro numero è tanto ricco di
proprietà diverse.
7. La prima coppia è quella dell’uno col sei. L’uno che è
chiamato pò va 9 , cioè unità, ed è allo stesso tempo maschio e
femmina 92, pari e dispari insieme 93, non è un vero e proprio
numero, ma la fonte e l’origine dei numeri. 8 . Questa monade,
principio e fine di tutte le cose e che non conosce di per sé
principio e fine, riconduce al Dio supremo e divide il suo intel
letto dalla molteplicità delle cose e dalle potenze che lo seguo
no e non la si cercherà invano se la si cerca immediatamente
dopo la divinità 94. E l’intelletto, nato dal Dio supremo, che,
affrancato dalle vicissitudini temporali, esiste sempre in un
presente unico, e quantunque non possa essere numerabile, in
quanto unità per sua natura, tuttavia genera da sé e contiene in
sé il numero indefinito delle specie di cose generate. 9. Riflet
tendo un po’, si vedrà che la monade è in rapporto con l’Anima
universale. Difatti, questa Anima, esente dal contagio della
materia bruta, poiché dipende soltanto dal suo artefice e da se
stessa, dotata di una natura singola, quand’anche si espande
nell’immensità dell’universo che anima, non dà tuttavia luogo
ad alcuna separazione della sua unità. Così si vede come que
sta monade, originata dalla causa prima delle cose, si conservi
sempre integra ed indivisibile fino all’Anima universale, senza
perdere niente delle sue proprietà 95.
10. Haec de monade castigatius quam se copia suggerebat.
Nec te remordeat quod, cum omni numero praeesse uideatur,
in coniunctione praecipue septenarii praedicetur: nulli enim
aptius iungitur monas incorrupta quam uirgini. 11. Huic
autem numero, id est septenario, adeo opinio uirginitatis ino-
leuit ut Pallas quoque uocitetur. Nam uirgo creditur quia nul
lum ex se parit numerum duplicatus qui intra denarium coar
tetur, quem primum limitem constat esse numerorum; Pallas
ideo quia ex solius monadis fetu et multiplicatione processit,
sicut Minerua sola ex uno parente nata perhibetur.
12. Senarius uero, qui cum uno coniunctus septenarium
facit, uariae ac multiplicis religionis et potentiae est, primum
quod, solus ex omnibus numeris qui intra decem sunt, de suis
partibus constat. 13. Habet enim medietatem et tertiam par
tem et sextam partem, et est medietas tria, tertia pars duo,
sexta pars unum, quae omnia simul sex faciunt. Habet et alia
suae uenerationis indicia, sed, ne longior faciat sermo fasti
dium, unum ex omnibus eius officium persequemur; quod
ideo praetulimus quia hoc commemorato non senarii tantum,
sed et septenarii pariter dignitas adstruetur.
14. Humano partui frequentiorem usum nouem mensium
certo numerorum modulamine natura constituit, sed ratio sub
adsciti senarii numeri multiplicatione procedens etiam septem
menses compulit usurpari. 15. Quam breviter absoluteque
dicemus. Duos esse primos omnium numerorum cybos, id est
a pari octo, ab impari uiginti septem, et esse imparem marem,
parem feminam superius expressimus. Horum uterque, si per
senarium numerum multiplicetur, efficiunt dierum numerum
qui septem mensibus explicantur. 16. Coeant enim numeri,
mas ille qui memoratur et femina, octo scilicet et uiginti sep
tem, pariunt ex se quinque et triginta. Haec sexies multiplica
ta creant decem et ducentos, qui numerus dierum mensem
septimum claudit. Ita est ergo natura fecundus hic numerus ut
10. Sulla monade siamo stati più succinti di quanto non
sembrava promettere l’abbondanza dell’argomento 96. Non
dispiacerà certo che ciò che sembra superiore ad ogni numero,
venga messo in rapporto soprattutto col numero sette; la
monade incorrotta si congiunge infatti con ciò che è vergine
nella maniera più conveniente. 1 1 . A questo numero sette si
addice a tal punto l’idea della verginità che ebbe anche l’appel
lativo di «Pallade». E infatti ritenuto vergine perché se raddop
piato non genera nessuno dei numeri compresi nella prima
decina, ritenuta primo limite dei numeri. In quanto al nome di
Pallade, gli viene per il fatto che procede per filiazione e mol
tiplicazione dalla sola monade, come Minerva che si dice che
sia nata da un unico genitore 97.
12. Quanto al numero sei che, unito all’uno forma il sette, le
sue proprietà numeriche e sacre sono varie e molteplici, innan
zi tutto perché è il solo dei numeri al di sotto del dieci che sia
il risultato delle proprie parti. 13. Infatti il suo mezzo, il suo
terzo e il suo sesto, ossia tre, due e uno, formano, sommati
insieme, il suo intero, cioè sei 98. Potremmo specificare pure
altre sue particolarità relative al culto che gli si rende; ma, per
timore di annoiare il lettore e per non dilungarci eccessivamen
te " , parleremo di una sola di tutte le sue virtù. L’abbiamo pri
vilegiata perché, una volta dimostrata, darà un’alta idea, non
solo della sua importanza, ma anche di quella del numero sette.
14. La natura ha stabilito, secondo un’armonia numerica
ben definita, il termine più ordinario della gestazione della
donna in nove mesi; ma, secondo una moltiplicazione che ha il
numero sei come fattore, questo termine può ridursi a sette
mesi. 15. Diremo ancora una volta qui, nella maniera più con
cisa e completa, che i primi due cubi dei numeri, o pari o
dispari, sono otto e ventisette; e abbiamo detto in precedenza
che il numero dispari è maschio ed il numero pari femmina. Se
si moltiplicano per sei l’uno e l’altro di questi numeri, si ottie
ne un prodotto equivalente al numero dei giorni contenuti in
sette mesi. 16. Infatti l’unione di questi numeri, ossia del
maschio con la femmina già menzionati, vale a dire del venti-
sette con l’otto, genera trentacinque. Questo numero moltipli
cato per sei produce dueeentodieci, numero che è quello dei
giorni contenuti in sette mesi. Questo numero è dunque per
primam humani partus perfectionem, quasi arbiter quidam
maturitatis, absoluat. 17. Discretio uero sexus futuri, sicut
Hippocrates refert, sic in utero dinoscitur. Aut enim septuage
simo aut nonagesimo die conceptus mouetur. Dies ergo motus,
qui cumque fuerit de duobus, ter multiplicatus aut septimum
aut nonum explicat mensem.
18. Haec de prima septenarii copulatione libata sint.
Secunda de duobus et quinque est. Ex his dyas, quia post
monada prima est, primus est numerus. Haec ab illa omnipo
tentia solitaria in corporis intellegibilis lineam prima defluxit,
ideo et ad uagas stellarum et luminum sphaeras refertur quia
hae quoque ab illa quae ccrrXavris dicitur in numerum scissae
et in uarii motus contrarietatem retortae sunt. Hic ergo nume
rus cum quinario aptissime iungitur, cum hic ad errantes, ut
diximus, ad caeli zonas ille referatur, sed ille ratione scissionis,
hic numero.
19. Illa uero quinario numero proprietas excepta potentiae
ultra ceteras eminentis euenit quod solus omnia quaeque sunt
quaeque uidentur esse complexus est (esse autem dicimus
intellegibilia, uideri esse corporalia omnia, seu diuinum corpus
habeant seu caducum. Hic ergo numerus simul omnia et supe
ra et subiecta designat). 2 0 . Aut enim deus summus est aut
mens ex eo nata in qua rerum species continentur, aut mundi
anima quae animarum omnium fons est, aut caelestia sunt
usque ad nos, aut terrena natura est: et sic: quinarius rerum
omnium numerus impletur.
21. De secunda septenarii numeri coniunctione dicta haec
pro affectatae breuitatis necessitate sufficiant. Tertia est de tri
bus et quattuor quae quantum ualeat reuoluamus.
2 2 . Geometrici corporis ab impari prima planities in tribus
lineis constat (his enim trigonalis forma concluditur); a pari
natura così fecondo, che, come se fosse arbitro del punto di
maturità del feto, completa il parto umano più precoce 10°. 17.
Ecco, secondo Ippocrate, come si può determinare, nell’utero,
il sesso del nascituro. Il feto si muove il settantesimo o il novan
tesimo giorno della concezione: l’uno o l’altro di questi nume
ri, moltiplicato per tre, darà un risultato equivalente al nume
ro di giorni compresi in sette o nove mesi. 101
18. Tanto basti per le proprietà della prima combinazione
con cui si compone il numero sette. La seconda è quella forma
ta da due e cinque. Occupiamoci della diade, che, poiché viene
subito dopo la monade, è il primo numero 102. Essa, scorrendo
dall’onnipotenza solitaria, passò per prima nella linea, che è
propria del corpo intelligibile 103. La sua relazione con le sfere
erranti dei pianeti e dei luminari è dunque evidente, poiché
anch’esse si sono separate, fino a formare un numero, dalla
sfera chiamata ànhavris [fìssa] e costrette ad ubbidire ad un
moto contrario, secondo la varietà dei loro moti 104. L’unione
di questo numero col cinque è di conseguenza ottima, visto,
come si è detto, i rapporti del primo con i corpi luminosi erran
ti e quelli del numero cinque con le zone del cielo 105, questo
però, nel primo caso (il due), in funzione del processo di divi
sione e, nel secondo (il cinque), in base al numero.
19. Tra le proprietà del numero cinque ce n’è una molto
importante: esso da solo abbraccia tutto ciò che esiste e tutto
ciò che sembra esistere (per ciò che esiste intendiamo tutte le
cose intelligibili e per ciò che sembra esistere tutto ciò che è
corporeo, che abbia un corpo divino o uno corruttibile). Ne
consegue che questo numero rappresenta l’insieme di tutte le
cose che esistono, sia superiori sia inferiori 106. 20. «Esistono»
infatti il Dio supremo, l’intelletto da lui generato che com
prende tutte le idee delle cose, l’Anima del Mondo, fonte di
tutte le anime, le regioni celesti che giungono fino a noi e, infi
ne, la natura terrestre: in questo modo si ottiene il numero cin
que, che ingloba la totalità delle cose.
21. La concisione che ci siamo imposti come regola non ci
permette di dire altro rispetto a quello che abbiamo detto sulla
seconda coppia del numero sette 107. Passiamo ad esaminare il
potere della terza coppia, ossia dei numeri tre e quattro 108.
2 2 . La prima superficie di un corpo geometrico, a partire dal
numero dispari, è quella delimitata da tre linee (che racchiudo-
uero prima in quattuor inuenitur. 23. Item scimus secundum
Platonem, id est secundum ipsius ueritatis arcanum, illa forti
inter se uinculo conligari quibus interiecta medietas praestat
uinculi firmitatem. Cum uero medietas ipsa geminatur, ea quae
extima sunt non tenaciter tantum, sed etiam insolubiliter uin-
ciuntur. Primo ergo ternario contigit numero ut inter duo
summa medium quo uinciretur acciperet; quaternarius uero
duas medietates primus omnium nactus est.
24. Quas ab hoc numero deus mundanae molis artifex con-
ditorque mutuatus, insolubili inter se uinculo elementa deuin-
xit, sicut in Timaeo Platonis adsertum est, non aliter tam con-
trouersa sibi ac repugnantia et naturae communionem abnuen
tia permisceri — terram dico et ignem — potuisse et per tam
iugabilem competentiam foederari, nisi duobus mediis aeris et
aquae nexibus uincirentur. 25. Ita enim elementa inter se
diuersissima opifex tamen deus ordinis oportunitate conexuit
ut facile iungerentur. Nam cum binae essent in singulis quali
tates, talem unicuique de duabus alteram dedit ut in eo cui
adhaereret cognatam sibi et similem reperiret. 26. Terra est
sicca et frigida, aqua uero frigida et humecta est. Haec duo ele
menta, licet sibi per siccum humectumque contraria sint, per
frigidum tamen commune iunguntur. Aer humectus et calidus
est, et cum aquae frigidae contrarius sit calore, conciliatione
tamen socii copulatur humoris. Super hunc ignis, cum sit cali
dus et siccus, humorem quidem aeris respuit siccitate, sed
conectitur per societatem caloris. 27. Et ita fit ut singula quae
que elementorum duo sibi hinc inde uicina singulis qualitati
bus uelut quibusdam amplectantur ulnis: aqua terram frigore,
aerem sibi nectit humore; aer aquae humecto simili et igni calo
re sociatur; ignis aeri miscetur ut calido, terrae iungitur siccità-
no, infatti, la forma triangolare); mentre la prima, sul versante
del numero pari, risulta di quattro linee 109. 23. Nondimeno
apprendiamo da Platone n0, cioè dagli arcani della verità stes
sa, che quei corpi sono uniti tra essi da una potente catena,
quando la loro congiunzione si opera con l’aiuto di un medio
comune che funge da solida catena. Quando poi questo medio
è duplicato, quest’unione dei due estremi è non solamente
salda, ma indissolubile. Il numero tre è dunque il primo ad
aver ricevuto un elemento medio tra due estremi dal quale è
legato, invece il quattro è il primo di tutti i numeri ad essere
dotato di due medi.
24. E di questi due medi del numero quattro che fece uso
l’architetto e fondatore della massa del mondo per legare indis
solubilmente gli elementi tra essi, come Platone afferma nel
suo Timeo. Mai, infatti, degli elementi così opposti, così discor
danti e refrattari ad unirsi naturalmente — sto parlando della
terra e del fuoco — , si sarebbero potuti mescolare e avrebbe
ro potuto costituire un rapporto proporzionale 111 tale da faci
litarne l’unione, se non fossero state collegate da due nessi
intermedi come l’aria e l’acqua. 25. Infatti, elementi così diver
si tra essi sono stati connessi dal dio artefice in un ordine che
facilitasse la loro congiunzione. Siccome ciascuno di essi era
dotato di due qualità proprie, il dio ha fatto in modo che si tro
vasse nell’elemento col quale era in contatto una qualità affine
e simile ad una di queste sue due proprietà. 26. La terra è secca
e fredda, l’acqua, a sua volta, fredda ed umida. Questi due ele
menti, benché siano incompatibili per il secco e l’umido, sono
uniti dal freddo che hanno in comune. L’aria è umida e calda
ed essendo quest’ultima proprietà in opposizione al freddo
dell’acqua, l’umidità è il punto di congiunzione di questi due
elementi. Al di sopra dell’aria è posto il fuoco che è secco e
caldo e quindi la sua secchezza e l’umidità dell’aria si respingo
no reciprocamente, ma il caldo che condividono ne cementa
l’unione. 27. E così che ogni elemento dà per così dire il brac
cio ai due vicini che lo affiancano attraverso una delle sue qua
lità. L’acqua si unisce alla terra con il freddo, all’aria con l’umi
dità; l ’aria si unisce all’acqua con l’umido, al fuoco con il calo
re. Il fuoco si mette in contatto con l’aria con il caldo e si uni
sce alla terra per la sua secchezza; infine, la terra che aderisce
te; terra ignem sicco patitur, aquam frigore non respuit. 28.
Haec tamen uarietas uinculorum, si elementa duo forent, nihil
inter ipsa firmitatis habuisset; si tria, minus quidem ualido, ali
quo tamen nexu uincienda nodaret; inter quattuor uero inso
lubilis conligatio est cum duae summitates duabus interiectio-
nibus uinciuntur.
Quod erit manifestius si in medio posuerimus ipsam conti
nentiam sensus de Timaeo Platonis excerptam. 29. «Divini
decoris, inquit, ratio postulabat talem fieri mundum qui et
uisum pateretur et tactum. Constabat autem neque uideri ali
quid posse sine ignis beneficio, neque tangi sine solido et soli
dum nihil esse sine terra. 30. Vnde omne mundi corpus de igne
et terra instituere fabricator incipiens uidit duo conuenire sine
medio colligante non posse, et hoc esse optimum uinculum
quod et se pariter et a se liganda deuinciat; unam uero interlec
tionem tunc solum posse sufficere cum superficies sine altitu
dine uincienda est; at ubi artanda uinculis est alta dimensio,
nodum nisi gemina interiectione non necti. 31. Inde aerem et
aquam inter ignem terramque contexuit, et ita per omnia una
et sibi conueniens iugabilis competentia cucurrit, elemento
rum diuersitatem ipsa differentiarum aequalitate consocians.»
32. Nam quantum interest inter aquam et aerem causa densita
tis et ponderis, tantundem inter aerem et ignem est. Et rursus
quod interest inter aerem et aquam causa leuitatis et raritatis,
hoc interest inter aquam et terram. Item quod interest inter
terram et aquam causa densitatis et ponderis, hoc interest inter
aquam et aerem, et quod inter aquam et aerem, hoc inter
aerem et ignem. Et contra quod interest inter ignem et aerem
tenuitatis leuitatisque causa, hoc inter aerem et aquam est, et
quod est inter aerem et aquam, hoc inter aquam intellegitur et
terram. 33. Nec solum sibi uicina et cohaerentia comparantur,
al fuoco con il secco, non respinge l’abbraccio dell’acqua a
causa del freddo. 28. Eppure, se non ci fossero stati che due
elementi, questa diversità di legami non avrebbe apportato alla
loro unione alcuna solidità; se fossero stati tre, avrebbe certa
mente allacciato un legame tra gli elementi da unire, ma meno
resistente; tra quattro elementi, invece, si forma un collega
mento indissolubile, dal momento che le due estremità sono
legate dai due intermedi.
Tutto ciò apparirà più chiaramente se esamineremo il con
tenuto stesso del pensiero attraverso un passo estratto dal
Timeo di Platone 112. 29. «La ragione della maestà divina» dice
questo filosofo «postulava la produzione di un mondo visibile
e tattile. Ora, senza il dono del fuoco, era evidente che niente
sarebbe stato visibile; senza la solidità che niente si sarebbe
potuto toccare e che senza la terra niente avrebbe potuto esi
stere di solido. 30. Il demiurgo così, disponendosi a formare
l’intero corpo dell’universo per mezzo del fuoco e della terra,
vide che questi due elementi non si sarebbero potuti unire se
non con l’aiuto di un termine medio che facesse da legamento
e che il miglior vincolo sarebbe stato quello che tenesse uniti se
stesso e gli elementi da collegare. Quindi vide che un solo
intermedio sarebbe bastato a legare delle superfici senza altez
za, ma che, occorrendo legare anche la dimensione dell’altez
za, il legamento non sarebbe riuscito se non vi fossero stati due
intermedi. 31. Perciò, inserì l’aria e l’acqua tra il fuoco e la
terra; così quest’accostamento è percorso da un rapporto pro
porzionale tra il tutto e le sue parti, che mantiene l’insieme di
elementi dissimili utilizzando l’uguaglianza stessa delle loro
differenze». 32. Difatti, c e tra l ’acqua e l ’aria la stessa differen
za di peso e di densità che c’è tra l’aria e il fuoco. D ’altra parte,
tra l’aria e l’acqua esiste la stessa differenza di rarefazione e di
leggerezza che si ritrova tra l’acqua e la terra. Ugualmente, esi
ste tra la terra e l’acqua una differenza di peso e di densità
uguale a quella che si trova tra l’acqua e l’aria, e, sotto questi
due aspetti, questa differenza è la stessa tra l’acqua e l’aria
come tra l’aria e il fuoco. All’opposto, la differenza che c ’è per
rarefazione e leggerezza tra il fuoco e l’aria è come quella tra
l’aria e l’acqua e la stessa differenza tra l’aria e l’acqua si rico
nosce tra l’acqua e la terra. 33. Questi rapporti non si verifica-
sed eadem alternis saltibus custoditur aequalitas. Nam quod
est terra ad aerem, hoc est aqua ad ignem, et quotiens uerteris,
eandem reperies iugabilem competentiam. Ita ex ipso quo
inter se sunt aequabiliter diuersa sociantur.
34. Haec eo dicta sunt ut aperta ratione constaret neque
planitiem sine tribus neque soliditatem sine quattuor posse
uinciri. Ergo septenarius numerus geminam uim obtinet uin-
ciendi, quia ambae partes eius uincula prima sortitae sunt, ter
narius cum una medietate, quaternarius cum duabus. Hinc in
alio loco eiusdem somnii Cicero de septenario dicit: «qui
numerus rerum omnium fere nodus est.»
35. Item omnia corpora aut mathematica sunt alumna geo
metriae aut talia quae uisum tactumue patiantur. Horum prio
ra tribus incrementorum gradibus constant. Aut enim linea
crescit ex puncto, aut ex linea superficies, aut ex planitie soli
ditas. Altera uero corpora quattuor elementorum conlato teno
re in robur substande corpulentae concordi concretione coale
scunt. 36. Nec non omnium corporum tres sunt dimensiones:
longitudo, latitudo, profunditas; termini adnumerato effectu
ultimo, quattuor: punctum, linea, superficies et ipsa soliditas.
Item, cum quattuor sint elementa ex quibus constant cor
pora — terra, aqua, aer et ignis — , tribus sine dubio interstitiis
separantur, quorum unum est a terra usque ad aquam, ab aqua
usque ad aerem sequens, tertium ab aere usque ad ignem. 37.
Et a terra quidem usque ad aquam spatium Necessitas a physi
cis dicitur, quia uincire et solidare creditur quod est in corpo
ribus lutulentum; unde Homericus censor, cum Graecis impre
caretur: «uos omnes, inquit, in terram et aquam resoluamini»,
in id dicens quod est in natura humana turbidum, quo facta est
homini prima concretio. 38. Illud uero quod est inter aquam et
aerem Harmonia dicitur, id est apta et consonans conuenien-
tia, quia hoc spatium est quod superioribus inferiora conciliat
no soltanto tra gli elementi vicini e contigui, ma la stessa sim
metria si mantiene anche negli elementi alterni. Il medesimo
rapporto di proporzione della terra nei confronti dell’aria è
come quello dell’acqua nei confronti del fuoco e, in senso
inverso, si otterrà la stessa proporzione che li collega tra loro.
In questo modo gli elementi risultano associati grazie alla sim
metria delle loro differenze.
34. Quanto è appena stato detto, mostra chiaramente che
una superficie non può essere legata senza tre elementi, né un
solido senza quattro. Il numero sette ha in sé, perciò, una dop
pia capacità coercitiva, perché i suoi due componenti sono
stati dotati per primi della facoltà di legare le loro parti, il tre
con un solo medio e il quattro con due. Per questo Cicerone in
un altro passo sempre del Sogno, dice, a proposito del sette:
«numero che è il nodo di quasi tutte le cose» 113.
35. Ugualmente tutti i corpi sono matematici, figli della
geometria, o tali da essere sensibili alla vista e al tatto. I primi
risultano da tre gradi d’incremento. La linea, infatti, proviene
dal punto, la superficie dalla linea e il solido dalla superficie U4.
Gli altri corpi invece, a causa della capacità coesiva dei quattro
elementi, si fondono con un assemblaggio coerente in una
sostanza saldamente corporea. 36. Inoltre, tutti i corpi hanno
tre dimensioni, lunghezza, larghezza e profondità; hanno quat
tro limiti, ivi compreso il risultato finale: il punto, la linea, la
superficie ed il solido vero e proprio 115.
Similmente, essendo gli elementi costitutivi dei corpi in
numero di quattro — terra, acqua, aria e fuoco — , essi sono
certamente separati da tre interstizi: uno tra la terra e l’acqua,
un altro tra l’acqua e l’aria ed un terzo tra l’aria e il fuoco. 37.
Lo spazio che intercorre tra la terra e l’acqua ha ricevuto dai
fisici il nome di «Necessità», perché ha, si crede, la facoltà di
legare e di solidificare la componente fangosa dei corpi, donde
quelle parole del censore omerico, quando copriva i Greci
d’imprecazioni: «Che voi tutti possiate dissolvervi in terra e in
acqua!» 116 con ciò intendendo quanto nella natura umana vi è
di torbido, con cui fu fatta la prima concrezione dell’uomo. 38.
L’intervallo tra l’acqua e l’aria si chiama, invece, «Armonia»,
cioè accordo giusto e consonante, perché è lo spazio che con
giunge gli elementi inferiori e quelli superiori e che mette in
et facit dissona conuenire. 39. Inter aerem uero et ignem
Oboedientia dicitur quia, sicut lutulenta et grauia superioribus
Necessitate iunguntur, ita superiora lutulentis Oboedientia
copulantur, Harmonia media coniunctionem utriusque prae-
stante.
40. Ex quattuor igitur elementis et tribus eorum interstitiis
absolutionem corporum constare manifestum est. Ergo hi duo
numeri, tria dico et quattuor, tam multiplici inter se cognatio
nis necessitate sociati, efficiendis utrisque corporibus consen
su ministri foederis obsequuntur. 41. Nec solum explicandis
corporibus hi duo numeri conlatiuum praestant fauorem, sed
quaternarium quidem Pythagorei, quem T E T p a K T Ù v uocant,
adeo quasi ad perfectionem animae pertinentem inter arcana
uenerantur, ut ex eo et iuris iurandi religionem sibi fecerint:
ànerépa v y v x à napaSóvTa t e t p o c k t ù v
o ù nòe t ò v
«per qui nostrae animae numerum dedit ipse quaternum».
42. Ternarius uero adsignat animam tribus suis partibus
absolutam, quarum prima est ratio quam À o y iO T iK Ó v appel
lant, secunda animositas quam 0 U | ìik ó v uocant, tertia cupidi
tas quae ÈTTi0upr)TiKÓu nuncupatur.
43. Item nullus sapientum animam ex symphoniis quoque
musicis constitisse dubitauit. Inter has non paruae potentiae
est quae dicitur S ia u a a c o v . Haec constat ex duabus, id est
8 ict TEooàpcov et S ia t t e v t e . Fit autem Sia t t e v t e ex hemio-
lio et fit Sia T E o o à p c o v ex epitrito; et est primus hemiolius
tria et primus epitritus quattuor. Quod quale sit suo loco pla
nius exsequemur. 44. Ergo ex his duobus numeris constat Sta
T E a a à p c o v et Sia t t e v t e , ex quibus Sia i r a a c b v symphonia
generatur; unde Vergilius, nullius disciplinae expers plene et
per omnia beatos exprimere uolens ait:
o terque quaterque beati.
45. Haec de partibus septenarii numeri sectantes compen
dia diximus. De ipso quoque pauca dicemus.
accordo le parti dissonanti. 39. Si chiama «Obbedienza» l’in
terstizio tra l’aria e il fuoco; poiché, come i corpi pesanti e fan
gosi e i corpi più leggeri sono uniti per mezzo della Necessità,
così i corpi superiori sono legati a quelli fangosi per O bbe
dienza, mentre l’Armonia è il giusto mezzo che garantisce la
congiunzione tra gli uni e gli altri.
40. E dunque chiaro che la perfezione dei corpi esige il con
corso dei quattro elementi e dei loro tre interstizi. 117 Perciò
questi due numeri — intendo il tre e il quattro — , uniti tra loro
per vincoli necessari così complessi, si prestano, accordandosi
su un patto d’assistenza, alla formazione di entrambi i tipi di
corpi 11S. 41. Non solo questi due numeri si aiutano vicende
volmente nel formare i corpi, ma i Pitagorici venerano a tal
punto tra i misteri il quattro, che chiamano TETpaKTÙg 1iy,
come se quel numero fosse pertinente alla perfezione dell’ani
ma, che basano su di esso la formula sacra del loro giuramen
to così concepito:
où u à t ò v à | i E T É p a i f ' u x ? f r a p a S ó v T a t e t p o c k t ù v
«no, per colui che diede alla nostra anima il numero quattro». 120
42. Il numero tre, poi, designa l’anima il cui insieme si divi
de nelle sue tre parti: la prima delle quali è la ragione, chiama
ta XoyiaTiKÓu, la seconda l’irascibilità, detta QupiKÓv, la terza
la concupiscenza, detta è t t i G u i ì t ì t i k ó v m .
43. Allo stesso modo, nessuno fra i sapienti ha mai dubita
to che l’anima consista di accordi musicali 122. Tra questi ha
non poca importanza quello chiamato Sia T t a a c o v [ottava]
che risulta da questi due: dal Sia T E o o à p c o v e dal Sia t t e v t e ,
[quarta e quinta]. Il Sia t t e v t e deriva poi dalTemiolio e il Sia
T E a a à p c o v dall’epitrito: il primo emiolio è tre, il primo epitri
to quattro. Vedremo in seguito quale sia e in cosa consista que
sto rapporto. 44. Il Sia T E o o à p c o v e il Sia t t e v t e che genera
no l’armonia del Sia T r a a c ò v si costituiscono quindi da questi
due numeri. 123 Così Virgilio, cui nessuna scienza è estranea,
quando vuole parlare di uomini pienamente e completamente
felici, dice:
Oh tre fiate fortunati e quattro! 124
45. Abbiamo appena trattato sommariamente le parti del
numero sette; diremo adesso qualche parola sul numero in sé.
Hic numerus e t t t c is nunc uocatur, antiquato usu primae
litterae ; apud ueteres enim oetttc^ uocitabatur, quod Graeco
nomine testabatur uenerationem debitam numero. Nam primo
omnium hoc numero anima mundana generata est, sicut
Timaeus Platonis edocuit. 46. Monade enim in uertice locata,
terni numeri ab eadem ex utraque parte fluxerunt, ab hac
pares, ab illa impares; id est post monadem a parte altera duo,
inde quattuor, deinde octo, ab altera uero parte tria, deinde
nouem, et inde uiginti septem: ex his numeris facta contextio
generationem animae imperio creatoris effecit, 47. Non parua
ergo hinc potentia numeri huius ostenditur quia mundanae
animae origo septem finibus continetur, septem quoque uagan-
tium sphaerarum ordinem illi stelliferae et omnes continenti
subiecit artifex fabricatoris prouidentia, quae et superioris
rapidis motibus obuiarent et inferiora omnia gubernarent.
48. Lunam quoque, quasi ex illis septimam, numerus septe
narius mouet cursumque eius ipse dispensat. Quod cum mul
tis modis probetur, ab hoc incipiat ostendi: 49. luna octo et
uiginti prope diebus totius zodiaci ambitum conficit. Nam etsi
per triginta dies ad solem a quo profecta est remeat, solos
tamen fere uiginti octo in tota zodiaci circumitione consumit,
reliquis solem qui de loco in quo eum reliquit accesserat, con-
prehendit. 50. Sol enim unum de duodecim signis integro
mense metitur. Ponamus ergo, sole in prima parte Arietis con
stituto, ab ipsius, ut ita dicam, orbe emersisse lunam, quod
eam nasci uocamus. Haec post uiginti septem dies et horas fere
octo ad primam partem Arietis redit. Sed illic non inuenit
solem: interea enim et ipse, progressionis suae lege, ulterius
accessit, et ideo ipsa necdum putatur eo unde profecta fuerat
reuertisse, quia oculi nostri tunc non a prima parte Arietis, sed
a sole eam senserant processisse. Hunc ergo diebus reliquis, id
Questo numero è ora chiamato èirras, essendo ormai
arcaico Fuso della prima lettera; fra gli antichi infatti esso era
chiamato o e t t t c c $, il cui nome greco testimonia appunto la
venerazione tributata a questo numero 125. Infatti, come inse
gna il Timeo di Platone I26, è da questo numero, il primo fra
tutti, che fu generata l’Anima del Mondo. 46. Difatti, posta la
monade al vertice, vediamo discendere da entrambe le parti di
essa, tre numeri, da una parte i numeri pari e dall’altra i dispa
ri, ossia, dopo la monade, da un lato il due, poi il quattro e
quindi l’otto, dall’altro lato il tre, poi il nove e quindi il venti
sette. E dall’accostamento di questi numeri che, secondo l’or
dine del demiurgo, si generò l ’Anima. 47. Il fatto che l’origine
dell’Anima del Mondo è racchiusa da sette limiti manifesta
dunque l’eminente potenza di questo numero. Vediamo anche
che la provvidenza costruttrice, diretta dall’eterno Architetto,
ha posto in un ordine reciproco, al di sotto del mondo stellife
ro che contiene tutti gli altri, sette sfere erranti, col compito di
temperare la velocità dei movimenti della sfera superiore e di
governare tutti i corpi inferiori 127.
48. Anche la luna, che occupa il settimo rango tra questi
pianeti, è sottomessa all’azione del numero sette che regola il
suo corso. Se ne possono dare innumerevoli prove, ma comin
ciamo la dimostrazione da questa: 49. la luna utilizza circa ven-
totto giorni per percorrere lo zodiaco. Perché, sebbene ritorni
solamente in congiunzione col sole alla fine di trenta giorni,
tuttavia impiega solo circa ventotto giorni per fare un giro
completo dello zodiaco, e nel tempo rimanente essa raggiunge
il sole, perché quest’astro non si ritrova più nel punto dove l’a
veva lasciato. 50. Il sole, infatti, impiega un mese intero per
attraversare uno solo dei dodici segni. Supponiamo dunque
che, essendo il sole al primo grado dell’Ariete, la luna sia emer
sa per così dire dal cerchio di questo, o che, come diciamo,
«nasca». Circa ventisette giorni e otto ore dopo 128, la luna
ritorna di nuovo in questo primo grado dell’Ariete. Ma non
ritrova più il sole che, nel frattempo, è andato oltre nella sua
orbita, secondo le leggi che ne regolano la progressione e se
non ci accorgiamo che la luna è tornata nel punto da cui era
partita, è perché allora i nostri occhi non l’avevano vista proce
dere dal primo grado dell’Ariete, ma dal sole. Le occorrono
est duobus plus minusue, consequitur, et tunc, orbi eius denuo
succedens ac denuo inde procedens, rursus dicitur nasci. 51.
Inde fere numquam in eodem signo bis continuo nascitur, nisi
in Geminis, ubi hoc non numquam euenit, quia dies in eo sol
duos supra triginta altitudine signi morante consumit; rarissi
mo in aliis, si circa primam signi partem a sole procedat. 52.
Huius ergo uiginti octo dierum numeri septenarius origo est.
Nam si ab uno usque ad septem quantum singuli numeri expri
munt tantum antecedentibus addendo procedas, inuenies
uiginti octo nata de septem.
53. Hunc etiam numerum, qui in quater septenos aequa
sorte digeritur, ad totam zodiaci latitudinem emetiendam
remetiendamque consumit. Nam septem diebus ad extremita
te septemtrionalis orae oblique per latum meando ad medieta
tem latitudinis peruenit — qui locus appellatur eclipticus — ,
septem sequentibus a medio ad imum australe delabitur, sep
tem aliis rursus ad medium obliquata conscendit, ultimis sep
tem septentrionali redditur summitati. Ita isdem quater septe
nis diebus omnem zodiaci et longitudinem et latitudinem cir
cum perque discurrit.
54. Similibus quoque dispensationibus hebdomadum lumi
nis sui uices sempiterna lege uariando disponit. Primis enim
septem usque ad medietatem uelut diuisi orbis excrescit, et
5 ixótoho$ tunc uocatur; secundis orbem totum renascentes
ignes colligendo iam complet, et plena tunc dicitur; tertiis
S ixotomos rursus efficitur cum ad medietatem decrescendo
contrahitur, quartis ultima luminis sui diminutione tenuatur.
55. Septem quoque permutationibus quas cpaosis uocant
toto mense distinguitur: cum nascitur, cum fit S ixotouoc;, et
cum fit cinqHKupTos, cum plena, et rursus ànqnKupxos, ac
dunque ancora i giorni che restano, pressappoco due giorni,
per seguirlo e ritornare, in quel momento, in congiunzione
all’orbita di esso, da dove procede di nuovo da questo, dicen
dosi ancora una volta che «nasce». 51. Ne consegue che la luna
non «nasce» quasi mai due volte di seguito nello stesso segno,
se non talvolta nei Gemelli, perché, ritardato a causa dell’alto
punto d’elevazione di questo segno, il sole impiega due giorni
in più dei trenta 129; ma ciò si verifica assai raramente negli altri
segni, quando la luna si allontana dalla congiunzione col sole
nel primo grado del segno. 52. Il sette è dunque l’origine di
questo numero di ventotto giorni. Infatti, se nei numeri dall’u
no al sette si somma progressivamente il valore numerico di
ognuno di essi a quello che segue, si ha per risultato che il ven
totto nasce dal sette. 1J0
53. E ancora di questo numero, diviso in quattro parti ugua
li del valore di sette, che la luna ha bisogno per attraversare
avanti e indietro l’intera estensione dello zodiaco. Infatti, par
tita dal punto più settentrionale dell’orizzonte, arriva, dopo un
moto obliquo di sette giorni, nella metà di questo percorso, nel
punto chiamato eclittica. Continuando a scendere durante altri
sette giorni, dal punto medio raggiunge l’estremità australe più
bassa; di là, per una linea ascendente e sempre obliqua, nei
sette giorni successivi, guadagna il punto medio, e, infine, negli
ultimi sette giorni, si ritrova al limite settentrionale. Così, in
quattro volte sette giorni, ha percorso tutto lo zodiaco in lun
ghezza e in larghezza, in circolo e di traverso m .
54. E anche con simile ripartizione di sette giorni che la lu
na ci presenta le fasi della sua luce, con modificazioni che se
guono una legge invariabile. Durante i primi sette giorni essa
cresce progressivamente e si mostra sotto forma della metà di
un cerchio diviso ed è quindi chiamata Si^ÓTopo^ [tagliato in
due]; nella seconda ebdomade, dopo aver raccolto i suoi fuo
chi rinascenti, completa l’intero suo disco e la chiamiamo allo
ra piena; dopo tre volte, ridiviene 5ixÓTopo$, in quanto decre
scendo ridiventa metà; infine, nel quarto periodo, la sua luce
diminuisce ulteriormente e finisce per sparire ai nostri o cch i1,2.
55. Nel corso di un mese intero, conosce così sette aspetti
diversi, chiamati cpdaeis [fasi]: quando nasce, quando diventa
S ixótohos, quando diventa àncpiKupxoj [con due corni],
denuo 5 ixótoho$, et cum ad nos luminis uniuersitate priuatur.
56. ’AucpiKUpfos est autem cum supra diametrum dichotomi
antequam orbis conclusione cingatur uel de orbe iam minuens
inter medietatem ac plenitudinem insuper mediam luminis
curuat eminentiam.
57. Sol quoque ipse de quo uitam omnia mutuantur, septi
mo signo uices suas uariat. Nam a solstitio hiemali ad aestiuum
solstitium septimo peruenit signo, et a tropico uerno usque ad
auctumnale tropicum septimi signi peragratione perducitur.
58. Tres quoque conuersiones lucis aetheriae per hunc
numerum constat. Est autem prima maxima, secunda media,
minima est tertia; et maxima est anni secundum solem, media
mensis secundum lunam, minima diei secundum ortum et
occasum. 59. Est uero una quaeque conuersio quadripartita, et
ita constat septenarius numerus, id est ex tribus generibus
conuersionum et ex quattuor modis quibus una quaeque
conuertitur. Hi sunt autem quattuor modi: fit enim prima
humida, deinde calida, inde sicca et ad ultimum frigida. 60. Et
maxima conuersio, id est anni, humida est uerno tempore, cali
da aestiuo, sicca autumno, frigida per hiemem. Media autem
conuersio, mensis per lunam, ita fit ut prima sit hebdomas
humida, quia nascens luna humorem adsolet concitare; secun
da calida, adolescente in eadem luce de solis aspectu; tertia
sicca, quasi plus ab ortu remota; quarta frigida, deficiente iam
lumine. Tertia uero conuersio, quae est diei secundum ortum
et occasum, ita disponitur quod humida sit usque ad primam
de quattuor partibus partem diei, calida usque ad secundam,
sicca usque ad tertiam, quarta iam frigida.
61. Oceanus quoque in incremento suo hunc numerum
tenet. Nam primo nascentis lunae die fit copiosior solito,
minuitur paulisper secundo, minoremque eum uidet tertius
quando è piena, viceversa quando ridiventa cxuqnKupTOj, e
quindi di nuovo SixÓTopos e, infine, quando non c’invia più
alcuna luce. 56. La si chiama cxnqnKupTos, quando, essendo
crescente, supera il diametro del dichotomos pur non essendo
ancora divenuta piena, o quando, nella sua fase già calante, tra
la metà e la pienezza, s’incurva con una parte illuminata mag
giore della sua metà 133.
57. Anche il sole, da cui tutto trae vita, regola le sue varia
zioni periodiche ad ogni settimo segno. Infatti è arrivato al set
timo segno, quando il solstizio d’estate succede a quello d’in
verno e parimenti, durante la rivoluzione del settimo segno, l’e
quinozio di autunno prende il posto di quello di primavera.
58. Questo numero influisce anche sui tre cicli della luce
eterea. Il primo è quello massimo, il secondo è quello medio e
il terzo è il minimo. Quello massimo è annuale, secondo il
corso del sole; il secondo o medio è mensile e secondo il corso
della luna; il terzo, che è anche il minimo, è la rivoluzione diur
na, dal sorgere al tramonto del sole. 59. D ’altra parte, ciascuno
di questi tre cicli è quadripartito e così risulta il numero sette,
ossia dalla somma dei tre tipi di ciclo e delle quattro fasi in cui
avviene ogni ciclo. Le quattro fasi sono queste: un ciclo è al
principio umido, poi caldo, quindi secco e, per ultimo, freddo.
60. Il ciclo massimo, cioè annuo, è umido in primavera, caldo
in estate, secco in autunno e freddo in inverno. La prima ebdo
made del ciclo mensile, quello medio regolato dalla luna, è
umida, perché la luna nascente mette sempre in movimento le
sostanze acquose; la seconda settimana è calda, perché la luna
riceve allora dal sole una parte maggiore di luce; la terza è
secca, perché la luna, durante questo periodo, si trova nella
parte opposta a quella che l’ha vista nascere; infine, la quarta
settimana è fredda, perché la luce della luna comincia ormai a
scemare. In quanto al terzo ciclo, quello della rivoluzione diur
na dall’alba al tramonto, esso è disposto in modo che la prima
delle quattro parti del giorno sia umida, calda durante il secon
do quarto, secca durante il terzo e, infine, fredda durante l’ul
timo quarto.
61. Anche l’oceano tiene nel debito conto il numero sette.
Infatti, le sue acque, giunto il giorno della luna nuova, sono più
copiose del solito, nel secondo giorno diminuiscono un po’, nel
quam secundus, et ita decrescendo ad diem septimum perue-
nit. Rursus octauus dies manet septimo par et nonus fit similis
sexto, decimus quinto, et undecimus fit quarto par tertioque
duodecimus, et tertius decimus similis fit secundo, quartus
decimus primo. Tertia uero hebdomas eadem facit quae prima;
quarta, eadem quae secunda.
62. Hic denique est numerus qui hominem concipi, forma
ri, edi, uiuere, ali ac per omnes aetatum gradus tradi senectae
atque omnino constare facit. Nam ut illud taceamus quod ute
rum nulla ui seminis occupatum hoc dierum numero natura
constituit uelut decreto exonerandae mulieris uectigali mense
redeunte purgari, hoc tamen praetereundum non est quia
semen, quod post iactum sui intra horas septem non fuerit in
effusionem relapsum, haesisse in uitam pronuntiatur.
63. Verum semine semel intra formandi hominis monetam
locato, hoc primum artifex natura molitur ut die septimo folli
culum genuinum circumdet humori ex membrana tam tenui
qualis in ouo ab exteriore testa clauditur et intra se claudit
liquorem. 64. H oc cum a physicis deprehensum sit, H ippo
crates quoque ipse, qui tam fallere quam falli nescit, experi
menti certus adseruit, referens in libro qui De natura pueri
inscribitur tale seminis receptaculum de utero eius eiectum
quam septimo post conceptum die intellexerat. Mulierem
enim, semine non effuso, ne grauida maneret orantem impe-
rauerat saltibus concitari aitque septimo die saltum septimum
eiciendo cum tali folliculo qualem supra rettulimus suffecisse
conceptui. Haec Hippocrates.
terzo sono ancora minori del secondo e la diminuzione prose
gue così di seguito fino al settimo giorno. Viceversa, queste
acque, alzandosi allora di nuovo, sono alla fine dell’ottavo gior
no ciò che erano al principio del settimo, alla fine del nono
sono simili a ciò che erano al principio del sesto, al decimo
sono corrispondenti al quinto, l’undicesimo è uguale al quarto
e il dodicesimo al terzo, e il tredicesimo è simile al secondo, in
modo che alla fine del quattordicesimo giorno sono alla stessa
altezza in cui erano al primo giorno. Questo fenomeno ripete,
durante la terza ebdomade, quello che avviene durante la
prima, e durante la quarta lo stesso che nella seconda.
62. È infine secondo il numero sette che sono regolati gli
stadi della vita dell’uomo: il suo concepimento, la sua forma
zione, la sua nascita, il suo sviluppo e tutti i gradi d’età fino alla
vecchiaia: insomma la sua esistenza 154. Non parleremo del
fatto che, per una legge della natura, l’utero che non è occupa
to da un liquido seminale efficace impiega questo numero di
giorni stabiliti al volgere d’ogni mese per sbarazzarsi del tribu
to al quale la donna è assoggettata come per decreto, tuttavia
una circostanza che non dobbiamo omettere è questa: quando
sono trascorse sette ore dall’eiaculazione del seme ed esso non
si è riversato fuori dall’utero, si dichiara che esso si sia impian
tato per formare la vita.
63. Ma, una volta posto il seme all’interno della matrice che
serve a formare l’uomo, la natura artefice comincia prima di
tutto, il settimo giorno, ad avvolgere il liquido seminale di un
involucro fatto di una membrana tanto sottile quanto quella
che nell’uovo è racchiusa dal guscio esterno e contiene il liqui
do. 64. A sostegno di questo fatto, noto a tutti i fisici, Ippo-
crate per parte sua, tanto incapace di ingannare quanto di sba
gliarsi, ne ha dato una prova sperimentale riferendo, nel suo
trattato intitolato La natura del fanciullo 135, l’espulsione di un
simile embrione dall’utero di una donna che aveva riconosciu
to incinta al settimo giorno dopo il concepimento. Infatti, sic
come il seme non si era riversato fuori, e poiché la donna lo
pregava di evitargli una gravidanza, Ippocrate, allora, le ordi
nò di saltare energicamente e racconta che sette giorni dopo, il
settimo salto fu sufficiente a far staccare l’ovulo dalla matrice,
col tegumento che abbiamo appena descritto. Tale è il raccon
to di Ippocrate.
65. Straton uero Peripateticus et Diocles Carystius per sep
tenos dies concepti corporis fabricam hac obseruatione
dispensant, ut hebdomade secunda credant guttas sanguinis in
superficie folliculi de quo diximus apparere, tertia demergi eas
introrsum ad ipsum conceptionis humorem, quarta humorem
ipsum coagulari ut quiddam uelut inter carnem ac sanguinem
liquida adhuc soliditate conueniat, quinta uero interdum fingi
in ipsa substantia humoris humanam figuram, magnitudine
quidem apis, sed ut in illa breuitate membra omnia et designa
ta totius corporis liniamenta consistant. 66. Ideo autem adieri
mus ‘interdum’ quia constat quotiens quinta hebdomade fingi
tur designatio ista membrorum, mense septimo maturari par
tum. Cum autem nono mense absolutio futura est, si quidem
femina fabricatur, sexta hebdomade membra iam diuidi; si
masculus septima.
67. Post partum uero, utrum uicturum sit quod effusum est,
an in utero sic praemortuum ut tantum modo spirans nascatur,
septima hora discernit. Vitra hunc enim horarum numerum,
quae praemortua nascuntur aeris halitum ferre non possunt.
Quem quisquis ultra septem horas sustinuerit, intellegitur ad
uitam creatus, nisi alter forte, qualis perfectum potest, casus
eripiat. 68. Item post dies septem iactat reliquias umbilici, et
post bis septem incipit ad lumen uisus moueri eius, et post sep
ties septem libere iam et pupulas et totam faciem uertit ad
motus singulos uidendorum.
69. Post septem uero menses dentes incipiunt mandibulis
emergere, et post bis septem sedet sine casus timore. Post ter
septem sonus eius in uerba prorumpit, et post quater septem
65. Il peripatetico Stratone e Diocle di Caristo 136 organiz
zano il modo di formazione del corpo, dopo il concepimento,
in periodi di sette giorni, sulla base delle osservazioni seguen
ti: durante la seconda ebdomade pensano che appaiano sulla
superficie dell’embrione sopra menzionato delle gocce di san
gue; nel corso della terza, penetrano nell’interno per congiun
gersi al liquido del concepimento; lo stesso liquido si coagula
durante la quarta settimana per prendere una consistenza
intermedia tra la carne e il sangue, ancora per metà liquida e
per metà solida; ma, durante la quinta settimana, capita talvol
ta che all’interno di questa stessa sostanza umorale si pronun
ci una forma umana, la cui dimensione è allora quella di un’a
pe, ma tale che si possano distinguere, pur in quella piccolez
za, tutte le membra e i contorni ben disegnati del corpo
umano. 66. Se abbiamo qui aggiunto il termine «talvolta», è
perché è un fatto risaputo che ogni qual volta si delinea questa
configurazione precoce, nella quinta ebdomade, è il pronosti
co del parto a sette mesi. Perché, nel caso di una gestazione di
nove mesi, la forma esterna delle membra si distingue bene
solamente verso la fine della sesta settimana, se l’embrione è
femmina, e alla fine della settima, se si tratta di un maschio.
67. Solo sette ore dopo il parto, si può stabilire se il neona
to vivrà, o se, essendo già morto nell’utero, il suo primo soffio
è stato il suo ultimo respiro. Infatti, oltre a questo numero di
ore, è noto che gli esseri che sono venuti alla luce agonizzanti
non possono sopportare la pressione dell’aria. Chi la sopporta
oltre alle sette ore, mostra di essere fatto per vivere, salvo che
non lo porti via uno di quegli altri accidenti, sempre possibili
anche ad un bambino già completo. 68. E dopo il settimo gior
no ancora che gli si staccano i resti del cordone ombelicale.
Dopo due volte sette giorni, i suoi occhi cominciano ad essere
sensibili all’azione della luce, e dopo sette volte sette giorni
volge infine liberamente le sue pupille e tutto quanto il suo
volto per seguire i diversi movimenti degli oggetti visibili.
69. A sette mesi compiuti, i suoi denti cominciano a spun
tare dalle mandibole, e alla fine di due volte sette mesi si siede
senza timore di cadere. Dopo tre volte sette mesi, i suoni che
emette sono articolati in parole e, trascorsi quattro volte sette
mesi, il bambino non solo si tiene in piedi con sicurezza, ma
non solum stat firmiter, sed et incedit. Post quinquies septem
incipit lac nutricis horrescere, nisi forte ad patientiam longio
ris usus continuata consuetudine protrahatur.
70. Post annos septem dentes qui primi emerserant aliis
aptioribus ad cibum solidum nascentibus cedunt, eodemque
anno, id est septimo, plene absoluitur integritas loquendi:
unde et septem uocales literae a natura dicuntur inuentae, licet
latinitas, easdem modo longas modo breues pronuntiando,
quinque pro septem tenere maluerit, apud quos tamen, si
sonos uocalium, non apices numeraueris, similiter septem
sunt.
71. Post annos autem bis septem ipsa aetatis necessitate
pubescit. Tunc enim moueri incipit uis generationis in mascu
lis et purgatio feminarum. Ideo et tutela puerili quasi uirile iam
robur absoluitur, de qua tamen feminae, propter uotorum
festinationem, maturius biennio legibus liberantur.
72. Post ter septenos annos genas flore uestit iuuenta,
idemque annus finem in longum crescendi facit: et quarta
annorum hebdomas impleta in latum quoque crescere ultra
iam prohibet.
73. Quinta omne uirium, quantae inesse uni cuique pos
sunt, complet augmentum, nulloque modo iam potest quis
quam se fortior fieri. Inter pugiles denique haec consuetudo
seruatur ut, quos iam coronauere uictoriae, nihil de se amplius
in incremento uirium sperent, qui uero expertes huius gloriae
usque illo manserunt, a professione discedant.
74. Sexies uero septeni anni seruant uires ante collectas, nec
diminutionem nisi ex accidenti euenire patiuntur. Sed a sexta
usque ad septimam septimanam fit quidem diminutio, sed
occulta et quae detrimentum suum aperta defectione non pro
dat. Ideo nonnullarum rerum publicarum hic mos est, ut post
sextam ad militiam nemo cogatur; in pluribus datur remissio
iusta post septimam.
anche i suoi passi sono decisi. Quando ha raggiunto cinque
volte sette mesi, il bimbo prova un principio di disgusto per il
latte della sua nutrice e se lo tollera per un più lungo periodo
di tempo è solamente per la forza dell’abitudine.
70. A sette anni compiuti, i suoi denti spuntati per primi
sono sostituiti da altri più adatti alla masticazione di cibi soli
d i137 ed è anche a questa età, cioè nel settimo anno, che il
bimbo impara a parlare chiaramente. Ecco ciò che ha fatto dire
che le sette vocali sono state inventate dalla natura, sebbene il
numero sette si riduca a cinque tra i Latini che le pronunciano
ora brevi e ora lunghe. Tuttavia anche presso i Latini se ne tro
verebbero sette, se si avesse riguardo al numero non delle let
tere scritte, ma del suono delle vocali 138.
71. Alla fine di due volte sette anni, come la sua età esige, si
manifesta la pubertà. E allora, in effetti, che si mette in moto la
capacità di generare nel maschio e il flusso mestruale nella fem
mina. E per ciò che questa forza, che è ormai quasi quella viri
le, viene liberata dalla tutela della fanciullezza; ciononostante
le leggi hanno anticipato di due anni questa liberazione in favo
re delle femmine, a causa della precocità in cui si sposano.
72. Compiuti tre volte sette anni, si vede la barba sostituire
la peluria sulle guance dei giovani che smettono, in quello stes
so anno, anche di crescere in altezza e, compiuta la quarta
ebdomade in anni, non è più possibile crescere in robustezza.
73. La quinta ebdomade d’anni porta a termine la pienezza
della forza muscolare, ossia quella che può disporre un indivi
duo, e in nessun modo può irrobustirsi ulteriormente. SÌ è
mantenuta tra i pugili questa consuetudine: quelli che la vitto
ria ha incoronato non hanno la pretesa di diventare più robu
sti e quelli che non sono stati ancora vincitori a quell’età
abbandonano questa professione.
74. Nei sei volte sette anni, si conserva la forza in preceden
za accumulata e non vi è nessun declino, se non per accidente.
Ma, dalla sesta alla settima ebdomade, avviene un declino, in
un modo lento e impercettibile, tale da non rivelare aperta
mente questa diminuzione di forze. Per questo c’è l’uso, in un
certo numero di stati, di non chiamare nessuno sotto le armi
dopo la sesta ebdomade, ma, in molte altre nazioni, non si
ottiene questo congedo se non dopo la settima ebdomade.
75. Notandum uero, quod, cum numerus septem se multi-
plicat, facit aetatem quae proprie perfecta et habetur et dicitur,
adeo ut illius aetatis homo, utpote qui perfectionem et adtige-
rit iam et necdum praeterierit, et consilio aptus sit nec ab exer
citio uirium alienus habeatur.
76. Cum uero decas, qui et ipse perfectissimus numerus est
perfecto numero id est éirraSi, iungitur ut aut decies septeni
aut septies deni computentur anni, haec a physicis creditur
meta uiuendi, et hoc uitae humanae perfectum spatium termi
natur. Quod quisquis excesserit, ab omni officio uacuus, soli
exercitio sapientiae uacat, .et omnem usum sui in suadendo
habet, aliorum munerum uacatione reuerendus: a septima
enim usque ad decimam septimanam, pro captu uirium quae
adhuc singulis perseuerant uariantur officia.
77. Idem numerus totius corporis membra disponit.
Septem sunt enim intra hominem quae a Graecis nigra mem
bra uocitantur: lingua, cor, pulmo, iecur, lien, renes duo; et
septem alia, cum uenis ac meatibus quae adiacent singulis, ad
cibum et spiritum accipiendum reddendumque sunt deputata:
guttur, stomachus, aluus, uesica et intestina principalia tria,
quorum unum dissiptum uocatur, quod uentrem et cetera inte
stina secernit, alterum medium, quod Graeci u e o e v x E p o v
dicunt, tertium, quod ueteres hiram uocarunt habeturque
praecipuum intestinorum omnium, et cibi retrimenta deducit.
78. De spiritu autem et cibo, quibus accipiendis, ut relatum
est, atque reddendis membra quae diximus cum meatibus sibi
adiacentibns obsequuntur, hoc obseruatum est quod sine hau
stu spiritus ultra horas septem, sine cibi, ultra totidem dies uita
non durat.
79. Septem sunt quoque gradus in corpore qui dimensio
nem altitudinis ab imo in superficiem complent, medulla, os,
neruus, uena, arteria, caro, cutis. Haec de interioribus.
75. Ma va qui osservato che quest’epoca della vita, prodot
to di sette per sette, è la più perfetta di tutte e difatti l’uomo a
questa età ha raggiunto il più alto punto di perfezione di cui sia
suscettibile e le sue facoltà, non avendo ancora subito altera
zioni, sono considerate mature nei ragionamenti, senza essere
ancora considerate inadatte all’azione fisica.
76. Ma quando la decade, numero esso stesso perfettissimo,
si congiunge ad un numero tanto perfetto, cioè l’ÉTrTas [ebdo
made] , questo risultato di dieci volte sette o di sette volte dieci
anni, è, a giudizio dei fisici, il limite della nostra esistenza e il
numero che limita l’estensione perfetta della vita umana. Pas
sata questa età, l’uomo è esonerato da ogni funzione pubblica
e si dedica esclusivamente all’esercizio della saggezza; tutto il
suo impegno sta nel convincere gli altri ed è onorato con l’e
senzione da ogni altro dovere sociale. Infatti, dalla settima alla
decima ebdomade di anni, i compiti assegnati variano secondo
le forze fisiche di cui può disporre il singolo individuo.
77. Gli organi del corpo umano sono ugualmente ordinati
sulla base di questo numero. Vi sono, infatti, nell’interno del
l’uomo, sette organi ‘neri’ come dicono i Greci, ossia: lingua,
cuore, polmone, fegato, milza e i due reni. Sette altri, compre
so le vene e i canali attigui a ciascuno di essi, sono deputati a
ricevere ed espellere cibo e aria, cioè: gola, stomaco, ventre,
vescica e i tre principali intestini di cui uno si chiama dissiptum
[diaframma] e separa il ventre dal resto degli intestini, il secon
do è il medium [intestino medio], chiamato dai Greci neaevre-
po$, il terzo è quello che gli antichi chiamarono hira [intestino
tenue] 139, considerato il più importante degli intestini che
espelle i residui dei cibi.
78. Al riguardo di aria e di cibo, di assorbimento e di espul
sione dei quali, come abbiamo detto, sono adibiti gli organi in
precedenza menzionati con i condotti vascolari loro adiacenti,
si è osservato che, senza immissione d’aria, la vita non si pro
lunga oltre le sette ore e che cessa anche quando il corpo è
stato privato di alimenti per un egual numero di giorni140.
79. Si contano ugualmente sette strati che formano lo spes
sore del corpo dall’interno alla superficie e sono disposti nel
seguente ordine: midollo, ossa, nervi, vene, arterie, carne e
pelle. Questo quanto all’interno del corpo umano.
80. In aperto quoque septem sunt corporis partes, caput,
pectus, manus pedesque et pudendum. Item quae diuiduntur
non nisi septem compagibus iuncta sunt: ut in manibus est
humerus, brachium, cubitus, uola et digitorum nodi terni, in
pedibus uero femur, genu, tibia, pes ipse, sub quo uola est, et
digitorum similiter nodi terni.
81. Et quia sensus eorumque ministeria natura in capite
uelut in arce constituit, septem foraminibus sensuum celebran
tur officia, id est oris ac deinde oculorum, narium et aurium
binis; unde non inmerito hic numerus, totius fabricae dispen
sator et dominus, aegris quoque corporibus periculum sanita-
temue denuntiat. Immo ideo et septem motibus omne corpus
agitatur: aut enim accessio est aut recessio, aut in laeuam dex-
tramue deflexio, aut sursum quis seu deorsum mouetur aut in
orbem rotatur.
82. Tot uirtutibus insignitus septenarius, quas uel de parti
bus suis mutuatur uel totus exercet, iure plenus et habetur et
dicitur. Et absoluta, ut arbitror, ratione iam constitit cur diuer-
sis ex causis octo et septem pleni uocentur. 83. Sensus autem
hic est: cum aetas tua quinquagesimum et sextum annum con-
pleuerit, quae summa tibi fatalis erit, spes quidem salutis
publicae te uidebit et pro remediis communis bonorum
omnium status uirtutibus tuis dictatura debebitur, sed si euase-
ris insidias propinquorum. Nam per «septenos octies solis
anfractus reditusque» quinquaginta et sex significat annos,
anfractum solis et reditum annum uocans: anfractum, propter
zodiaci ambitum, reditum, quia eadem signa per annos singu
los certa lege metitur.
80. Quanto all’esterno del corpo, anche in esso si trovano
sette organi diversi: testa, tronco, mani, piedi e sesso. Si
milmente gli organi che sono divisibili sono uniti da sette lega
menti: nelle mani l’omero, il braccio, il gomito, il palmo e le tre
falangi; nei piedi, il femore, il ginocchio, la tibia, il piede stes
so, sotto di cui si trova la pianta, e ugualmente le tre falangi.
81. E poiché la natura ha posto nella testa, come in una
rocca, i sensi e le loro funzioni, le operazioni dei sensi si svol
gono attraverso sette orifizi: la bocca, i due occhi, le due nari
ci e le due orecchie. E perciò meritatamente giusto che su que
sto numero, governatore e signore di tutta la fabbrica del
corpo umano, si basino i pronostici dell’esito felice o funesto
delle malattie del corpo. Per di più, i movimenti esterni del
corpo umano sono in numero di sette: in avanti o indietro, a
destra o a sinistra, movimento dal basso verso l’alto o dall’alto
verso il basso, moto circolare 141.
82. Distinto da così tante proprietà, che trova nelle sue parti
o che esercita nella sua totalità, il sette è considerato e defini
to, a buon diritto, numero «pieno». Credo che quanto detto, a
mio avviso, dimostri perfettamente perché, per motivi diversi,
l’otto e il sette siano chiamati «pieni». 83. Il senso del passo
citato è quindi questo: quando sarai giunto all’età di cinquan-
tasei anni, prodotto che ti porterà ad un inevitabile destino,
ogni speranza di salute pubblica sarà riposta in te e spetterà
alle tue virtù la dittatura affinché sia ristabilita la sicurezza del
bene generale, a condizione che tu riesca a sfuggire alle insidie
dei tuoi parenti. Difatti, «otto volte sette giri e ritorni del sole»
equivalgono a cinquantasei anni, poiché «giro e ritorno del
sole» designa l’anno: «giro» perché quest’astro fa il giro intero
dello zodiaco, «ritorno» perché è costretto, da una legge stabi
lita, a percorrere ogni anno gli stessi segni.
Fig. 07
Incisione tratta dall’edizione la Diagramma ritraente i quattro
tina di Macrobius, In Somnium Sci elementi e le loro qualità, da M acro
pionis, Angeli Britannici, Brixiae bius, Commentarii in Somnium Sci
(Brescia), 1501. pionis (NKS 218 4°), manoscritto su
pergamena (ca, 1150, Francia m eri
dionale?), particolare del fol. 3r,
Copenhagen, Det Kongelige Biblio-
tek.
E n orA O /L N Fig. 08
& Vili-Vini xn
Diagramma ritraente la tavola
mostrata dal giovinetto a Pitagora
nella Scuola d ’A tene di Raffaello,
tratto da Giovanni Battista Bellori,
Descrizione delle immagini dipinte
da Raffaello D ’Urbino. N el palazzo
Vaticano, e nella farnesina alla
Lungara, con alcuni ragionamenti in
onore delle sue opere, e della pittura,
e scultura , appresso gli eredi del q,
Gio. Lorenzo Barbiellini stampatori
e mercanti di libri a Pasquino, in
Roma, 1751,
iA i
epogdoos
V..
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1 ]
I [ t
I 1 t
Fig. 09 Fig. 10
Particolare della Scuola d’A tene Diagramma dell’epogdo. In esso,
di Raffaello, 1509-1510, Roma, come si mostra con chiarezza nelle
Palazzo Vaticano, Stanza della Se figure precedenti, si propone la suddi
gnatura. La lavagna nera che è visione tipicamente pitagorica dell’ot
accanto a Pitagora mostra un dia tava, che prevede due intervalli di quar
gramma con i rapporti musicali (dia- ta (tetracordi) separati da un tono detto
tessaron , diapente, diapason ) e con la tono di disgiunzione contrassegnato
cosiddetta tetraktys, cioè l’insieme con il piccolo arco nella parte superio
dei numeri su cui doveva basarsi re. Il termine epogdoon indica in effetti
l’armonia dell’universo. il rapporto di 9/8 che caratterizza il
tono intero pitagorico. I numeri nella
parte superiore 6, 8, 9, 12 indicano la
forma in cui venivano caratterizzate nel
pitagorismo lottava, la quinta, la quar
te e la fondamentale e com e variante ri
spetto ai numeri 1, 2, 3,4, il cosiddetto
quaternario che viene proposto nella
forma simbolica della tetraktys traccia
ta alla base del grafico.
Fig. I l e Fig. 12
Diagramma ritraente la monade
con la discesa dei numeri pari e dispari,
da Macrobius, Commentarii in Som
nium Scipionis (NKS 218 4°), mano
scritto su pergamena (ca. 1150, Francia
meridionale?), particolare del fol. 30v,
Copenhagen, Det KongeKge Bibliotek.
(in basso) Lo stesso diagramma
nell’incisione a stampa dell’edizione
latina di Macrobius, In Somnium Sci
pionis, Angeli Britannici, Brixiae, 1501.
7. 1. Hic quidam mirantur quid sibi uelit ista dubitatio, «si
effugeris. .. ». Quasi potuerit diuina anima et olim caelo reddita
atque hinc maxime scientiam futuri professa nescire, possitne
nepos suus an non possit euadere! Sed non aduertunt hanc
habere legem omnia uel signa uel somnia, ut de aduersis obli
que aut denuntient aut minentur aut moneant. 2. Et ideo quae
dam cauendo transimus, alia exorando et litando uitantur.
Sunt ineluctabilia, quae nulla arte, nullo auertuntur ingenio.
Nam ubi admonitio est, uigilantia cautionis euaditur; quod
adportant minae, litatio propitiationis auertit; numquam
denuntiata uanescunt.
3. Hic subicies: unde igitur ista discernimus, ut possit
cauendumne an exorandum an uero patiendum sit deprehen
di? Sed praesentis operis fuerit insinuare qualis soleat in diui-
nationibus esse affectata confusio, ut desinas de inserta uelut
dubitatione mirari; ceterum in suo quoque opere artificis erit
signa quaerere, quibus ista discernat, si hoc uis diuina non
inpedit. Nam illud:
... prohibent nam cetera Parcae
scire...
sed aut suum oberrat cadauer aut noui corporis ambit habita
culum, non humani tantummodo, sed ferini quoque, electo
9. 1. Al riguardo della frase di Cicerone «coloro che reggo
no gli Stati e ne custodiscono gli ordinamenti come sono partiti
di qui’ così poi vi ritornano» essa va interpretata in questo
modo. E opinione costante, tra i veri filosofi, che l ’anima trae
la sua origine dal cielo 160; la perfetta sapienza dell’anima, fin
ché è unita al corpo, consiste nel riconoscere da dove sia nata
e da quale fonte è venuta. 2. Perciò un poeta, in un contesto di
detti allegri e satirici, ha inserito come sentenza seria la frase
seguente:
dal cielo discese il yvcòOi oectutóv. ^1
13. Haec est igitur naturalis uere mors, cum finem corporis
solus numerorum suorum defectus adportat, non cum extor
quetur uita corpori adhuc idoneo ad continuationem ferendi.
Nec leuis est differentia uitam uel natura uel sponte soluendi.
14. Anima enim, cum a corpore deseritur, potest in se nihil
retinere corporeum, si se pure, cum in hac uita esset, instituit.
Cum uero ipsa de corpore uiolenter extruditur, quia exit rupto
uinculo, non soluto, fit ei ipsa necessitas occasio passionis, et
malis uinculi, dum rumpit, inficitur.
15. Hanc quoque superioribus adicit rationem non sponte
pereundi: cum constet, inquit, remunerationem animis illic
esse tribuendam pro modo perfectionis ad quam in hac uita
una quaeque peruenit, non est praecipitandus uitae finis cum
adhuc proficiendi esse possit accessio. 16. Nec frustra hoc dic
tum est. Nam in arcanis de animae reditu disputationibus fer
tur in hac uita delinquentes similes esse super aequale solum
cadentibus, quibus denuo sine difficultate praesto sit surgere;
animas uero ex hac uita cum delictorum sordibus recedentes
aequandas his qui in abruptum ex alto praecipitique delapsi
sint, unde numquam facultas fit resurgendi. Ideo ergo uten
dum concessis uitae spatiis ut sit perfectae purgationis maior
facultas.
corpo 230. È difatti risaputo che è un rapporto numerico preciso
e determinato che associa le anime ai corpi231. Finché sussisto
no questi numeri, il corpo continua ad essere animato, ma quan
do questi fanno difetto, subito si dissolve quell’arcana forza che
tiene in vita quest’associazione stessa: è ciò a cui diamo il nome
di «fato» o «momento fatale per la vita». 12. L’anima in sé, quin
di, non viene mai meno, essendo immortale e sempiterna, ma il
corpo si dissolve quando si compie il ciclo dei numeri; non è l’a
nima che si stanca di animarlo, è il corpo, bensì, che abbando
na il suo compito, quando non può ormai più essere a lungo ani
mato. Donde l’espressione del sapientissimo vate:
... compirò il numero, scomparirò nelle tenebre. 232
14. 1 . Sed illa uerba quae praeter hoc sunt inserta repeta
mus. «Homines enim sunt hac lege generati qui tuerentur illum
globum, quem in templo hoc medium uides, quae terra dicitur;
hisque animus datus est ex illis sempiternis ignibus, quae sidera
et stellas uocatis; quae globosae et rotundae, diuinis animatae
mentibus, circos suos orbesque conficiunt celeritate mirabili.»
2. De terra cur globus dicatur in medio mundo positus, ple
nius disseremus cum de nouem sphaeris loquemur. Bene
autem uniuersus mundus dei templum uocatur, propter illos
17. Allora, dirai, chi si è ormai perfettamente purificato,
deve uccidersi, poiché non ha più motivi per restare sulla terra,
perché chi ha già raggiunto uno stato superiore non può aspi
rare a un ulteriore miglioramento. Ma il fatto stesso di darsi
una fine rapida nella speranza di assaporare la beatitudine, lo
avvince alla trappola della passione, giacché la speranza, come
il timore, è nondimeno una passione; perciò ne consegue che
questo uomo va incontro agli altri inconvenienti di cui si è fatto
sopra menzione. 18. Ecco perché Paolo Emilio dissuade e
respinge il figlio che, nella speranza di una vita più autentica,
ha fretta di raggiungerlo: non vuole che questo prematuro
desiderio di liberazione e di ascensione lo incateni o lo tratten
ga ancor di più per questa stessa passione. Non dice, inoltre, a
Scipione che, «a meno che non sopravvenga una morte natura
le, non potrà morire», ma gli dice che senza di essa «non potrà
essere ammesso in quel luogo». 19. «Se non ti avrà liberato da
questi legami corporei quel dio che governa tutto il tempio cele
ste che vedi, non può accadere che a te sia permesso l’accesso
quassù», dice perché egli sa, per essere già stato ricevuto in
cielo, che l’accesso a questa dimora celeste non è aperto se non
alla perfetta purezza. Con uguale fermezza, non bisogna teme
re la morte che sopraggiunge secondo natura, né si deve farla
venire forzatamente, contro l’ordine naturale.
20. Grazie a ciò che abbiamo appena esposto delle dottrine
di Platone e di Plotino sul suicidio, nessuna delle espressioni
con cui Cicerone lo proibisce resterà oscura.
et reliqua.
15. Secundum haec ergo, cum ex summo deo mens, ex
mente anima sit, anima uero et condat et uita compleat omnia
quae sequuntur, cunctaque hic unus fulgor illuminet et uniuer-
sis appareat, ut in multis speculis per ordinem positis uultus
12. Giacché se in essi vi è alcunché che sembra presentare
qualche somiglianza con la ragione, non di essa si tratta, ma di
memoria, e non di quella mescolata alla ragione, ma di memo
ria che si accompagna all'ottusità dei cinque sensi. Ma qui non
aggiungiamo altro, perché esula dal nostro argomento.
13. La terza categoria dei corpi terrestri è quella delle pian
te e dei vegetali che, privi sia della ragione sia della percezione,
dispongono soltanto della facoltà di crescere e per questa sola
parte dell’anima si dice che vivano.
14. E questa stessa gerarchia degli esseri anche Virgilio l’ha
evocata. Egli infatti attribuì l ’anima al mondo e, per affermar
ne la purezza, la chiamò intelletto. Infatti dice che il cielo, le
terre, i mari e gli astri
vivifica l’intimo soffio ,. 245
e aggiunge, per far vedere che tutto ciò che esiste risulta da
questa stessa anima e ne è animato:
di qui la razza degli uomini e gli arm enti... 248
e così via.
15. Di conseguenza, poiché, in base a questa ipotesi, l’intel
letto procede dal Dio supremo e l’Anima dall’intelletto e poi
ché, inoltre, l’Anima organizza e riempie di vita l’insieme degli
esseri che vengono dopo di essa e poiché quest’unico splendo
re le illumina tutte e si riflette in questo insieme, come un’uni
ca figura sembra moltiplicarsi in una serie di specchi 250 posti
unus, cumque omnia continuis successionibus se sequantur
degenerantia per ordinem ad imum meandi, inuenietur pres
sius intuenti a summo deo usque ad ultimam rerum faecem
una mutuis se uinculis religans et nusquam interrupta conexio;
et haec est Homeri catena aurea, quam pendere de caelo in ter
ras deum iussisse commemorat.
16. His ergo dictis, solum hominem constat ex terrenis
omnibus mentis, id est animi, societatem cum caelo et sideri
bus habere communem. Et hoc est quod ait: «hisque animus
datus est ex illis sempiternis ignibus, quae sidera et stellas uoca-
tis.» 17. Nec tamen ex ipsis caelestibus et sempiternis ignibus
nos dicit animatos — ignis enim ille, licet diuinum, tamen cor
pus est, nec ex corpore quamuis diuino possemus animari —
sed unde ipsa illa corpora, quae diuina et sunt et uidentur, ani
mata sunt, id est ex ea mundanae animae parte quam diximus
de pura mente constare. 18. Et ideo postquam dixit: «hisque
animus datus est ex illis sempiternis ignibus, quae sidera et stel
las uocatis», mox adiecit: «quae diuinis animatae mentibus», ut
per sempiternos ignes corpus stellarum, per diuinas uero men
tes earum animas manifesta discretione significet, et ex illis in
nostras uenire animas uim mentis ostendat.
19. Non ab re est ut haec de anima disputatio in fine sen
tentias omnium qui de anima uidentur pronuntiasse contineat.
Platon dixit animam essentiam se mouentem, Xenocrates
numerum se mouentem, Aristoteles èvteàéxeiocv, Pythagoras
et Philolaus apuoviav, Posidonius ideam, Asclepiades quin
que sensuum exercitium sibi consonum, Hippocrates spiritum
tenuem per corpus omne dispersum, Heraclides Ponticus
lucem, Heraclitus physicus scintillam stellaris essentiae, Zenon
concretum corpori spiritum, Democritus spiritum insertum
uno dietro l’altro per ripeterne l’immagine, e poiché tutto si
sussegue in una sequenza non interrotta di esseri, che vanno
degradandosi sempre di più discendendo verso il basso, si sco
prirà, osservando più attentamente, che, a partire dal Dio
supremo fino alla più infima feccia dell’universo, tutto si tiene,
si unisce e si abbraccia con legami vicendevoli ed indissolubi
li. E la catena aurea di Omero che il dio ha ordinato di far pen
dere dal cielo alla terra, come narra il poeta 251.
16. Da questa esposizione risulta dunque che l ’uomo è il
solo essere sulla terra a condividere col cielo e con gli astri l’in
telletto, cioè l’«animo». E ciò che fa dire a Paolo le seguenti
parole: «ad essi viene fornita un’anima presa dai fuochi sempi
terni cui voi date nome di astri e stelle» 252. 17. Questo modo di
parlare non significa tuttavia che noi siamo animati «da» que
gli stessi fuochi celesti e sempiterni — perché il fuoco, benché
divino, è pur sempre un corpo, e noi non possiamo essere ani
mati da alcun corpo, per quanto divino — , ma bisogna inten
dere con ciò che abbiamo ricevuto l’anima «da là dove» quei
corpi stessi, che sono e appaiono divini, hanno preso la loro,
cioè da quella parte dell’Anima cosmica che abbiamo detto
essere costituita di puro intelletto. 18. Per questo, dopo le
parole: «ad essi viene fornita un’anima presa dai fuochi sempi
terni cui voi date nome di astri e stelle», aggiunge: «animati da
intelligenze divine», volendo così, attraverso questa chiara
distinzione, designare con fuochi sempiterni, i corpi delle stelle
e, con intelligenze divine, le loro anime, e mostrare che il pote
re dell’intelletto di cui dispongono le nostre anime emana da
queste ultime 253.
19. Non è inopportuno in questa dissertazione sull’anima,
terminare con le teorie di tutti coloro che, a quanto è risaputo,
hanno trattato questo argomento. Platone ha affermato che l’a
nima è un’essenza automoventesi 254; Senocrate 255, un numero
automoventesi; Aristotele la chiama èvteàéxeicx 256; Pitagora e
Filolao 257 la chiamano àpuovia; è un’idea, secondo Posido
nio 258; Asclepiade 259 dice che è l’esercizio armonioso dei cin
que sensi; per Ippocrate 260 è un soffio sottile diffuso in tutto il
corpo; l’anima, a detta di Eraclide Pontico 261, è una luce;
secondo Eraclito 262 il fisico, è una scintilla dell’essenza stella-
re; Zenone 263 la ritiene un soffio condensatosi nel corpo; De-
atomis hac facilitate motus ut corpus illi omne sit peruium, 2 0 .
Critolaus Peripateticus constare eam de quinta essentia, Hip
parchus ignem, Anaximenes aera, Empedocles et Critias san
guinem, Parmenides ex terra et igne, Xenophanes ex terra et
aqua, Boethos ex aere et igne, Epicurus speciem ex igne et aere
et spiritu mixtam. Obtinuit tamen non minus de incorporalita
te eius quam de immortalitate sententia.
2 1 . Nunc uideamus quae sint haec duo nomina quorum
pariter meminit, cum dicit: «quae sidera et stellas uocatis».
Neque enim hic res una gemina appellatione monstratur, ut
ensis et gladius, sed sunt stellae quidem singulares, ut erraticae
quinque, ut ceterae quae non admixtae aliis solae feruntur;
sidera uero, quae in aliquod signum stellarum plurium compo
sitione formantur, ut Aries, Taurus, ut Andromeda, Perseus uel
Corona, et quaecumque uariarum genera formarum in caelum
recepta creduntur. Sic et apud Graecos à o T r i p et à a T p o v
diuersa significant, et à c n f | p stella una est, a c r r p o v signum
stellis coactum, quod nos sidus uocamus.
2 2 . Cum uero stellas globosas et rotundas dicat, non singu
larium tantum exprimit speciem, sed et earum quae in signa
formanda conueniunt. Omnes enim stellae inter se, etsi in
magnitudine aliquam, nullam tamen habent in specie differen
tiam. Per haec autem duo nomina solida sphaera describitur,
quae nec ex globo, si rotunditas desiteretur, nec ex rotundita
te, si globus desit, efficitur, cum alterum forma, alterum solidi
tate corporis deseratur.
23. Sphaeras autem hic dicimus ipsarum stellarum corpora,
quae omnia hac specie formata sunt. Dicuntur praeterea
sphaerae et ÓTTÀavris illa, quae maxima est, et subiectae sep
tem, per quas duo lumina et uagae quinque discurrunt.
mocrito ZM, un soffio inserito negli atomi e dotato di una mobi
lità che gli consente d’insinuarsi in ogni corpo; 2 0 il peripateti
co Critolao 265 ha sostenuto che essa era composta d’una quin
tessenza; Ipparco la vede composta di fuoco 266; Anassime-
ne267, d’aria; Empedocle 268 e Crizia 269, di sangue; Parmeni-
de270, un composto di terra e di fuoco; Senofane 271, di terra e
d’acqua; Boeto 272, d’aria e di fuoco; è, secondo Epicuro 273,
una forma mista, composta di fuoco, aria e spirito. Tuttavia l’o
pinione che è prevalsa la ritiene non meno immateriale che
immortale.
21. Consideriamo adesso 274 i due termini che Cicerone
menziona insieme quando dice: «cui voi date nome di astri e
stelle». Non si tratta, infatti, qui di una sola e medesima cosa
designata con due sinonimi, come «spada» e «gladio» 275.
Infatti, le stelle sono a sé stanti, come i cinque pianeti e come
tutti gli altri corpi erranti che si muovono solitariamente senza
essere in combinazione con altri; gli astri, invece, sono quelli
disposti in modo da formare qualche costellazione con il rag
gruppamento di più stelle, come l’Ariete e il Toro, come An
dromeda, Perseo e la Corona 27é, e tanti altri tipi di figure di
verse, che si crede siano state accolte in cielo. Così anche pres
so i Greci cxoTrip e àoTpov hanno un diverso significato: oc-
OTTjp indica una sola stella, à o T p o v un segno formato dall’ac
costamento di più stelle, che noi chiamiamo costellazione 277.
2 2 . Denominando le stelle come solidi sferici, il padre di
Scipione non intende soltanto la forma delle stelle isolate, ma
anche di quelle che si uniscono per formare i segni. Tutte le
stelle, infatti, anche se differiscono un po’ tra loro per grandez
za, hanno tutte la stessa forma. Queste due qualifiche designa
no invece il solido di forma sferica, che non può essere defini
to semplicemente con la parola «solido» se manca la sfericità,
né dalla parola «sferico» se manca la solidità, perché nel primo
caso mancherebbe al corpo la forma, e, nell’altro, la consisten
za del corpo.
23. Diamo dunque qui il nome di «sfere» ai corpi delle stel
le stesse, che sono tutte formate con questa figura. Sono poi
indicate col termine «sfera», la sfera à T T À c c v ris , che è la più
grande di tutte, e le sette sfere interiori ad essa 278, dove percor
rono la loro corsa i due luminari 279 e i cinque pianeti erranti.
24. Circi uero et orbes duarum sunt rerum duo nomina; et
his nominibus quidem alibi aliter est usus. Nam et orbem pro
circulo posuit, ut «orbem lacteum», et orbem pro sphaera, ut
«nouem tibi orbibus uel potius globis». Sed et circi uocantur qui
sphaeram maximam cingunt, ut eos sequens tractatus inueniet;
quorum unus est lacteus, de quo ait: «inter flammas circus elu
cens». 25. Sed hic horum nihil neque circi neque orbis nomine
uoluit intellegi, sed est orbis in hoc loco stellae una integra et
peracta conuersio, id est ab eodem loco post emensum sphae
rae per quam mouetur ambitum in eundem locum regressus.
Circus est autem hic linea ambiens sphaeram ac ueluti semitam
faciens per quam lumen utrumque discurrit, et intra quam
uagantium stellarum error legitimus coercetur.
26. Quas ideo ueteres errare dixerunt quia et cursu suo
feruntur et contra sphaerae maximae, id est ipsius caeli, impe
tum contrario motu ad orientem ab occidente uoluuntur. Et
omnium quidem par celeritas, motus similis, et idem est modus
meandi, sed non omnes eodem tempore circos suos orbesque
conficiunt. 27. E t ideo est celeritas ipsa mirabilis quia, cum sit
eadem omnium nec ulla ex illis aut concitatior esse possit aut
segnior, non eodem tamen temporis spatio omnes ambitum
suum peragunt. Causam uero sub eadem celeritate disparis
spatii aptius nos sequentia docebunt.
18. 1. Nunc utrum illi septem globi qui subiecti sunt con
trario, ut ait, quam caelum uertitur motu ferantur, argumentis
ad uerum ducentibus requiramus.
2. Solem ac lunam et stellas quinque quibus ab errore
nomen est, praeter quod secum trahit ab ortu in occasum caeli
diurna conuersio, ipsa suo motu in orientem ab occidente pro
cedere, non solis literarum profanis, sed multis quoque doctri
na initiatis, abhorrere a fide ac monstro simile iudicatum est;
sed apud pressius intuentes ita uerum esse constabit ut non
solum mente concipi, sed oculis quoque ipsis possit probari. 3.
Tamen ut nobis de hoc sit cum pertinaciter negante tractatus,
age, quisquis tibi hoc liquere dissimulas, simul omnia quae uel
contentio tibi fingit detractans fidem, uel quae ipsa ueritas sug
gerit, in diuisionis membra mittamus.
4. Has erraticas, cum luminibus duobus, aut infixas caelo,
ut alia sidera, nullum sui motum nostris oculis indicare, sed
ferri mundanae conuersionis impetu, aut moueri sua quoque
accessione dicemus. Rursus, si mouentur, aut caeli uiam secun-
tur ab ortu in occasum, et communi et suo motu meantes, aut
sfera più esterna 334, impiegano un numero di secoli che supe
ra ogni nostra immaginazione per ritornare nel punto da cui
sono partiti; ed è ciò che fa sì che il loro movimento non possa
essere percepito dall’uomo, la cui intera vita non gli è sufficien
te a cogliere nemmeno il più leggero spostamento di una prò-
gressione così lenta 335. 17. Perciò Cicerone, che non ignora
nessuna dottrina approvata dagli Antichi, ha accennato insie
me ad entrambe le opinioni, quando dice «in cui sono confitti
i sempiterni moti circolari delle stelle»-, in questo modo afferma
che sono fisse e tuttavia non tace il fatto che abbiano un loro
movimento.
(Fig. 20)
Modello delle sfere ci
ceroniane del Somnium Sci
pionis, tratto da Das Som
nium Scipionis und Platons
ER-Mythos, a cura di Doro-
thea Kintz (2000):
www.gottwein.de/Lat/cic_
rep/ ref06_somn01.htm.
22. 1. «Nam ea quae est media et nona, tellus, inquit, neque
mouetur et infima est et in eam feruntur omnia nutu suo pondera.»
2 . Illae uere insolubiles causae sunt, quae mutuis in uicem
nexibus uinciuntur, et dum altera alteram facit ac uicissim de
se nascuntur, numquam a naturalis societatis amplexibus sepa
rantur. Talia sunt uincula quibus terram natura constrinxit.
Nam ideo in eam feruntur omnia quia ut media non mouetur;
ideo autem non mouetur quia infima est; nec poterat infima
non esse in quam omnia feruntur. Horum singula, quae insepa
rabiliter inuoluta rerum in se necessitas iunxit, tractatus expe
diat.
3. «Non mouetur», ait. Est enim centron. In sphaera autem
solum centron diximus non moueri, quia necesse est ut circa
aliquid immobile sphaera moueatur.
4. Adiecit: «et infima est». Recte hoc quoque. Nam quod
centron est, medium est. In sphaera uero hoc solum constat
imum esse quod medium est. Et si terra ima est, consequitur ut
uere dictum sit in eam ferri omnia. Semper enim pondera in
imum natura deducit: nam et in ipso mundo, ut esset terra, sic
factum est. 5. Quicquid ex omni materia, de qua facta sunt
omnia, purissimum ac liquidissimum fuit, id tenuit summita
tem et aether uocatus est; pars, cui minor puritas et inerat ali
quid leuis ponderis, aer extitit et in secunda delapsus est; post
haec, quod adhuc quidem liquidum, sed iam usque ad tactus
offensam corpulentum erat, in aquae fluxum coagulatum est.
6 . Iam uero quod de omni siluestri tumultu uastum, inpenetra
bile, densetum, ex defaecatis abrasum resedit elementis, haesit
in imo; quod demersum est stringente perpetuo gelu, quod eli
minatum in ultimam mundi partem longinquitas solis coace-
22 . 1 . «La sfera che è centrale e nona, ossia la Terra, non è
infatti soggetta a movimento, rappresenta la zona più bassa delle
sfere e verso di essa sono attratti tutti i gravi, per una forza che è
loro propria» 413.
2. Veramente indissolubili sono le cause legate da connes
sioni mutue e reciproche; per il fatto che l’una genera l’altra e
che si generano reciprocamente l’una dall’altra, esse non sono
mai separate dalla stretta della loro unione naturale. Tali sono
i vincoli coi quali la natura tenne stretta la terra. Infatti, se tutti
i corpi gravitano su di essa, è perché, essendo situata nel
mezzo, è immobile; se è immobile, è perché occupa la parte più
bassa; e non potrebbe non essere nella parte più bassa, poiché
tutti i corpi sono attratti verso di essa. Queste proprietà, che la
necessità dell’universo, avvolta su se stessa, ha legato indissolu
bilmente, analizziamole una per una nella nostra esposizione.
3. «Non è soggetta a movimento», dice Cicerone. Ed infatti
è il centro. E in una sfera, come abbiamo detto, solo il centro
resta immobile, perché è necessario che si muova intorno ad
un punto fisso 414.
4. Aggiunge: «rappresenta la zona più bassa». Niente di più
giusto. Perché il centro sta nel mezzo. Ora si sa che in una sfera
ciò che sta assolutamente in basso è nel mezzo 415. Se dunque
la terra è la sfera più bassa, di conseguenza Cicerone ha avuto
ragione a dire che tutti i corpi gravitano su di essa. Infatti la
natura dirige sempre i corpi pesanti verso il basso: è anche ciò
che è accaduto nell’universo stesso, perché ci fosse la terra. 5.
Ciò che c’era, nell’insieme della materia, di cui sono fatte tutte
le cose, di più puro e di più limpido guadagnò la regione più
alta e fu chiamato etere; una parte, di un grado minore in
purezza e di un peso leggero, divenne l’aria e scivolò nella
seconda regione; poi, quello che era ancora trasparente, ma
aveva abbastanza densità per essere percepita dal senso del
tatto, si condensò nel flusso acqueo. 6 . Infine, tra tutta questa
materia tumultuosamente agitata, tutta quella parte che grezza,
impenetrabile, spessa, fu, al momento della loro decantazione,
tratta dagli elementi e si depositò, tutto questo sedimento restò
in fondo; quanto fu inghiottito nella stretta di un gelo perpe
tuo, quanto, rigettato nell’ultima regione del mondo, si trovò
accumulato a causa della lontananza dal sole, quanto dunque
ruauit, quod ergo ita concretum est, terrae nomen accepit. 7.
Hanc spissus aer et terreno frigori propior quam solis calori
stupore spiraminis densioris undiqueuersum fulcit et continet,
nec in recessum aut accessum moueri eam patitur uel uis cir-
cumuallantis et ex omni parte uigore simili librantis aurae uel
ipsa sphaeralis extremitas, quae si paululum a medio deuiaue-
rit, fit cuicumque uertici propior et imum relinquit, quod ideo
in solo medio est, quia ipsa sola pars a quouis sphaerae uertice
pari spatio recedit.
8 . In hanc igitur, quae et ima est, quasi media, et non moue
tur, quia centron est, omnia pondera ferri necesse est, quia et
ipsa in hunc locum quasi pondus relapsa est. Argumento sunt,
cum alia innumera, tum praecipue imbres qui in terram ex
omni aeris parte labuntur. Nec enim in hanc solam quam habi
tamus superficiem decidunt, sed et in latera quibus in terra
globositas sphaeralis efficitur; et in partem alteram, quae ad
nos habetur inferior idem imbrium casus est. 9. Nam si aer, ter
reni frigoris exhalatione densetus, in nubem cogitur et ita
abrumpit imbres, aer autem uniuersam terram circumfusus
ambit, procul dubio ex omni aeris parte, praeter ustam calore
perpetuo, liquor pluuialis emanat, qui undique in terram, quae
unica est sedes ponderum, defluit. 1 0 . Quod qui respuit, supe-
rest ut aestimet extra hanc unam superficiem quam incolimus,
quidquid niuium imbriumue uel grandinum cadit, hoc totum
in caelum de aere defluere. Caelum enim ab omni parte terrae
aequabiliter distat et, ut a nostra habitatione, ita et a lateribus
et a parte quae ad nos habetur inferior pari altitudinis immen
sitate suspicitur. Nisi ergo omnia pondera ferrentur in terram,
imbres qui extra latera terrae defluunt non in terram, sed in
caelum caderent, quod uilitatem ioci scurrilis excedit.
11. Esto enim terrae sphaera cui ascripta sunt A B C D,
circa hanc sit aeris orbis cui ascripta sunt E F G L M, et utrum-
in questo modo si solidificò, tutta questa concrezione ricevette
il nome di «terra». 7. Un’aria compatta, più prossima al freddo
terrestre che al calore del sole, la sostiene e la rinserra da ogni
parte grazie al torpore di un soffio particolarmente denso e le
è impedito ogni movimento, o diretto o retrogrado, sia dalla
forza dell’atmosfera che la circonda e la tiene in equilibrio da
ogni parte con eguale energia, sia dalla sua medesima forma
sferica, che, se essa deviasse un poco dal mezzo, si avvicinereb
be a un punto qualsiasi del vertice e abbandonerebbe il fondo,
il quale non può occupare che il mezzo dato che è la sola parte
equidistante da qualsiasi punto della superficie della sfera.
8 . È dunque verso la più bassa delle sfere, in quanto collo
cata nel mezzo del mondo, e che, come centro, è immobile, che
è inevitabile che siano attratti tutti i gravi; anch’essa stessa,
come un peso, è relegata sul fondo. 416 Tra gli innumerevoli
fatti che lo provano, ci sono principalmente le piogge che
cadono da tutti i punti dell’aria sulla terra. Infatti non s’abbat
tono solamente su quella parte di terra che abitiamo, ma anche
su tutte le altre parti che danno alla terra la sua convessità sfe
rica; e sull’altra parte, quella che rispetto a noi è considerata
inferiore, si producono le medesime cadute di pioggia. 9.
Infatti, se l’aria, ispessita dai vapori freddi esalati dalla terra, si
condensa in nuvole e, in questo modo, prorompe in piogge, e
se, inoltre, l’aria ci avvolge e ci abbraccia da ogni lato, è incon
testabile che la pioggia proviene da ogni regione dell’aria,
eccetto che da quella che brucia d’un calore perpetuo; e que
st’acqua scorre ovunque sulla terra, unico punto in cui si stabi
lizzano i gravi. 1 0 . Chi rifiuta questa teoria, deve per forza pen
sare che tutte le piogge, le nevi o le grandini che cadono al di
fuori di quest’unica superficie che abitiamo, scorrano tutte
quante dall’aria nel cielo. Infatti il cielo è equidistante da ogni
punto della terra, e, che lo si osservi dal luogo da noi abitato o
dai lati o dalla parte considerata rispetto a noi inferiore, è per
i nostri sguardi di una vertiginosa estensione in altezza. Di con
seguenza, se tutti i gravi non fossero attratti verso la terra, le
piogge che scorrono all’esterno dei lati della terra, non cadreb
bero su quest’ultima ma nel cielo: asserzione più mediocre di
una facezia da buffone.
11. Rappresentiamo con un cerchio la sfera terrestre su cui
indichiamo i punti A B C D, intorno ad esso poniamo il globo
que orbem, id est terrae et aeris, diuidat linea ducta ab E usque
ad L: erit superior ista quam possidemus et illa sub pedibus.
12. Nisi ergo caderet omne pondus in terram, paruam nimis
imbrium partem terra susciperet ab A usque ad C; latera uero
aeris, id est ab F usque ad E et a G usque ad L, umorem suum
in aerem caelumque deicerent; de inferiore autem caeli hemi
sphaerio pluuia in exteriora et ideo naturae ignota deflueret,
sicut ostendit subiecta descriptio. 13. Sed hoc uel refellere
dedignatur sermo sobrius, quod sic absurdum est ut sine argu
mentorum patrocinio subruatur.
Restat ergo ut indubitabili ratione monstratum sit in terram
ferri «omnia nutu suo pondera». Ista autem quae de hoc dicta
sunt opitulabuntur nobis et ad illius loci disputationem quo
antipodas esse commemorat. Sed hic, inhibita continuatione
tractatus, ad secundi commentarii uolumen disputationem
sequentium reseruemus.
Fig. 21
Schema raffigurante la sfera dell’aria e della terra e il cerchio dell’at
mosfera allo scopo di dimostrare l’assurdità della caduta della pioggia
se i gravi non fossero attratti dal centro dell'universo, ossia la terra. Tra
quelle qui proposte è la più precisa e soprattutto Tunica coerente con il
testo di Macrobio. Illustrazione tratta dal manoscritto delViri Somnium
Scipionis (seconda metà del IX sec., Corbie), Paris Lat. n. a. 454.
dell’aria, rappresentato da E F G L M; dividiamo entrambi i
globi, quello della terra e quello dell’aria, con una linea traccia
ta da E a L: la parte superiore sarà quella che noi abitiamo, l’al
tra quella che si trova sotto i nostri piedi. 1 2 . Se dunque tutti i
gravi non cadessero sulla terra, quest'ultima riceverebbe tra A
e C una parte davvero piccola delle piogge, mentre le parti del
l’aria, da F a E e da G a L, dirigerebbero la loro acqua nell’a
ria o verso il cielo; quanto alla pioggia proveniente dall’emisfe
ro inferiore del cielo scorrerebbe in regioni esterne e perciò
cadrebbe non si sa dove, come mostra lo schema. 13. Ma un
discorso di buon senso disdegna persino di confutare questa
ipotesi così assurda da essere accantonata senza l’ausilio di
argomentazioni. 417
In conclusione si è dimostrato con un ragionamento indu
bitabile che «tutti i gravi» sono attirati sulla terra «per una forza
che è loro propria». Tutte le osservazioni fatte in proposito ci
serviranno anche quando discuteremo il brano che evoca l’esi
stenza degli antipodi. Ma adesso, interrompendo la continua
zione del nostro trattato, riserviamo al volume del secondo
commentario la discussione dei brani seguenti.
M
Fig. 22
Ancora lo stesso diagramma. Come in molti manoscritti questo
schema riempie con il tratteggio, rappresentante la pioggia, l’insieme
della sfera dell’aria, compreso l’emisfero inferiore della terra, in con
traddizione, perciò, con la dimostrazione per assurdo tentata da Ma
crobio. Incisione tratta dall’edizione latina di Macrobius, In Som
nium Scipionis, Angeli Britannici, Brixiae, 1501.
Fig. 23
Il medesimo diagramma, dove la pioggia diversamente dal prece
dente schema non cade nell’emisfero inferiote, ma, in compenso,
resta confinata nella sfera dell’aria senza «cadere» anche verso il cielo
come vuole il testo di Macrobio. Illustrazione tratta dall’edizione del
Commentarium in somnium Scipionis di Ludwig von Jan, Gottfried
Bass, Quedlinburg - Leipzig, 1848.
Fig. 24
Ancora lo stesso diagramma della pioggia che cade sulla terra in
una pagina del Macrobius, Commentarii in Somnium Scipionis (NKS
218 4°), manoscritto su pergamena (ca. 1150, Francia meridionale?),
fol. 28r, Copenhagen, Det Kongelige Bibliotek.
1. 1. Superiore commentario, Eustathi luce mihi dilectior
fili, usque ad stelliferae sphaerae cursum et subiectarum sep
tem sermo processerat. Nunc iam de musico earum modulami
ne disputetur.
2 . « “Quid hic’, inquam, “quis est qui complet aures meas tan
tus et tam dulcis sonus? “Hic est”, inquit, “ille qui interuallis
disiunctus imparibus sed tamen pro rata parte ratione distinctis,
impulsu et motu ipsorum orbium efficitur, et, acuta cum grauibus
temperans, uarios aequabiliter concentus efficit. Nec enim silen
tio tanti motus incitari possunt, et natura fert ut extrema ex alte
ra parte grauiter, ex altera autem acute sonent. 3. Quam ob cau
sam summus ille caeli stellifer cursus, cuius conuersio est conci
tatior, acute excitato monetur sono, grauissimo autem hic lunaris
atque infimus. Nam terra, nona, immobilis manens, una sede
semper haeret, complexa mundi medium locum. Illi autem octo
cursus in quibus eadem uis est duorum, septem efficiunt distinc
tos interuallis sonos: qui numerus rerum omnium fere nodus est.
Quod docti homines neruis imitati atque cantibus aperuerunt
sibi reditum in hunc locum”.»
4. Exposito sphaerarum ordine motuque descripto, quo
septem subiectae in contrarium caelo feruntur, consequens est
ut qualem sonum tantarum molium impulsus efficiat hic requi
ratur. 5. Ex ipso enim circumductu orbium sonum nasci neces-
se est, quia percussus aer, ipso interuentu ictus, uim de se fra
goris emittit, ipsa cogente natura, ut in sonum desinat duorum
corporum uiolenta conlisio. Sed is sonus, qui ex qualicumque
aeris ictu nascitur, aut dulce quiddam in aures et musicum
defert, aut ineptum et asperum sonat. 6 . Nam si ictum obse-
1. 1. Eustazio, figlio a me più caro della luce, ti ricorderai
che, nel precedente commentario, l’esposizione era giunta alle
rivoluzioni della sfera stellata e delle altre sette sfere inferiori.
Adesso è arrivato il momento di parlare della loro modulazio
ne armonica l.
2 . « “Ma che suono è questo, così intenso e armonioso, che
riempie le mie orecchie?” dissi. “E il suono” rispose “che separa
to in funzione d’intervalli ineguali2 eppure distinti da una razio
nale proporzione, è cagionato dalla spinta e dal moto delle sfere
stesse e che, temperando i toni acuti con i bassi, realizza varie e
proporzionate armonie. Del resto, movimenti così grandiosi non
potrebbero svolgersi in silenzio e natura esige che le estremità
risuonino di toni bassi l’una, acuti l’altra. 3. Ecco perché l’orbita
stellare suprema, la cui rotazione è la più veloce, si muove con
suono più acuto e concitato, mentre questa sfera lunare, la più
bassa, produce il suono più grave. La Terra, infatti, nono globo,
poiché resta immobile, rimane sempre fissa in un’unica sede,
occupando il centro dell’universo. Le rimanenti otto orbite, poi,
all’interno delle quali due hanno la medesima velocità, produco
no sette suoni distinti dai loro intervalli 3, il cui numero è, per
così dire, il nodo di tutte le cose. 1 dotti che hanno saputo imita
re quest’armonia per mezzo delle budelle dei loro strumenti e
con i canti si sono aperti la via del ritorno in questo luogo”» 4.
4. Dopo aver fatto conoscere l’ordine in cui sono disposte
le sfere e spiegato il moto retrogrado delle sette sfere inferiori,
in opposizione a quello del cielo, è ora nostro compito interro
garsi sul suono prodotto dall’impulso di queste potenti masse5.
5. Infatti il suono nasce necessariamente dalla rotazione stessa
delle sfere, perché l’aria, quando viene colpita, emette, per
intervento del colpo stesso, un forte fragore, com’è nella natu
ra, in quanto la violenta collusione tra due corpi si risolve in un
suono 6. Ma questo suono, nato da una qualunque percussione
dell’aria 1, o si trasmette all’orecchio come qualcosa di dolce e
musicale o risuona discordante e aspro. 6 . Se il colpo avviene
ruatio numerorum certa moderetur, compositum sibique con
sentiens modulamen educitur; at cum increpat tumultuaria et
nullis modis gubernata conlisio, fragor turbidus et inconditus
offendit auditum. 7. In caelo autem constat nihil fortuitum,
nihil tumultuarium prouenire, sed uniuersa illic diuinis legibus
et statuta ratione procedere. Ex his inexpugnabili ratiocinatio
ne collectum est musicos sonos de sphaerarum caelestium
conuersione procedere, quia et sonum ex motu fieri necesse
est, et ratio quae diuinis inest fit sono causa modulaminis.
8 . Haec Pythagoras, primus omnium Graiae gentis homi
num, mente concepit, et intellexit quidem compositum quid
dam de sphaeris sonare, propter necessitatem rationis quae a
caelestibus non recedit. Sed quae esset illa ratio, uel quibus
obseruanda modis, non facile deprehendebat, cumque eum
frustra tantae tamque arcanae rei diuturna inquisitio fatigaret,
fors obtulit quod cogitatio alta non repperit. 9. Cum enim casu
praeteriret in publico fabros ignitum ferrum ictibus mollientes,
in aures eius malleorum soni certo sibi respondentes ordine
repente ceciderunt, in quibus ita grauitati acumina consona
bant ut utrumque ad audientis sensum statuta dimensione
remearet, et ex uariis impulsibus unum sibi consonans nasce
retur. 10. Hic occasionem sibi oblatam ratus, deprehendit ocu
lis et manibus quod olim cogitatione quaerebat. Fabros adit et
imminens operi curiosius intuetur, adnotans sonos qui de sin
gulorum lacertis conficiebantur. Quos cum ferientium uiribus
adscribendos putaret, iubet ut inter se malleolos mutent.
Quibus mutatis, sonorum diuersitas, ab hominibus recedens,
malleolos sequebatur. 1 1 . Tunc omnen curam ad pondera
eorum examinanda conuertit, cumque sibi diuersitatem pon
deris quod habebatur in singulis adnotasset, aliis ponderibus in
secondo una legge numerica precisa, ne scaturisce un accordo
ben strutturato e armonico; ma quando il suono risulta da un
urto accidentale e senza essere governato da alcuna misura, un
rumore confuso offende sgradevolmente l’udito. 7. Ora, è sicu
ro che in cielo niente avviene di fortuito o di accidentale, per
ché lassù tutto procede secondo leggi divine e un piano stabi
lito 8. Un ragionamento inattaccabile ha fatto trarre la conclu
sione che il movimento circolare delle sfere celesti produce dei
suoni armoniosi, poiché da una parte è inevitabile che dal
moto si produca il suono e dall’altra la ragione insita nei corpi
divini implica l’armonia dei suoni.
8 . Pitagora fu il primo di tutti gli uomini di stirpe greca che
comprese questi fenomeni e capì che dalle sfere proveniva un
suono composito, a causa della necessità della ragione che non
fa mai difetto alle cose celesti. Ma non gli fu facile scoprire
quale fosse la natura di questa ragione e in che modo potesse
essere osservata; dopo essersi invano affaticato in lunghe e pro
fonde meditazioni su un argomento di tal mole e così arcano,
un caso fortunato gli offrì ciò che fino allora si era negato alle
sue ostinate ricerche. 9. Passava per caso davanti ad una forgia
all’aperto in cui gli operai erano occupati a battere un ferro
incandescente per renderlo malleabile, quando improvvisa
mente le sue orecchie furono colpite dai suoni dei martelli, che
rispondevano ad un certo ordine. In esso i suoni più acuti si
accordavano con quelli più gravi in modo che ciascuno dei due
toni ritornava a scuotere il nervo auditivo secondo un interval
lo musicale uguale e risultava da questi diversi colpi un insie
me armonico.9 10. Afferrando l’opportunità che gli si offriva,
Pitagora comprese, grazie al senso della vista e a quello del
tatto, ciò su cui da tempo indagava con la riflessione. Si avvici
nò ai fabbri e scrutò attentamente tutti i procedimenti dell’o
perazione, prendendo nota dei suoni prodotti dai colpi di ogni
singolo operaio. Persuaso dapprima che la differenza d’inten
sità di quei suoni fosse da attribuirsi alla differenza di forze dei
martellatori, volle che i fabbri si scambiassero fra loro i martel
li. Ma, una volta compiuto lo scambio, la diversità di suoni non
dipendeva dagli uomini, ma corrispondeva ai martelli. 11. Al
lora tutte le sue osservazioni si diressero sulla pesantezza rela
tiva ai martelli e dopo aver annotato la differenza di peso che
maius minusue excedentibus fieri malleos imperauit, quorum
ictibus soni nequaquam prioribus similes nec ita sibi conso
nantes exaudiebantur. 1 2 . Tunc animaduertit concordiam
uocis lege ponderum prouenire, collectisque numeris, quibus
consentiens sibi diuersitas ponderum continebatur, ex malleis
ad fides uertit examen, et intestina ouium uel boum neruos
tam uariis ponderibus inligatis tetendit qualia in malleis fuisse
didicerat, talisque ex his concentus euenit qualem prior obse-
ruatio non frustra animaduersa promiserat, adiecta dulcedine
quam natura fidium sonora praestabat. 13. Hic Pythagoras,
tanti secreti compos, deprehendit numeros ex quibus soni sibi
consoni nascerentur, adeo ut, fidibus sub hac numerorum
obseruatione compositis, certae certis aliaeque aliis conuenien-
tium sibi numerorum concordia tenderentur, ut, una impulsa
plectro, alia, licet longe posita sed numeris conueniens, simul
sonaret.
14. Ex omni autem innumera uarietate numerorum pauci et
numerabiles inuenti sunt qui sibi ad efficiendam musicam
conuenirent. Sunt autem hi sex omnes: epitritus, hemiolius,
duplaris, triplaris, quadruplus, et epogdous.
15. Et est epitritus cum, de duobus numeris, maior habet
totum minorem et insuper eius tertiam partem, ut sunt quat
tuor ad tria. Nam in quattuor sunt tria et tertia pars trium, id
est unum. Et is numerus uocatur epitritus, deque eo nascitur
symphonia quae appellatur Sta Teaaapcov. 16. Hemiolius est
cum, de duobus numeris, maior habet totum minorem et insu
per eius medietatem, ut sunt tria ad duo. Nam in tribus sunt
duo et media pars eorum, id est unum. Et ex hoc numero, qui
hemiolius dicitur, nascitur symphonia quae appellatur 8 ià
t t é v t e . 17. Duplaris numerus est cum, de duobus numeris,
Fig. 26
Diagramma nell'incisione a stampa dell’edizione latina di
Macrobius, In Somnium Scipionis, Angeli Britannici, Brixiae, 1501.
3. 1. Hinc Plato in Re publica sua, cum de sphaerarum cae
lestium uolubilitate tractaret, singulas ait Sirenas singulis orbi
bus insidere, significans sphaerarum motu cantum numinibus
exhiberi. Nam Siren ‘deo canens’ Graeco intellectu ualet.
Theologi quoque nouem Musas octo sphaerarum musicos
cantus et unam maximam concinentiam, quae confit ex omni
bus, esse uoluerunt. 2 . Vnde Hesiodus in Theogonia sua
octauam Musam Vraniam uocat, quia post septem uagas, quae
subiectae sunt, octaua stellifera sphaera superposita proprio
nomine caelum uocatur; et, ut ostenderet nonam esse et maxi
mam, quam conficit sonorum concors uniuersitas, adiecit:
KaXAió-mn 0’n Sri T rp o c p E p E O T cc rT i è o t 'iv cmaaÉcov,
Fig. 27
Diagramma del cosmo con le indicazioni degli intervalli musicali
corrispondenti alle distanze tra i corpi celesti e alle loro diverse velo
cità di rotazione: Terra-Luna, un tono intero; Luna-Mercurio-
Venere, un semitono ciascuno; Venere-Sole, tre semitoni; Sole-Marte,
un tono intero; M arte-Giove-Saturno, un semitono ciascuno;
Saturno-Stelle fisse, tre toni interi. Collezione di manoscritti astrono
mici, Salzburg, ca. 820.
4. 1 . Nunc locus admonet ut de grauitate et acumine sono
rum diuersitates quas adserit reuoluamus: «Et natura fert ut
extrema ex altera parte grauiter, ex altera autem acute sonent.
Quam ob causam summus ille caeli stellifer cursus, cuius conuer
sio est concitatior, acute excitato mouetur sono, granissimo
autem hic lunaris atque infimus».
2 . Diximus numquam sonum fieri nisi aere percusso. Vt
autem sonus ipse aut acutior aut grauior proferatur, ictus effi
cit qui, dum ingens et celer incidit, acutum sonum praestat, si
tardior lentiorue, grauiorem. 3. Indicio est uirga quae, dum
auras percutit, si impulsu cito feriat, sonum acuit; si lentiore, in
grauius frangit auditum. In fidibus quoque idem uidemus,
quae, si tractu artiore tenduntur, acute sonant, grauius laxio
res. 4. Ergo et superiores orbes, dum pro amplitudine sua
impetu grandiore uoluuntur, dumque spiritu, ut in origine sua,
fortiore tenduntur, propter ipsam, ut ait, concitatiorem
conuersionem, «acute excitato mouentur sono, granissimo
autem hic lunaris atque infimus», quoniam spiritu, ut in extre
mitate languescente iam uoluitur, et propter angustias, quibus
penultimus orbis artatur, impetu leniore conuertitur.
5. Nec secus probamus in tibiis, de quarum foraminibus
uicinis inflantis ori sonus acutus emittitur, de longinquis autem
et termino proximis, grauior; item, acutior per patentiora fora
mina, grauior per angusta. Et utriusque causae ratio una, quia
spiritus, ubi incipit, fortior est, defectior ubi desinit, et quia
maiorem impetum per maius foramen impellit, contra autem
in angustis contingit et eminus positis.
4. X. Questo passo c’induce adesso a ritornare sulle diffe
renze tra i suoni bassi e i suoni acuti di cui Cicerone assicura:
«E la natura esige che le due estremità risuonino di toni bassi
l’una, acuti l’altra. Ecco perché l’orbita stellare suprema, la cui
rotazione è la più veloce, si muove con suono più acuto e conci
tato, mentre questa sfera lunare, la più bassa, produce il suono
più grave» 61.
2 . Abbiamo detto che non ci può essere suono se l’aria non
viene percossa 62. Ora, la maggior gravità o la maggior acutez
za dei suoni dipende dal modo in cui l’aria è sferzata; se il
colpo che riceve è potente e rapido, il suono sarà acuto; sarà
grave, se il colpo vibrato è lento e debole. 3. L’esempio è quel
lo di una bacchetta che colpisce l’aria; se le s’imprime un movi
mento veloce, produrrà suono acuto; un movimento vibrato
più lentamente, colpirà l’udito con un tono più basso. Anche
nelle corde sonore constatiamo lo stesso fenomeno: tese molto
strettamente, emettono un suono acuto; con una tensione
meno forte, hanno una sonorità più grave. 4. Quindi anche le
orbite superiori, avendo uno slancio rotatorio più potente 63 in
quanto hanno più massa ed essendo governate da un soffio più
vigoroso in quanto più vicino alla sua origine64, a causa di que
sta loro stessa rivoluzione più rapida come dice Cicerone «si
muovono con suono più acuto e concitato, mentre questa sfera
lunare, la più bassa, produce il suono più grave», innanzi tutto
perché la rotazione obbedisce ad un soffio ormai indebolito in
quanto si trova giunto all’estremità e anche perché la sua rivo
luzione è sottomessa ad uno slancio più lento, a causa degli
stretti limiti in cui è confinata dalla sua orbita che occupa la
penultima posizione. 65
5. Le tibie ci offrono assolutamente le stesse particolarità:
dai fori più vicini all’imboccatura provengono dei suoni acuti,
mentre i fori più lontani e vicini all’altra estremità, emettono
un suono più grave; allo stesso modo dai fori più ampi esce un
suono più acuto, da quelli più stretti se ne trae un suono più
basso. In entrambi i casi la spiegazione è la stessa: il soffio è più
forte appena emesso, mentre s’indebolisce al suo termine, e,
inoltre, esce con maggior impeto attraverso fori più ampi, men
tre accade il contrario se il soffio esce da fori stretti e posti lon
tano dall’imboccatura. 66
6 . Ergo orbis altissimus, et ut in immensum patens, et ut
spiritu eo fortiore quo origini suae uicinior est incitatus, sono
rum de se acumen emittit; uox ultimi et pro spatii breuitate et
pro longinquitate iam frangitur. 7. Hinc quoque apertius
adprobatur spiritum, quanto ab origine sua deorsum recedit,
tanto circa impulsum fieri leniorem, ut circa terram, quae ulti
ma sphaerarum est, tam concretus, tam densus habeatur, ut
causa sit terrae in una sede semper haerendi, nec in quamlibet
partem permittatur moueri, obsessa undique circumfusi spiri
tus densitate; in sphaera autem ultimum locum esse qui medius
est, antecedentibus iam probatum est.
8. Ergo uniuersi mundani corporis sphaerae nouem sunt.
Prima, illa stellifera, quae proprio nomine caelum dicitur et
ÒTTÀavris apud Graecos uocatur, «arcens et continens ceteras».
Haec ab oriente semper uoluitur in occasum; subiectae sep
tem, quas uagas dicimus, ab occidente in orientem feruntur;
nona, terra, sine motu. 9. Octo sunt igitur quae mouentur, sed
septem soni sunt qui concinentiam de uolubilitate conficiunt,
propterea quia Mercurialis et Venerius orbis, pari ambitu
comitati solem, uiae eius tamquam satellites obsequuntur, et
ideo a nonnullis astronomiae studentibus eandem uim sortiti
existimantur. Vnde ait: «Illi autem octo cursus in quibus eadem
uis est duorum, septem efficiunt distinctos interuallis sonos: qui
numerus rerum omnium fere nodus est».
10. Septenarium autem numerum rerum omnium nodum
esse plene, cum de numeris superius loqueremur, expressimus;
ad illuminandam, ut aestimo, obscuritatem uerborum Cice
ronis de musica, tractatus succinctus a nobis qua licuit breuita
te sufficiet. 11. Nam netas et hypatas aliarum que fidium uoca-
bula percurrere, et tonorum uel limmatum minuta subtilia, et
quid in sonis pro littera, quid pro syllaba, quid pro integro
6 . Perciò l’orbita più elevata, d’immense dimensioni e che
compie la sua rivoluzione spinta da un soffio tanto più forte
quanto è più vicino alla sua origine, emette il più acuto dei
suoni, mentre invece la nota emessa dall’ultima sfera, sia per la
ristrettezza dello spazio che per la lontananza, è la più flebile.
7. Possiamo quindi constatare anche con maggior chiarezza
che il soffio, nella sua spinta, quanto più si allontana dalla sua
origine, tanto più s’indebolisce, al punto che, intorno alla terra,
ultima delle sfere, è così spesso e denso, che, per tal ragione, la
terra resta sempre immobile nella stessa sede e non le è conces
so muoversi da alcuna parte, oppressa com’è da ogni lato dalla
densità del soffio che la circonda; ora in una sfera il punto più
basso si trova al suo centro, come è stato dimostrato in un capi
tolo precedente 67.
8. Le sfere dell’intero corpo dell’universo sono dunque
nove. La prima è quella stellata, che chiamiamo propriamente
«cielo» e che tra i Greci prende il nome di cxTTÀavris [immo
bile], «che rinserra e contiene tutte le altre» 68. Si muove sem
pre da oriente ad occidente. Le sette sfere collocate sotto di
essa, che chiamiamo «erranti», ruotano da occidente ad orien
te; la nona, la terra, è senza movimento 69. 9. Otto sono dun
que le sfere in movimento, ma vi sono solo sette suoni nell’ar
monia prodotta dalla loro rotazione, perché le orbite di
Mercurio e di Venere, compagni di viaggio del sole in un tra
gitto d’eguale velocità, seguono i suoi spostamenti come delle
guardie del corpo; perciò, secondo parecchi studiosi d’astro
nomia, sembrano aver ricevuto la medesima velocità70. Donde
l’affermazione di Cicerone; «le rimanenti otto orbite-, poi, all’in
terno delle quali due hanno la medesima velocità, producono
sette suoni distinti dai loro intervalli, il cui numero è, per così
dire, il nodo di tutte le cose» 71.
10. Il fatto che il numero sette sia il nodo di tutte le cose è
stato pienamente dimostrato, quando abbiamo parlato in pre
cedenza dei numeri; 72 per chiarire, a mia opinione, l’oscurità
dei termini ciceroniani riguardanti la musica, la nostra breve
esposizione, concisa quanto era possibile, basterà. 11. Passare
in rassegna le ne te e le hypate 73 e i termini indicanti le altre
corde sonore, come le minute sottigliezze relative ai toni e ai
semitoni, esporre ciò che nei suoni corrisponde alla lettera, alla
nomine accipiatur adserere ostentantis est, non docentis. 12.
Nec enim quia fecit in hoc loco Cicero musicae mentionem,
occasione hac eundum est per uniuersos tractatus qui possunt
esse de musica, quos, quantum mea fert opinio, terminum
habere non aestimo, sed illa sunt persequenda quibus uerba,
quae explananda receperis, possint liquere, quia, in re natura
liter obscura, qui in exponendo plura quam necesse est super
fundit addit tenebris, non adimit densitatem.
13. Vnde finem de hac tractatus parte faciemus, adiecto
uno quod scitu dignum putamus, quia, cum sint melodiae
musicae tria genera, enarmonium, diatonum et chromaticum,
primum quidem propter nimiam sui difficultatem ab usu
recessit, tertium uero est infame mollitie, unde medium, id est
diatonum, mundanae musicae doctrina Platonis adscribitur.
14. Nec hoc inter praetereunda ponemus, quod musicam
perpetua caeli uolubilitate nascentem ideo clare non sentimus
auditu, quia maior sonus est quam ut humanarum aurium reci
piatur angustiis. Nam si Nili Catadupa ab auribus incolarum
amplitudinem fragoris excludunt, quid mirum si nostrum
sonus excedit auditum, quem mundanae molis impulsus emit
tit? 15. Nec enim de nihilo est quod ait «qui complet aures meas
tantus et tam dulcis sonus», sed uoluit intellegi quod, si eius qui
caelestibus meruit interesse secretis completae aures sunt soni
magnitudine, superest ut ceterorum hominum sensus munda
nae concinentiae non capiat auditum.
c c
Fig. 28 Fig. 29
Schema delle fasce terrestri, Raffigurazione delle fasce del
tratto dai manoscritti Parisinus globo terrestre nell’incisione a
Latinus 6370 (Tours?, inizi IX stampa dell’edizione latina di
sec.); Parisinus Latinus 16677 Macrobius, In Somnium Scipio
(Fleury?, IX sec.) e Coloniensis, nis, Angeli Britannici, Brixiae,
Dombibl. 186 (Germania?, IX 1501.
sec.).
cui si risiede» alle parti della terra occupate dai quattro gruppi
umani, 35. Quanto al modo in cui si pensa che gli abitanti delle
altre tre zone poggino i loro piedi rispetto a noi, lo ha persino
precisato e ha formulato chiaramente che gli abitanti dell’emi
sfero australe stanno nella posizione opposta alla nostra dicen
do: «{la fascia) australe, nella quale gli abitanti lasciano impron
te opposte alle vostre »; e perciò sono opposti a noi poiché risie
dono nella parte della sfera terrestre che è opposta a noi m . 36.
Resta da chiedersi quali siano coloro per i quali, rispetto a noi,
ha menzionato una posizione trasversale e una obliqua; ma su
di essi non possono esserci dubbi: quelli che dice di stare di
traverso rispetto a noi occupano la parte inferiore della nostra
zona e in quanto a quelli che ci sono obliqui posseggono la
zona declinante della fascia australe.
Fig. 30 Fig. 31
La medesima raffigurazione La stessa “carta a zone” in
delle fasce del globo terrestre Ambrosius Theodosius Macro
nell’illustrazione tratta dall’edi bius, Commentarii in Somnium
zione del Commentarium in som Scipionis, MS Strozzi, 74, fol. 63,
nium Scipionis di Franciscus (XII secolo), Firenze, Biblioteca
Eyssenhardt, B. G. Teubner, Medicea Laurenziana.
Leipzig, 18932.
Fig. 32 Fig. 33
Ancora la rappresentazione Il diagramma delle cinque
dell’emisfero celeste, proiezione zone della terra in una pagina del
reciproca di quello terrestre, in Macrobius, Commentarii in Som
un manoscritto del Commento al nium Scipionis (NKS 218 4°), ma
Sogno di Scipione di Macrobio, noscritto su pergamena (Francia
Parisinus Latinus 6371, XI seco meridionale?, ca. 1150), fol. 34r,
lo, Paris, Bibliothèque nationale Copenhagen, Det Kongelige
de France. Bibliotek.
Fig. 34
Il diagramma delle cinque zone della terra di Macrobio in una pa
gina di Lambert of St. Omer, Liber Floridus, (Lille e Ninove, 1460),
MS KB, 72 A 23 particolare del fol. 15v, Aia, Koninklijke Biblio-
theek.
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Il diagramma delle cinque «H btttlKS f a m f * u t r A m f • 7«». n w n 1 _ -m*i 1 »■•#
Fig. 36 Fig. 37
Ricostruzione del globo ter Esempio d’inclinazione di un
restre di Cratete di Mallo (180- modello della terra abitata sull’o
150 a.C.). Illustrazione tratta da rizzonte di Rodi, punto abituale
James Oliver Thomson, History degli antichi geografi (a 36° di lati
of Ancient Geography, University tudine nord), in cui la nostra
Press, Cambridge, 1948, p. 203. regione abitata si trova nel qua
drante situato al di sopra dell’oriz
zonte con le rispettive posizioni
degli antoeci, transversi e obliqui.
6. 1. Superest ut de terrae ipsius spatiis, quanta habitationi
cesserint, quanta sint inculta referamus, id est quae sit singulo
rum dimensio cingulorum. Quod ut facile dinoscas, redeun
dum tibi est ad orbis terrae descriptionem quam paulo ante
subiecimus, ut per adscriptarum litterarum notas ratio dimen
sionum lucidius explicetur,
2 . Omnis terrae orbis, id est circulus qui uniuersum ambi
tum claudit, cui adscripta sunt A B C D, ab his qui eum ratio
ne dimensi sunt in sexaginta diuisus est partes. 3. Habet autem
totus ipse ambitus stadiorum ducenta quinquaginta duo milia.
Ergo singulae sexagesimae extenduntur stadiis quaternis mili
bus ducenis. Et sine dubio medietas eius, quae est a D per
orientem, id est per A usque ad C, habet triginta sexagesimas
et stadiorum milia centum uiginti sex. Quarta uero pars, quae
est ab A usque ad C, incipiens a medio perustae, habet sexage
simas quindecim et stadiorum milia sexaginta et tria. Huius
quartae partis mensura relata, constabit totius ambitus plena
dimensio.
4. Ab A igitur usque ad N, quod est medietas perustae,
habet sexagesimas quattuor, quae faciunt stadiorum milia
sedecim cum octingentorum adiectione. Ergo omnis perusta
sexagesimarum octo est, et tenet stadiorum milia triginta tria et
sexcenta insuper. 5. Latitudo autem cinguli nostri qui tempe
ratus est, id est ab N usque ad I, habet sexagesimas quinque,
quae faciunt stadiorum milia uiginti unum; et spatium frigidae,
ab I usque ad C, habet sexagesimas sex, quae tenent stadiorum
uiginti quinque milia ducenta. 6 . Ex hac quarta parte orbis ter
rarum, cuius mensuram euidenter expressimus, alterius quar
tae partis magnitudinem, ab A usque ad D, pari dimensionum
distinctione cognosces. Cum ergo quantum teneat sphaerae
superficies quae ad nos est in omni sua medietate cognoueris,
de mensura quoque inferioris medietatis, id est a D per B
usque ad C, similiter instrueris. 7. Modo enim quia orbem ter
rae in plano pinximus, in plano autem medium exprimere non
possumus sphaeralem tumorem, mutuati sumus altitudinis
intellectum a circulo qui magis horizon quam meridianus uide-
6. 1. Ci rimane adesso da precisare, a proposito delle regio
ni della terra, di quante siano abitate e quante siano inagibili,
cioè della dimensione di ciascuna delle fasce. Per capire tutto
ciò più facilmente, devi riferirti alla raffigurazione della sfera
terrestre, che abbiamo proposto poco fa lft5: i segni forniti dalle
lettere che vi figurano faranno seguire più chiaramente il rap
porto delle dimensioni.
2. L’intero giro della terra, ossia il cerchio che racchiude
l’intera circonferenza, rappresentata dai punti A B C D, è stata
divisa, da coloro che ne hanno calcolato le dimensioni, in ses
santa parti. 3. Ora l’intera circonferenza è di duecentocinquan-
taduemila sta d i10é. Ne consegue che ogni sessantesimo misura
quattromiladuecento stadi. Senza dubbio la semicirconferenza,
che da D, andando verso oriente, passando per A arriva a C,
comprende trenta sessantesimi e misura centoventiseimila
stadi. La quarta parte, poi, che va da A a C, iniziando dalla
metà della zona torrida, è quindici sessantesimi e sessantatre-
mila stadi. Una volta nota la misura di questa quarta parte di
circonferenza, si avrà l’insieme delle misure della circonferen
za intera.
4. Dunque, da A a N, la metà della zona torrida, occupa
quattro sessantesimi, che fa sedicimilaottocento stadi. Così la
zona torrida intera è di otto sessantesimi e si estende su trenta-
tremilaseicento stadi. 5. L’ampiezza, invece, della nostra fascia
temperata, che va da N fino a I, occupa cinque sessantesimi,
che corrispondono a ventunmila stadi e la parte glaciale, com
presa da I a C, occupa sei sessantesimi, che si estendono su
venticinquemiladuecento stadi. 6 . Da questa quarta parte della
circonferenza terrestre, la cui misura abbiamo appena stabilito
chiaramente, ricaverai, per mezzo di uguali divisioni spaziali, la
grandezza dell’altra quarta parte, che va da A a D 107. Quindi,
una volta nota la dimensione dell’intera metà della superficie
della sfera che abitiamo, adopererai lo stesso procedimento per
misurare anche la metà inferiore 108, che si estende da D a C
passando per B. 7. Soltanto che, a causa del fatto che abbiamo
raffigurato il globo terrestre su una superficie piana, non
abbiamo potuto rappresentare sul piano la convessità mediana
della sfera, ma, per cercare di dare un’idea del volume, ci
siamo serviti, per la nostra dimostrazione, di un circolo che
tur. Ceterum uolo hoc mente percipias ita nos hanc protulisse
mensuram tamquam a D per A usque ad C pars terrae superior
sit cuius partem nos incolimus, et a D per B usque ad C pars
terrae habeatur inferior.
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Fig. 39 Fig. 40
Schema delle fasce celesti e Ancora il medesimo diagram
fasce terrestri, tratto dal mano ma raffigurante la sfera celeste
scritto Coloniensis, Dombibl. racchiudente la sfera terrestre
186 (Germania?, IX sec.). nelTincisione a stampa dell’edi
zione latina di Macrobius, In
Somnium Scipionis, Angeli Bri
tannici, Brixiae, 1501.
C
Fig. 41 Fig. 42
Lo stesso diagramma tratto Il diagramma delle cinque
dall’edizione del Commentarium zone del cielo su quelle della
in somnium Scipionis di Franci- terra con l'eclittica in una pagina
scus Eyssenhardt, B. G. Teubner, del Macrobius, Commentarii in
Leipzig, 18932. Somnium Scipionis (NKS 218
4°), manoscritto su pergamena
(ca. 1150, Francia meridionale?),
particolare del fol. 36v, Copen
hagen, Det Kongelige Bibliotek.
8. 1. Locus nos admonet ut — quoniam diximus rem quae
a nullo possit refelli, utrumque tropicum circum zodiaco ter
minos facere, nec umquam solem alterutrum tropicum excede
re posse uel sursum uel deorsum meando, trans zodiacum uero
circum, id est trans ustam quae tropicis clauditur ex utraque
parte, incipere temperatas — quaeramus quid sit quod ait
Vergilius, quem nullius umquam disciplinae error inuoluit:
duae mortalibus aegris
munere concessae diuum, et uia secta per ambas
obliquus qua se signorum uerteret ordo.
2 . Videtur enim dicere his uersibus zodiacum per tempera
tas ductum, et solis cursum per ipsas fieri; quod nec opinari fas
est, quia neutrum tropicum cursus solis excedit. Num igitur
illud attendit quod diximus: et intra tropicum in ea perustae
parte quae uicina est temperatae habitatores esse? 3, Nam
Syene sub ipso tropico est, Meroe autem tribus milibus octin
gentis stadiis in perustam a Syene introrsum recedit, et ab illa
usque ad terram cinnamomi feracem sunt stadia octingenta; et
per haec omnia spatia perustae, licet rari, tamen uita fruuntur
habitantes, ultra uero iam inaccessum est propter nimium solis
ardorem. 4. Cum ergo tantum spatii ex perusta uitam mini
stret, et sine dubio circa uiciniam alterius temperatae, id est
antoecorum, tantumdem spatii habere perustae fines pari man
suetudine non negetur — paria enim in utraque parte sunt
omnia —, ideo credendum est per poeticam tubam, quae
omnia semper in maius extollit, dixisse uiam solis sectam per
temperatas, quoniam ex utraque parte fines perustae in eo sunt
similes temperatis, quod se patiuntur habitari?
5. An forte poetica licentia particulam pro simili paene par
ticula posuit et pro «sub ambas» dicere maluit «per ambas»?
8. 1. Poiché abbiamo posto come fatto incontestabile che
entrambi i circoli tropicali segnano i limiti dello zodiaco e che
il sole, procedendo sia verso l’alto sia verso il basso, non può
mai superare l’uno o l’altro tropico, ma che, al di là del circo
lo dello zodiaco, o se si vuole al di là della zona torrida delimi
tata da una parte e dall’altra dai tropici, cominciano le zone
temperate, è il momento di interrogarci sul motivo che fa dire
a Virgilio, mai travolto dall’errore nelle sue descrizioni scienti
fiche:
due zone ai miseri mortali,
furono concesse per dono dagli dèi, e per entrambe fu tracciata una via
lungo la quale si volge inclinata la schiera dei segni zodiacali. 124
2. In questi versi sembra infatti dire che lo zodiaco è trac
ciato attraverso le zone temperate e che il corso del sole le
attraversa; cosa che non è lecitamente ammissibile, giacché il
corso del sole non oltrepassa nessuno dei due tropici. Virgilio
alluderebbe forse a ciò che abbiamo detto 125, ossia al fatto che
anche all’interno del tropico, in quella parte di zona torrida
che rasenta quella temperata, vi sono abitanti? 3. Difatti, Siene
è esattamente sotto il tropico, Meroe si trova, rispetto a Siene,
a tremilaottocento stadi verso l’interno in direzione della zona
torrida e tra essa e la terra del cinnamono la distanza è di otto
cento stadi 126; e lungo tutti questi tratti della zona torrida esi
stono tuttavia degli abitanti, seppur rari; ma al di là il paese
diviene inaccessibile a causa dell’eccessivo ardore del sole.
4. Poiché dunque un così largo tratto della zona torrida
consente la vita e poiché, senza dubbio, nelle vicinanze dell’al
tra zona temperata, vale a dire quella degli anteci, è innegabile
che Ì confini della zona torrida presentino su un’estensione
altrettanto grande una temperatura ugualmente mite — tutto,
infatti, è simmetrico da una parte e dall’altra — bisogna crede
re che Virgilio, attraverso la poesia epica 127, che esagera sem
pre tutto, abbia affermato che il cammino del sole sia tracciato
attraverso le zone temperate, per la ragione che da entrambe le
parti Ì confini della zona torrida sono assimilabili alle zone
temperate per il fatto di avere degli abitanti?
5. A meno che forse, per una licenza poetica, non abbia
sostituito ad una preposizione un’altra quasi simile e abbia pre
ferito dire per ambas (per entrambe) invece che sub ambas
Nam re uera ductus zodiaci «sub ambas» temperatas ultro
citroque peruenit, non tamen «per ambas»; scimus autem et
Homerum ipsum et in omnibus imitatorem eius Maronem
saepe tales mutasse particulas.
6 . An, quod mihi uero propius uidetur, «per ambas» pro
«inter ambas» uoluit intellegi? Zodiacus enim inter ambas
temperatas uoluitur, non per ambas. Familiariter autem «per»
pro «inter» ponere solet, sicut alibi quoque:
Circum perque duas in morem fluminis Arctos.
7. Neque enim Anguis sidereus Arctos secat, sed dum et
amplectitur et interuenit, circum eas et inter eas uoluitur, non
per eas. Ergo potest constare nobis intellectus si «per ambas»
pro «inter ambas», more ipsius poetae, dictum existimemus.
8 . Nobis aliud ad defensionem ultra haec quae diximus non
occurrit. Verum quoniam in medio posuimus quos fines num
quam uia solis excedat, manifestum est autem omnibus quid
Maro dixerit, quem constat erroris ignarum, erit ingenii singu
lorum inuenire quid possit amplius pro absoluenda hac quae
stione conferri.
Fig. 43
Diagramma raffigurante le zone della terra nell’incisione a stam
pa deiredizione latina di Macrobius, In Somnium Scipionis, Angeli
Britannici, Brixiae, 1501. Entro un cerchio, attraversato da un ampio
tratto di mare (Alveus Oceani) sono raffigurati i tre continenti cono
sciuti (Europa, Asia, Africa) che occupano l’emisfero superiore, men
tre nella zona inferiore si distende un continente sconosciuto
('Temperata antipodum nobis incongnita). Il globo è poi suddiviso
nelle 5 fasce climatiche: le due ghiacciate vicino ai poli (a nord sono
indicate anche i misteriosi Monti Ripei), una zona torrida a cavallo
dell’equatore e le due zone temperate, le sole abitabili.
Infatti quanto il circolo tropicale è più lungo del circolo setten
trionale, tanto questa zona è più stretta alle estremità che non
ai lati, poiché la sua sommità è contratta dall’esiguità della
fascia più estrema, mentre lo sviluppo dei lati si estende da
ambedue le parti per tutta la lunghezza del tropico. Gli antichi,
infine, hanno paragonato l’insieme della nostra zona abitabile
ad una clamide spiegata 136.
9. In modo analogo, poiché la terra tutta intera, ivi compre
so anche l’Oceano, rispetto ad un qualunque circolo celeste
occupa, come un centro, il posto di un punto, Cicerone ha
dovuto aggiungere, a proposito dell’Oceano: «a dispetto del
nome altisonante, vedi bene quanto sia minuscolo». Infatti,
anche se lo chiamiamo Mare Atlantico, anche se lo chiamiamo
Mare Magno, non può sembrare grande a chi l’osserva dal
cielo, poiché la terra, rispetto al cielo, è un punto che non può
essere diviso in parti. 10. Ecco perché la piccolezza della terra
è sostenuta con tanta insistenza: per far capire a quell’uomo
valoroso che va attribuita poca importanza alla diffusione della
fama, che in un mondo così piccolo non potrà essere grande.
Fig. 44
Lo stesso diagramma tratto dall’edizione del Commentarium in
somnium Scipionis di Franciscus Eyssenhardt, B. G. Teubner,
Leipzig, 18932.
fvf *■t *•*
Fig. 47
La stessa mappa, illustrante le
zone climatiche, nell’edizione
Ambrosius Macrobius, In som
nium Scipionis. Lib II, Saturna
liorum, Lib. VII, loannnes
Gryphius, Venezia, 1574?
Fig. 48 Fig. 49
Ancora la stessa mappa, illu Sempre la stessa mappa, illu
strante le zone climatiche, con strante le zone climatiche, anco
qualche leggera variante in un’e ra con qualche leggera variante
dizione Ioannes Gryphius, Lio in un’edizione Antonius Gry
ne, 1560, p . 144. phius, Lione, 1585.
Fig. 50 Fig. 51
La mappa della terra in una Ancora la stessa carta del
pagina del Macrobius, Com mondo in un manoscritto su per
mentarii in Somnium Scipionis gamena (Tours, circa 820), Mss.
(NKS 218 4°), manoscritto su Latin 6370, fol. 20v, Paris, Bi-
pergamena (ca. 1150, Francia bliothèque nationale de France.
meridionale?), particolare del
fol. 38v, Copenhagen, Det Kon-
gelige Bibliotek.
w
Fig. 52 Fig. 53
La mappa del mondo degli La carta dell’Oceano e delle
incunaboli rinascimentali in Car- regioni abitate tratta dal mano
tes et Figures de la Terre, 1984. scritto Londinensis, British
Questa mappa appare in non me Library, Harleianus 2772 + Mo-
no di cento edizioni dei Commen nacensis Clm 23486 (Germania,
tarii, con qualche leggera variante XI sec.), riproduzione dell'im
(qui ad es. appare la scritta Tepe- magine del manoscritto del IX
rata antipodum nobis incongnita secolo.
invece di Temperata antipodum
nobis incongnita, in altre invece
che Perusta zona appare la scritta
Pusta zona, come nell'illustrazione
dell’edizione teubneriana ripro
dotta in p. 433 (= Fig. 44).
Fig. 54 Fig. 55
Mappa Mundi a zone detto di L’Ecumene secondo Macrobio,
Macrobio, Ms. D ’Orville 77, fol. Ms. Vat. Lat. 4200, particolare del
100, Oxford, Bodleian Library. fol. 93r (XII-XIII sec.), Vaticano,
Biblioteca Apostolica Vaticana.
pfwwsflc f&pttw
Fig. 56
Mappa Mundi detta di o-MfotaiSua
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f*tUlif«Libcdi i>v'CTV*p; nManota fiatili
.fokwawqyh.’* ÉMp»’
ptwiii.btdintjstoft^fdjQjPHTO^ksw-ar.uM
mundi, quae anglicana vulgo val^atw^Nwii-wwim flsatwi pirone
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«unuu-ihì»» J"«t>tj >
B*nJ«.sjtt»tt^{.datrafci3tì54
nuncupatur, ]ohannis Eschuid icttmft: ftfaccnitJaumi&gwwiapttiiSL
nbjfei aililmt fll:l*ei:s(fn*»fcrit*HSicaii(prt
piiianripSiHwiaéfpEfcgwsT^Ì'iJt frfwdw
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viri anglici eiusdem scientiae èiiti|Mfi>lnuli«nni n ir r rn p u m ifl& fu lp jia
V«t'&&£t<&UK:*tr'8Hfekfc&W
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W*» tu a ff&faffcfc tpatfin tS f& itffili faaf $ « W
tatti <wMli4a :& dityettr Ou5t»jU*
ferita fimpLtt* & fin» «*#& u ".•<{»(»pwiAi *atóf«jigw<»nhi$:h»hw!as
astrologiae peritissimi, Johann nctxWi Mietuti (liuti! ■CTPwtESiatdhu» 4n *
ua»CRfijsi<d;!i tefetftntoftr& PiftiM tnfttim
Imtixkpkkii^KAnMliaroijrftMMScnti^H
88
BttraW<^«iM«eMidtiiK ea ifofói«c'
K fv'«utinrpofiirfK<i»»trrffsw»iS(tìa JiaiwétttwsuHtìi'&nt tfcjtattB»
Lucilius Santritter e France W - ■*«««•&:
4
ìrcUl«tB!B|i;il t>CWmmSMWtr!*é{ tWTtt
fttflt Btn-jnd* t f &
cetituraUjttMa fon*
Fig. 57 Fig. 58
Ancora la carta del mondo in L’edizione in piccolo 8°
una miniatura, Commentarii in dell’Ambrosius Macrobius, In
Somnium Scipionis, Mss. lat. somnium Scipionis, Sebastianus
6371, fol. 20v (IX sec., Scuola Gryphius, Lione, 1556, aperta
francese del Nord), Paris, Biblio- sulla pagina 154 recante la
thèque nationale de France. mappa del mondo.
AiVtuìe
Tallii»hoc mtdOUginolo» nòdcntiomnu terra paruaqiwclaeft tfula:
ckquaauor Ha&c^nibus patux quadam efficuìwiifufxicksano bis
asardirirrun ambiéce, Omnizhai anceoculoslocsrtpautl defcnp'
no £ubftitua:e)c qiu&noftrìinamongwéquaE totius un»eft:& tabù
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im itteogmruspofeuerat. Quodau/ *9
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muse poterimus adultere. Nam
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fumilaas «fas ia xtébum extimi :
nttulibncuitatecontrahitur. Deduci
lia itittm la«rum tum iangumixne
tiupittib utraq; parte dsftenimir,
Denl9 uerares omne habitabilem
noftram «tentai clamidi finultm ,
effeckjterunr.Itoji quia omnis tma
owimloram:ntceltarioi t oceano a&edt. Qui (arc tanto nomine cj
Fig. 59
Particolare di una pagina <id\ editio princeps dell’Ambrosius Macro
bius Theodosius, In Somnium Scipionis Ciceronis expositio; Saturnalia,
Venezia, Nicolas Jenson, 1472. La maggior parte delle superstiti copie
di questo incunabolo sono prive di illustrazioni e recano delle parti in
bianco. Le edizioni successive, dal 1483 in poi, comprenderanno inve
ce delle illustrazioni incise con matrice di legno nello stesso testo. Que
sta copia è molto insolita: ha un’illustrazione disegnata a mano fissata
alla pagina. Vi sono le stesse parole usate nelle illustrazioni situate in
questo punto del libro nelle edizioni successive (ma con molti errori: ad
es. teperata invece di temperata, ecc.). L’illustrazione risale verosimil
mente al XV sec., ma le scritte a mano sono sicuramente di un periodo
più tardo: l’annotazione fig. 5 non sarebbe stata usata prima della metà
del XVII sec. Il disegno illustra l’antico modello della sfera di Cratete.
Nel centro si vede la terra conosciuta e la sua copia dell’emisfero meri
dionale. L’Oceano, più scuro, circonda l’Equatore e scorre intorno ad
un grande cerchio attraverso i due poli. Muovendosi verso il bordo del
disegno si osserva in realtà, oltre il bordo, il lato opposto del globo. A
sinistra in alto si vede una parte del continente che è sul lato estremo (la
costa orientale dell’America del Nord, per usare la terminologia moder
na) e in alto a destra vediamo la punta opposta dello stesso continente.
Nella parte inferiore si vedono le due parti meridionali del continente.
Fig. 60 Fig. 61
Illustrazione nel manoscritto lati Una seconda mappa mundi è
no della Philosophia Mundi di Gu presente nel fol. 15r dello stesso
glielmo di Conches, derivata dalla manoscritto. A nch’essa mostra un
sezione cosmologica del commento di globo con l’est in alto e con il mondo
Macrobio (Francia, seconda metà del circondato e diviso dall’Oceano.
XII sec.), fol 13r, Ms ljs384, Univer Qui, però, la massa della terra è divi
sity o f Pennsylvania Library. Il mondo sa nelle consuete cinque zone: le
è illustrato con un cerchio, con l’o regioni fredde ai poli, le zone tem pe
riente nella parte in alto, circondato e rate in ciascun emisfero e la zona
diviso in due emisferi dall’Oceano. Le torrida al centro divisa dall’oceano
didascalie esterne alla circonferenza equatoriale. La geografia dell’emi
spiegano l ’azione delle maree. L’emi sfero settentrionale è espressa in
sfero meridionale è completamente maniera molto dettagliata. L’Asia a
vuoto, mentre in quello settentrionale est è separata dall’Europa dai fiumi
sono indicati l’Europa e l’Africa, sepa Tanai e Nilo, mentre il Mediterraneo
rate dal Mediterraneo. Anche le divide l’Europa dall’Africa.
Colonne d ’Èrcole e le montagne afri
cane dell’Adante sono indicate, anche
se non molto accuratamente.
Fig. 62
L’Ecumene in una pagina di un
manoscritto, secolo XV, Ottob.Lat.
1137, fol. 54v, Vaticano, Biblioteca
Apostolica Vaticana.
10. 1.Quod doctrinae propositum non minus in sequenti
bus apparebit: «quin etiam si cupiat proles futurorum hominum
deinceps laudes uniuscuiusque nostrum acceptas a patribus
posteris prodere, tamen propter eluuiones exustionesque terra
rum, quas accidere tempore certo necesse est, non modo non
aeternam sed ne diuturnam quidem gloriam adsequi possumus».
2. Virtutis fructum sapiens in conscientia ponit, minus per
fectus in gloria; unde Scipio, perfectionem cupiens infundere
nepoti, auctor est ut, contentus conscientiae praemio, gloriam
non requirat. 3. In qua appetenda quoniam duo sunt maxime
quae praeoptari possint, ut et quam latissime uagetur et quam
diutissime perseueret, postquam superius de habitationis
nostrae angustiis disserendo totius terrae, quae ad caelum
puncti locum obtinet, minimam quandam docuit a nostri gene
ris hominibus particulam possideri, nullius uero gloriam uel in
illam totam partem potuisse diffundi, si quidem Gangen tran-
snare uel transcendere Caucasum Romani nominis fama non
ualuit, spem quam de propaganda late gloria ante oculos
ponendo nostri orbis angustias amputauit, uult et diuturnitatis
auferre, ut plene animo nepotis contemptum gloriae compos
dissuasor insinuet. 4. Et ait nec in hac ipsa parte, in quam
sapientis et fortis uiri nomen serpere potest, aeternitatem
nominis posse durare, cum modo exustione, modo eluuione
terrarum diuturnitate rerum intercedat occasus.
5. Quod quale sit disseremus. In hac enim parte tractatus
illa quaestio latenter absoluitur, quae multorum cogitationes
de ambigenda mundi aeternitate sollicitat. 6 . Nam quis facile
mundum semper fuisse consentiat, cum et ipsa historiarum
fides multarum rerum cultum emendationemque uel ipsam
inuentionem recentem esse fateatur, cumque rudes primum
homines et incuria siluestri non multum a ferarum asperitate
dissimiles meminerit uel fabuletur antiquitas, tradatque nec
10. 1. Questa proposizione dottrinale non sarà meno evi-
dente nelle seguenti parole: «E anche nel caso che le future
generazioni umane desiderassero a loro volta tramandare ai
posteri le lodi d i uno d i noi, dopo averle ricevute dai loro padri\
tuttavia, a causa dei diluvi e degli incendi delle terre, che devono
inevitabilmente prodursi in certe epoche, non saremo in grado di
conseguire una gloria non dico eterna, ma neppure duratura» 137.
2 . Il saggio pone il frutto della virtù nella sua coscienza; Può-
mo meno perfetto nella gloria 138; e per questo Scipione, desi'
deroso d’infondere nel nipote la perfezione, insiste affinché
questi, accontentandosi del premio della sua coscienza, non
ambisca alla gloria. 3. Siccome nell’aspirare ad essa sono prin
cipalmente due le cose che più si vorrebbero — che si diffon
da nel modo più ampio possibile e che duri il più a lungo pos~
sibile —, e poiché, in precedenza, parlando dell’esiguità della
parte da noi abitata, Scipione ha spiegato che di tutta quanta la
terra, che è solamente un punto rispetto al cielo 139, solo una
minuscola particella è abitata dagli uomini della nostra specie
!40 e che di nessuno la gloria può diffondersi anche soltanto in
tutta questa parte, se è vero che la fama del nome di Roma non
è riuscita ad attraversare il Gange né a superare il Caucaso 141,
in questo modo gli ha tolto ogni speranza di una gloria ampia
mente diffusa, mettendo sotto gli occhi dell’Emiliano il quadro
angusto del nostro globo, e adesso vuole anche cancellare l’idea
della sua durata, insinuando pienamente nell’animo del nipote
il disprezzo della gloria, da cui, pur possedendola, lo dissuade.
4. Scipione aggiunge che anche in questa stessa parte del
mondo nella quale può serpeggiare la fama del saggio, questa
fama non può durare in eterno, poiché, o per una conflagrazio
ne o per un’inondazione cataclismica, interviene il tramonto
anche della lunga esistenza delle cose.
5. Spieghiamo in che modo ciò avvenga. Questa parte del
trattato, infatti, dà implicitamente una risposta alla controver
sa questione sull’eternità del mondo che, per molte persone, è
stimolo di riflessioni. 6 . Chi, infatti, può facilmente concepire
che questo mondo sia sempre esistito, quando l’autorità stessa
della storia riconosce che lo sviluppo della maggior parte delle
cose, il loro perfezionamento, la loro stessa invenzione sono
del tutto recenti? Quando l’antichità tramanda o favoleggia dei
hunc eis quo nunc utimur uictum fuisse, sed glande prius et
bacis altos, sero sperasse de sulcis alimoniam, cumque ita exor
dium rerum et ipsius humanae nationis opinemur, ut aurea pri
mum saecula fuisse credamus, et inde natura, per metalla uilio-
ra degenerans, ferro saecula postrema foedauerit?
7. Ac ne totum uideamur de fabulis mutuari, quis non hinc
aestimet mundum quandoque coepisse et nec longam retro
eius aetatem, cum abhinc ultra duo retro annorum milia de
excellenti rerum gestarum memoria ne Graeca quidem extet
historia? Nam supra Ninum, a quo Semiramis secundum quo
sdam creditur procreata, nihil praeclarum in libros relatum est.
8 . Si enim ab initio, immo ante initium fuit mundus, ut philo
sophi uolunt, cur, per innumerabilem seriem saeculorum, non
fuerat cultus quo nunc utimur inuentus, non litterarum usus,
quo solo memoriae fulcitur aeternitas? Cur denique multarum
rerum experientia ad aliquas gentes recenti aetate peruenit, ut
ecce Galli uitem uel cultum oleae Roma iam adolescente didi
cerunt, aliae uero gentes adhuc multa nesciunt quae nobis
inuenta placuerunt? 9. Haec omnia uidentur aeternitati rerum
repugnare, dum opinari nos faciunt certo mundi principio
paulatim singula quaeque coepisse.
Sed mundum quidem fuisse semper philosophia auctor est,
conditore quidem deo, sed non ex tempore, si quidem tempus
ante mundum esse non potuit, cum nihil aliud tempora nisi
cursus solis efficiat.
Res uero humanae ex parte maxima saepe occidunt manen
te mundo, et rursus oriuntur, uel eluuione uicissim uel exustio-
rozzi uomini primitivi, non molto dissimili nella loro selvaggia
incuria dalla selvatichezza ferina e che, come si racconta, non
avevano un’alimentazione somigliante a quella nostra attuale,
ma si nutrivano inizialmente di ghiande e bacche e fu solo
molto più tardi che sperarono di trarre il loro nutrimento dai
solchi della terra? Quando, per raffigurarci l’inizio delle cose e
l’esordio dello stesso genere umano, crediamo che vi sia stata
dapprima l’età dell’oro e che in seguito la natura, degenerando
attraverso metalli più vili, ha reso oscuri questi ultimi secoli
con l’età del ferro 142?
7. Ma, per non sembrare di trarre ogni cosa dalle leggende,
chi non crede che il mondo abbia avuto inizio ad un certo
momento e che la sua età non sia poi cosi tanto remota, dal
momento che la storia greca, che perpetua la memoria degli
avvenimenti più gloriosi, non risale più in là di duemila anni?
Infatti, prima di Nino, che alcuni ritengono il padre di Semi
ramide 143, i libri non riferiscono alcun avvenimento notevole.
8 . Se questo mondo è esistito dall’inizio o, meglio, prima del
l’inizio dei tempi, come vogliono i filosofi 144, com’è possibile
che, durante questa serie d ’innumerevoli secoli, non sia stato
inventato il grado di civiltà di cui noi oggi usufruiamo, né l’uso
della scrittura, che solo assicura l’eternarsi della memoria?
Infine, perché la pratica di molte cose in diverse nazioni è giun
ta solo in età recente, come attestano i Galli che hanno cono
sciuto la viticoltura e la coltivazione dell’olivo solo quando
Roma era già nel suo pieno sviluppo, per non parlare di molte
altre popolazioni che ancora ignorano tante scoperte che sono
per noi dei benefici? 9. Tutto ciò sembra in contraddizione con
l’eternità delle cose, facendoci supporre che il mondo abbia
avuto un determinato inizio in seguito al quale ogni singola
innovazione si è prodotta a poco a poco 145.
Ma la filosofia ci assicura che il mondo è certamente sem
pre esistito, prodotto sì da un dio, ma non dal tempo 146, se è
vero che il tempo non è potuto esistere prima del mondo, dato
che nient’altro realizza i momenti del tempo se non il corso del
sole 147.
Quanto alle cose umane spesso periscono in massima
parte 148 mentre il mondo rimane e poi di nuovo ritornano in
vita per l’effetto delTalternarsi d’inondazioni e di conflagrazio-
ne redeunte. 1 0 . Cuius uicissitudinis causa uel necessitas talis
est. Ignem aetherium physici tradiderunt humore nutriri, adse-
rentes ideo sub zona caeli perusta, quam uia solis, id est zodia
cus, occupauit, Oceanum, sicut supra descripsimus, a natura
locatum, ut omnis latitudo, quam sol cum quinque uagis et
luna ultro citroque discurrunt, habeat subiecti humoris alimo
niam. 11. Et hoc esse uolunt quod Homerus, diuinarum
omnium inuentionum fons et origo, sub poetici nube figmenti
uerum sapientibus intellegi dedit, Iouem cum dis ceteris, id est
cum stellis, profectum in Oceanum, Aethiopibus eum ad epu
las inuitantibus. Per quam imaginem fabulosam Homerum
significasse uolunt hauriri de humore nutrimenta sideribus,
qui ob hoc Aethiopas reges epularum caelestium dixit, quo
niam circa Oceani oram non nisi Aethiopes habitant, quos
uicinia solis usque ad speciem nigri coloris exurit.
12. Cum ergo calor nutriatur humore, haec uicissitudo con
tingit ut modo calor, modo humor exuberet. Euenit enim ut
ignis, usque ad maximum enutritus augmentum, haustum uin-
cat humorem ac sic aeris mutata temperies licentiam praestet
incendio, et terra penitus flagrantia immissi ignis uratur; sed
mox, impetu caloris absum pto, paulatim uires reuertuntur
humori, cum magna pars ignis, incendiis erogata, minus iam de
renascente humore consumat. 13. Ac rursus longo temporum
tractu ita crescens humor altius uincit ut terris infundatur
eluuio, rursusque calor post hoc uires resumit, et ita fit ut,
manente mundo inter exuberantis caloris humorisque uices,
terrarum cultus cum hominum genere saepe intercidat, et
reducta temperie rursus nouetur.
14. Numquam tamen seu eluuio seu exustio omnes terras
aut omne hominum genus uel omnino operit uel penitus exu
rit. Aegypto certe, ut Plato in Timaeo fatetur, numquam nimie-
ni 149. 10. La causa o la necessità di questo alternarsi è la
seguente. I fisici hanno insegnato che il fuoco etereo si nutre di
liquido 150, asserendo come sotto la zona torrida del cielo, occu
pata dalla rotta del sole, cioè dallo zodiaco, la natura abbia
posto l’Oceano, come abbiamo descritto sopra 151, proprio
affinché l’intera sua larghezza, che percorrono nell’uno e nel
l’altro senso il sole con i cinque pianeti e la luna, trovi il liqui
do sottostante che l’alimenta 152. 1 1 . Dicono che è questa veri
tà che Omero, fonte e origine di tutte le invenzioni divine,
diede a comprendere ai saggi, sotto il velo della finzione poeti
ca, quando dice che Giove, accompagnato dagli altri dèi, cioè
dai pianeti, discese nell’Oceano, perché fu invitato a banchetto
dagli Etiopi. Attraverso questa immagine allegorica, assicurano
che Omero abbia indicato che il nutrimento degli astri è attin
to dal liquido e che per questa ragione ha descritto gli Etiopi
come «re dei banchetti dei celesti»153, perché sulle sponde
dell’Oceano non abitano altri che gli Etiopi 154, la cui pelle,
bruciata dalla vicinanza del sole, ha una tinta quasi nera 155.
12. Dal momento, quindi, che il caldo trae nutrimento dal
liquido, ne risulta un’alternanza tale per cui ora prevale il
caldo, ora l’umido. Accade infatti che il fuoco, giunto al mas
simo del nutrimento, trionfi sul liquido che ha assorbito e, in
questo modo, la mutata temperatura dell’aria lascia libero
corso a un incendio e la terra incandescente fino alle viscere
per il fuoco che vi è penetrato, s’incendia, ma ben presto, con
sumatasi l’intensità del calore, l’umidità recupera gradatamen
te le sue forze; perché il fuoco, di cui una gran parte si è con
sumata nell’incendio, assorbe ormai in minor misura l’umido
che va ricostituendosi. 13. E a sua volta, dopo un lungo inter
vallo di tempo, l’elemento umido, accumulandosi, prevale a tal
punto che un’inondazione sommerge le terre; viceversa, il calo
re riacquista di nuovo le proprie forze: ecco come, pur rima
nendo il mondo nell’alterna supremazia tra caldo e umido, la
civiltà terrestre spesso vien distrutta insieme al genere umano
e, quando l’equilibrio è ristabilito, si ricostituisce di nuovo.
14. Ciononostante non accade mai che un’inondazione o
una conflagrazione inghiotta del tutto o consumi fino in fondo
tutta la terra o tutta la specie umana. Quel che è certo è che
all’Egitto, come ci assicura Platone nel Timeo , non nocque mai
tas uel humoris nocuit uel caloris; unde et infinita annorum
milia in solis Aegyptiorum monumentis librisque releguntur.
15. Certae igitur terrarum partes, internecioni superstites, se
minarium instaurando generi humano fiunt; atque ita contingit
ut non rudi mundo rudes homines et cultus inscii, cuius me
moriam intercepit interitus, terris oberrent et, asperitatem pau-
latim uagae feritatis exuti, conciliabula et coetus, natura insti-
tuente, patiantur, sitque primum inter eos mali nescia et adhuc
astutiae inexperta simplicitas, quae nomen auri primis saeculis
praestat. 16. Inde quo magis ad cultum rerum atque artium
usus promouet, tanto facilius in animos serpit aemulatio, quae
primum bene incipiens in inuidiam latenter euadit, et ex hac
iam nascitur quicquid genus hominum post sequentibus saecu
lis experitur. Haec est ergo quae rebus humanis pereundi
atque iterum reuertendi incolumi mundo uicissitudo uariatur.
12. 1. «Tu uero enitere et sic habeto non esse te mortalem, sed
corpus hoc. Nec enim tu is es quem forma ista declarat, sed mens
cuiusque is est quisque, non ea figura quae digito demonstrari
potest. Deum te igitur scito esse, si quidem est deus qui uiget, qui
sentit, qui meminit, qui prouidet, qui tarn regit et moderatur et
mouet id corpus cui praepositus est quam hunc mundum ille
princeps deus; et ut ille mundum quadam parte mortalem ipse
deus aeternus, sic fragile corpus animus sempiternus mouet».
2 . Bene et sapienter Tullianus hic Scipio circa institutionem
nepotis ordinem recte docentis impleuit. Nam, ut breuiter a
principio omnem operis continentiam reuoluamus, primum
tempus ei mortis et imminentes propinquorum praedixit insi
dias, ut totum de hac uita sperare dedisceret, quam non diutur
nam comperisset; dein, ne metu praedictae mortis frangeretur,
ostendit sapienti et bono ciui in immortalitatem migrandum;
modo da essere nello stesso segno e nello stesso grado rispetto
al punto di partenza in cui era all’epoca di Romolo e anche
tutte le stelle e costellazioni saranno nell’identica posizione ori
ginaria. 16. Ora, al tempo della campagna militare del secondo
Scipione in Africa, erano trascorsi cinquecentosettantatre anni
dalla scomparsa di Romolo. Infatti, nell’anno seicentosette
dalla fondazione di Roma il nostro Scipione celebrò il trionfo
per la distruzione di Cartagine; sottraendo da questo numero i
trentadue anni del regno di Romolo e i due anni intercorsi tra
il sogno e la fine della terza guerra punica, ne resteranno cin
quecentosettantatre, tra la scomparsa di Romolo e l’epoca del
sogno. 17. Cicerone osservò dunque, in seguito a un calcolo e
in modo esatto, che la ventesima parte dall’anno del mondo
non era ancora trascorsa. Infatti, per trovare la differenza d ’an
ni che c’è, per fare un ventesimo, tra la fine di Romolo e la cam
pagna africana di Scipione, basta saper contare sulle dita 170.
Fig, 63
Miniatura della E iniziale della / *
frase Ex his omnibus...colligimus,
(«Da questo insieme d’osservazioni _; ‘ .
che abbiamo raccolto») nel capitolo i „
15 del Libro II, in forma di un uomo & i ‘ ~ ‘
che scrive e probabilmente rappre- ->
sentante lo stesso Macrobio, in una pagina del Macrobius, Commentarii in
Somnium Scipionis (NKS 2 184°), manoscritto su pergamena (ca, 1150, Francia
meridionale ?), particolare del fol. 46v, Copenhagen, Det Kongeìige Bibliotek.
16. 1 . A questo punto Aristotele controbatte di nuovo Pla
tone e polemizza con lui con un’altra disputa concernente le
origini. Nel replicare ripeteremo qui le stesse obiezioni nell’or
dine in cui sono state esposte sopra.
«Non possono» dice Aristotele «essere identiche alle pro
prie origini le cose che da esse nascono; perciò l’anima, che è
l’origine del movimento, non si muove, affinché non vi sia iden
tità tra l ’origine e ciò che nasce dall’origine, vale a dire affinché
non sembri che il movimento derivi da un movimento» 246.
2. La risposta a questa obiezione è facile e perentoria, perché,
anche se ammettiamo che possono esistere delle differenze tra i
princìpi e le loro conseguenze, questa differenza, tuttavia, non
arriva mai fino al contrario, così come fino all’antagonismo che
si nota tra “essere immobile” e “muoversi”. 3. In questa manie
ra, infatti, l’origine del bianco si chiamerebbe il nero, il princi
pio dell’umido sarebbe il secco, il bene nascerebbe del male e il
dolce da un amaro iniziale. Ma non è così, perché non è nella
natura delle cose che i principi e le loro conseguenze siano com
pletamente divergenti. Nondimeno talvolta si trova tra essi una
differenza compatibile con il rapporto tra l’origine e ciò che da
essa deriva, come, anche in questo caso, tra il movimento col
quale si muove l’anima e quello col quale essa muove tutto il
resto. 4. Platone, infatti, non definì semplicemente l’anima come
movimento, bensì come movimento automoventesi 247. Tra il
moto automoventesi ed il moto col quale l’anima muove tutte le
altre cose, la distinzione è dunque palese: il primo movimento
non ha artefice, l’altro è artefice del movimento per tutte le altre
cose. E dunque evidente sia che gli inizi e le conseguenze che ne
derivano non possono differire al punto di essere opposti, sia
che, nel caso di cui si tratta, una piccola differenza non è esclu
sa. Il principio del moto non sarà dunque immobile, come pre
tende Aristotele con un’artificiosa conclusione.
5. A queste obiezioni ne vien dietro, come abbiamo ricor
dato, una terza: «In una cosa unica, non possono esserci simul
taneamente stati contrari e, poiché muovere e essere mossi
sono dei contrari, l’anima non può muovere se stessa, per evi
tare che allo stesso tempo sia mossa e muova» 248.
Ma quanto abbiamo in precedenza affermato annulla que
sto argomento: non va infatti intesa una dualità nel movimen-
moueatur, quia nihil est aliud ab se moueri quam moueri alio
non mouente. Nulla est ergo contrarietas ubi quod fit unum
est, quia fit non ab alio circa alium, quippe cum ipse motus ani
mae sit essentia.
6. Ex hoc ei, ut supra rettulimus, nata est occasio quarta
certaminis. «Si animae essentia motus est», inquit, «cur inter
dum quiescit, cum nulla alia res contrarietatem propriae
admittat essentiae? lignis, cuius essentiae calor inest, calere
non desinit, et quia frigidum niuis in essentia eius est, non nisi
semper est frigida; et anima igitur eadem ratione numquam a
motu cessare deberet». Sed dicat uelim quando cessare ani
mam suspicatur? 7. «Si mouendo se», inquit, «moueat et cor
pus necesse est, utique, quando non moueri corpus uidemus,
animam quoque intellegimus non moueri».
Contra hoc in promptu est gemina defensio. 8 . Primum
quia non in hoc deprehenditur motus animae si corpus agite
tur; nam et cum nulla pars corporis moueri uidetur, in homine,
tamen ipsa cogitatio aut in quocumque animali auditus, uisus,
odoratus et similia, sed et in quiete ipsa spirare, somniare,
omnia haec motus animae sunt. 9. Deinde quis ipsum corpus
dicat immobile, etiam dum non uidetur agitari, cum incremen
ta membrorum, aut, si iam crescendi aetas et tempus excessit,
cum saltus cordis cessationis impatiens, cum cibi ordinata
digeries naturali dispensatione inter uenas et uiscera sucum
ministrans, cum ipsa collectio fluentorum perpetuum corporis
testetur agitatum? Et anima igitur aeterno et suo motu, sed et
corpus, quamdiu ab initio et causa motus animatur, semper
mouetur.
Hinc eidem fomes quintae ortus est quaestionis. 10. «Si
anima», inquit, «aliis causa motus est, ipsa sibi causa motus
to dell’anima tra ciò che muove e ciò che è mosso, poiché esse
re mosso di per sé equivale a muoversi senza il soccorso di un
altro motore. Non c’è dunque nessun antagonismo laddove c’è
unità d’azione; perché, quanto accade, non proviene da una
cosa per riguardarne un’altra, dato che il movimento stesso è
l’essenza dell’anima. 249
6. Quest’ultimo punto, come abbiamo sopra ricordato,
offre ad Aristotele l’opportunità di sollevare una quarta dispu
ta: «Se l’essenza dell’anima è il movimento» dice Aristotele
«perché mai l’anima ogni tanto è immobile? Il fuoco, la cui
essenza è il calore, non cessa d’esser caldo; poiché il freddo
della neve è incluso nella sua essenza, essa non può che essere
sempre fredda; è dunque l’anima, per la stessa ragione, non
dovrebbe mai cessare di essere in movimento» 250. Ma vorrei
proprio che Aristotele ce lo dicesse: in quale circostanza sup
pone che l’anima smetta di muoversi? 7. «Se muovendosi» dice
questo filosofo «è inevitabile che muova anche il corpo, in ogni
caso, quando vediamo non muoversi il corpo, comprendiamo
che anche l’anima non si muove».
Contro una tale argomentazione si dispone di una duplice
forma di difesa. 8 . In primo luogo, il moto dell’anima non si
deduce dal fatto che il corpo sia agitato; infatti, anche quando
sembra che nessuna parte del corpo, nell’uomo 251, si muova,
tuttavia il pensiero stesso, o, in qualunque essere animato, l’u
dito, la vista, l’olfatto e altre simili sensazioni e perfino, duran
te il sonno, il respirare e il sognare 252, tutte queste cose, insom
ma, sono moti dell’anima. 9. In secondo luogo, chi sosterrà che
il corpo è immobile, quand’anche non sembra muoversi, dato
che lo sviluppo delle membra, o, se l’età e il momento della
crescita sono già trascorsi, il battito incessante del cuore, il
regolare processo della digestione, che per un sistema naturale
di ripartizione distribuisce il succo nutritivo tra le vene e le
viscere, e perfino la funzione stessa dell’escrezione attestano la
continua attività del corpo? L’anima, dunque, si muove con un
suo movimento eterno e proprio, ma anche il corpo, per tutto
il tempo che è animato da ciò che è l’origine e la causa del
movimento, si muove sempre 253.
Aristotele trova qui l’esca per dar piglio alla sua quinta
obiezione. 10. «Se l’anima» dice «è causa di movimento delle
esse non poterit, quia nihil est quod eiusdem rei et sibi et aliis
causa sit».
Ego uero, licet facile possim probare plurima esse quae eiu
sdem rei et sibi et aliis causa sint, ne tamen studio uidear omni
bus quae adserit obuiare, hoc uerum esse concedam, quod et
pro uero habitum ad adserendum motum animae non nocebit.
11. Etenim animam initium motus et causam uocamus. De
causa post uidebimus. Interim constat omne initium inesse rei
cuius est initium; et ideo quicquid in quamcumque rem ab ini
tio suo proficiscitur, hoc in ipso initio reperitur. Sic initium
caloris non potest non calere. Ignem ipsum, de quo calor in
alia transit, quis neget calidum?
12. «Sed ignis», inquit, «non se ipse calefacit, quia natura
totus est calidus». Teneo quod uolebam! Nam nec anima ita se
mouet ut sit inter motum mouentemque discretio, sed tota ita
suo motu mouetur ut nihil possis separare quod moueat. Haec
de initio dicta sufficient.
13. De causa uero, quoniam spontanea coniuentia concessi
mus, nequid eiusdem rei et sibi et aliis causa sit, libenter
adquiescimus ne anima, quae aliis causa motus est, sibi causa
motus esse uideatur. His enim causa motus est quae non moue-
rentur nisi ipsa praestaret. Illa uero ut moueatur non sibi ipsa
largitur, sed essentiae suae est quod mouetur.
14. Ex hoc quaestio quae sequitur iam soluta est. Tunc enim
forte concedam ut ad motus exercitium instrumenta quaeran
tur, quando aliud est quod mouet, aliud quod mouetur. In
anima uero hoc nec scurrilis iocus sine damno uerecundiae
audebit expetere, cuius motus est in essentia, cum ignis, licet
altre cose, non potrà essere causa di moto per se stessa; perché
non c’è niente che sia causa del medesimo effetto per se stessa
e per le altre cose» 254.
Mi sarebbe facile dimostrare l’esistenza di parecchie cose
che sono causa per se stesse e per le altre del medesimo effet
to; comunque sia, affinché non si creda che voglia contrastare
con troppo zelo ogni affermazione di Aristotele, anche ammet
tendo come vero ciò che si considera come tale, questa conces
sione non nuocerà all’affermazione del movimento dell’anima.
1 1 . Abbiamo infatti definito l’anima principio e causa del
movimento. Sulla causa ritorneremo in seguito. È nondimeno
evidente che ogni inizio è immanente alla cosa di cui è inizio;
perciò tutto quello che, in una qualunque cosa, deriva dal suo
principio, è reperibile in questo stesso principio. Così l’inizio
del caldo non può che essere caldo. Chi dirà che il fuoco stes
so, da cui parte il calore per passare in altre cose, non è caldo?
12. «Ma il fuoco» dice Aristotele «non scalda se stesso, poi
ché per natura è caldo nel suo insieme» 255. E qui che lo vole
vo! Infatti neppure l’anima si muove in modo tale che ci sia
distinzione tra moto e azione motrice, ma essa si muove tutta
quanta per movimento proprio in modo che non è assoluta-
mente possibile separare ciò che la muove. Ciò che ho appena
detto riguardo al problema dell’origine è sufficiente.
13. Quanto alla causa, poi, siccome abbiamo ammesso,
chiudendo spontaneamente un occhio, che nessuna cosa è
causa per sé e per altre cose del medesimo effetto, converremo
volentieri che l’anima, che è causa del movimento per altre
cose, non sembra essere causa di moto per se stessa. Essa,
infatti, è causa di moto per quelle cose che non avrebbero
movimento, se essa stessa non glielo conferisse. Ma essa, per
muoversi, non ha bisogno di accordare il movimento a se stes
sa, perché il muoversi è proprio della sua essenza. 256
14. In base a ciò l’obiezione che segue è già risolta 257. Si
potrebbe allora ammettere, a rigore, che per l’esercizio del
movimento siano richiesti degli strumenti, quando una cosa è
il motore e un’altra cosa è ciò che è messo in movimento. Ma
nemmeno per volgare beffa si oserà pretenderlo senza offesa
alla dignità nel caso dell’anima, il cui movimento è nella sua
essenza, perché, se è vero che il fuoco si muove per una causa
ex causa intra se latente moueatur, nullis tamen instrumentis
ad superna conscendat; multoque minus haec in anima quae
renda sint, cuius motus essentia sua est.
15. In his etiam quae secuntur uir tantus et alias ultra cete
ros serius similis cauillanti est. «Si mouetur», inquit, «anima,
inter ceteros motus etiam de loco in locum mouetur. Ergo
modo», ait, «corpus egreditur, modo rursus ingreditur, et in
hoc exercitio saepe uersatur. Quod fieri non uidemus. Non igi
tur mouetur».
16. Contra hoc nullus est qui non sine haesitatione respon
deat non omnia quae mouentur etiam de loco in locum moue
ri. Aptius denique in eum similis interrogatio retorquenda est,
«Moueri arbores dicis?» Quod cum, ut opinor, annuerit, pari
dicacitate ferietur: «Si mouentur arbores, sine dubio, ut tu
dicere soles, inter alios motus etiam de loco in locum mouen
tur. Hoc autem uidemus per se eas facere non posse. Igitur
arbores non mouentur». 17. Sed ut hunc syllogismum addita
mento serium facere possimus, postquam dixerimus: «Ergo
arbores non mouentur», adiciemus: «Sed mouentur arbores.
Non igitur omnia quae mouentur etiam de loco in locum
mouentur». Et ita finis in exitum sanae conclusionis euadet:
«Si ergo arbores fatebimur moueri quidem, sed apto sibi motu,
cur hoc animae negemus, ut motu essentiae suae conueniente
moueatur?» 18. Haec et alia ualide dicerentur etiam si hoc
motus genere moueri anima non posset. Cum uero et corpus
animet accessu et a corpore certa constituti temporis lege
discedat, quis eam neget etiam in locum, ut ita dicam, moueri?
19. Quod autem non saepe sub uno tempore accessum
uariat et recessum, facit hoc dispositio arcana et consulta natu
rae, quae ad animalis uitam certis uinculis continendam tan-
in sé latente, senza aver bisogno di strumenti per salire verso
l’alto, a maggior ragione questi strumenti non andranno cerca
ti quando si tratta dell’anima, che ha il movimento come sua
essenza 258.
15. Anche nelle seguenti obiezioni, questo illustre filosofo,
ben più serio di altri in altre occasioni, è simile ad uno in cerca
di cavilli. «Se l’anima si muove» dice «deve, tra tutti i suoi altri
movimenti, avere anche quello di muoversi da luogo a luogo.
Deve quindi» continua «ora uscire dal corpo, ora successiva
mente rientrarvi e compiere frequentemente quest’azione. Ma
non vediamo accadere ciò. Dunque non si muove» 259.
16. Contro tale argomentazione non c’è nessuno che, senza
esitare, gli risponderà che non tutte le cose dotate di movimen
to si muovono anche di luogo in luogo. Una simile domanda va
più convenientemente ritorta contro di lui. «Dici che gli alberi
si muovono?». Quando avrà, come penso, risposto di sì, con
egual spirito mordace lo si attaccherà dicendo: «Se gli alberi si
muovono, è chiaro che, secondo quanto sei solito dire, oltre ai
loro altri movimenti, devono avere la facoltà di muoversi da
luogo a luogo. Ma vediamo che ne sono incapaci di per se stes
si. Dunque gli alberi non si muovono». 17. Ma per giungere,
completandolo, a dare un tono di serietà a questo sillogismo,
dopo aver detto «Dunque gli alberi non si muovono», aggiun
geremo: «Invece gli alberi si muovono. Dunque non tutto ciò
che si muove si muove anche da luogo a luogo». E così, alla
fine, si perviene all’esito di questa logica conclusione: «Se dun
que riconosciamo che gli alberi si muovono, ma con un movi
mento adeguato a loro, perché negare all’anima la proprietà di
muoversi di un movimento conforme alla sua essenza?». 18.
Questo argomento e altri ancora si potrebbero efficacemente
avanzare, anche se l’anima non potesse muoversi con un movi
mento di questo genere. Ma, dal momento che essa va ad ani
mare il corpo e poiché esce dal corpo secondo una legge pre
cisa ad un’epoca determinata 260, chi può negare che essa si
muova anche, per così dire, in un luogo?
19. E vero che l’anima varia l’entrata e l’uscita dal corpo
spesso in circostanze irregolari, ma ciò accade in virtù di un
decreto misterioso e dei voleri della natura che, per trattenere
la vita dell’essere animato in sicure catene, ha ispirato all’ani-
tum animae iniecit corporis amorem, ut amet ultro quo uincta
est, raroque contingat ne finita quoque lege temporis sui mae
rens et in uita discedat.
20. Hac quoque obiectione, ut arbitror, dissoluta, ad eas
interrogationes quibus nos uidetur urguere ueniamus. «Si
mouet», inquit, «se anima, aliquo motus genere se mouet.
Dicendumne est igitur animam se in loco mouere? Ergo ille
locus aut orbis aut linea est. An se pariendo seu consumendo
mouetur? Sene auget an minuit? Aut proferatur», ait, «in
medium aliud genus motus quo eam dicamus moueri».
21. Sed omnis haec interrogationum molesta congeries ex
una eademque defluit male conceptae definitionis astutia.
Nam quia semel sibi proposuit omne quod mouetur ab alio
moueri, omnia haec motuum genera in anima quaerit in quibus
aliud est quod mouet, aliud quod mouetur, cum nihil horum
cadere in animam possit, in qua nulla discretio est mouentis et
moti.
2 2 . «Quis est igitur», dicit aliquis, «aut unde intellegitur
animae motus, si horum nullus est?» Sciet hoc quisquis nosse
desiderat uel Platone dicente uel Tullio: «quin etiam ceteris
quae monentur hic fons hoc principium est mouendi». 23.
Quanta sit autem uocabuli huius expressio, quo anima fons
motus uocatur, facile reperies, si rei inuisibilis motum sine auc
tore atque ideo sine initio ac sine fine prodeuntem et cetera
mouentem mente concipias; cui nihil similius de uisibilibus
quam fons potuerit reperiri, qui ita principium est aquae, ut,
cum de se fluuios et lacus procreet, a nullo nasci ipse dicatur;
nam si ab alio nasceretur, non esset ipse principium. 24. Et
sicut fons non semper facile deprehenditur, ab ipso tamen qui
funduntur aut Nilus est aut Eridanus aut Hister aut Tanais, et
ut, illorum rapacitatem uidendo admirans et intra te tantarum
aquarum originem requirens, cogitatione recurris ad fontem, et
ma un tale amore per il corpo, che essa lo ama anche oltre il
tempo in cui i legami devono trattenerla, e non di rado accade
che essa, al termine del tempo concessole dalla legge, lasci il
suo posto con rammarico e controvoglia. 261
20. Dopo aver eliminato, come credo, anche questa obiezio
ne, passiamo ai quesiti con i quali Aristotele sembra metterci
alle strette. «Se l’anima si muove» dice «si muove di un movi
mento di qualche genere. Bisogna dunque dire che l’anima si
muove all’interno di uno spazio? Questo spazio è dunque o un
cerchio o una linea. Si muove generando se stessa o consuman
dosi? Accresce o diminuisce se stessa? Altrimenti ci si presen
ti» afferma «un altro genere di movimento per mezzo del quale
possiamo dire che essa si muova» 262.
2 1 . Ma tutta questa pedantesca congerie di domande deri
va da un solo e unico argomento capzioso tratto da una mal
concepita definizione 263. Infatti, poiché si è prefissato una
volta per tutte che tutto ciò che si muove è mosso da qualco
s’altro, ricerca nell’anima tutti i generi di movimento nei quali
una cosa è ciò che muove e un’altra è ciò che è mosso, mentre
niente di tutto ciò può applicarsi all’anima, nella quale non c’è
alcuna distinzione tra motore e mobile.
22. «Ma qual è dunque» mi si dirà «il movimento dell’ani
ma o a cosa attribuirlo, se non è nessuno di questi ultimi?». Lo
saprà chiunque desideri venirne a conoscenza, ascoltando le
parole di Platone o di Cicerone: «anzi, per tutte le altre cose che
si muovono, è la fonte, è il principio del movimento» 2M. 23.
Quanto poi sia importante l’espressione «fonte del movimen
to», con cui si qualifica l’anima, lo scoprirai facilmente, se
immagini il moto di un essere invisibile che procede senza arte
fice e, perciò, senza inizio e senza fine, e che muove tutte le
altre cose 265; di tutte le cose visibili non si saprebbe trovare
nessuna migliore analogia di quella di una fonte, che è a tal
punto principio dell’acqua che, quando produce da sé fiumi e
laghi, non si dice che nasca da qualcosa, perché se nascesse da
qualcosa, non sarebbe essa stessa principio 266. 24. Come la
fonte non sempre è facile da scoprire e nondimeno da essa sca
turiscono o il Nilo, o l’Eridano, o l’Istro, o il Tanai 267 e quan
do, ammirando lo spettacolo dell’impetuosità del corso di que
sti fiumi e chiedendoti nell'intimo l’origine dell’abbondanza
hunc omnem motum intellegis de primo scaturriginis manare
principio, ita, cum corporum motum, seu diuina seu terrena
sint, considerando quaerere forte auctorem uelis, mens tua ad
animam quasi ad fontem recurrat, cuius motum etiam sine cor
poris ministerio testantur cogitationes, gaudia, spes, timores.
25. Nam motus eius est boni malique discretio, uirtutum amor,
cupido uitiorum, ex quibus effluunt omnes inde nascentium
rerum meatus; motus enim eius est quicquid irascimur et in
feruorem mutuae collisionis armamur, unde paulatim proce
dens rabies fluctuat praeliorum; motus eius est quod in deside
ria rapimur, quod cupiditatibus alligamur. Sed hi motus, si
ratione gubernentur, proueniunt salutares, si destituantur, in
praeceps et rapiuntur et rapiunt.
26. Didicisti motus animae, quos modo sine ministerio cor
poris, modo per corpus exercet. Si uero ipsius mundanae ani
mae motus requires, caelestem uolubilitatem et sphaerarum
subiacentium rapidos impetus intuere, ortum occasumue solis,
cursus siderum uel recursus, quae omnia anima mouente
proueniunt. Immobilem uero eam dicere quae mouet omnia,
Aristoteli non conuenit, qui quantus in aliis sit probatum est,
sed illi tantum quem uis naturae, quem ratio manifesta non
moueat.
Fig. 65 Fig, 66
Diagramma di soggetto non Diagrammi della terra, del
identificato nel Macrobius, Com cielo e delle fasi lunari in M acro
mentarii in Somnium Scipionis bius, Commentarii in Somnium
(NKS 218 4°), manoscritto su Scipionis (NKS 218 4°), mano
pergamena (ca. 1150, Francia scritto su pergamena (ca. 1150,
meridionale?), fol. 50r, Copen Francia meridionale?), fol. 50v,
hagen, Det Kongelige Bibliotek. Copenhagen, Det Kongelige
Bibliotek,
N ote e A p p e n d ic i
N ote a l testo
A p p e n d ic e I. I l S o g n o d i S c i p i o n e d i M.T. C i c e r o n e
A p p e n d ic e II. S c i p i o n e : s o g n i e m a g n a n im it à n e l l e a r ti
A p p e n d ic e III. S c i p i o n e d i P a o l o A n t o n io R o l l i
A p p e n d ic e IV. I l s o g n o d i S c i p i o n e d i P ie t r o M e t a s t a s io
N o t e al t e st o
N o te a l L ibro secondo
1 Prendendo le mosse dalla breve citazione ciceroniana contenuta nei §
2-3 sull’armonia delle sfere, Macrobio compie un’esposizione sull’armonia
musicale che occupa i primi quattro capitoli del Libro Secondo. Nel capito
lo 1 si postulano i princìpi matematici dell’armonia musicale; i princìpi fisici
della genesi o produzione del suono; esso nasce dall’aria colpita (§ 4-7); vi è
armonia solo quando il suono obbedisce a regole matematiche precise, sco
perte da Pitagora (§ 8-13) e che consistono in rapporti proporzionali armo
nici (§ 14-25). Nel capitolo II, premettendo la nozione dei solidi e dei corpi
matematici (§ 1-13) si spiega l’armonia celeste con l’ontologia aritmetica
descritta nel Timeo di Platone con la creazione dell’Anima del Mondo (§ 1-
24). Nel capitolo 3 sono descritti diversi simboli indizi della potenza della
musica osservabile nel mondo (le Sirene § 1; le Muse § 2-4; i riti § 5-6; i miti
d ’Orfeo e d’Anfione § 7-11). Segue la descrizione del meccanismo dell’armo
nia delle sfere (la musica e gli intervalli planetari cap. 3, 12-16; la differenza
d ’altezza dei suoni celesti cap. 4, 1-7; l’accordo celeste costituito dalle sette
note § 8-9), descrizione che dev’essere contenuta (§ 10-12) ma che richiede
alcune precisazioni (l’armonia del modo diatonico § 13; il motivo per cui la
musica delle sfere non è udibile § 14-15).
2 II testo di Macrobio reca la lezione disiunctus, quindi «ineguali, diver
si», mentre la tradizione diretta del brano di Cicerone reca la lezione coniunc-
tus , quindi «uniti, connessi». La stessa imprecisione si ritrova in Favonio
Eulogio (op. cit. 25, 6) nella sua citazione ciceroniana. D ’altronde questa
variante di disiunctus non può essere un errore di un copista, poiché
Macrobio lo riprende altre tre volte (II, 2, 21; II, 3, 12; II, 3, 16). E evidente
che entrambi i commentatori lavoravano su un testo di Cicerone recante tale
corruzione. Sia coniunctus sia disiunctus appartengono alla terminologia
musicale: cfr. Boezio, De Institutione musica I, 20 (Eptachordum quidem dici
tur synemmenon, quod est coniunctum, octachordum vero diezeugmenon, quod
est disiunctum) che spiega come i rispettivi termini corrispondano in greco a
e SiE^EuypÉvoc;. Pertanto i due commentatori non dovevano
o u v rm n é v o s
stupirsi di trovare nel testo utilizzato un termine musicale, ma, come inesper
ti di musica, non erano coscienti di quanto implicava quest’errore, Infatti
nell’antica musica greca la base del sistema musicale era il tetracordo (una
successione di quattro suoni congiunti discendenti, formanti un intervallo di
una quarta giusta, o meglio i cui estremi fissi formavano un intervallo di due
toni e un semitono), corrispondente ai toni della cetra. Nel corso del perio
do arcaico l ’antica cetra vide aumentare le sue corde da quattro a sette,
numero che come abbiamo veduto nel Libro Primo ha caratteristiche sacra
li. Vennero così a costituirsi eptacordo ed ottacordo, entrambi formati da
due tetracordi. Ma nell’eptacordo «congiunto», conìunctum , l’ultima nota
del primo tetracordo coincideva con la prima del secondo, mentre nell’otta-
cordo «disgiunto», disiunctum, i due tetracordi erano separati da un tono
(ossia in tutto sei toni e otto note, di cui la prima e l’ultima suonano all’otta-
va). Premesso che l’idea del cosmo presupponeva una similarità armonica, in
Cicerone come già nei pitagorici e soprattutto nel Timeo dì Platone, con l’an
tica lira greca a sette corde, non è oggi facile capire se il modello cosmogoni
co s’identificasse con la figura dell’eptacordo congiunto o dell’ottacordo
disgiunto. L’ipotesi interpretativa che ha preso corpo, anche per stringenti
motivi matematici che non è qui il caso di illustrare, oggi lo individua nel
tetracordo congiunto, anche perché richiamato nel Tilebo (VII, 17e-18e) per
chiarire la definizione di conoscenza. Ed infatti — ultimo paradosso — in II,
4, 9 Macrobio interpreta la scala dei suoni-pianeti e i suoi intervalli cui allu
de il Timeo nel suo modello di Anima del Mondo, prodotta dal Demiurgo,
secondo le leggi dell’armonia musicale sul modo deU’eptacordo congiunto
(cinque toni e due semitoni non consecutivi) e non disgiunto.
3 Septem... distinctos interuallis sonos: «sette suoni distinti da intervalli».
Pochi altri traduttori moderni, come già Favonio Eulogio (op. cit. 21) prefe
riscono interpretare «suoni distinti da sette intervalli». Vi sarebbero cioè otto
suoni, quanti le sfere celesti mobili e Cicerone penserebbe a un ottacordo
«disgiunto», in cui le due note estreme suonano all’ottava (cfr. nota prece
dente) e perciò la sfera della luna e quella delle stelle fisse emetterebbero lo
stesso suono spiegando il numero sette ed è ciò che esprimerebbe l’espres
sione in quibus eadem uis est duorum, «delle quali [sfere] due hanno la mede
sima velocità». Ma Macrobio riferiva di certo il numerale a sonos, non solo
perché la sua interpretazione sarà legata all’eptacordo «congiunto» (cfr.
ancora nota precedente), ma sempre in II, 4, 9 attribuirà la medesima uis
sonora a Venere e Mercurio, e non di certo alla luna e alla sfera delle fisse.
4 Cicerone, Repubblica VI, 18 = Sogno di Scipione 5, 1-2. Quale può esse
re stata la fonte precisa di questa teoria platonica per Cicerone? In passato si
pensava che avesse attinto la complessa conoscenza dell’armonia platonica
delle sfere da un ipotetico Commentano al Timeo di Posidonio. Oggi s’ipo
tizza che l’abbia appresa dal suo amico Publio Nigidio Figulo (per altro cita
to da Macrobio in Saturnali I, 9, 6). Cicerone nella traduzione al platonico
Timeo, ricordando l’estinzione dell’antica schola, presenta l’amico Nigidio
Figulo come il restauratore della disciplina pitagorica a Roma: denique sic
indico, post illos nobiles Pythagoreos, quorum disciplina extincta est quòdam
modo, cum aliquot saecla in Italia Siciliaque uiguisset, hunc extitisse, qui illam
renouaret (I, 1). Aulo Gellio arriverà ad accostarlo a Varrone, proclamando
li i due massimi intellettuali della loro epoca. Ed è proprio Terenzio Varrone,
anch’egli legato a Cicerone, l’altro nome che viene fatto: della scienza delle
stelle si occupò infatti anche questo grande letterato dell’ultimo periodo
repubblicano.
5 Macrobio ha trattato il movimento della sfera celeste in I, 17, 8-17 e
quello delle sfere «inferiori», vale a dire planetarie, in I, 18, prendendo le
mosse dall’ultima citazione del Somnium ciceroniano (I, 17, 1-5).
6 Definizione risalente al pitagorico Archita, al quale si devono, nel IV
sec. a.C., i primi studi d’acustica. Fu il primo a determinare come il suono sia
prodotto da moto e come nasca da urto. Da tale scoperta, formulò l’ipotesi
che anche i corpi celesti, dotati di continuo movimento, dovessero produrre
rumore, tuttavia non percepibile dai sensi umani, essendo non intervallato,
ovvero continuo nel tempo.
7 Macrobio utilizza qui la definizione più corrente, l’aria colpita emette
un rumore, che si riscontra in innumerevoli esempi (Teone di Smirne,
Calcidio, pseudo-Plutarco, Boezio). Nondimeno in questo caso specifico, la
definizione è inesatta, perché implica che le sfere planetarie siano immerse
nell’aria. Il che si scontra con l’opinione più diffusa nella cosmologia antica,
secondo la quale l’aria è presente sotto la sfera lunare, mentre i pianeti sono
immersi nell’etere. Lo stesso Macrobio ha strenuamente sostenuto quest’ul-
tima opinione in I, 21, 33 e vi ritornerà in II, 5, 4. Sarebbe stato meglio per
Macrobio ispirarsi alla definizione più precisa di Aristotele che definisce il
suono come prodotto dall’urto di qualcosa contro qualcosa e in qualcosa e
questo mezzo può essere oltre all’aria anche l’acqua ili Anima, II (B) 8, 419
b) e, si può aggiungere, l’etere. E infatti Nicomaco di Gerasa (,Manuale di
armonica III) e Aristide Quintiliano (La Musica III, 20) precisano che i corpi
celesti producono un suono colpendo l’etere. Di fatto ogni strumento musi
cale produce un suono grazie alla vibrazione di una corda, di una colonna
d ’aria, o di una membrana che mette in moto l’aria circostante allo stesso
modo, nel caso dell’aria di una bacchetta che la sferza o nel caso dell’acqua
di un sasso lanciato in uno stagno, dando luogo a un’onda sonora. Più velo
ce è la vibrazione, più corta è la lunghezza d’onda, più acuta la nota prodot
ta. A parità di altri fattori (quali, p.e., densità, spessore, tensione) la velocità
della vibrazione è inversamente proporzionale alla lunghezza del corpo
vibrante e questo consente di tradurre la pratica musicale in termini di rap
porti matematici tra lunghezze, come intuì Pitagora.
8 Cfr. I, 21, 33. Il concetto che tutto nell’universo è regolato da leggi è
un’idea-forza dello stoicismo ed è comune a tutte le correnti filosofiche del
l’epoca, ad eccezione dell’epicureismo.
9 Si tratta di un racconto tradizionale sulle consonanze definite da rap
porti matematici: cfr. Nicomaco, Manuale di armonica VI; Giamblieo, La vita
pitagorica 26 e 115-119; Boezio, De Institutione Musica I, 10 sgg. Ora sappia
mo che l’altezza di un suono è direttamente proporzionale non ai pesi ma alla
loro radice quadrata, come fu sperimentalmente verificato da Vincenzo
Galilei, padre di Galileo, e dimostrato qualche decennio dopo da Mersenne.
Comunque il legame del linguaggio musicale alla proporzionalità numerica
consacrò la musica a disciplina razionale.
10 È il fenomeno acustico della simpatia dei suoni armonici per cui un
corpo fin questo caso una corda) può vibrare semplicemente se a fianco vi è
un altro corpo che vibra e che abbia la stessa frequenza di vibrazione del
primo. In pratica, pizzicando una corda si mettono in vibrazione anche quel
le altre che hanno la stessa frequenza di vibrazione della prima, che hanno
cioè rapporti reciproci di proporzione ben precisi con la corda che si è suo
nata. Il fenomeno, fondamentale nell’ambito della musicoterapia da Pitagora
ai giorni nostri, fu considerato indizio della simpatia che univa tutte le parti
del mondo tra esse, negli Stoici e in Plotino, segno delle affinità tra le parti
del Tutto.
11 II sistema armonico che Macrobio descrive nei § 15-20 è il sistema pi
tagorico vigente fino al XVI sec. che considera solamente i numeri 1, 2, 3 e
4 (fondamentale, ottava, quinta e doppia ottava), serie di numeri naturali che
viene chiamata appunto tetraktys pitagorica (cfr. supra nota 123 del Libro
Primo). L’individuazione delle consonanze si basava necessariamente sulla
sensazione uditiva: è l’udito a rivelare che esistono alcune coppie di suoni
che producono un’impressione unitaria, e possono dirsi consonanti, altre che
non la producono, e non possono dirsi tali. Nella speculazione numerico-
musicale dei Pitagorici soltanto lottava, la quinta e la quarta possono essere
chiamate aupcpcoviat, in quanto soltanto in questi tre casi si genera un tipo
di sensazione uditiva, tanto più gradevole all’orecchio quanto più il rappor
to numerico delle lunghezze è semplice. I Pitagorici, confrontando tra loro le
dimensioni (lunghezza e spessore) dei corpi vibranti che producono i suoni
consonanti, ne ricavano infatti dei rapporti matematici: se, per esempio, due
corpi vibranti producono una consonanza di ottava, il suono più grave viene
emesso da quello più grande, e la dimensione di quest’ultimo è doppia
rispetto a quella del corpo vibrante che produce il suono più acuto. Si dice
perciò che la consonanza di ottava è espressa dal rapporto doppio (2:1).
Analogamente, la consonanza di quinta è espressa dal rapporto emiolio (3:2),
in quanto il corpo vibrante che produce il suono più grave è una volta e
mezza più grande di quello che produce il suono più acuto; la consonanza di
quarta è invece espressa dal rapporto epitrito (4:3). Stando alle fonti, questa
acquisizione risalirebbe ai primi Pitagorici, tra VI e V sec. a.C., e la tradizio
ne neopitagorica tende a farla risalire allo stesso Pitagora, che, secondo
Teone di Smirne e Diogene Laerzio, avrebbe addirittura inventato il Kctvcóv
di una sola corda o monocordo. Questo strumento di indagine acustica era
costituito, secondo la descrizione datane da Tolomeo, da una corda in ten
sione su sostegni sferici denominati pdyaSE<;: mantenendo costanti la ten
sione e, ovviamente, lo spessore della corda, se ne poteva dividere in due
parti la lunghezza mediante un cursore mobile, e si potevano analizzare così
i rapporti reciproci tra il suono prodotto dalla vibrazione della corda intera
e quelli prodotti dalle parti di essa di volta in volta delimitate da uno dei
sostegni fissi e dal cursore. In pratica la corda tesa su una cassa di risonanza
fra due ponticelli e posata su un terzo ponticello-cursore intermedio che
poteva essere spostato a piacimento sotto di essa, con le sue due sezioni così
divise produceva con le sue vibrazioni suoni di altezza variabile. Gli esperi
menti acustici condotti con il monocordo permettevano da un lato di visua
lizzare gli intervalli musicali come relazioni lineari (lunghezze) e dall’altro di
esprimerli aritmeticamente come rapporti tra le misure. Osservando la rela
zione fra porzione di corda vibrante e suono emesso, si trovò che, divisa la
corda in due parti uguali, si udiva la consonanza dell’unisono quando pizzi
cate entrambe, la consonanza d ’ottava quando era posta in vibrazione prima
la sua metà poi l’intera corda. Se la corda veniva poi divisa per i due terzi
della lunghezza, pizzicando prima i due terzi poi l’intera corda si udiva la
consonanza di quinta. In tal modo, unisono, ottava e quinta furono rispetti
vamente indicati coi rapporti 1:1, 1:2 e 2:3. Poiché infine la quinta e la quar
ta costituiscono insieme un’ottava, la quarta equivale a 3:4, come risulta con
fermato dall’esperienza. Le successive divisioni della corda per 1:2, 2:3 e 3:4
consentirono poi a Pitagora di ottenere una scala musicale completa.
L’eufonia dei principali accordi dipende infatti da semplici leggi fisiche.
Infatti tutte le civiltà, per quanto distanti tra esse, basano le loro scale musi
cali sui principali accordi di ottava, di quinta e di quarta, matematicamente
espresse tramite i rapporti menzionati. Dato un suono i tre accordi principa
li citati possono essere utilizzati per definire l’altezza di tre note ulteriori. In
termini più accessibili alla nostra moderna notazione musicale dato un DO
iniziale l’accordo di ottava definisce l’altezza del DO dell’ottava successiva,
quelli di quinta e di quarta rispettivamente del SOL e del FA intermedi. In
questo modo tra il FÀ e il DO si definisce un ulteriore intervallo di quarta,
mentre tra SOL e FA l’intervallo è pari a un tono (9:8). Poiché quattro note
sono poche per eseguire una qualsiasi melodia, il problema di riempire con
ulteriori note gli intervalli di quarta presenti agli estremi della scala è stato
risolto con modalità diverse nell’ambito delle varie civiltà. In Oriente o tra i
Celti s’individuarono solo due note ulteriori dando origine a scale pentatoni
che. Nel caso della scala musicale pitagorica partendo da un suono iniziale,
corrispondente al DO, s’individuò un suono concordante, il SOL, prodotto
da una corda la cui lunghezza è pari a 2/3 di quella che ha prodotto il DO,
l’accordo DO-SOL così definito fu detto di quinta, perché cinque sono le
note che compongono l’intervallo; a sua volta una corda di lunghezza pari a
2/3 di quella che ha prodotto il SOL produrrà un suono ancora più acuto,
corrispondente al RE dell’ottava successiva; proseguendo in questo modo,
per quinte ascendenti, si definiscono in dodici passaggi tutti i toni e i semi
toni dell’antica scala greca. Le stesse culture occidentali, influenzate dalla
teoria musicale pitagorica, danno luogo a scale composte da sette note,
aggiungendo quattro note ai tre principali accordi.
12 La terminologia utilizzata da Macrobio deriva da Aristosseno di Taran
to, nato verso la metà del IV sec. a.C. e autore del più antico Trattato d’armo
nia che ci sia pervenuto in buono stato. I nomi degli accordi Sia T E O o à p c o u
( X o p S a b v ) , Sia t t é v t e (xopScòv), 5ià -rraatóv (xopSòbv), rispettivamente
quarta, quinta e ottava, vale a dire letteralmente «attravero quatto (corde)»,
«attraverso cinque (corde)», «attraverso tutte (le corde)», derivano compren
sibilmente dalla lira a otto corde o ottacordo (cfr. sopra nota 2). I musicogra
fi raggruppano gli intervalli elencati da Macrobio sotto la denominazione di
«grandi intervalli». Il diatessaron (rapporto 4:3 chiamato anche sesquitertio
che separa il DO dal FA) la quarta «giusta» o «perfetta» o «naturale», com
porta due toni e un semitono; il diapente (rapporto 3:2 chiamato anche ses
quialtera che separa il DO dal SOL), la quinta giusta, tre toni e un semitono;
il diapason, la doppia (rapporto 2:1 detta anche dupla, che musicalmente
separa il DO con cui si apre la scala musicale dal DO dell’ottava successiva,
con un intervallo di otto note) è l’intervallo di ottava ed è composto di sei
toni; il diapason e diapente (tripla, ovvero 3:1), ossia una quinta più un’otta
va, è l’intervallo di dodicesima; e il dysdiapason (quadrupla, ovvero 4:1), ossia
una doppia ottava, è l’intervallo di quindicesima.
13 II tono, che di fatto esprime la differenza tra una quinta ed una quar
ta, nella prospettiva matematica pitagorica condivisa da Macrobio equivale a
trovare il rapporto di epogdo (detto anche sesquiottava o tono maggiore),
ossia quinta - quarta = (3/2)/(4/3) = 9/8. In pratica si sottrae un intervallo
dall’altro dividendo il rapporto che definisce il maggiore di questi intervalli
con il rapporto che definisce il minore. E inversamente per sommare due
intervalli, si moltiplicano i rapporti l’uno con l’altro, ossia la somma di due
intervalli corrisponde al prodotto dei loro rapporti: per esempio quinta +
quarta = (3/2) x (4/3) = 2/1 = ottava.
14 Nell’antichità vi erano due concezioni peculiari del semitono. La
prima, quella tecnica, che dimostrava che la quarta è commensurabile al
semitono (cosa che i Pitagorici non ammettevano) e che affermava che il tono
è divisibile in due parti uguali, introdotta da Aristosseno per primo nella pra
tica musicate e seguita da quelli che Plutarco chiama, in contrapposizione ai
Pitagorici gli «Armonici». La seconda, quella dei teorici di obbedienza pita
gorica che trattavano la musica come una scienza astratta senza scopi prati
ci. Per i Pitagorici, nella cui linea diretta Macrobio s’iscrive, non era ammis
sibile che il tono fosse divisibile in due parti eguali, perché il rapporto 9/8,
che si ottiene sottraendo una quarta da una quinta, non ha metà (cfr. pseu-
do-Euclide, Sectio Canonis prop. g e § 16; Plutarco, La generazione dell’ani
ma nel Timeo 17, 1020 e; Teone di Smirne, Conoscenze matematiche utili alla
lettura di Platone, p. 112, ed. Dupuis). Per la scuola pitagorica non sono divi
sibili in due parti uguali né la quarta, né il tono (cfr. infra nota 16), né l’otta
va, né la quinta. Per Aristosseno e gli Armonici, la metà del tono esiste, essa
è un fatto di evidenza sensibile: è il semitono giusto; la quarta è anch’essa
divisibile in due intervalli uguali (1 tono 1/4 più 1 tono 1/4). Aristosseno
negava qualsiasi valore reale a calcoli di pura costruzione numerica, e per
altro complessi, dei Pitagorici che secondo lui non avevano alcun senso in
musica, anticipando così un sistema perfettamente temperato che si sarebbe
raggiunto solo con l’arrivo del 1600 e di Bach, nel quale l’ottava fu divisa
matematicamente in 12 semitoni uguali. In tal modo venne meno l’influenza
della matematica e del simbolismo numerico nei problemi relativi all’accor
datura pratica della scala musicale e la musica uscì definitivamente dalle
discipline matematiche del quadrivium.
15 Cfr. Teone di Smirne, op cit. p. 88, ed. Dupuis.
16 Macrobio mostra di sapere che i Pitagorici non ammettevano che il to
no fosse divisibile in due parti eguali, perché il rapporto 9/8, che si ottiene
sottraendo una quarta da una quinta, non ha metà. Si sbaglia però nel soste
nere che nella frazione 9/8 è il 9 a non poter essere diviso in due parti ugua
li (stesso errore in Teone di Smirne, op. cit. p. 53). Ugualmente conosce il
valore approssimativo del tono di due parti ineguali, il limma (256/243, dove
il valore approssimato della radice quadrata di 9/8 è 17/16 secondo Platone),
ma ignora, come lo ignoravano i Pitagorici che non sapevano estrarre la radi
ce quadrata, che il semitono giusto sarebbe la radice quadrata di 9/8, in
modo che, moltiplicata per se stessa, essa dia il rapporto 9/8 che definisce il
tono intero. Attraverso la loro matematica discreta i Pitagorici procedevano
in questo modo: il semitono (termine approssimativo) è «ciò che resta» quan
do dalla quarta (definita, come si è visto, dal rapporto 4/3) si sottrae un dito
no, ossia due toni. Si è visto sopra in nota 13 la procedura per sottrarre due
intervalli e inversamente per sommarli. Così per ottenere un ditono, si mol
tiplicava l’epogdo, che definisce il tono, per se stesso, ossia 9/8 x 9/8 =
(9/8)2. Così il semitono, concepito come la differenza tra la quarta e il dito
no, veniva espresso con il calcolo seguente:
(4/3) : (9/8)2 = 4/3 : 81/64 = 4/3 x 64/81 = 256/243.
Questo semitono era un po’ più piccolo della metà del tono (infatti
256/243 x 256/243 non raggiunge il tono pitagorico (9/8). I Greci chiamava
no la differenza tra il tono e il semitono giusto apotome , che significa «taglia
to via», che verrà detto anche semitono maggiore, e si otteneva con questo
calcolo:
9/8 : 256/243 = 9/8 x 243/256 = 2187/2048.
17 Anche qui Macrobio mostra di sapere come il termine diesis apparten
ga all’antica terminologia pitagorica (l’uso per descrivere l’intervallo di
256:243 è attribuito a Filolao), e come in seguito, per definire il semitono
giusto o diatonico o minore, si sia introdotto il termine limma (àeTkuo, let
teralmente «il resto, la parte lasciata») attribuendolo a Platone (anche se il
termine nei suoi scritti non appare direttamente). Cfr. Plutarco, l. c «Uno
degli intervalli è quello chiamato tono, la cui misura esprime di quanto il dia
pente è maggiore del diatessaron. Gli Armonici ritengono di riuscire a divi
derlo a metà e di farne due intervalli che chiamano ambedue semitoni. Ma i
Pitagorici riconobbero impossibile la divisione in due parti uguali e delle due
parti disuguali chiamarono la minore leimma (resto), perché resta al di sotto
della metà». Al di fuori della scuola pitagorica, il diesis designava intervalli
più piccoli del limma'. ad es. in Aristosseno il cosiddetto quarto di tono.
18 L’estensione della voce musicalmente utile è di circa due ottave, ma, a
rigore, l’attitudine della laringe all’emissione del suono supera ampiamente
tale limite, giungendo fino a circa quattro ottave. Vi sono anche stati risulta
ti-limite di sette ottave e un quarto, ma in cui solo sei ottave avevano valore
musicale. Nella trattatistica antica si riteneva che siccome la voce umana non
poteva superare l’estensione di due ottave, anche la medesima tessitura era
quella percepita dall’orecchio umano, la cui percezione in realtà si estende su
dieci ottave circa. Basti pensare che un semplice pianoforte moderno copre
un’estensione superiore a otto ottave.
19 II diapason con diapente è pari alla somma di un’ottava e una quinta,
consonanza che risulta da una tripla, ossia l’intervallo di una dodicesima.
L’armonia celeste giunge dunque fino a quattro duodecime secondo
Macrobio. Tuttavia si è giustamente osservato che Macrobio, o per inavver
tenza o perché utilizzava un testo corrotto, abbia omesso alla sua addizione
il tono. Infatti per testimonianza di Teone, un autore precedente a Macrobio,
Platone conduce la scala musicale sottesa alla formazione dell’Anima del
Mondo nel Timeo «fino alla quarta S ia Tiaacòv Kai S ia ttévte e un tono»
(op. cit. p. 104). Infatti la scala completa che comporta quattro ottave, una
quinta e un tono permette, addizionando i rapporti numerici che definisco
no questi intervalli secondo le modalità sopra descritte, di ottenere il nume
ro 27, il maggiore nella costruzione dell’Anima del Mondo descritta nel
Timeo 35 b.
20 Cfr. nota 2 sulle differenti possibilità di divisione dei gradi del tetra
cordo.
21 p er l’espressione iugabilis competentia cfr. supra I, 6, 24; I, 6, 31; I, 6,
33; I, 19, 21 e infra II, 2, 18 e relative note,
22 Platone, Timeo 35 a-36 b, parzialmente tradotto in seguito nel § 15.
23 Cfr. I, 5, 9. Le nozioni che stanno per essere trattate nei § 3-13 sono
già state trattate in generale in I, 5, 5-13.
24 Per i corpi matematici o incorporei cfr. I, 5, 7; I, 6, 35.
25 Sul punto indivisibile cfr. I, 16, 10. Su punto, superficie, solido cfr. I,
5, 11-12; 1,6, 35; I, 12,5.
2^ Cfr. I, 5, 9 e infra nota 30.
27 Sulla monade intesa come punto cfr. I, 12, 5 e non come numero, ma
origine dei numeri cfr. I, 6, 7.
28 Cfr. I, 5, 15.
29 Sulla monade origine del pari e del dispari cfr. I, 6, 7.
30 Si tratta dei numeri lineari, piani (o quadrati), solidi (o cubici): nozio
ne che appare nel Timeo 32 a-b e che rinvia all’aritmetica pitagorica. Presso
i Pitagorici la geometria non si considerava distinta dall’aritmetica e, in un
certo senso, l’aritmetica assumeva una forma geometrica. Dei numeri, infat
ti, si dava una rappresentazione geometrica o, per così dire, fisica, tramite
un’opportuna configurazione di punti-sassolino formanti delle figure. Ad
esempio si chiamavano lineari i numeri che si potevano ottenere disponendo
i punti in segmenti: per ottenere una linea ne occorrevano almeno due, e se
si considera la serie dei numeri dispari, almeno tre. Quindi 0 tre, come dice
Macrobio, dà la prima linea dispari. I Pitagorici chiamavano invece piani,
vale a dire a due dimensioni, lunghezza e larghezza, e che risultano dal pro
dotto di due fattori, i numeri corrispondenti a gruppi di sassolini disposti in
quadrato: i primi sono nella serie dei pari il quattro, e in quella dei dispari il
nove. Quanto ai numeri solidi, ossia aventi tre dimensioni, lunghezza lar
ghezza altezza, si ottengono con il prodotto di tre fattori e i primi delle serie,
pari e dispari, sono rispettivamente l’otto e il ventisette.
31 Cfr. I, 6, 2-3 e I, 6, 46 e nota 87 del Libro Primo. C’è nuovamente da
chiedersi se Macrobio qui utilizzi lo schema lineare o a lambda. Nel seguen
te § 17 lo schema lineare sembra esplicitamente descritto, ma qui pare segui
re il lambdoma.
32 Platone, Timeo 35 a-36 b, la cui traduzione è nel seguente § 15.
33 Le sette parti della divisione corrispondono ai numeri 1 ,2 ,3 ,4 ,9 , 8,27.
Il 9 precede l’8 perché il demiurgo per garantire l’ordine della sequenza,
intreccia alternativamente la potenza del doppio e del triplo. Il secondo
numero è il doppio del triplo, il terzo è il triplo del primo, il quarto è dop
pio del secondo, il quinto è il triplo del terzo, il sesto è doppio del quarto e
il settimo è triplo del quinto. In altri termini, dopo la monade, si alternano le
serie pari e dispari, facendo seguire i numeri lineari (2 e 3), poi i quadrati (4
e 9) e i cubici (8 e 27): cfr. supra nota 30. Altro schema di raffigurazione è
quello a lambda su cui cfr. precedente nota e nota 87 del Libro Primo. Tutto
il passo è, com’è noto, di notevole difficoltà, ma verosimilmente, essendo i
numeri che corrispondono alle prime sette parti dell’Anima del Mondo,
vanno associati ai pianeti in base a quelli che si ritenevano rapporti delle
distanze di questi pianeti dalla terra.
34 I sette numeri della nota precedente danno alle due progressioni geo
metriche 1,2, 4, 8 e 1, 3, 9, 27, con ragione rispettivamente 2 e 3 e quindi
quaterne di primi numeri pari e dispari. Sono gli intervalli della prima e della
seconda progressione numerica, che vengono colmati con due medietà attra
verso la proporzione armonica a : b - x - a : b - x e quella aritmetica a - x =
x - b.
35 Platone, Repubblica X 617 b: «Su ciascuno dei suoi cerchi, in alto, si
muoveva una Sirena, anch’essa trascinata dal moto circolare. Ognuna emet
teva una sola voce di un unico tono; ma da tutte otto quant’erano risultava
una sola armonia». Si tratta di un’immagine dell’armonia dei cieli d’origine
sicuramente orfico-pitagorica, in cui le Sirene rappresentano il cielo delle
stelle fisse e i sette pianeti e il loro canto è quindi la musica delle sfere cele
sti.
36 II nome ^eipfjv non ha un etimologia sicura. Alcuni lo fanno derivare
dal greco a e t p i o j «splendente, ardente», altri da o ó p c o «attraggo, trascino»
e G E i p ó c o «incateno, lego». Macrobio mette in relazione la parola con o i c p ,
forma dorica di 0rjcp, «divinità».
37 Sui theologi, termine già presente in I, 10, 16 e 17 con cui si designa
vano i poeti autori di teogonie, vedi anche I, 14, 5 e I, 17,14 e rispettive note
239 e 328 del Libro Primo, passi in cui, più probabilmente, il termine si
applicava ai filosofi che si sono occupati del divino. L’identificazione delle
Sirene con le Muse è riferita da Plutarco e da Proclo, ma entrambi la attri
buiscono agli «antichi». Porfirio la riferisce allo stesso Pitagora. I teologi
sarebbero dunque sapienti antichi, che quasi precedono i «filosofi». E illu
minante in proposito un passo di Marsilio Ficino nella sua introduzione alle
Enneadi di Plotino: «Era costume degli antichi teologi nascondere i divini
misteri sotto formule matematiche e metafore poetiche, perché non venisse
ro diffusi al volgo».
38 Trascrizione in latino del nome OOpavta, «la celeste». Nella raffigu
razione ha come suo attributo la sfera stellata. Musa dell’astronomia presie
de alla scienza delle cose celesti.
39 Cfr. Esiodo, Teogonia 77-79. Il verso citato per esteso è l’ultimo.
Nell’elenco esiodeo Calliope è la nona delle Muse e, come indice della sua
supremazia, le è consacrato un verso intero, mentre le altre otto sono elenca
te in soli due versi.
40 La traduzione non riesce rendere giustizia alla ricchezza semantica
della parola latina uox , su cui Macrobio gioca, poiché il termine significa
tanto «voce» quanto «suono». Così non simboleggia la risonanza di una sfera
celeste, ma il concerto che nasce dalle voci di ciascuna delle sfere.
41 Apollo Musagete, cioè conduttore delle Muse, figlie di Zeus e
Mnemosine, di cui dirige il coro.
42 Cicerone, Repubblica VI, 17 = Sogno di Scipione 4, 2. Macrobio ha
commentato questo passo in I, 20, 1-8. Apollo con la cetra circondato dalle
Muse appare in Esiodo, Teogonia 201-206. Macrobio lo associa all’armonia
delle sfere in Saturnali 1 ,19,15: lyra Apollini chordarum septem tot caelestium
sphaerarum motus praestat intellegi, quibus solem moderatorem natura consti-
tuit («la lira di Apollo, di sette corde, rappresenta il moto di altrettante sfere
celesti, regolato per natura dal sole»),
43 Le Camene, ninfe profetiche delle fonti e delle acque dell’antica reli
gione italica (la più nota fu Egeria che istruì il re Numa), furono ben presto
identificate con le Muse. La più antica testimonianza risale a Livio Andro
nico (III sec. a.C.). Per i loro doni profetici il loro nome fu associato al ter
mine carmen e al verbo canere, come attestano Varrone (Lingua Latina ),
Festo {De verborum significatu) e Servio (Commento a Virgilio).
44 Cfr. supra nota 37 e altri passi e note ivi richiamate. In questo caso i
theologi ci sembrano da identificare con coloro che istituirono i riti.
45 Altri preferiscono tradurre tibia con flauto, allo stesso modo con cui
viene tradotto il termine corrispettivo greco aùÀój, Preferiamo mantenere la
traduzione letterale, perché l’altra consueta traduzione è sbagliata. La tibia,
antico strumento a fiato pastorale in origine e spesso costruito con le tibie
degli animali, formata da una sola canna o più sovente da due canne diver
genti ma con un’unica imboccatura, più che a un flauto, per la potenza di
fiato che richiedeva (come mostrano le pitture vascolari e i rilievi), assomi
gliava a un oboe, mentre per il suono penetrante, insistente ed eccitante, era
più simile a una cornamusa.
4() Come testimonia nel suo trattato di metrica, noto col titolo Enchiridion
de metris il grammatico Elio Festo Aftonio [Hephaestio Alexandrinus] (III
sec.): «Gli antichi cantavano le lodi degli dèi racchiuse in versi girando attor
no ai loro altari: il primo giro, che iniziava muovendo verso destra [in senso
antiorario], lo chiamavano strophé [cioè ‘evoluzione’, detto anche dell’avvi-
cendarsi delle stagioni]; poi, il secondo giro, compiuto al termine del primo
in senso opposto muovendo verso sinistra [in senso orario], la chiamavano
antistrophé... si tramanda che con il canto sacro così ripartito l’uomo inten
da imitare l’armonia e il movimento dell’universo. In essi infatti le cinque
stelle dette “erranti” e in più il sole e la luna, come riferiscono i più dotti tra
i filosofi, rilucendo nelle loro orbite producono dei suoni gradevolissimi.
Così, imitando l’armonia e il movimento dell’universo, il coro cantava, dap
prima danzando verso destra, poiché il cielo dall’alba al tramonto ruota verso
destra; poi ritornava verso sinistra, poiché dal tramonto all’alba il sole, la
luna e gli altri astri detti “erranti” ruotano verso sinistra...».
47 Note a Roma, ad esempio, erano le neniae, i canti funebri eseguiti dalle
prèfiche. Per la Grecia si possono ricordare i threnoi.
48 Orfeo, il mitico cantore tracio, fu uno degli Argonauti. Sposo di
Euridice, alla sua morte, ottenne dagli dèi di ricondurla sulla terra, a patto di
non voltarsi mai a guardarla lungo il percorso. Avendo disobbedito, la perse
per sempre. Fu in seguito considerato il profeta delTorfismo. La leggenda
secondo cui con la magia del suo canto trascinava uomini, animali, piante e
pietre è ben nota, a partire da Eschilo ed Euripide. Più raramente evocato di
Orfeo riguardo ai poteri della musica è Anfione. Figlio di Zeus e d ’Antiope,
fu allevato da un pastore sul Monte Citerone con il suo fratello gemello Zeto.
Anfione, istruito meravigliosamente da Ermes nel suono della lira, divenuto
adulto, col fratello mosse alla volta di Tebe per vendicare la madre dei sopru
si che aveva subito da Lieo e dalla sua nuova compagna Dirce. Dal suo stru
mento sapeva trarre suoni cosi delicati e commoventi che, quando si accinse
a costruire le mura di Tebe le stesse pietre accorsero a collocarsi da sole, una
sull’altra.
49 La storia della musica militare è straordinariamente lunga e variegata.
Si ha notizia di suonatori di strumenti, prevalentemente a fiato, ma anche a
percussione che seguivano gli eserciti mesopotamici prima, egizi poi, infine
greci e romani per consentire ai combattenti di obbedire agli ordini del
comandante. Le ragioni della limitazione a due classi di strumenti per uso
militare sono evidenti: i soldati avevano bisogno di strumenti che potessero
essere suonati agevolmente in piedi, durante la marcia, e che fossero anche
trasportabili con una certa facilità.
50 Virgilio, Eneide IV, 244.
51 Si tratta di una nozione tipicamente pitagorica attestata in innumere
voli fonti. Condivisa da Platone, anche Aristotele e i suoi continuatori sotto
linearono il potere catartico della musica sulle passioni. La concezione del
potere terapeutico della musica divenne pressoché comune tra musicologi e
filosofi, che, a cominciare da Platone, sottolinearono il suo ruolo nell’educa
zione. Sull’influenza della musica sullo spirito cfr. Varrone, Satire Menippee,
fr. 365 b: saepe totius theatri tibiis crebro flectendo commutari mentes, frigi
animos eorum , «che spesso le tibie, con le loro frequenti modulazioni, muti
no lo stato di spirito di un teatro intero, risvegliando i loro animi».
52 L’uso terapeutico della musica era una comune nozione pitagorica,
attestata da Aristosseno già dal IV sec. a.C. Come testimonia Giamblico: «...
era un mezzo tutt’altro che secondario di procurarsi la “catarsi”. Era questo
il nome che [Pitagora] dava alla cura operata per 0 tramite della musica» {La
vita pitagorica, I, 25, 110), Il verbo praecinere, «cantare» ma anche «pronun
ciare una formula magica» richiama un contesto di cerimoniali, pratiche e
formule magiche, in cui queste ultime avevano un’unità strettissima con le
manifestazioni musicali, con la loro forza immaginifico-evocativa, al punto
che canto e incantesimo erano indistinguibili, come testimonia anche il ter
mine latino carmen, che assume entrambi i significati, o il derivato francese
charme che significa anche incantesimo.
53 Usignolo e cigno sono tuttora le immagini letterarie, poetiche e musi
cali per definire il cantore per eccellenza. Come ricorda anche Isidoro nelle
sue Etimologie (XII, 7, 18 e 37) i loro stessi nomi sono associati al canto.
L’usignolo è «come se cantasse per la luce»: infatti in latino lusciniolus è
diminutivo di luscinia, voce composta di lux, luce, e cinia, da ano usato nei
composti per cano, canto. L’usignolo è infatti noto soprattutto per il suo
canto molto ricco e musicale, anche notturno. Anche la voce cycnus, cigno, è
reputata derivare dallo stesso verbo, cino/cano, cantare. Gli Antichi credeva
no che il cigno prossimo a morire cantasse nel modo più soave. Il mito dei re
dei Liguri Cicno, attestato la prima volta in un frammento di Esiodo, narra
che aveva avuto in dono da Apollo la soavità del canto e che piangendo la
morte dell’amante Fetonte con un lungo canto fu trasformato nell’uccello
che porta il suo nome e in seguito posto da Apollo fra le stelle. Oggi perciò
in senso traslato s’intende con «cantare come un usignolo» cantare bene e
con «canto del cigno» l’ultima e la più alta opera o azione compiuta da qual
cuno, in special modo da un artista, in ricordo del mito sopra riportato.
54 Virgilio, Eneide VI, 728-729. Parte del primo verso è citato anche 1 ,14,
14 (cfr. nota 248 del Libro Primo).
55 Su Archimede cfr, sopra nota 349 del Libro Primo. Archimede misu
rava le distanze degli astri dalla terra in stadi con un sistema di numerazione
moltiplicativo di tipo esponenziale, di cui Macrobio non ci dà ragguagli ma
che respinge in quanto non platonico. Da osservare che qui Macrobio attri
buisce correttamente ad Archimede l ’ordine di successione «caldeo» (su cui
cfr. note 219 e 350 del Libro Primo), mentre esponendo la teoria dei plato
nici viene seguito l’ordine «egiziano» attribuito a Platone, diverso da quello
attribuito ad Eratostene riferito nel capitolo 19 del Libro Primo.
56 Gli intervalli doppi e tripli in progressione geometrica a ragione due
(2, 4, 8) e a ragione tre (3, 9, 27) sono quelli utilizzati dal Demiurgo del Ti
meo per fabbricare l’Anima del Mondo (cfr. la traduzione di Macrobio in I,
2, 159). Questi stessi numeri si ritrovano rispecchiati nel Corpo del Mondo.
57 In I, 19, 3-5 erano implicitamente proposte distanze molto differenti.
Secondo il calcolo proposto da Macrobio, che parte dall’unità che rappre
senta la distanza della Terra dalla Luna e ogni distanza è un multiplo della
precedente con la serie matematica del Timeo, risultano i seguenti valori:
Terra-Luna = 1; Terra-Sole = Terra-Luna x 2 = 2; Terra-Venere = Terra-Sole
x 3 = 6; Terra-Mercurio = Terra-Venere x 4 = 24; Terra-Marte = Terra-
Mercurio x 9 = 216; Terra-Giove = Terra-Marte x 8 = 1728; Terra-Saturno =
Terra-Giove x 27 = 46656. Se, invece, si fa il calcolo sulla base delle durate
di rivoluzione enunciate in I, 19, 3-5 ne risulterebbero le seguenti distanze:
Terra-Luna = 1; Terra-Sole/Mercurio/Venere = 12; Terra-Marte = 24; Terra-
Giove = 144; Terra-Saturno = 360. Quali effettive misure corrispondano a
questi numeri Macrobio non lo dice. Ma se si accostano al dato che si ricava
in I, 20, 21 (che utilizza tutt’altro metodo), per cui il raggio dell’orbita sola
re è di 4.800.000 stadi, equivalente alla distanza Terra-Sole, ne risulterebbe
ro, soprattutto nel caso del primo calcolo, numeri enormi. Una diversa inter
pretazione si ritrova in Calcidio (Commentario al Timeo di Platone, XCVI).
Nell’opera, di poco precedente a quella di Macrobio, si utilizza la progres
sione aritmetica, intendendola come un multiplo diretto della distanza Terra-
Luna, per cui risultano i valori seguenti: Terra-Luna - 1; Terra-Sole = 2;
Terra-Venere = 3; Terra-Mercurio = 4; Terra-Marte = 8; Terra-Giove = 9;
Terra-Saturno = 27. Calcidio in questo modo giunge a numeri meno gigan
teschi di quelli di Macrobio, ma si può osservare che è obbligato nella suc
cessione numerica, ad invertire l’8 con il 9, per non collocare Marte sopra
Giove. Un altro problema è il fatto che qui i pianeti sono disposti secondo
l’ordine «egiziano» o «platonico», mentre il sistema descritto nel Sogno di
Cicerone è, come abbiamo veduto (cfr. note 198, 219, 350 del Libro Primo),
quello «caldeo». Macrobio aveva tentato di risolvere la contraddizione ricor
rendo al sistema semi-eliocentrico di Eraclide Pontico (cfr. I, 19, 6-7 e relati
va nota 355 del Libro Primo), ma qui questo sistema creerebbe ulteriori dif
ficoltà.
58 Porfirio di Tiro (233-305), filosofo neoplatonico, fu a Roma discepolo
di Plotino di cui scrisse una Vita e pubblicò le Enneadi. Avversario del cri
stianesimo, fu tuttavia famosa anche la sua Isagoge, introduzione alle catego
rie di Aristotele, che ebbe un’enorme influenza sul pensiero medioevale. Solo
qui Macrobio cita Porfirio e il suo perduto commento al Timeo come sua
fonte.
59 Sul limma, rapporto pitagorico 256/243, cfr. sopra nota 16 e 17.
60 Si sono calcolati gli intervalli armonici che risultano dai rapporti tra le
distanze planetarie offerte da Macrobio. Dato che, come si è veduto, quan
do si sommano due intervalli i rapporti che li definiscono vanno moltiplicati
(cfr. sopra nota 16), ne risultano: Sole-Luna (rapporto 2/1), un’ottava (Sia
TTaocòv); Venere-Sole (rapporto 3 = 2/1 x 3/2), un’ottava più una quinta
(Sia Ttaacòv Kai Sia ttévte); Mercurio-Venere (rapporto 4 - 2/1 x 2/1),
una doppia ottava (Bis Sta Ttaacòv); Marte-Mercurio (rapporto 9 = 2/1 x
2/1 x 2/1 x 9/8), tre ottave e un tono; Giove-Marte (rapporto 8 = 2/1 x 2/1
x 2/1), tre ottave; Saturno-Giove (rapporto 27 = 2/1 x 2/1 x 2/1 x 2/1 x 3/2
x 9/8), quattro ottave, una quinta e un tono. Tra i due suoni prodotti dai pia
neti estremi, l’intervallo totale è quindi di quindici ottave e tre toni, in con
traddizione con quanto affermato da Macrobio in I, 1, 24 (per non parlare
della sua probabile omissione di trascrizione) su cui cfr. supra nota 19. In
Calcidio (cfr, sopra nota 57) l’intervallo totale è di 27, ovvero quattro ottave,
una quinta e un tono. Comunque sia, anche confrontando le interpretazioni
dei vari commentatori del Timeo si ritroveranno più varianti nell’ampiezza
degli intervalli planetari, ma il princìpio generale è sempre lo stesso, ossia il
fatto che i suoni celesti sono concepiti sul modello delle corde della lira.
61 La maggioranza degli autori antichi attribuiva il suono più acuto alla
sfera più elevata, perché la sua rivoluzione era più veloce, e il suono più grave
alla più bassa. Altri autori come Nicomaco e Plutarco percorrevano la scala
secondo una direzione ascendente.
« In II, 1,5.
63 Macrobio sembra contraddirsi rispetto a quanto affermato in maniera
netta in 1 ,14,27 e 1,21,6 sul fatto che tutti i pianeti si spostano ad una mede
sima velocità e che la differenza di durata delle loro rivoluzioni è determina
ta dalla diversità di lunghezza delle loro orbite.
64 Sul concetto di soffio, spiritus, che appare per tre volte nei § 5-7
Macrobio è un po’ ellittico. Si può completare il ragionamento di Macrobio
dicendo che il soffio, che proviene dall’alto, s’indebolisce gradualmente avvi-
dnandosi nella sua discesa alla terra. La provenienza di questo soffio che
anima 0 Corpo del Mondo è la stessa Anima: cfr. i passi supra II, 3, 12 e infra
II, 16, 26.
65 Si è giustamente affermato come la corrispondenza di un suono più
acuto per i pianeti che ruotano con un moto più rapido e di un suono più
grave con i pianeti che ruotano più lentamente sia in palese contraddizione
con quanto Macrobio ha affermato nel capitolo 21 del Libro Primo (cfr.
sopra nota 63). In esso Macrobio dichiarava che tutti pianeti si muovono alla
stessa velocità e che le loro rivoluzioni durano un tempo maggiore o minore
a seconda della loro distanza dalla terra. Si è però ribattuto che Macrobio
non riteneva di cadere in contraddizione, perché presupponeva una velocità
angolare o di rotazione identica per tutti i pianeti e una velocità assoluta pro
porzionale alla distanza di ciascun pianeta dalla terra, quindi differente
rispetto al sistema di riferimento. Un esempio è quello di due ciclisti affian
cati con pedali di diverse lunghezze, che pur avendo, a parità di rapporto,
un’identica velocità angolare, avranno una differente velocità di rotazione
delle gambe rispetto al sistema di riferimento.
66 Qui Macrobio, nel suo paragone, incorre in un errore. Mentre i flauti
più lunghi hanno un suono più grave e i più corti hanno un suono più acuto,
non è affatto vero che il suono più acuto è quello emesso dai fori più prossi
mi alla bocca e quello più grave dal più lontano, essendo semmai vero il con
trario. E altresì vero che, nel flauto, alla cavità più piccola del foro corrispon
de un suono più acuto. Altro errore di Macrobio è la sua confusione tra altez
za e intensità del suono, laddove dichiara che un suono più intenso è anche
più acuto e, viceversa, un suono più debole è anche più grave. Ma i due erro
ri si riscontrano già in Archita e in Teone di Smirne.
67 In I, 22, 7-10. Cfr. anche 22, 1, 4.
68 Cicerone, Repubblica VI, 17 = Sogno di Scipione 4, 1. La citazione era
già in I, 17, 3, dove, in conformità al testo, Macrobio scrive ceteros (concor
dando l’aggettivo con un orbes vel globos sottinteso). Qui traspone l’aggetti
vo ceteros ai femminile per concordarlo a uno sphaeras sottinteso.
69 Macrobio ritorna su nozioni già espresse e familiari al lettore: la sfera
stellata (I, 17, 6-17); il moto retrogrado dei pianeti (I, 18), l’immobilità della
terra (I, 22, 1-3).
70 L’affermazione che Mercurio e Venere, «satelliti» del sole, hanno una
medesima velocità è in palese contraddizione con l’osservazione fatta nel pre
cedente capitolo (II, 3, 14) in cui si attribuiva a Mercurio un orbita di raggio
quadruplo rispetto a quello di Venere. Ma che Mercurio e Venere sono iso
dromi del sole è già stato affermato in I, 19, 4. Qui la contraddizione può
spiegarsi sia per la difficoltà di dover commentare un passo in cui trovava la
lezione disiunctus (su cui cfr. sopra note 2 e 3), sia per la difficoltà di conci
liare l’ordine dei pianeti «caldeo» dato da Cicerone con quello platonico (su
cui cfr. le numerose note relative del Libro Primo e sopra note 55 e 57).
Comunque sia la scala musicale celeste è modellata su quella dell’eptacordo
a tetracordi congiunti, in cui l’ultima nota del primo tetracordo è la stessa
della prima nota del secondo, che qui equivalgono alle note prodotte da
Venere e Mercurio (cfr. supra nota 2).
71 Cicerone, Repubblica VI, 18 = Sogno di Scipione 5, 2, già citato in I, 3.
72 Nel capitolo 6 del Libro Primo dove si spiega che nel sette sono con
giunte le proprietà del quattro e del tre.
73 Nete e hypate (letteralmente la più bassa e la più alta) erano le corde
estreme di una lira. L'hypate, la più alta dal punto di vista fisico e non del
tono (in quanto la lira veniva tenuta in posizione eretta, parallela al corpo),
era quella destra, più vicina al corpo, che emetteva il suono grave, viceversa
la nete, a sinistra, emetteva il suono acuto. Con la stessa nomenclatura si indi
cavano i suoni della scala eptatonica e dell’eptacordo citato sopra in note 2 e
70. Gli altri nomi delle note, ricavati dalla posizione delle corde sulla lira
erano paranete, trite, paramese, lichanos (percossa con il dito indice), parhy-
pate. Ovviamente, Yhipate, dal suono grave, era attribuita a Saturno e la nete ,
acuta, al circolo lunare. Purtroppo nel VI libro della Repubblica Cicerone
dava un ordine contrario, attribuendo alla luna un suono «gravissimo», così
come riporta Macrobio in uno dei precedenti capoversi. E verosimile che
Macrobio, che mostra scarsa dimestichezza con la musica, non abbia voluto
addentrarsi in una polemica, non tanto per la scarsa pertinenza del tema,
quanto per non sottolineare I’aporia di Cicerone. Cosa che invece doveva
aver fatto un ignoto commentatore verso il quale si dirigono i successivi stra
li di Macrobio. Quanto al tono e al semitono, il limma, Macrobio è coscien
te di averne a malapena sfiorato le nozioni (cfr. II, I, 20-23 e supra note 16 e
17).
74 Favonio Eulogio (op. cit. 22) accenna rapidamente che alle lettere in
musica corrispondono i suoni, alle sillabe gli intervalli, alle parole i sistemi.
Altri e numerosi trattati musicali, per noi perduti, dovevano evidentemente,
a proposito delle corrispondenze tra musica e cosmologia, essersi spinti a
livelli teorici di difficile comprensione per i non esperti di musica. Si spiega
così la precisa dichiarazione di reticenza di Macrobio nel successivo § rispet
to all’inserimento di troppi dettagli tecnici.
75 Dei tre generi della musica greca antica (diatonico, enarmonico e cro
matico) basati sul tetracordo (una serie di quattro note, la più alta e la più
bassa delle quali erano a distanza di una quarta giusta), il diatonico era costi
tuito da due intervalli di tono ed uno di semitono ed era il genere predomi
nante; il cromatico era costituito da un intervallo di terza minore e due inter
valli di semitono e perciò le due note intermedie distavano approssimativa
mente un tono e un semitono da quella più bassa; il genere enarmonico era
costituito da un intervallo di terza maggiore e due micro-intervalli di un
quarto di tono, quindi le due note centrali erano l’una a distanza di un inter
vallo di un quarto di tono e l’altra di un semitono da quella più grave. La pro
gressione del genere diatonico era la più naturale e quella corrispondente
all’armonia delle sfere. Ma il livello di corrispondenza tra scala musicale e
ordine planetario era giunto a gradi teorici di difficile comprensione per i
non iniziati e si spiega pertanto la dichiarazione di reticenza di Macrobio
riguardo l’inserimento di troppi dettagli tecnici. Basti qui dire che, nel Ti
meo, il Demiurgo «riempì tutti gli intervalli d ’uno e un terzo con l ’intervallo
di uno e un ottavo e lasciò una particella di ciascuno di essi in modo che l’in
tervallo lasciato da questa particella avesse i suoi termini nello stesso rappor
to numerico tra loro come 256 sta a 243», owero un semitono: cosa che ben
rappresenta il tetracordo diatonico.
76 Letteralmente nell’originale Catadupa. I Catadupi, come spiega
Cicerone, sono la zona in cui, da monti altissimi, il Nilo si getta a precipizio.
Corrispondono quindi alle sue prime cateratte (e così viene anche tradotto il
vocabolo) ai confini dell’Etiopia (odierna cascata di Wady Halfa presso
Assuan). T à K aTàSoirna sono già citati da Erodoto Storie , II, 17.
77 Macrobio qui riassume un passo del Sogno (Repubblica VI, 19 = Sogno
di Scipione 5, 3) che non ha citato: Hoc sonitu oppletae aures hominum obsur
duerunt; nec est ullus hebetior sensus in uobis, sicut, ubi Nilus ad illa, quae
Catadupa nominantur, praecipitat ex altissimis montibus, ea gens, quae illum
locum adcolit, propter magnitudinem sonitus sensu audiendi caret. Hic uero
tantus est totius mundi incitatissima conuersione sonitus, ut eum aures homi
num capere non possint... («Le orecchie degli uomini, riempite di questo
suono, divennero sorde; né infatti vi è in voi senso che sia più debole di que
sto, tanto è vero che, dove il Nilo, presso quelle cascate chiamate Catadupi,
precipita da altissimi monti, la gente che abita quel luogo è del tutto priva del
senso dell’udito a causa della potenza del suono. In verità il suono delle velo
cissime rotazioni celesti è così grande che le orecchie degli uomini non pos
sono percepirlo...»).
78 Giamblico (La vita pitagorica 65) narra che Pitagora udisse la musica
celeste prodotta dalla rotazione delle sfere e dei corpi celesti.
79 Cicerone, Repubblica VI, 20-21 = Sogno di Scipione 6, 1-3. Macrobio,
tra questa citazione e la precedente (II, 4, 1 e 9), omette un brano del testo
ciceroniano: quello contenente le due analogie con le quali Tullio spiega per
ché gli uomini non odono la musica celeste: analogia con la sordità provoca
ta dalle cascate del Nilo (parafrasata in II, 4, 14 e sopra citata in nostra nota
77); analogia della potenza dei raggi del sole: ... sicut intueri solem adversum
nequitis, eiusque radiis acies vestra sensusque vincitur («.. .allo stesso modo in
cui non potete fissare il sole, perché la vostra percezione visiva è vinta dai
suoi raggi»). Dallo spettacolo del firmamento, Scipione l’Africano trae una
lezione morale che impartisce al nipote: la gloria umana, vista dal cielo, ovve
ro sub specie aeternitatis, appare veramente poca cosa. Da questo passo segue
l’esposizione geografica di Macrobio.
80 Con la consueta cura Macrobio riassume gli argomenti fin qui trattati
da Cicerone e perciò da lui stesso nel suo commento, facendo il punto della
propria esposizione: il cielo è stato commentato in I, 15, 1 - I, 17, 17; l’ese
gesi dell’ordine e del moto delle sfere inferiori, ossia dei pianeti, si è svolta in
I, 18, 1 - 1, 21, 27; la musica celeste dovuta al loro moto figura in II, 1-4; la
questione dell’aria sottostante la luna e del mondo sopra-lunare è stata trat
tata in I, 21, 33-35; infine, seguendo il Sogno di Cicerone, è giunto a trattare
dell’immobilità della terra, centro del cosmo, in I, 22, la descrizione della
quale a questo punto riprende andando ad occupare i capitoli 5-9 del Libro
Secondo.
81 In seguito alla «descrizione della stessa terra» di Cicerone, Macrobio,
come si è detto, compirà un’esposizione lungo cinque capitoli della sua
opera. Nei cap. 5 e 6 figurano le zone terrestri (II, 5, 8-21: fasce terrestri e
clima; II, 5, 22-36: fasce terrestri e mondi abitati; II, 6: dimensioni delle fasce
terrestri); il cap. 7 tratta della corrispondenza tra fasce terrestri e celesti; il
cap. 8 chiarisce un’affermazione sconcertante di Virgilio che potrebbe, a
torto, contraddire l’esposizione di Macrobio; infine il cap. 9 è dedicato
all’Oceano. Quella di Macrobio è una geografia matematica e non una
descrizione empirica della morfologia terrestre.
82 L’espressione di Macrobio tantum non coloribus fa pensare all’esisten
za di modelli di sfere, rappresentanti il globo terrestre ma anche modelli
ridotti del cosmo intero, di cui lo stesso Cicerone attesta l’esistenza nella sua
Repubblica (I, 14). Dal primo di Talete, a quello di Eudosso di Cnido, fino
alla sfera di Archimede (su cui cfr. nota 349 del Libro Primo), non è impro
babile che questi modelli meccanici fossero colorati, anche per dare concre
tezza alle diverse zone climatiche.
83 Mentre nel mito Oceano, figlio di Urano, era il maggiore dei Titani e
padre di tutti i fiumi, oltre tremila, generati da Teti, e di altrettante figlie, le
Oceanine, rappresentanti ruscelli e fonti, metafora della potenza feconda del
mare, era anche la personificazione delle acque che, nelle arcaiche concezio
ni geografiche, circondavano l 'ecumene, ossia le terre note e abitate. La Terra
era, infatti, considerata come un disco piatto, attorniato dal fiume Oceano
che segnava i confini del mondo conosciuto e la sua raffigurazione allegori
ca più nota era l’omerico scudo d ’Achille. Con il progredire della scienza, fu
acquisita la sfericità della Terra. Nella logica della sferica o geometria della
sfera s’iscriveva la possibilità dell’esistenza di continenti sconosciuti, conte
nuta in germe nella leggenda platonica d ’Atlantide. Fu Cratete di Mallo,
verso il 170 a.C., a costruire una sfera di grandi dimensioni (circa 3 m di dia
metro) rappresentante il globo terrestre che conteneva, sulla sua superficie,
quattro mondi abitati simmetrici separati da cinture oceaniche. E questa teo
ria che Macrobio crede di ritrovare nelle parole di Cicerone, che sembrano
indicare una pluralità di luoghi abitati e non un unico habitat.
84 In II, 5, 22-36. Cicerone già negli Academicorum Priorum attribuisce a
Lentulo la credenza negli antipodi.
85 Cicerone ha trattato delle fasce celesti nel brano citato all’inizio di que
sto cap. 5. Anche Virgilio nelle Georgiche (I, 232-239) ha parlato di zonae
celesti: Quinque tenent caelum zonae; quarum una corusco / semper sole
rubens et torrida semper ab igni; / quam circum extremae dextra laevaque tra-
huntur / caeruleae, glacie concretae atque imbribus atris; / has inter mediam-
que duae mortalibus aegris / munere concessae divom, et via secta per ambas,
/ obliquus qua se signorum verteret ordo («Cinque zone segnano il cielo: /
quella in centro rosseggia sempre / al fulgore del sole / e sempre arde alla sua
fiamma; / ai suoi lati le più lontane / si estendono a destra e sinistra / traspa
renti nella compattezza del ghiaccio / e nere di tempesta; / tra queste e quel
la in centro / due zone furono concesse, / per dono degli dei, ai miseri mor
tali, e tra le due fu tracciata una via / lungo la quale ruotano / in ordine pre
stabilito le costellazioni»), Macrobio discuterà tre versi di questo brano nel
cap. 8. Qui evidenzia innanzi tutto una differenza terminologica: Virgilio uti
lizza il vocabolo zona, trascrizione del greco Scovrì («cintura, fascia, zona»),
originariamente termine poetico prima di passare alla prosa scientifica, men
tre Cicerone, stilisticamente, evita gli ellenismi e preferisce l’equivalente lati
no cingulus. In seguito in II, 7,1-3 spiegherà che non vi è contrasto tra i due
brani, dato che nella globalità del cosmo le fasce terrestri sono la proiezione
geometrica delle zone celesti.
86 Sulla terra nona e ultima sfera cfr. 1,22, 1-2. L’orizzonte è già stato trat
tato in I, 15, 17-19.
87 La terra è un punto rispetto all’insieme del cosmo: I, 16, 6 (e nota 311
del Libro Primo); I, 16, 10; I, 16, 13 e infra II, 9, 9.
88 L’opinione più diffusa tra gli antichi era che la zona torrida dove passa
la linea equinoziale fosse inabitabile, per avere il sole più dominio in quel
luogo che in alcuna altra parte della sfera, stando continuamente fra i due
tropici del Cancro e del Capricorno. Questa zona intermedia sarà definita in
II, 6, 4 e in II, 7, 6. In II, 8, 4 Macrobio spiegherà che per alcuni autori la
zona intertropicale non coincide necessariamente con la zona torrida inabi
tabile. La rappresentazione macrobiana del mondo era basata sulla teoria
delle fasce termiche, nel IV secolo comune ed accettata, che definiva le zone
abitate e impraticabili della Terra. Secondo tale teoria, dovuta forse a
Parmenide, l’inabitabilità era dovuta al freddo rigido delle regioni polari e al
calore eccessivo della zona equatoriale. Plinio dice lo stesso parlando delle
zone temperate: le due zone abitate sono inaccessibili l’una all’altra, a causa
dell’ardore del Sole che brucia quelle da cui sono divise. Macrobio, come
abbiamo veduto, è ancora più esplicito ed assicura che quelli che abitano le
due zone temperate non hanno mai intrattenuto alcun commercio e che è
impossibile che ne avessero a causa del caldo eccessivo che le separa tra loro:
oltre l’estremo ardore del Sole, gli Antichi avevano un’altra ragione per cre
dere che le zone temperate fossero tra loro inaccessibili. Erano dell’opinione
che l’Oceano cingesse tutta la Terra e estendendosi sotto la linea, da oriente
ad occidente, dividesse come in due, il globo della terra, separando così le
due zone temperate. Ecco perché, secondo Gemino, Omero e gli antichi
poeti, il Sole si alzava dell’oceano e vi tramontava. I sacerdoti dell’Egitto
garantivano che il Nilo traesse la sua sorgente dall’Oceano che circonda tutta
la Terra. Ovidio ci dice che Vulcano aveva inciso sulle porte del palazzo del
sole, l’oceano che cingeva tutta la Terra divisa in due parti uguali, Orazio
chiama l’oceano Oceanus circum vagus. Orazio lo chiama cingente, e per la
stessa ragione, Cicerone e Strabone affermano che la terra da noi abitata è
un’isola; i primi cristiani non erano di diversa opinione, San Clemente chia
ma i paesi localizzati sotto la zona australe, temperati.
89 Parafrasi di Virgilio, Eneide I, 387-388: auras / vitalis carpis, «respiri
l’aria vitale», e forse anche reminiscenza di Lucrezio, La natura delle cose VI,
1227-1228: nam quod ali dederat uitalis aeris auras / uoluere in ore licere...,
«infatti, ciò che ad uno aveva dato la possibilità di continuare a respirare i
vitali aliti dell’aria...». I due venti principali del nord e del sud saranno men
zionati nei § 20-21.
90 La figura fornita da Macrobio diventerà, dal Medioevo in poi, un
modello fortunato per le mappe del mondo, le cosiddette «carte a zone», di
cui forniamo nel capitolo una serie di esempi. Nel mappamondo fornito da
Macrobio la Terra è suddivisa in zone temperate e fredde: le prime sono
Europa, Africa e India, situate al centro della carta; le terre fredde ed inabi
tabili, definite frigide, si trovano ai poli. Il continente australe è vastissimo,
separato dal continente africano da un grande oceano. Si tratta di un’ennesi
ma testimonianza dell’utilizzo, come noi, da parte degli Antichi delle carte
geografiche su cui descrivevano i paesi che gli erano noti: Anassimandro,
discepolo di Talete, è famoso per la sua sfera e per la sua carta generale della
Terra; Eratostene corresse questa carta di Anassimandro che era molto erro
nea ed imperfetta; e Ipparco, a sua volta, corresse quella di Eratostene. In un
aneddoto, che ricorda molto la vanità della gloria sottolineata a Scipione dal
suo avo, si narra che Socrate, presentando al suo discepolo una carta del
mondo, disse un giorno ad Alcibiade, orgoglioso delle sue terre e della loro
estensione, di mostrargli la Grecia e l’Africa. Avendo fatto ciò, Socrate disse
ad Alcibiade di indicargli le sue terre nell’Attica; ma dopo che Alcibiade
ebbe risposto che le sue terre non erano abbastanza considerevoli da essere
segnate sulla carta, Socrate gli replicò che poiché le sue terre, benché tanto
estese, non riuscivano a trovare neanche posto in una carta, doveva di con
seguenza valutare il posto che occupava nel Mondo, lui che era solamente un
uomo. Floro al principio della sua Epitome afferma di imitare coloro che
hanno l’abitudine di rappresentare tutti i paesi della Terra su una piccola
carta, rinchiudendo tutta la storia e riportando in poche parole molte cose.
Anche Plutarco al principio della Vita di Teseo, paragona in generale la sto
ria a una carta geografica, e Properzio dichiara che era obbligato ad appren
dere la situazione delle diverse parti del globo su una carta dove erano segna
te. Varrone ci dice che trovò suo suocero Lucio Caio Tondano che guardava
con qualcun altro una carta d ’Italia che era stata disegnata sul muro. È indu
bitabile dunque che gli Antichi utilizzassero come noi le carte, sia generali sia
particolari. Potevano essere fatte abbastanza esattamente, ma rispetto alle
nostre contenevano certamente o molti vuoti o molto d’immaginario e di
falso.
91 Macrobio si è già occupato dei circoli paralleli in I, 15, 13. Nel preci
sare qui per la prima volta che il sistema delle coordinate celesti è del tutto
analogo per proiezione a quello definito sulla Terra (cfr. nota 297 del Libro
Primo relativa al § testé citato), descriverà il circolo equinoziale in II, 7, 4-6,
mentre le dimensioni delle fasce terrestri, compresa quella equinoziale, con
trassegnate dalle lettere della figura saranno descritte in II, 6, 2-4.
92 Virgilio, Georgiche I, 237-238. Questi versi saranno commentati nel
seguente cap. 8,
93 L’etimologia di meriggio, dal latino meridies, deriva infatti da medidies,
composto di media , «mezzo» e dies, «giorno». Macrobio fa la stessa afferma
zione nei Saturnali I, 3, 14: ad meridiem, hoc est ad medium diei («a mezzo
giorno, cioè a meta del giorno»).
94 II passo riecheggia un’antica polemica degli Stoici nei confronti degli
Epicurei. Ma è stato giustamente notato che, non esistendo più al tempo di
Macrobio la setta degli epicurei, si potrebbe ravvisare come bersaglio di
Macrobio i cristiani, i quali, come Lattanzio e Agostino, ritenevano inaccet
tabile l’esistenza degli antipodi, perché i tre quarti degli abitanti della terra
sarebbero stati esclusi dalla redenzione. Al contrario Origene professava la
dottrina degli antipodi, citando le opinioni di san Clemente. Anche in segui
to, nel medioevo cristiano l’esistenza di un continente australe immenso fu
da alcuni confutata senza possibilità di prova in base a considerazioni pura
mente teologiche. Alcuni giunsero a propugnare che la Terra fosse piatta, o
addirittura, in più varie e strane maniere, a forma di Tabernacolo e con cielo
emisferico. Comunque si precludeva l’esistenza di un emisfero australe e di
un continente agli antipodi (cfr. infra nota 99), sotto il peso di una condan
na dell’interpretazione cosmografica, solo perché appartenente alla storia
pagana, e per alcuni secoli si smarrì una traccia sicura d’una dottrina geogra
fica, che era pur tra le conquiste più preziose e sicure, trasmesse dalla cultu
ra antica. In questa incertezza, anche un erudito di vasta fama come Isidoro,
vescovo di Siviglia (560 ca.-636), le cui opere principali (Etimologie e Natura
delle cose), illustrate da generazioni di disegnatori di mappe che persistero
no nel fare mappe tripartite, avranno una grande fortuna per tutto il
Medioevo, sulla sfericità della terra si esprime in termini assai vaghi, pur
assumendo che la Terra presenti le cinque zone climatiche, descritte da
Macrobio. Altri autori si dimostreranno più precisi e sulle orme di Macrobio,
come di Marziano Capella, si collocano nel solco dell’Antichità e si pronun
ciano senza ambiguità a favore della forma sferica della Terra. E, per fare
qualche esempio, il caso del monaco anglosassone Beda il Venerabile (700
circa) o del grande enciclopedista Guillaume de Conches (1080-1154).
95 Diogene Laerzio (Vite dei filosofi V ili, 26) attribuisce ai Pitagorici l’o
pinione «che ci sono anche degli antipodi, e che quello che per noi è sotto è
sopra per quelli che sono ai nostri antipodi». Sostenendo ciò era implicita
l’interpretazione esatta della legge di gravità.
96 Cfr. Plinio, Storia Naturale II, 161: Ingens hic pugna litterarum contra-
que vulgi, circumfundi terrae undique homines conversisque inter se pedibus
stare, et cunctis similem esse verticem, simili modo et quacumque parte media
calcari, illo quaerente, cur non decidant contra siti, tamquam non ratio praesto
sit, ut nos non decidere mirentur illi («Grande è qui la battaglia fra la scienza
e l’opinione popolare; da un lato, si dice che gli uomini sono sparsi all’intor
no su tutta la terra e che hanno i piedi contrapposti, e che per tutti è simile
lo zenit, e che da ogni parte si cammina stando allo stesso modo nel centro
della terra. Dall’altro, si chiede perché non cascano giù i nostri antipodi,
come se anche loro non avessero tutte le ragioni di stupirsi perché non
caschiamo noi»),
97 Citazione di Cicerone, Repubblica VI, 17 = Sogno di Scipione 4, 3, già
fatta da Macrobio I, 22, 1.
98 In I, 22, 4-13, attraverso l’esempio della caduta della pioggia. Già
Platone nel Timeo (63 a) a seguito di uno stringente ragionamento aveva
affermato che poiché l’universo è di forma sferica, non era ragionevole affer
mare che possiede un alto e un basso. Soltanto gli Epicurei contestavano la
forza d’attrazione del centro.
99 La polemica di Macrobio non può essere diretta alla setta degli Epicu
rei, ormai non più esistente alla sua epoca, né tanto meno al volgo ignoran
te: cfr. sopra nota 94. Nell’individuare a chi si rivolgesse Macrobio, senza
nominarli, ci sono d’aiuto due passi: uno di Campanella e l’altro di Voltaire.
Nel 1616 Tommaso Campanella, nella sua Apologia per Galileo, scriveva:
«Lucio Ceciiio Firmiano (Lattanzio) e Sant’Agostino, sebbene saggi e que
st’ultimo Santo, negarono l’esistenza di esseri negli antipodi, mossi dal loro
fervore religioso e a causa dell’infallibilità delle Sacre Scritture, come si
deduce dagli argomenti che da esse derivano: ovvero, sia perché tali esseri
umani non avrebbero potuto discendere da Adamo, e quindi contrario alle
Scritture, sia perché sarebbe stato impossibile che qualche nostro antenato
fosse emigrato fin là attraversando l’Oceano insuperabile. Però oggi, che
abbiamo conoscenze matematiche e cosmografiche adeguate, sappiamo che
tutti questi argomenti sono fallaci, quindi anche le Sacre Scritture furono
malamente interpretate». Voltaire, dal canto suo, nel Dictionnaire alla voce
‘Cielo degli antichi’ affermava: «Così sant’Agostino tratta l’idea degli antipo
di come un’assurdità, e Lattanzio dice espressamente: ‘C’è dunque gente così
insensata da credere che esistano uomini la cui testa sta più in basso dei
piedi?’». Infatti, il teologo africano Lattanzio, nel IV secolo, scriveva nelle
sue Divine istituzioni (III, 24): «Che cosa intendono poi dire coloro che cre
dono all’esistenza di punti contrari e corrispondenti ai nostri piedi? agli An
tipodi, dico; vi può essere qualcuno tanto sciocco da credere che vi siano
uomini le cui orme restino più alto delle loro teste? e che quanto noi vedia
mo al basso, colà abbia invece una posizione opposta diametralmente? che le
messi e gli alberi crescano volti al basso e le piogge e le nevi e la grandine
cadano in terra da una direzione contraria? Questa ridicola favola degli anti
podi deriva dalla credenza nella rotondità della terra...». Quanto al Padre
della Chiesa Agostino, affermava nella Città di Dio (XVI, 9): «Non v’è dimo
strazione scientifica per ammettere quel che alcuni favoleggiano sulla esisten
za degli antipodi, cioè che uomini calcano le piante dei piedi in senso inver
so ai nostri dall’altra parte della terra, dove il sole sorge quando da noi tra
monta. Non affermano infatti di averlo appreso in seguito a una esperienza
storicamente verificatasi, ma prospettano col ragionamento una ipotesi per
ché la terra sarebbe sospesa nella volta del cielo e avrebbe lo stesso spazio in
basso e al centro. Suppongono perciò che l’altra faccia della terra, quella di
sotto, non può esser priva di abitanti. Non riflettono, anche se si ritiene per
teoria o si dimostra scientificamente che il pianeta è un globo e ha la forma
sferica, sulla non consequenzialità che anche dall’altra parte la terra è libera
dalla massa delle acque e anche se ne è libera, non ne consegue necessaria
mente, di punto in bianco, che è abitata dagli uomini. Difatti in nessun modo
la sacra Scrittura mentisce perché con la narrazione dei fatti del passato
garantisce l’attendibilità che le sue predizioni si avverino. D ’altronde è trop
po assurda l’affermazione che alcuni uomini, attraversata l’immensità del-
l’Oceano, poterono navigare e giungere da questa all’altra parte delia terra in
modo che anche là si stabilisse la specie umana dall’unico progenitore...».
Nella metà del VI secolo, il mercante e viaggiatore bizantino Cosma, nativo
di Alessandria d’Egitto, soprannominato Indicopleuste («che ha viaggiato
verso l’ìndia»), intraprese lunghi viaggi in Arabia e nell’Africa orientale. Ri
tiratosi dalle imprese commerciali si diede alla vita monastica, probabilmen
te fra i nestoriani, compose trattati di cosmografia, di geografia e di esegesi
biblica. La sua Topografia Cristiana è tra le sue opere la sola sopravvissuta. La
sua mappa rettangolare descrive una terra parimenti rettangolare circondata
da un oceano, contornato a sua volta da un bordo di terra «dove vivevano gli
uomini prima del Diluvio». Anche se nel suo testo può essersi lontanamente
ispirato al sistema cratetiano proposto da Macrobio e Capella per ritrarre la
sua terra oltre l’Oceano, stabilì tuttavia che questa terra, ora deserta, era abi
tata dagli uomini soltanto prima del diluvio, poiché, dopo la traversata con
l’Arca, Noè approdò in Persia, da dove la sua progenitura si sparse in questa
parte di mondo ch’è ora abitata. Ma d’altra parte rinnegando la rappresenta
zione sferica del mondo e fondandosi sulla Bibbia, perveniva a una forma
piatta della Terra, al di sopra della quale il cielo si inarca a volta, chiusa da
quattro pareti come l’immagine del tabernacolo della rivelazione di Mosè. Al
di là dell’Oceano che circonda la terra abitata, Cosma contemplava che sulla
terra, non più abitata dai tempi di Noè, sorgesse il Paradiso terrestre di
Adamo, isolato dall’umanità a seguito del peccato originale: inaccessibile
eppure reale, come raccontano le Scritture, esso è collegato al mondo umano
attraverso i quattro fiumi che, nati dalle sue montagne, «risgorgano nella
nostra terra» e le danno vita. La questione degli antipodi rimase, dunque, per
secoli confinata alla discussione più di natura teologica che scientifica e
cosmografica. Da un lato era impossibile che all’evangelizzazione impartita
dal Cristo fossero stati posti ostacoli insormontabili, quali il calore torrido
della zona equatoriale e soprattutto la presenza dell’Oceano, ritenuto non
attraversabile, deducendone, come fra gli altri il missionario anglosassone
Bonifacio (675 ca.-754), che gli antipodi non potevano esistere. Era questa
l’opinione di alcuni religiosi, tra cui il summenzionato Bonifacio. Dall’altro
si risolveva la questione affermando l’esistenza degli antipodi, ma postulan
do una semi-ferinità dei loro abitanti o addirittura la loro mancanza d ’anima
e quindi l’inutilità della loro evangelizzazione (si tratta di una linea argomen
tativa che condusse, in seguito alla conquista dell’America, a terribili soffe
renze umane per i popoli conquistati fino alla celebre controversia di
Valladolid del 1550). Solo nel 1471 i navigatori portoghesi dimostrarono la
fattibilità della traversata della zona equatoriale, impresa che andò immedia
tamente a favore dell’esistenza degli antipodi. Si può dire in generale che,
durante tutto il Medioevo, la discussione sugli antipodi restò riservata al
clero. Per i laici si trattava di una discussione pericolosa che poteva essere
considerata eresia. Di ciò fece triste esperienza l’astronomo e poeta Cecco
d ’Ascoli, condannato al rogo per questo «errore della fede» a Bologna nel
1327. Al contrario, nel mondo arabo, grazie all’influenza neoplatonica, fin
dall’alto medioevo l’idea della sfericità della terra e della sua divisione in
quattro continenti, due nell’emisfero nord e due nell’emisfero sud, era così
comune che le mappe venivano chiamate «immagini del quarto abitato della
Terra».
100 Cicerone è già stato Iodato per la sua concisione in I, 10, 8.
101 Cfr. sopra § 20. Macrobio è in procinto di esporre la teoria di Cratete
di Mallo su cui cfr. sopra nota 83. il principale esponente della scuola di
Pergamo, durante la sua permanenza a Roma come ambasciatore, dette ini
zio alla filologia latina che annoverò numerosi autori come Elio Stilone,
Marco Terenzio Varrone, Nigidio Figulo, Verrio Flacco, Aulo Gellio,
Apollonio Discolo, Elio Donato, Servio, lo stesso Macrobio e Prisciano. A
Pergamo era fiorita una scuola, antitetica a quella alessandrina, che propone
va una lettura allegorica del testo. Quest’interpretazione si differenziava da
quella grammaticale o letterale, in quanto si avvaleva di una lettura aperta ai
significati mitici, storici e, in definitiva, a qualsiasi elemento utile alla lettura
stessa. Cratete commentò i testi poetici di Omero, di Esiodo, di Euripide e
di Arato. Fu anche maestro dello stoico Panezio che si recò più volte a Roma,
dove entrò in contatto, probabilmente per intervento di Polibio, col circolo
culturale di Scipione PF,miliario, e l’autorità di questo suo allievo contribui a
far prevalere la tendenza stoico-pergamena. Il principale interesse di Cratete
fu rivolto alla geografia omerica. Oltre al bello e al dilettevole si potevano
trovare in Omero anche dati scientifici sulla struttura del mondo, perché il
poeta conosceva già tutti i segreti della natura. Il globo terrestre di Omero è
per lui a forma sferica e la corrente oceanica, passando per la zona torrida, si
spinge verso ognuno dei due poli a circondare la terra. Il viaggio fortunoso
di Ulisse è trasferito dal Mediterraneo all’oceano Atlantico. Secondo lui,
Omero avrebbe conosciuto le notti polari; il Tartaro oscuro corrispondereb
be quindi per Cratete alla zona artica. La terra era dunque una sfera immen
sa, coperta per la maggior parte dall’Oceano da cui emergevano quattro isole
abitate simmetriche. Questa sua concezione originale, unita alla trovata di
costruire un modello del globo da lui immaginato, dà un’idea della sua fisio
nomia singolare e fa comprendere il seguito che ebbe negli ambienti più illu
minati di Roma.
102 È da notare che in questa frase il uobis di Cicerone, con cui Scipione
l’Africano si rivolge a Scipione l’Emiliano, rappresentante l’umanità, è tra
sformato da Macrobio in nobis.
103 Nella suddivisione del globo terrestre in quattro regioni abitate
Macrobio, come si è detto (cfr. sopra note 83 e 101) s’ispira a Cratete di
Mallo (210-150 a.C.), a cui, in contrasto con la teoria cartografica di
Eratostene che prevedeva un unico ecumene, Strabone (Geografia I, 2, 24)
attribuisce il modello d ’un globo terrestre. Di esso alla fine di questo capito
lo (dopo i diagrammi a zone macrobiani) si offrono alcune ricostruzioni, Gli
anteci, c t v t o i k o i , sono coloro che vivono nello stesso meridiano e alla stessa
latitudine ma nell’emisfero opposto al nostro e quindi gli obliqui. Gli antipo
di, con cui traduciamo il successivo termine adversi di cui vien data la defi
nizione in tal senso, sono gli abitanti diametralmente opposti alla nostra
parte abitata. I tranversi sono coloro che abitano nel medesimo parallelo, ma
sul meridiano opposto, vale a dire nell’emisfero opposto differenziato di 180
gradi. Macrobio in quest’ultimo caso non utilizza il termine tecnico perieci,
perché questo definiva anche i celebri antichi abitanti dei dintorni di Sparta,
privi di diritti politici. Si tenga però presente che, nell’antichità, le definizio
ni, e in particolare quella degli antipodi, erano fluttuanti a seconda dei vari
autori e le nomenclature non sempre coincidono. Ciò anche, a seconda del
l’inclinazione che l’osservatore dava al modello di sfera, dove l’orizzonte era
magari determinato da un meridiano e non dall’abituale linea dell’equatore.
Nel caso delle osservazioni di Macrobio, l’orizzonte è quello di Rodi, che,
con le Colonne d’Èrcole (stretto di Gibilterra), a 36° di latitudine era il punto
di riferimento abituale degli antichi geografi (vedi esempio di ricostruzione
nella figura a p. 481 = Fig. 37). Origene dice a proposito dei mondi che sono
al di là dell’oceano che San Clemente ha fatto menzione di quelli che i greci
chiamano anteci che abitano un luogo della Terra tra 0 quale, e quello che
noi abitiamo, non può esserci nessuna comunicazione: Sant’Agostino che
confonde sotto il nome di antipodi, gli anteci e gli antipodi, era così convin
to che le due zone temperate fossero tra esse incomunicabili, che sosteneva
che la zona australe non era affatto abitata, perché gli abitanti non potevano
discendere da Adamo: perché, dice questo Padre, è assurdo credere che gli
uomini abbiano potuto attraversare l’immensità dell’oceano. Infine gli Stoici
davano una ragione fisica del fatto che l’oceano si estendeva in questo modo
sotto l’equatore: abbiamo detto che questi filosofi stoltamente credevano che
il fuoco degli astri sì nutrisse dei vapori e delle esalazioni del globo terrestre;
ed anche secondo loro il Sole, la Luna e gli altri pianeti non si scostavano
dalla linea equatoriale, per essere sempre nelle condizioni di ricevere il nutri
mento che l’oceano gli forniva; è la stessa ragione che faceva credere che ci
fossero degli Anteci, cioè degli abitanti sotto la zona australe del nostro emi
sfero. Si giudicava che potevano esserci anche degli antipodi, ossia degli abi
tanti sotto la nostra stessa zona nell’altro emisfero. La figura sferica della
Terra faceva congetturare gli uni e gli altri, ma non ce n’era nessuna certez
za. I Pitagorici credevano che ci fossero degli antipodi; gli Stoici pensavano
la stessa cosa; Plinio non osa prendere posizione. Ed è certo che se ne parla
va con ancor più cautela di quanto si facesse nel caso degli anteci. I primi
Cristiani che si accorsero che questa opinione non concordava con le
Scritture, la ritennero una fantasticheria dei filosofi, ed è in questo senso che
si spiega Sant’Agostino circa questa opinione. Si sa che San Virgilio (Vili
sec.), di origine irlandese e vescovo di Strasburgo, autore di una Cosmografia,
accusato da San Bonifacio di credere «contrariamente alle Scritture» nella
sfericità della terra e nell’esistenza di altri uomini oltre a quelli del mondo
conosciuto, fu quasi scomunicato dal Papa Zaccaria per avere di fatto soste
nuto la teoria degli antipodi e chiunque l’avesse pensata in questo modo,
prima della scoperta dell’America, non mancava di essere guardato come un
eretico sostenitore di una teoria perversa. Dopo Isidoro (cfr. supra nota 94),
in questo stesso secolo V ili, fu altrettanto cauto il Venerabile Beda (673-735)
che sottoscrisse la sfericità della terra ma non l’abitabilità degli Antipodi (De
Natura Rerum XLVI e De temporum ratione XXXII, XXXIV). Anche nelle
mappe dei diversi manoscritti del Commentario all’Apocalisse del Beato di
Liebana (circa 730-798), monaco benedettino spagnolo e teologo, una delle
autorità più avvincenti ed enigmatiche in II Nome della Rosa di Umberto
Eco, la zona meridionale viene descritta come inabitabile, terra australis inco
gnita. Beato di Liebana prese parte alla controversia adozionista, ma è
soprattutto noto per il suo Commentario, pubblicato nel 776. Il commento fu
popolarissimo e sopravvive in oltre 30 manoscritti (di solito chiamati beatus)
del X-XIII secolo, molti dei quali abbondantemente illustrati da miniature in
stile mozarabico. Benché il manoscritto e la mappa originali non siano
sopravvissuti, la copia della mappa è una delle più antiche del mondo cristia
no e mostra una curiosa sintesi tra le mappe rappresentanti la sola parte della
terra conosciuta e abitata e tra quelle di stampo macrobiano.
Cfr. Cicerone, Academicorum priorum II, 123: qui aduersis uestigiis
stent contra nostra uestigia, quos antipodas uocatis.
105 Cfr. sopra II, 5, 13-15 e Figg. 39, 40 e 41, p. 493.
106 La divisione della circonferenza terrestre in sessantesimi è dovuta ad
Eratostene (su cui cfr. nota 384 del Libro Primo). Eratostene con il suo cal
colo era giunto a una misura di 250.000 stadi, che arrotondò a 252.000. Ciò
permetteva di ottenere un numero divisibile in dodicesimi e, soprattutto, in
sessantesimi e di esprimere così con un numero tondo (700 stadi) la lunghez
za di un grado. Sulla misura dello stadio cfr. nota 301 del Libro Primo.
107 Cfr. II, 7, 4-6, dove si spiega che le demarcazioni delle zone tra le
quali si calcolano le larghezze sono ottenute per proiezione sul globo terre
stre dei circoli artici e tropici del cielo. La larghezza A N, essendo di 4 ses
santesimi, corrisponde a 24° (cfr. sopra nota 106), che è l’inclinazione dell’e
clittica sull’equatore arrotondata dagli Antichi (in realtà 23,46°) e che defini
sce, conseguentemente, la latitudine dei tropici. Poiché gli Antichi avevano
scelto come riferimento la latitudine di 36° (cfr. sopra nota 103) il circolo
artico è a 36° gradi dal polo e la larghezza della zona temperata, definita per
sottrazione, equivale a 30°.
108 Si tratta delle metà superiori e inferiori definite dall’orizzontale di
Rodi (cfr. sopra nota 103 e vedi Fig. 37 a p. 481) e non dall’equatore.
109 Sulle definizioni e differenza di meridiano e orizzonte cfr. I, 15, 15-19
e anche II, 5, 9. Macrobio, rendendosi conto della difficoltà del lettore di raf
figurarsi un meridiano di fronte su una figura con una retta verticale, invita il
lettore a immaginarselo, perché gli appaia la curva della terra, come il meridia
no che limita la figura a destra (formante il semicerchio e segnato da C A D),
meridiano che deve avere per l’osservatore esterno la funzione d’orizzonte.
110 Cfr. II, 5, 7 e nota 85.
111 Tra le nozioni classiche che facevano parte del bagaglio culturale di
ogni uomo dotto nel mondo greco-romano vi era quella che se la terra è sfe
rica come il cielo, il globo terrestre, al centro della sfera celeste, ne è come la
replica e, analogamente ai circoli celesti fondamentali, i circoli terrestri, omo
nimi dei primi, dividono la terra in zone che si caratterizzano per la tempe
ratura e, quindi, per l’abitabilità. La dottrina dei cinque circoli celesti e ter
restri, secondo Diogene Laerzio, risale a tempi antichi, Plutarco riferisce che
furono Talete e Pitagora a dividere il cielo in cinque zone e quest’ultimo a
trasferire per primo le zone celesti alla terra (cfr. De Placitis philosophorum 3,
14), mentre, secondo Strabone, Posidonio attribuiva la paternità della dottri
na a Parmenide e sempre Strabone la dice condivisa da Aristotele.
112 Questi «confini precisi», come Macrobio indicherà nei seguenti § 4-
5, sono, secondo gli usi della geografia matematica, i grandi circoli paralleli
della sfera celeste, circoli artici e tropici.
113 Le misure dei circoli celesti si traggono dalle larghezze attribuite da
Macrobio alle fasce terrestri in II, 6, 4-6 (cfr. sopra nota 107). Essendo una
proiezione, fissare le posizioni dei primi equivale ad indicare quelle delle
seconde e viceversa.
114 Cfr. II, 5, 7 e nota 85.
115 Cfr. I, 5, 13, dove, facendo l’elenco dei circoli paralleli, ha già delimi
tato la zona torrida come compresa tra i due tropici.
116 Questa variazione nel moto (apparente) del sole è infatti alla base del
l’etimologia del termine solstizio, derivato dal composto latino di sol, «sole»,
e sistere, «fermarsi, arrestarsi» (cfr. Varrone, Lingua Latina VI, 8: solstitium,
quod sol eo die sistere videbatur). I solstizi sono i due giorni dell’anno nei
quali il Sole raggiunge il punto più meridionale o settentrionale della sua
corsa apparente nel cielo, rispettivamente al tropico (dal greco T p o n f | ,
«rivolgimento») del Capricorno e al tropico del Cancro rispetto al piano del
l’eclittica (ma vedi in proposito anche note 201 e 202 del Libro Primo). Per
quanto concerne la simbolica dei due segni, chiamati «porte del sole» (su cui
cfr. I, 12, 1-3), Macrobio afferma nei Saturnali (I, 17, 63) che Cancro e
Capricorno ebbero questi nomi perché il gambero ovvero il cancro è un ani
male che cammina all’indietro e obliquamente, e analogamente il sole in tale
costellazione comincia a retrocedere, come al solito in linea obliqua; d ’altra
parte risulta consuetudine della capra al pascolo tendere sempre verso l’alto,
e pure il sole nel Capricorno comincia a risalire dal punto più basso verso
l’alto». Il solstizio d ’estate è solitamente, nell’emisfero nord, il 21 giugno o il
22 ed è la data del giorno più lungo dell’anno, e di conseguenza della notte
più corta. Al momento del solstizio, il Sole raggiunge la sua massima decli
nazione ed è allo zenit al tropico del Cancro. Il solstizio d’inverno è, nell’e
misfero nord, il 21 dicembre, o il 22. La data del solstizio d’inverno coincide
col giorno più corto dell’anno e della notte più lunga. Il Sole raggiunge la sua
minima declinazione ed è allo zenit al tropico del Capricorno. Come quello
estivo, il solstizio d’inverno ha rappresentato nei secoli occasione di festività,
come a Roma i Saturnalia, cui Macrobio ha consacrato l’altra sua celebre
opera. Nell’emisfero sud le date dei solstizi sono invertite. Attraverso i punti
solstiziali sono tracciate le linee immaginarie parallele alla linea equinoziale,
a nord del tropico del Cancro e a sud di quello del Capricorno, entrambe
poste dagli antichi a una distanza dall’equatore arrotondata da essi a 24° (cfr.
supra nota 107).
117 Macrobio qui riecheggia debolmente un’altra concezione, dovuta a
Posidonio, circa la divisione delle fasce terrestri, ricordata da Strabone,
Cleomede e Achille Tazio e basata sulla proiezione dell’ombra. Posidonio
distingueva le zone con una terminologia interessante che vale la pena di
riportare, anche se non ebbe successo, pur essendo fondata su un criterio
rigorosamente astronomico. In primo luogo per Posidonio vi era la zona
fredda o zona dei perisci (paese dalle ombre circolari), le regioni dei circoli
polari i cui abitanti hanno ombre che d ’estate descrivono un cerchio comple
to e che sono lunghissime; quindi tra i circoli polari e i tropici la zona tem
perata o zona degli eterosci, regioni i cui abitanti hanno un’ombra più o
meno lunga che gira sempre nello stesso senso, da ovest verso est passando
sempre per nord nell’emisfero settentrionale e per sud nell’emisfero meridio
nale (come dice Macrobio nel § 13); infine la zona torrida o zona degli amfi-
sci: denominazione di quelle regioni della Terra comprese tra il Tropico del
Cancro e quello del Capricorno; in cui l’ombra si alterna secondo le stagioni
dirigendosi sia verso settentrione sia verso meridione (§ 14) o che non hanno
ombra perché il sole è esattamente allo zenit.
118 Cfr. infra II, 8, 2-4 e nota 125.
119 A Siene, l’odierna Assuan, a mezzogiorno nel giorno del solstizio d’e
state, lo gnomone non proietta alcuna ombra. Eratostene, che Macrobio non
nomina, calcolò che ad Alessandria, nello stesso giorno, la distanza meridia
na del Sole dallo zenit era pari a 1/50 della circonferenza del cielo.
Quest’angolo giro rappresentava dunque la differenza di latitudine tra le due
città. Sapendo che Siene ed Alessandria si trovavano a un dipresso sullo stes
so meridiano e conoscendo la loro distanza di 5.000 stadi, con una semplice
proporzione Eratostene stimò la circonferenza della Terra pari a circa
250.000 stadi. Siene si trovava nel confine meridionale della Tebaide in pros
simità del tropico del Cancro. Macrobio non determina in quale grado si
trovi, ma usa certamente l’espressione generica certam partem Cancri, per
evitare di entrare in un dibattito tecnico. I superiores montes sono le monta
gne dell’Etiopia. Lo stilus hemisphaerii monstrantis horas; quem gnomona
uocant è simile a quello già descritto in I, 20, 26-27 ed è anche la scaphe già
descritta da Vitruvio (su cui cfr. nota 391 del Libro Primo). La scafa o emi-
sferio è la classica meridiana con lo stilo, o più propriamente gnomone, ed è
il più antico orologio greco: lo si vuole inventato da Aristarco di Samo e
modificato da Beroso.
120 Lucano, Bellum civile II, 587. Macrobio aveva di fronte a sé un testo
che reca la lezione numquam «mai», altri presentano nusquam «da nessuna
parte», una variante che avrebbe reso più accettabile a Macrobio il verso di
Lucano (39-65 d.C.), autore stoico peraltro dotato di buone conoscenze geo
grafiche ed astronomiche. Sulla base di ciò altri commentatori ritengono che
sia Macrobio ad aver mal compreso la citazione di Lucano: questa richiame
rebbe i criteri di Posidonio (cfr. sopra nota 117): nella zona degli amfici l’om
bra del sole allo zenit cade per sei mesi verso nord e negli altri sei mesi verso
sud (umbra flectitur), mentre a Siene, nella zona degli eterosci, l’ombra, sem
pre allo zenit del sole, cessa di avere questi cambiamenti per proiettarsi sem
pre (numquam) verso nord (tranne che nel solstizio estivo quando non dà
ombra).
121 Questi § 17-18 vanno accostati a 1,20, 8 e 1 ,15, 7 (e note relative); cfr.
anche II, 7, 2 e nota 111.
122 Cfr. I, 22, 9.
123 La Palude Meotide (Palus Maeotis) era il nome latino del Mar d’Azov.
Il Tanai (Tanais) quello del fiume Don che sfocia nel precedente mare. L’Istro
(Hister) denominava l’odierno Danubio e più precisamente la sua metà infe
riore fino alle foci. La Scizia (Scythia) era la regione in cui scorreva il Tanai,
situata dal nord del Mar Nero e del Caspio sino all’interno dell’Asia
Orientale. Gli Iperborei (Hyperborei) erano un popolo favoloso che abitava
l’estremo settentrione; il primo a parlarne fu Ecateo di Mileto, vissuto nel VI
sec. a.C., che li colloca geograficamente tra i misteriosi monti Rifei, dove
nasce la borea, e l’Oceano, in seguito tutti gli autori che se ne occuparono gli
attribuirono strani costumi e li collocarono nelle regioni più diverse, dall’e
stremo occidente all’estremo nord, ma in genere situandoli come gli abitanti
della Germania settentrionale, della Polonia e della Moscovia. Qui Macrobio
li pone come vicini a nord degli Sciti. Non si tratta certamente di una regio
ne così nordica e immersa nel gelo, ma come abbiamo veduto sopra in nota
107 il circolo artico, per convenzione degli Antichi si trovava a 36° dal polo
e quindi a 54° di latitudine nord, corrispondente all’Irlanda. Trovandosi la
Scizia al cinquantesimo parallelo, la fantastica regione degli Iperborei imma
ginata da Macrobio è dunque vicina a questo parallelo. Al tempo di
Macrobio, anche se le esplorazioni avevano permesso di conoscere l’esisten
za di vita oltre il cinquantaquattresimo parallelo, egli mantiene questa con
venzione teorica. Invece, in seguito, come si vedrà in II, 8, 2, trattando del
limite meridionale abitabile, Macrobio si porrà la questione se esso veramen
te coincide con il confine teorico.
124 Virgilio, Georgiche I, 237-239. Parte di questi versi sono già stati men
zionati nel capitolo 5 (cfr. nota 92).
125 Cfr. II, 7, 14.
126 Ognuno dei tre luoghi citati era un punto di riferimento geografico
abituale per gli Antichi. Su Siene (circa 24° di latitudine nord, sul tropico
estivo) cfr. sopra nota 119. Meroe, sulla riva destra del Nilo tra la sesta e la
quinta cataratta, è un’antica città della Nubia (oggi nel Sudan), situata tra il
tropico del cancro e l’equatore a circa 17° di latitudine nord, ricca di templi
e citata da Erodoto come «capitale degli altri Etiopi» (Storie II, 29).
Diversamente da Macrobio che indica la sua distanza da Siene in 3.800 stadi,
tutti i geografi (Eratostene, Ipparco, Strabone, Plinio) davano Siene come
equidistante tra Alessandria e Meroe, tutte da essi collocate sullo stesso meri
diano per le indicazioni inesatte dello gnomone, quindi a una distanza di
5.000 stadi. La terra cinnamoni ferax è da identificarsi con la Costa dei
Somali, a circa 12° di latitudine nord, distante da Meroe per Eratostene
3.400 stadi e per Ipparco 3.800 stadi e non soltanto 800 come indica il com
mentatore latino (ma potrebbe esserci una lacuna nel testo archetipo). Oltre
a questo punto, per questi geografi, cominciava la terra inabitata, lasciando
quindi circa 8.000 stadi per la distanza da questo punto all’equatore. Il cin
namomo, l’odierna cannella, secondo Erodoto, proveniva dall’Abissinia e
dalle paludi del Sud, ma Plinio, nel VI libro della Storia Naturale, ci rivela
che in realtà era trasportato sulla costa somala da barche a bilanciere prove
nienti dall’isola di Tabropane (oggi Sri Lanka).
127 Letteralmente per poeticam tuba. L’espressione della sonorità della
tromba per indicare la poesia epica e anche il discorso enfatico si trova già in
Marziale e altri autori. L’espressione sarà ripresa dalTAriosto: «come la tuba
di Virgilio suona» {Orlando furioso XXXV, 26, 2),
128 Virgilio, Georgiche I, 245.
129 Sulle costellazioni del Serpente o Dragone e delle Orse vedi nota 341
del Libro Primo. In effetti la costellazione del Dragone «serpeggia» tra le due
Orse e le rinserra e non le attraversa affatto.
130 Questa teoria dell’esistenza di due oceani, due grandi fasce d’acqua
che separavano la terra in quattro parti uguali e simmetriche tra esse, deriva
da Cratete (su cui cfr. sopra nota 83, 101 e anche 103).
131 II fenomeno delle maree veniva, nell’antichità, generalmente spiegato
per l’influsso dei cicli lunari e per i movimenti del sole. L’originale teoria di
Macrobio secondo la quale derivano dall’urto dei bracci occidentale e orien
tale dell’Oceano deriva dalle dottrine di Cratete di Mallo, come testimonia
Ezio, Placita, III, 17 (in H. Diels, Doxographi Graeci, Berlin, 1928, p. 383).
132 In II, 5, 28-36.
133 La figura cui si riferisce Macrobio divenne il prototipo delle più
comuni mappae mundi medioevali, di cui in fondo al capitolo si fornisce una
serie di esempi. Sui manoscritti dal IX al XV secolo, vi sono infatti rappre
sentazioni del globo sul modello cosmografico di Macrobio, in cui si distin
guono le 5 zone, basate sull’abitabilità climatica: 1) la zona fredda polare,
inabitabile: Frigida septentrionalis inhabitabilis', 2) la zona temperata e abita
ta, caratterizzata dall’Europa: Temperata habitabilis-, 3) la zona torrida igno
ta e inabitabile: Perusta inhabitabilis-, 4) un’altra zona temperata, antipode
della prima, ma sconosciuta: Temperata habitabilis antipodum nobis incogni
ta-, 5) una zona fredda australe inabitabile: Frigida australis inhabitabilis.
134 Da Erodoto sino ad Aristotele il Caspio era stato creduto un mare
interno, ma secondo Macrobio, come alcuni geografi dell’antichità riteneva
no (Ecateo di Mileto, Strabone, Pomponio Mela, Plinio), a nord il Mar
Caspio si apriva sull’Oceano Boreale. Eratostene (276-195 a.C.), pietra milia
re nella storia della cartografia, così lo raffigurava. Secondo Plinio (Storia
Naturale VI, 12 sgg.) era addirittura un fiume che penetrava dall’Oceano nel
continente. Tolomeo ritornò nella sua Geografia a considerarlo un mare chiu
so. Ma anche in questo caso Macrobio non segue l’ultima moda scientifica e
il suo errore è condiviso da Marziano Capella.
135 La tradizione manoscritta della carta sembra aver creato enormi diffi
coltà ai copisti. Alcuni manoscritti recano addirittura uno spazio vuoto e solo
pochi tra essi offrono qualcosa che possa assomigliare a una carta. Dunque,
qui ci avvaliamo della carta apparsa nella cinquecentina bresciana, da allora
più volte utilizzata con qualche leggera variante che proponiamo tra le varie
figure in fondo al capitolo. Tra i più dignitosi esempi di carte nei manoscritti
segnaliamo la carta in p. 503 (- Fig. 51), orientata a sud, che anche se mal
destramente tracciata, presenta l’indicazione delle zone terrestri e quella del
doppio corso deU’Oceano, e quella in p. 504 (= Fig. 53), più elaborata della
precedente, ma per il resto inferiore. Si tenga inoltre presente, riguardo alla
loro diffusione nel Medioevo, che queste mappe, oggi denominate dagli stu
diosi di cartografia antica «mappe di tipo Cratete di Mallo» (poiché derivano
il nome dal classico prototipo, il globo di Cratete: cfr. note 83, 101 e 103)
erano abbastanza rare nella cartografia ecclesiastica, perché la Chiesa con
trastava l’esistenza degli antipodi (cfr. note 94 e 99). Oltre a quelle comunque
numerose nei manoscritti del commentario macrobiano, qualche esempio di
mappe di questo tipo si ritrovano nei manoscritti di Marziano Capella e nei
Libri Carolini del vescovo Teodulfo (Vili sec.). Occorre, infine, menzionare
la diffusione e l’influenza di tali carte che accompagnavano il Commento nei
manoscritti. Ci basterà menzionare, tra i tanti, un esempio illustre: Cristoforo
Colombo ne possedeva un manoscritto, annotato di suo pugno, e la descrizio
ne di Macrobio delle terre abitate contribuì alla raffigurazione che si fece del
mondo il navigatore genovese prima d’intraprendere la sua scoperta.
156 La clamide era una sopraveste usata dai greci, un mantello corto chiu
so sulle spalle portato dai cavalieri e dagli efebi, la cui forma distesa assomi
gliava a un tronco di cono steso sul piano e tagliato in due nel senso dell’al
tezza. Lo stesso paragone, proveniente da Eratostene, è utilizzato da Stra-
bone per descrivere la forma del mondo abitato (Geografia II, 5, 6; 9 e 14) e
dell’area della città di Alessandria (XVII, 8).
Cicerone, Repubblica VI, 23 = Sogno di Scipione 7, 1.
138 Si tratta del tema sviluppato da Cicerone nella parte andata perduta
della Repubblica VI che precedeva il Sogno. Cfr. la breve citazione che apre
I, 4, 2 («Sebbene i saggi trovino nella coscienza delle proprie nobili azioni la
più alta ricompensa per la loro virtù...») e nota 55 del Libro Primo.
Concetto già più volte enunciato da Macrobio: cfr. I, 16, 6 ( nota 311
del Libro Primo); II, 5, 10 (e nota 87) e II, 9, 9.
140 Cfr. supra II, 5-6 con la descrizione dei luoghi abitati secondo le teo
rie di Cratete.
141 Tra la precedente citazione del Sogno in II, 5, 1, 3 (Repubblica VI, 20-
21 = Sogno di Scipione 6, 1-3) e quella che apre questo capitolo 10 (Repub
blica VI, 23 - Sogno di Scipione 7,1), Macrobio ha omesso solo una breve
parte, che qui sintetizza e che corrisponde all’intero § 22 della Repubblica (=
Sogno di Scipione 6, 4), dove l’Africano spiega al nipote: Ex his ipsis cultis
notisque terris num aut tuum aut cuiusquam nostrum nomen vel Caucasum
hunc, quem cernis, transcendere potuit vel dium Gangem tranatare? Quis in
reliquis orientis aut obeuntis solis ultimis aut aquilonis austrive partibus tuum
nomen audiet? Quibus amputatis cernis profecto, quantis in angustiis vestra se
gloria dilatari velit. Ipsi autem, qui de nobis loquuntur, quam loquentur diu?
(«Forse che da queste stesse terre abitate e conosciute il nome tuo o di qual
cun altro di noi ha potuto valicare il Caucaso, che scorgi qui, oppure oltre
passare il Gange, laggiù? Chi udirà il tuo nome nelle restanti, remote regio
ni dell’oriente e dell’occidente oppure a settentrione o a meridione? Se le
escludi, ti accorgi senz’altro di quanto sia angusto lo spazio in cui la vostra
gloria vuole espandersi. E la gente che parla di noi, fino a quando ne parle
rà?»), Se si dovesse prestare qualche fede a ciò che gli antichi storici hanno
detto di Alessandro, si dovrebbe credere che questo principe fosse penetra
to fino al Gange così come Bacco aveva fatto prima di lui, ma non è molto
verosimile che abbia spinto così lontano le sue conquiste. Dal modo in cui
tutti gli storici parlarono di questo fiume, si vede chiaramente che non gli è
mai stato molto noto né il suo corso né le sue condizioni e, comunque sia, è
certo che avevano solo una nozione confusissima dei paesi situati al di là
dell’indo e non ne avevano nessuna di quelli posti oltre il Gange.
142 L’esistenza di una mitica età dell’oro, posta all’inizio dei tempi, nell’e
poca di Crono è narrata da Esiodo (Le opere e i giorni 109-201). Il poeta
greco descrive l’esistenza di uomini, commensali degli dèi, che vivevano in
pace, liberi da ogni fatica e al riparo da ogni pericolo, nutriti dalla generosa
terra che procurava loro ciò di cui avevano bisogno. Il furto del fuoco ad
opera di Prometeo segnò la caduta dell’uomo; alla aurea aetas seguì una lenta
e progressiva corruzione della storia e, conseguentemente, della razza umana
nelle quattro ere successive: dell’argento, del bronzo, degli eroi e del ferro. Il
mito fu ripreso da Platone, nel Politico, con la descrizione del regno di Cro
no, i cui fondamenti erano la giustizia, la pace e l’assenza di proprietà e dove
gli uomini erano governati da dèmoni e dèi. La struttura del mito esiodeo,
piuttosto complessa e ambigua e che peraltro presenta una frattura nella sua
tendenza verso la degenerazione con l’età degli eroi, fu resa più omogenea e
semplificata nella tradizione latina rappresentata da Cicerone, Orazio,
Virgilio e Ovidio, e che Macrobio segue. La sua forma ciclica, in ogni modo
sia, rafforza l’idea dì una tendenza della storia al raggiungimento della perfe
zione originaria, accentuando il carattere paradigmatico e di modello che in
tale contesto il mito assume. Si può far cenno qui alla forte ripresa del tema
nell’età rinascimentale (la nuova aurea aetas), nel classicismo settecentesco e
nel XX secolo con la corrente «perennialista» di scuola guénoniana.
143 II mito della leggendaria regina di Babilonia Semiramide, celebre per
la sua lussuria e che successe al trono assiro dopo la morte di Nino (donde il
nome della città di Ninive) si era manifestato nell’antichità a partire da Ctesia
di Cnido (445 - dopo il 392 a.C, ca.), che, con i suoi perduti libri (spesso cita
ti come «Assyriakà», storia assira), fu fonte di Diodoro Siculo (Biblioteca sto
rica II, 1-20). Citata già prima di Diodoro da Erodoto che ne esalta le opere
pubbliche, la tradizione raccolta da Macrobio (secundum quosdam) che ne fa
la figlia di Nino non è attestata altrove: viene invece detta cugina e sposa di
Nino, e figlia della dea-pesce Derceto e del giovane siriano Caistro. Oggi si
pensa che la mitica regina sia forse identificabile con Sammuramat, moglie
del re assiro Shamshi Adad V e reggente in nome del figlio dall’811 all’808
a.C.
144 L’opinione dei philosophi sul tema viene riportata nel seguente § 9. Si
tratta della tesi tradizionale pitagorico-platonica, e in particolare di Porfirio,
sull’eternità del mondo e sulla comparsa del tempo dopo il mondo.
145 Si possono accostare queste argomentazioni a quelle d ’Agostino (La
città di Dio XII, 10.1): «Alcuni infatti, come hanno supposto per il mondo,
sono d’opinione che gli uomini siano sempre esistiti... E qualora loro si chie
desse, nell’ipotesi che da sempre sia esistito il genere umano, a che titolo la
loro storia dice la verità, quando narra degli inventori dei vari utensili, dei
pionieri delle discipline liberali e delle altre arti, dei primi abitanti di quella
o di un’altra regione e parte della terra, di quella o di un’altra isola, rispon
dono che a causa di diluvi e cataclismi per un certo tempo non tutti i territo
ri ma molti si spopolarono. Così gli uomini si ridurrebbero ad un esiguo
numero, dalla cui discendenza viene ristabilito il ripopolamento. Quindi
certi dati, che a causa dei cataclismi erano interrotti o scomparsi, si presen
terebbero e si formerebbero come originari, mentre sono soltanto riemersi.
Del resto, aggiungono, l’uomo soltanto dall’uomo può venire all’esistenza.
Ma dichiarano una loro ipotesi e non una conoscenza scientifica». E in un
passo immediatamente successivo (ibidem, 11) Agostino menziona la tesi di
quanti sostengono «che a causa di alluvioni o fenomeni vulcanici i quali,
secondo loro, non si verificherebbero in tutta la terra, sopravvivano pochi
individui, da cui si abbia il ripopolamento». Come si vede le argomentazioni
sono insolitamente simili a quelle di Macrobio e ciò ha fatto pensare a molti
studiosi che entrambi gli autori si rifacciano al per noi perduto Commento al
Timeo di Porfirio. Cosa che non esclude, naturalmente, interventi autonomi
di Macrobio, com’è il caso del suo esempio dei Galli paragonati ai Romani
nel § 6.
146 Quasi tutta la tradizione filosofica greca ed ellenistica interpretò la
nascita del tempo nel Timeo 28 b come allegorica, in favore di una versione
della procedenza causale in toto del tempo perpetuo dall’eternità. La dottri
na dell’eternità del mondo aveva probabilmente avuto origine nel trattato
giovanile di Aristotele Sulla filosofia, scritto quando egli era ancora allievo di
Platone. Plotino nelle Enneadi III 7 studiò approfonditamente il rapporto tra
il tempo e l’eternità: «il cosmo trascendente è ciò che non inizia in alcun
tempo; perciò anche il mondo sensibile non ha alcun inizio temporale, poi
ché la causa del suo essere dona ad esso il ‘prima’». U punto sarà elaborato
da Porfirio, che lo contrapporrà alla tesi cristiana della creazione del mondo
e alla sua visione di un tempo lineare, contraria a quella di un tempo ciclico.
147 Nei Saturnali I, 8, 7, Macrobio afferma che i fisici riconducono la
genealogia mitica di Urano (il cielo) e Crono (il tempo) ad un’allegoria sulla
non esistenza del tempo, durante il caos primordiale, dato che «il tempo è
una dimensione determinata dalla rivoluzione del cielo». Cfr. Platone, Timeo
37 d-38 c e Plotino, Enneadi III, 7, 12. La soluzione metafisica qui proposta
sulla disputa circa l’eternità del mondo è, come si è detto, di sicura ascenden
za porfiriana.
148 Ex parte maxima-, cfr. il successivo § 14, dove Macrobio spiega come
e perché gli Egiziani siano al riparo dai cataclismi.
149 Già Eraclito affermava che il fuoco era l’elemento che a tutto dà la
vita e che tutto distrugge. Nel Timeo 22 c-e un vecchio sacerdote egiziano
spiega a Solone la ragione del perché i Greci siano giovani e mancanti di una
prisca tradizione: «Molte sono e in molti modi sono avvenute e avverranno
le perdite degli uomini, le più grandi per mezzo del fuoco e dell’acqua...».
Apprendiamo da Censorino (Il giorno natalizio XVIII, 11: Est praeterea
annus, quem Aristoteles maximum potius, quam magnum appellat: quem solis
et lunae vagarumque quinque stellarum orbes conficiunt, cum ad idem signum,
ubi quondam simul fuerunt, una referuntur; cuius anni hiemps summa est
cataclysmos, quam nostri diluvionem vocant, aestas autem ecpyrosis, quod est
mundi incendium: nam his alternis temporibus mundus tum exignescere tum
exaquescere videtur («C’è inoltre l’anno chiamato da Aristotele supremo,
piuttosto che grande, e che è determinato dalle rivoluzioni del sole, della
luna e dei cinque pianeti, quando tutti questi astri sono ritornati nel punto in
cui erano partiti. Questo anno ha un grande inverno, chiamato dai Greci
K a x c c K À u a u ò s , che nella nostra lingua significa diluvio; poi, una grande esta
te, detta ÈKTTupcoais, o incendio del mondo. Il mondo, infatti, sembra esse
re ora inondato ora bruciato in ognuna di queste epoche»), Seneca
(Questioni naturali III, 29, 1) ci trasmette la dottrina dell’antica cosmologia
secondo la quale il mondo si rinnova con la multipla congiunzione dei pia
neti in Cancro (distruzione attraverso il fuoco) o in Capricorno (diluvio):
«Beroso, che si è fatto interprete di Belo, sostiene che questi fenomeni dipen
dono dal corso degli astri, e lo afferma con tale convinzione da determinare
il momento della conflagrazione e del diluvio: dichiara che tutte le cose ter
rene saranno ridotte in cenere quando tutti gli astri che ora seguono orbite
diverse si saranno riuniti nel segno del Cancro, disposti lungo una stessa trac
cia, in modo tale che una linea retta possa passare per i centri di tutti i globi;
l’inondazione avverrà quando la stessa moltitudine di astri si sarà riunita nel
segno del Capricorno. Il Cancro dà luogo al solstizio d’estate, il Capricorno
al solstizio d ’inverno: sono costellazioni che esercitano un considerevole
influsso, dato che intervengono nei cambiamenti dell’anno». In genere tutti
gli Stoici aderirono al mito dell’eterno ritorno: il mondo nasce e perisce
secondo una vicenda ciclica (come già aveva sostenuto Empedocle), dopo un
periodo di parecchie migliaia di anni, ha luogo una ekpyrosis, una conflagra
zione universale, nella quale tutto si dissolve nel fuoco; poi il fuoco artefice,
che coincide con la ragione divina, contenente le ragioni seminali di tutte le
cose, provvede a ricostruire il mondo {palingenesi), che ripercorre quindi un
altro ciclo. La concezione del tempo basata sulla ciclicità, sull’esempio delle
stagioni meteorologiche, del ciclico ripresentarsi delle costellazioni nel cielo
e dei ritmi biologici naturali, rimase sempre un patrimonio comune di tutta
la civiltà greco-romana. Come si è detto l’idea moderna di un tempo rettili
neo emerse solo con il cristianesimo. Macrobio, dopo aver terminato di trat
tare dei cataclismi in questo capitolo, dedicherà il prossimo capitolo al tema
del Grande Anno.
150 Cfr. Plutarco, Iside e Osiride 41: «Gli Stoici sostengono che il sole è
acceso e alimentato dal mare, e che invece sono le acque di fonti e paludi a
trasmettere alla luna un’esalazione dolce e morbida». Cfr. anche Porfirio,
L’antro delle ninfe, 11: «Del resto, taluni sostengono che gli esseri dell’aria e
del cielo si nutrono dei vapori umidi, (che si liberano) dalle fonti e dai fiumi,
e delle altre esalazioni. Parve poi agli Stoici che il sole si nutrisse delle esala
zioni del mare, la luna di quelle delle acque delle sorgenti e dei fiumi, gli astri
dell’esalazione della terra. E per questo il sole trova la sua esistenza quale
massa di intelletto accesa dal mare, la luna dalle acque dei fiumi, e le stelle
dall’esalazione della terra». Questa concezione, unanimemente adottata dagli
Stoici, risale ad un’epoca presocratica ed è già nota ad Aristotele che se ne
beffava.
In II, 9, 4.
152 Nei Saturnali (1,23,2) Macrobio spiega chi sono i fisici fautori di que
sta teoria: sicut et Posidonius et Cleanthes adfirmant, solis meatus a plaga
quae usta dicitur non recedit, quia sub ipsa currit oceanus qui terram et ambit
et dividit, omnium autem physicorum adsertione constat calorem humore
nutriri («Come infatti Posidonio e Cleante affermano, il moto del sole non si
scosta mai dalla zona chiamata torrida, perché sotto di essa corre l’oceano
che circonda e separa la terra; del resto per concorde affermazione di tutti i
fisici il calore si nutre di umidità»).
153 II riferimento è a Iliade I, 423-425. Cfr. anche ibidem XXIII, 205-207
e Odissea I, 22-26. Il banchetto di Zeus accompagnato dagli altri dèi, presso
gli Etiopi, è interpretato come un’allegoria. Ha certamente una parentela con
la «mensa del sole» citata da Erodoto (Storie, III, 17-19): «Questa mensa del
sole, si dice, è fatta più o meno così: nei dintorni della città c’è un prato pieno
di carni cotte di quadrupedi di ogni specie; di notte provvedono a deporvi le
carni quelli fra i cittadini che di volta in volta ricoprono le cariche pubbliche;
di giorno chiunque lo voglia può venire a mangiare; la gente del luogo sostie
ne che ogni volta è la terra stessa a produrre tali carni». In seguito YElio-
trapezio, ovvero Tavola del Sole, sarà ricordata da Pomponio Mela (De C o
rografia III, 9, 87) e l’inaudita usanza sarà citata da Giovanfrancesco Pico
della Mirandola (Strega) e da Giordano Bruno (Orazione di congedo) che la
attribuisce ai gimnosofisti etiopi, casta sacerdotale di modello braminico, fio
rente soprattutto a Meroe, in continui rapporti con i collegi sacerdotali egi
ziani con cui si riunivano annualmente, offrendo sacrifici comuni al dio
Amon e celebrando il sacro rito festoso della mensa del sole. I tre versi ome
rici sono anche citati nei Saturnali (I, 23, 2) in cui viene data un’interpreta
zione simile a quella del Commento'. lovis appellatione solem intellegi
Cornificius scribit, cui unda oceani velut dapes ministrat («Cornificio scrive
che con la denominazione di Giove si deve intendere il sole, a cui l’onda del
l’oceano somministra per così dire le vivande»). Segue quindi la citazione di
Cleante e Posidonio sopra menzionata in nota 152. Cornificio Longo (I sec.
a.C.) è autore dell’opera De etymis deorum, citata anche da Macrobio {Sa
turnali 1, 9, 9).
154 Per l’Oceano sulla cui riva abitano gli Etiopi cfr. sopra cap. 9. Si trat
ta del braccio oceanico che racchiude la terra lungo l’equatore. Secondo
quanto riferisce il geografo Strabone, ispirandosi a Cratete, l’attuale Africa
comprendeva sostanzialmente due regioni: la Lybia a ovest e VAegyptus a est
sulle coste del Mediterraneo, mentre tutto lo spazio a sud di esse, da circa il
2° grado di latitudine settentrionale fino al 25° grado di latitudine sud, costi
tuiva l’Etiopia, che occupava la costa meridionale di tutto il nostro mondo
abitato affacciandosi sull’Oceano (cfr. Geografia I, 2, 24).
155 Allusione all’etimologia di Etiope, da aI0co «brucio» e óvy «volto»,
per cui gli Etiopi erano quelli dal volto bruciato. Secondo il mito, fu la disor
dinata corsa del carro del Sole guidato da Fetonte che arse la pelle degli
Etiopi tanto da farla diventare scurissima. Mentre Omero (nei passi citati
sopra in nota 153) attribuisce loro sempre un epiteto, traducibile con «inno
centi, pii», aggiungendo che in conseguenza di questa loro pietà verso gli
Dei, gli Etiopi ricevettero in premio di non essere mai sottoposti alla servitù
d’un principe straniero e di conservare sempre la libertà, l’altro più antico
epiteto letterario è quello di Erodoto, che (nel primo paragrafo citato nella
medesima nota richiamata) li appella macrobioi, ossia «longevi». In questa
coincidenza con il nome del nostro autore qualche commentatore moderno
adombra un argomento a favore dell’origine africana di Macrobio.
156 II riferimento è al racconto di Solone su ciò che aveva appreso in
Egitto e sulle grandi catastrofi e i grandi diluvi ciclici, che tuttavia risparmia
no l’Egitto, in Platone, Timeo 22 a sgg., un cui brano è evocato in nota 149.
157 Lo stato primitivo d’innocenza degli uomini è un tema frequente nella
letteratura latina (Ovidio, Germanico, Seneca, Avieno, Boezio).
158 Da queste ultime parole di Macrobio si comprende la distanza tra il
concetto tradizionale, per il quale l'avvicendarsi dei cicli nel mondo terrestre
era lo stampo del modello archetipico dell’orbe celeste, e la dottrina cristia
na. Al tempo ciclico i cristiani sostituivano un tempo lineare (per Macrobio
non solo erroneo dal punto di vista metafisico ma anche sotto l’aspetto strin
gentemente logico) che aveva come traguardo la città celeste mentre la città
umana diventava solo il riflesso speculare negativo della città celeste, sentina
d’ogni vizio e condannata ad un tragico e buio destino apocalittico.
159 Cicerone, Repubblica VI, 24 = Sogno di Scipione 7, 2-4. Si tratta di un
passo che nella tradizione diretta del Sogno presenta più varianti in taluni ter
mini.
160 Letteralmente metae. Le mete erano le colonnette coniche all’estremi
tà del circo romano attorno a cui le bighe dovevano girare sette volte ed erano
di solito tre per ogni estremità della spina, il muro tirato lungo il mezzo del
circo. La metafora che mette la corsa dei cocchi nell’arena in analogia con il
corso degli astri è molto frequente nella poesia e nella prosa latine (Cicerone,
Lucrezio, Virgilio, Manilio, Ovidio, Seneca, ecc.). D ’altra parte il circo era una
complessa rappresentazione del cosmo (per esempio, i colori delle quattro
fazioni in gara rappresentavano le stagioni, i dodici cancelli i mesi, ecc.).
161 Cfr. Platone, Timeo 39 c: «...per queste ragioni ebbero origine la
notte e il giorno, che rappresentano il periodo del movimento circolare unico
e più sapiente. Il mese si compie invece quando la luna raggiunge il sole dopo
aver percorso la sua orbita, e l’anno quando il sole ha percorso la sua orbita.
Quanto ai cicli degli altri pianeti, poiché gli uomini, salvo pochi tra molti,
non li conoscono, non gli danno un nome e non si misurano in numeri,
mediante l’osservazione, i loro rapporti reciproci. Sicché, così per dire, gli
uomini non sanno che il tempo è misurato anche dai moti di questi pianeti,
di quantità smisurate e straordinariamente vari». L’«anno» qui definito da
Macrobio per ciascun pianeta è quindi la sua rivoluzione siderale, ovvero il
tempo impiegato per ritornare allo stesso punto rispetto alle stelle fisse.
162 Si tratta dell’etimologia comunemente accettata. La linguistica
moderna ne riconosce l’etimologia in una radice indoeuropea men- che desi
gna il misurare e quindi la luna. Infatti per gli Antichi la luna era l’astro che
misurava, in quanto con le sue fasi forniva l’idea della divisione del tempo e
quindi del mese.
163 Virgilio, Eneide III, 284. Lo stesso verso è citato da Macrobio nei
Saturnali!, 14, 5. Nel paragrafo precedente il commentatore spiegava la cor
rispondenza dell’anno lunare al mese, perché la luna compie il giro dello
zodiaco in poco meno di un mese, mentre l’anno solare va calcolato sul
numero dei giorni che il sole impiega nella sua corsa per ritornare sul segno
da dove è partito, donde la denominazione di anno corrente, o grande, men
tre quello della luna è l’anno breve.
164 Cfr. I, 19, 3-5.
165 L'annus mundanus è quindi non solo il vero anno corrente, ma anche
il vero grande anno. Macrobio usa l’espressione annus mundanus invece di
magnus annus, più comune ma equivocabile, come abbiamo visto nell’esem
pio che fa di Virgilio (cfr. nota 163), il quale utilizza l’espressione per indica
re l’anno solare. L’aggettivo mundanus introdotto in modo originale da Ma
crobio ha anche il vantaggio, come dice nel seguente § 12 , di estendere l’idea
di rivoluzione al cielo delle stelle fisse. Quella del Grande Anno, ciclo uni
versale in cui tutti i corpi celesti ritornano alle loro primitive posizioni di par
tenza, è una teoria derivata da Platone e descritta in Timeo 38 d-e, nel passo
immediatamente seguente a quello citato in nota 161: «Tuttavia non è impos
sibile capire che il numero perfetto del tempo realizza l’anno perfetto
[ t é X e o s è v i a u T Ò s ] quando le velocità di tutti gli otto cicli, compiendosi
nello stesso tempo rispettivamente, ritornano al punto di partenza, misurate
con il ciclo dell’identico che si muove in modo uniforme. In questo modo e
per questa ragione furono generati tutti gli astri che percorrono il cielo e
hanno ritorni, perché questo mondo fosse il più simile possibile a quell’esse
re vivente perfetto e intelligibile, in virtù dell’imitazione della sua eterna
natura». Di fatto la concezione del Timeo è una sistematizzazione delle tesi
pitagoriche sul tempo, retaggio d’una sapienza antica e antecedente al mae
stro di Samo, di una religione astrale diffusa da più di un millennio nel
Mediterraneo, che aveva come princìpi la variabilità ciclica e l’armonia
cosmica nella sincronizzazione delle trasformazioni psico-fisiche e dei ritmi
planetari.
166 Già in I, 17, 16-17 Macrobio si era espresso sulle due teorie, l’una sul
l’immobilità delle stelle fisse e l’altra, «più prossima alla verità», sulla loro
rivoluzione e, quindi sulla precessione degli equinozi (cfr. note 333-335 del
Libro Primo).
*67 U numero 15.000 per la durata del Grande Anno non sembra trovar
riscontro in altri autori. Pur essendo tale dottrina dominante in tutta la cul
tura greco-romana, l’intervallo di tempo dopo il quale tutto il sistema cosmi
co ritrova un’identica configurazione è molto variabile tra i diversi autori.
Calcoli svariatissimi portavano a cifre altrettanto disparate: ad esempio
Eraclito calcolava questi lunghi periodi di tempo in 10.800 anni, Firmico
Materno in 300.000 anni. L’«anno perfetto» di Platone (Timeo, 39 d), in pra
tica quello che la Terra impiega per percorrere con moto retrogrado i dodici
segni zodiacali corrisponde, in effetti, a quasi 26.000 anni (diversamente da
altri commentatori moderni non ci permettiamo di dare un numero preciso
perché questo ciclo in realtà è variabile per diverse e complicate ragioni di
meccanica celeste). Oggi il grande anno viene anche chiamato «anno plato
nico». Vero è però che il periodo che nelle diverse tradizioni appare con
maggior frequenza non è tanto quello della precessione degli equinozi quan
to la sua metà, calcolato dai Caldei e dai Greci a un dipresso in 12.000 o
13.000 anni. Infatti Cicerone nell’Ortensio, secondo una testimonianza di
Tacito, definiva per esso una durata di 12.954 anni solari e il dato trova con
ferma nel citato brano del Somnium.
168 Cfr. I, 20, 8 , dove Macrobio dice che il caelum è giustamente chiama
to mundus, e nota 382 del Libro Primo. La stessa affermazione è ripetuta in
due passi dei Saturnali (I, 9, I l e i , 18, 15).
169 Secondo la tradizione, Romolo sparì alle None Caprotine di Quintile
(7 Luglio), dopo una notte di tempesta, in una mattina in cui il sole era oscu
rato (ma altri parlano solo di tempesta), salendo in cielo, sul carro di Marte,
per divenire Quirino, protettore del popolo romano. L’evento è registrato da
Cicerone, oltre che nel Sogno, in altri passi (Repubblica, I, 25; II, 10; II, 17).
Secondo Plutarco, Romolo fu concepito durante un’eclissi di Sole e morì,
assunto in cielo come divinità, durante un’altra. Curiosamente, si è calcolato
che il 17 luglio 709 a.C. avvenne a Roma un’eclisse di sole con magnitudo
93,7%, con inizio alle 5.04 (alba a Roma) e termine alle 6.57.
170 Gli anni di regno di Romolo indicati da Macrobio non corrispondo
no ai trentasette anni di regno indicati ancora da Cicerone (Repubblica II, 10;
II, 17) e da Plutarco (Romolo 29 e Numa 2). Anche Tito Livio (I, 2 1 ) affer
ma che Romolo regnò per 37 anni dopodiché fu trucidato dal Senato o
disparve nel trentottesimo anno di regno. La morte di Romolo, in base al
computo dato da Cicerone, avvenne dunque nel 716 a.C., mentre il sogno di
Scipione è ambientato nel 149 a.C. Un po’ più di due anni dopo, nel 146,
avvenne la distruzione di Cartagine. Tra la morte di Romolo e la data del
sogno, trascorsero quindi 567 anni e non i 573 anni indicati da Macrobio.
Nonostante questa piccola differenza, dal computo di questo periodo, 1/20
del Grande Anno, si ricava in ogni modo una cifra inferiore ai 12.000 anni,
generalmente indicata come intervallo del Grande Anno, o ai 12.954 anni,
stimati da Cicerone nell’Ortensio (cfr. sopra nota 167), come pure al ventesi
mo dei 15.000 anni di Macrobio, pari a 750 anni.
171 Cicerone, Repubblica VI, 26 = Sogno di Scipione 8 , 2 . La tradizione
diretta del Sogno presenta alcune varianti.
172 Com’è sua abitudine, in un modo quasi didascalico, Macrobio fa il
punto sull’avanzamento della sua opera. L’annuncio della morte di Scipione
l’Emiliano è stato commentato nei cap. 5-7 del Libro Primo; la promessa
d’immortalità per il saggio e il buon cittadino è stata discussa nei cap. 8-12
dello stesso Libro; la dissuasione al suicidio e gli insegnamenti sul posto del
l’anima nella gerarchia degli esseri sono stati trattati nei cap. 13-14; l’esposi
zione sulla natura, la musica celeste e le stelle si è svolta nei cap. 15-22 del
Libro Primo e nei cap. 1-4 del Libro Secondo; infine l’idea che la gloria è
limitata nello spazio e nel tempo è stata commentata nei cap. 10-11 di que
st’ultimo Libro. E chiaro, com’è nelle intenzioni di Macrobio, che l’insegna
mento della fisica (astronomia, geografia, ecc.) è solo un propedeutico desti
nato a purificare l’uomo dai suoi pregiudizi e dalle sue passioni, quali l’attac
camento alla fama, per renderlo capace di accedere alle verità metafisiche.
173 L’immagine dello spogliamento (già apparsa in I, 13, 6 : «l’anima... si
spoglia... dei piaceri...») ha la sua spiegazione in I, 11 , 12 , dove si descrive
il progressivo rivestimento eterico e infine terreno dell’anima nella sua disce
sa. Si tratta di una concezione orfico-pitagorica. Per la purificazione cfr. I, 8 ,
8-9.
174 La divinità dell’anima umana e quindi implicitamente dell’uomo è già
stata affermata da Macrobio nei capitoli 14 e 21 del Libro Primo. La nozio
ne della divinità e immortalità dell’anima sarà argomentata in questi ultimi
capitoli. Il concetto d’immortalità dell’anima era insieme patrimonio del pla
tonismo (imbevuto dell’antica tradizione orfico-pitagorica), dell’aristoteli-
smo e dello stoicismo. Il concetto dell’immortalità dell’anima, anche grazie
all’aristotelismo, risultò molto gradito agli scrittori cristiani e questo è forse
uno dei motivi per cui il Somnium e il suo commento macrobiano scamparo
no dal Medioevo. Quanto alla divinità dell’anima (Deum te igitur scito esse)
è l’affermazione più alta del Somnium-, se la vera essenza dell’uomo è l’anima
e questa partecipa alla natura divina, l’uomo è un dio. Tale affermazione già
impiegata da Empedocle («... io tra di voi dio immortale, non più morta
le...»), era nozione comune, pur partendo da premesse diverse, al platoni
smo e allo stoicismo. Il cristianesimo in parte la fece propria, riprendendo la
tesi biblica dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio: infatti una cosa
è affermare che l’anima è divina e un’altra dire che l’uomo è un dio.
175 Osserviamo il consueto elogio a Cicerone (già apparso in I, 10, 8 ; II,
5, 4 e 28) per la sua concisione di parole che compendia, riassume e organiz
za una moltitudine di conoscenze e una profonda sapienza. La stessa lode
per la sua sapiente sintesi è estesa a Plotino. La necessità, nel linguaggio, di
un’economia di parole nella trasmissione di un sapere non intaccabile dall’u
sura del tempo e universale è sempre stato un principio tradizionale.
176 Quid animai, quid homo è la traduzione latina del titolo di Enneadi I,
1: Ti t ò C,cbov «ai ti '5 avTpoTrog. Nei § 8-16 Macrobio riunisce e sintetiz
za con salda concezione diversi concetti sparsi in vari capitoli del testo di
Plotino.
177 Cfr. Plotino, Enneadi I, 1,1.
178 Traduzione fedele della formula di Plotino in Enneadi 1 ,1, 10. Si trat
ta dell’elemento bestiale che convive in noi assieme all’elemento divino intel
lettivo. La traduzione più corrente di questa formula plotiniana, quella di
Giuseppe Faggin, recita: «la bestia è il corpo vivente». In questo caso, per
parte nostra, abbiamo preferito dare una traduzione letterale — e soprattut
to quanto più omofona all’originale latino — di animai esse corpus animatus
(«l’animale è un corpo animato»), perché il participio passato utilizzato da
Plotino £ógo0èv («fatto vivo, animato») è stato reso da Macrobio col suo sim
metrico animatum con lo scopo deliberato di riecheggiare animai, traduzio
ne del greco 0r|piov («animale, bestia»).
179 Plotino, Enneadi 1, 1, 4, 10.
180 Plotino, Enneadi 1, 1, 9, 1; I, 1, 4, 20.
181 Plotino, Enneadi I, 1,7, 15-20. L’idea che l’uomo sia ciò che si serve
del corpo e lo governa e che non ci sia altro che se ne serve se non l’anima,
è di origine platonica: cfr. Platone, Alcibiade Maggiore 129 c-130 a.
182 La dottrina dell’analogia macrocosmo/microcosmo — l’uomo riassu
me nella sua natura l’insieme del cielo e degli astri — è molto antica e molto
diffusa nell’antichità. Se ne situa l’origine in Oriente e si trova abbondante
mente attestata in Grecia nei presocratici. Difatti, in Anassimandro, l’ordine
sociale o politico (ttóàij) è in tutto simile a quello che regge il mondo. Pur
essendo assenti dai suoi testi i termini di macrocosmo e di microcosmo, la
rappresentazione di una società come un piccolo mondo che si comporta
all’immagine del grande denota già un «organicismo» che li lega immediata
mente; con Eraclito, si arriva già ad un paragone dell’uomo con l’universo:
siamo composti di fuoco, di acqua e di terra, e ciascuno di questi elementi
esercita la stessa funzione sull’uno e altro piano. All’armonia (.KÓapos) che si
trova al centro di una tale concezione si aggiunge, con ì pitagorici, la nozio
ne di equilibrio, come dimostra l’utilizzo della parola novapxia in Alcmeo-
ne per designare la malattia. Ma è soprattutto la convinzione che il reale
aveva i numeri come fondamento, essendone anche i simboli, che dà luogo,
nella scuola pitagorica, ad una visione unificata del mondo. I neo-pitagorici,
più tardi, assoceranno i numeri, ma anche la musica mundi, o armonia delle
sfere, al microcosmo. Già, stando a Platone e Aristotele, la concezione che
aveva Pitagora dell’anima era proprio quella di un’armonia del corpo. Pita
gora, secondo la tradizione, sarebbe stato anche il primo ad adoperare la
parola KÓapoj per descrivere l’universo in quanto ordinato. La dottrina
entrerà a far parte di tutte le correnti filosofiche antiche, eccettuata quella
degli Epicurei, e ritornerà ad avere un importante sviluppo gnoseologico nel
Rinascimento.
183 Virgilio, Georgiche IV, 226,
184 Cfr. in Ovidio (Metamorfosi XV, 165) il celebre aforisma del discorso
di Pitagora: Omnia mutantur, nihil interit («Tutto cambia, nulla muore»).
185 II riferimento è a Plotino, Enneadi II, 1 , il cui titolo, che Macrobio
diversamente da prima non ricorda, è Sul mondo (TTep'i kóckou).
186Cfr. Plotino, EnneadiW, 1, 1, 5.
187 Cfr. Plotino, Enneadi II, 1,3, 1.
188 Cfr. Plotino, Enneadi II, 1, 4, 25.
189 Cicerone, Repubblica VI, 27-28 = Sogno di Scipione 8 , 3-9, 1.
190 Si tratta infatti della traduzione quasi letterale di Platone, Fedro 245
c-246 a. Cicerone riutilizzò questa stessa traduzione nelle Tuscolane (I, 22 ,
53-54) dove è presentata come la dimostrazione platonica sviluppata da
Socrate nel citato dialogo, da lui stesso, come precisa, già posta nel sesto
libro della Repubblica. Le tre traduzioni di cui disponiamo — quella diretta
del Sogno, quella delle Tuscolane e quella citata da Macrobio — presentano
delle leggere varianti di scarsa importanza.
191 Comincia qui la dimostrazione più propriamente filosofica dell’im
mortalità dell’anima, fondata sulla sua automotricità. Una prima parte (§ 9-
12 di questo cap. 13) è basata su sillogismi ripresi da seguaci di Platone. Una
seconda parte (cap. 14) espone, sempre sotto forma di sillogismi, la confuta
zione aristotelica circa il movimento dell’anima, Primo Motore immobile. La
terza e ultima parte (cap. 15-16) confuta l’argomentazione aristotelica.
192 Cfr. Platone, Fedro 245 c e Leggi 896 a.
193 Cfr. Platone, Fedro 245 c.
194 p e r ]a triplice serie di sillogismi, come per la loro sintesi cfr. ancora
Platone, Fedro 245 c-e.
195 Secondo gli Stoici il principio attivo, il logos divino ed eterno, è imma
nente nella materia.
196 Cfr. Aristotele, L'Anima I (A), 3, 405 b 30- 406 a.
197 Cfr. Aristotele, Fisica V ili (©), 3,254 a sgg. e L'Anima I (A), 3,406 a.
198 Cfr. Aristotele, Fisica V ili (©), 5 e L’Anima I (A), 3, 406 a.
199 Cfr. Aristotele, Fisica V ili (©), 4, 254 a 20 e 3, 253 a-254 b. I due
passi della prima obiezione dello Stagirita sono divisi da un «dice». Il movi
mento continuo dei corpi degli astri, inserito in questa obiezione, è tratto da
vari passi dell’aristotelico II cielo.
200 Infatti nell’VIII e ultimo libro della Fisica che postula sillogisticamen
te l’esistenza di un Primo Motore immobile ed eterno, Aristotele non dice
che si tratti dell’anima. L’identificazione del primo mobile con l’anima emer
ge soltanto ne II cielo.
201 Cfr. Aristotele, Fisica V ili (0 ), 4, 254 b 5-256 a.
202 Cfr. Aristotele, Fisica VIII (0), 4, 254 b 5 sgg.
203 Cfr. Aristotele, Fisica VIII (0), 4, 254 b 10. Aristotele distingue tra le
cose mobili quelle che si muovono da sé e quelle che si muovono per qual
cos’altro e tra queste ultime distingue quelle che si muovono secondo natu
ra e quelle che si muovono per forza contrariamente alla loro natura. Come
esempio di quest’ultima distinzione, la più difficile da analizzare (254 b 30),
Aristotele pone i gravi che si muovono verso il basso e il fuoco verso l’alto
(255 a 1-10), i quali per forza possono essere mossi in direzione opposta.
Aristotele dimostra che non si muovono da sé, da una parte perché non pos
sono arrestarsi (al contrario di animali ed esseri viventi), dall’altra perché in
essi è indistinguibile ciò che muove da ciò che è mosso (255 a 5-15).
204 Si tratta della distinzione richiamata nella nota precedente: tra le cose
che si muovono da sé alcune sono mosse per propria azione, altre sono mosse
da qualcos’altro (Fisica VIII (0), 4, 254 b 10).
205 Cfr. Aristotele, Fisica VIII (0), 4, 254 b 20-255 b 1 sgg.
206 Cfr. infra II, 15, 4-23.
207 La parte dal § 16 fino a questo punto del § 18 è una parafrasi di Aristo
tele, Fisica VIII (0), 5, 256 a 10-25, che giunge alla conclusione: «se, dunque,
tutto ciò che è mosso è mosso da qualcos’altro, e il primo motore è mosso, ma
non da qualcos’altro, allora necessariamente esso stesso si muove da sé». La
confutazione di questa prima obiezione sarà ampiamente trattata in II, 15,4-32.
208 Parafrasi di Aristotele, Fisica VIII (0), 5, 256 a 20-b 5.
209 Parafrasi di Aristotele, Fisica V ili (0), 5, 257 b 25-258 a 1.
210 Estrema sintesi di Aristotele, Fisica V ili (0), 5, 256 a 15-258 b 5.
211 Cfr. infra II, 15, 27.
212 Sul punto principio della linea cfr. Aristotele, Sulla linea indivisibile,
971, a 16, e, in altri contesti, lo stesso Macrobio in I, 6 , 35; I, 12 , 5; I, 2 , 5.
Sul principio del numero, ossia l’Uno o monade, che non è un numero cfr.
Aristotele, Metafisica XIV (N), 1, 1088 a 5 e ancora Macrobio, sempre in
altro contesto, in I, 6 , 7.
213 I confronti possibili sono con Aristotele, Metafisica XII (A), 4, 1070
b 15; X (I), 1, 1052 b 23; V (A), 15, 1021 a 13 e XIII (M), 9, 1086 a. Si trat
ta della seconda obiezione di Aristotele che sarà confutata in II, 16, 2-4.
214 p er la terza obiezione i confronti possibili sono con Aristotele, Fisica
I (A), 6 , 189 a 30; III (D, 3, 202 a 20 sgg.; V ili (0), 4, 255 a 10 e 257 b 10
e anche L’Anima I (A), 3, 407 b 17. Questa obiezione aristotelica sarà confu
tata in II, 16, 5.
215 Per la quarta obiezione Macrobio traduce abbastanza fedelmente
Aristotele, L’Anima I (A), 3, 406 a 16-18 («se l’essenza dell’anima è muover
si da sé, non accidentalmente le apparterrà il movimento»); Categorie, X, 12
b, 40 («Non è possibile che il fuoco sia freddo né che la neve sia nera»). La
confutazione di quest’argomentazione si troverà in II, 16, 6-9.
2lf) Di questa quinta obiezione non si trovano nello Stagirita riscontri
diretti. Questo quinto argomento sarà confutato in II, 16, 10-13.
217 Per la sesta obiezione i possibili confronti sono con Aristotele, Fisica
V ili (0 ), 5, 256 a 22; 256 b 14 sgg. e 256 b 20; cfr. anche L’A nima III (D,
10, 433 b 13 sgg. La confutazione di questo argomento aristotelico sarà fatta
in II, 16, 14.
218 La settima obiezione può essere riscontrata, come un riassunto, dei
ragionamenti di Aristotele, Il Anima I, 3, 406 a 20 - 406 b 5. Sarà confutata
in II, 16, 15-19.
219 Per l’ottava e ultima obiezione aristotelica i vari riferimenti possono
essere stati ripresi da LAnima e da varie sezioni della Fisica. Per il primo trat-
tato cfr. I (A), 3, 406 a 11 sgg. Per il secondo cfr. II (B), 1 , 192 b 13-16; V
(E), 1, 224 b 11; 225 a 25-b 2; VII (H), 2, 243 a 6-10 e 26 sgg.; V ili (©), 7,
261 b 28 sgg.; 31-36; 8 , 262 a 12-14; 265 a 6 sgg.; 9, 265 a 14-22; a 29 sgg.;
265 b 1-8. La confutazione dell’ultima obiezione sarà svolta in II, 16, 20-25.
220 Verosimilmente Macrobio si riferisce a Porfirio e a Plotino e altri
diversi trattati di Platonici, oggi perduti, di cui Macrobio fornisce una sinte
si organica delle loro confutazioni.
221 La dimostrazione aristotelica è stata data sopra in II, 14, 15-18: cfr.
inoltre nota 207.
222 La confutazione della duplice posizione aristotelica si svolge in due
parti: a) confutazione di II, 13, 4-23: dimostrazione che il Primo Motore si
muove in II, 15, 4-33; b) confutazione di II, 13, 24-35: dimostrazione che il
Primo Motore è l’anima nel seguente cap. 16. Per i testi platonici che oggi ci
sono rimasti, le argomentazioni di Macrobio possono tutt’al più essere rap
portate a Plotino, ma il lessico di Macrobio è abbastanza lontano dalla lette
ra del testo plotiniano.
223 Letteralmente praestigiae-, «frode, impostura, gherminella, trucchi da
illusionista, giochi di prestigio». Per Cicerone praestigiae verborum erano i
giochi di parole, le sottigliezze della dialettica. Macrobio, in un contesto
simile, è anche ricorso all’immagine dello scurrilis iocus (cfr. I, 22 ,10 e II, 16,
14).
224 Confutazione dell’argomentazione aristotelica in II, 14,10-13. Sulla non
esistenza di cose che si muovono da sé, secondo Aristotele, cfr. II, 14, 7-9.
225 Macrobio per confutare la prima obiezione rinvia alle considerazioni
da lui svolte nel precedente capitolo 13 e introduce il concetto platonico di
aùxoKivriTos, attributo essenziale dell’anima, che, per Platone, è, per defi
nizione, movimento allo stato puro, per cui è piuttosto evidente il fatto che
immortale è ciò che si muove sempre.
226 Macrobio qui approva, come ha anticipato all’inizio del § presente,
l’argomento aristotelico contenuto in II, 14, 10.
227 Cfr. Plotino, Enneadi \ I, 6 ,1, 33. La discussione è intorno alle catego
rie di Aristotele, in seguito al quale Plotino distingueva due specie di quali
tà: 1 ) quelle che sono differenze della sostanza (come bipede o quadrupede,
o il bianco per la neve) e che aggiungendosi a un genere ne definiscono la
specie: sono un complemento della sostanza e un loro costituente; 2 ) quelle
che sono soltanto un accidente della sostanza (come il bianco per l’uomo) e
che sono solo qualità.
228 Cfr. Platone, Fedro 245 c e Leggi X, 896 a.
229 Esempio plotiniano: «Quanto poi al fuoco, dobbiamo rispondere che
il calore non è un’immagine del fuoco, a meno che non si dica che nel calo
re c e ancora del fuoco; se così fosse, il calore si produrrebbe senza il fuoco.
E poi, quando il fuoco si allontana, il corpo riscaldato cessa, anche se non
subito, di riscaldarsi e si raffredda» {Enneadi VI, 4, 10, 15-20).
230 Idea aristotelica su cui cfr. II, 14, 10 e nota 224.
231 Da qui fino a tutto il § 19 non esistendo nella coniugazione italiana
una forma equivalente a quella latina, siamo costretti a mantenere i termini
verbali originali. Macrobio qui mostra l’ambiguità delle forme latine passive,
che possono talvolta avere un senso «medio» (nel senso che il soggetto com
pie l’azione ricevendone direttamente gli effetti) o altrimenti detto «depo
nente» (nel senso che abbandonano il significato passivo pur mantenendone
la forma) ed essere quindi l’equivalente del nostro riflessivo pronominale,
cosicché moveri può significare sia «muoversi» sia «essere mosso».
232 Anche Calcidio, in un contesto simile riguardante il movimento del
l’anima secondo Platone, utilizza l’esempio di secari: hic uero communis, qui
commotus mouet, operatio mouentis est in eo quod mouetur, ut sectio operatio
secantis in eo quod secatur {Commentario al Timeo disiatone, CCLXII). E da
notare che nello stesso passo di quest’altra opera di fondamentale importan
za per la conoscenza di Platone in tutto il Medioevo è inserita una parafrasi
del brano delle Leggi di Platone che Macrobio, per parte sua, cita nel succes
sivo § 25 (Animae item duplex motus: unus qui alia mouet, ipse a nullo moue
tur sed proprio genuinoque motu, alius qui alia mouens ab alio mouetur... ).
233 Cfr. il trattato di grammatica dello stesso Macrobio De uerborum
Graeci et Latini differentiis uel societatibus (di cui restano solo ampi excerp
ta): Nam et in actiuo, et in passiuo debent omni modo duae, et administrantis
et sustinentis, subesse personae (Macrobii Excerpta Varisina, GL V 627, 25-26
= De verborum graeci et latini differentiis vel societatibus excerpta, a cura di
Paolo De Paolis, Urbino, 1990, p. 163).
234 Virgilio, Eneide VI, 652.
235 Si tratta infatti di un cosiddetto verbo di stato. Si tratta di verbi che
descrivono appunto uno stato o una condizione che non cambia o è impro
babile che cambi, e che hanno perciò in latino un significato fortemente pas
sivo, pur non essendo dei passivi. La loro differenza rispetto ai verbi di moto
è, ad esempio, molto importante nella grammatica inglese.
236 Cfr. supra II, 14, 11. Quello del fuoco è un esempio aristotelico: cfr.
nota 203.
237 Cfr. Aristotele, Fisica VIII, 5, 257 b 1 sgg. in riferimento a Platone,
Fedro 245 c, citato sopra in II, 13, 1 (Cicerone, Repubblica VI, 27 - Sogno di
Scipione 8, 3).
238 Si tratta del titolo di una delle celebri commedie di Terenzio, rappre
sentata nel 163 a.C., dove si narra il pentimento e le punizioni che sconta e
s’infligge il vecchio Menedemo per il comportamento tenuto nei riguardi del
figlio Clinia, indotto ad arruolarsi come mercenario in Asia per ostacolarne
le nozze con una fanciulla di umili origini.
239 Cfr. per l’argomentazione aristotelica II, 14, 10-13 e note 204-205.
240 Cfr. II, 14, 20 e nota 208.
241 Piatone, Leggi X, 894 b-e per il movimento che muove se stesso e le
altre cose oppure muove ed è mosso da altro; 895 e-896 a per il movimento
dell’anima; e infine X, 896 b per il movimento dei corpi. Per la traduzione di
Calcidio dello stesso passo vedi sopra nota 232.
242 Platone, Leggi X, 896 a; Fedro 245 e; e Cicerone, Natura degli dei II, 32:
cui [Fiatoni] duo placet esse motus, unum suum, alterum externum, esse autem
diuinius, quod ipsum ex se sua sponte moueatur quam, quod pulsu agitetur alie
no. Hunc autem motum in solis animis esse ponit, ab isque principium motus
esse ductum putat («Secondo lui [Platone] esisterebbero due tipi di movimen
to, uno proprio, l’altro di origine esterna; e tutto ciò che si muove spontanea
mente di per se stesso parteciperebbe della natura divina in grado maggiore di
ciò che si muove per spinta altrui. Unica sede di questo movimento spontaneo
sarebbe l’anima e dall’anima soltanto trarrebbe origine ogni movimento»).
243 E il sillogismo conclusivo enunciato in II, 14, 23.
244 Cfr. Plotino, Enneadi IV, 7, 2, dove si dimostra, contro i materialisti,
la necessità di un principio che ordini e che sia causa del miscuglio.
245 È la risposta, esposta sillogisticamente, alla prima e più articolata
delle obiezioni aristoteliche (su cui cfr. sopra nota 199), sintetizzata nel sillo
gismo aristotelico di II, 14, 23.
246 Argomentazione aristotelica enunciata in II, 14, 24. Tutto il capitolo
16 è infatti la confutazione delle obiezioni aristoteliche, dalla seconda all’ot
tava, esposte in II, 14, 24-35, come sarà segnalato nelle note seguenti.
247 Macrobio cita la definizione di anima come moto aÙT0 Kivr|T0 s, già
citato in II, 15, 6 e più volte presente in Platone (ad. es. Fedro 245 d; 246 a;
Leggi X, 896 a), a completamento della discussione della seconda obiezione
aristotelica su cui cfr. sopra nota 213. Questo riferimento a Platone era già
stato fatto in II, 13, 6 riguardo al Fedro.
248 E l’obiezione aristotelica enunciata in II, 14, 25.
249 Sulla terza obiezione cfr. sopra nota precedente e nota 214.
250 Cfr. II, 14, 26.
251 Cfr. Plotino, Enneadi I, 1, 13, 1-5 e anche IV, 7, 8, 5.
252 II sogno è stato spesso al centro delle indagini di Aristotele. Il rappor
to tra l’anima e l’esperienza onirica è testimoniato da varie opere, quali ad
esempio, oltre L'Anima, Sui sogni, Sulle divinazioni nel sonno e Del sonno e
della veglia.
253 Sulla quarta obiezione cfr. sopra nota 250 e nota 215.
254 E la quinta obiezione aristotelica enunciata in II, 14, 27.
255 Cfr. Aristotele, Categorie X, 12 b 35 sgg.
256 Sulla quinta, e facilmente confutabile, obiezione aristotelica cfr. sopra
note 254 e 216. L’affermazione che il fuoco è per sua natura caldo (come è
natura della neve l’essere bianca) è tratta dallo stesso Aristotele, Categorie X,
12 b 39.
257 Si tratta della sesta obiezione aristotelica enunciata in II, 14, 28.
258 Sulla sesta obiezione cfr. sopra nota precedente e nota 217.
259 Obiezione enunciata in II, 14, 29,
260 Cfr. I, 13, 6 («L’uomo, infatti, muore quando l’anima abbandona il
corpo, da cui si scioglie per una legge di natura») e soprattutto 11-12 in cui
si afferma che l’anima è legata al corpo da un rapporto numerico preciso e
quest’ultimo muore quando si dissolve questo ciclo numerico. Su questa idea
cfr. nota 232 del Libro Primo.
261 Sulla settima obiezione cfr. sopra note 259 e 218. Sull’attaccamento
dell’anima al corpo cfr. I, 9, 4-5.
262 Obiezione aristotelica enunciata in II, 14, 30-35
263 Sulla ottava obiezione cfr. sopra nota 262 e nota 219.
264 Per la definizione di Platone e Cicerone vedi rispettivamente Platone,
Fedro 245 c — ma anche 105 c — (TTriyii Kai à p x n kivtìoegos) « fonte e
principio di movimento » e Cicerone, Sogno di Scipione 8, 3-9, 1. (=
Repubblica VI, 27 ) citato in II, 13,1 (hicfons hoc principium est movendi) che
ne è la traduzione latina.
VeJf anche Platino, Enneadi IV, 7, 12, 4 sull’immortabtà deìl’anima
del mondo e nostra, entrambe principio di movimento.
Cfr. Plotino, Enneadi III, 8, 10, 5-9. Quanto alla metafora della fonte
è usatissima da Plotino per descrivere l’Uno trascendente, così come il rap
porto Dio-mondo, essendo un’immagine simbolica e adatta all’immediata
comprensione, per far intendere che tra principio e generazione non c’è il
rapporto creazionistico che separa creatore e creatura, ma che ciò che viene
emanato dalla fonte è sempre legato alla fonte stessa.
267 SullTstro e il Tanai vedi sopra nota 123. L’Eridano, protagonista della
caduta dal carro del sole di Fetonte, figlio di Apollo, è l’antico nome del Po.
268 L’osservazione si riscontra in Platone, Leggi X, 896 e sgg. e si ritrova
in Plotino, Enneadi VI, 4, 15
269 Cicerone, Repubblica VI, 29 = Sogno di Scipione 9, 2-3.
270 Attraverso questi quattro aggettivi è ovvio il richiamo alle quattro
virtù «cardinali» esaminate e definite nel cap. 8 del Libro Primo, in cui
Macrobio ha utilizzato soprattutto gli scritti di Piotino e Porfirio (cfr. in par
ticolare nota 150 del Libro Primo). Quanto alle virtù attive e virtù contem
plative anch’esse sono state discusse nello stesso capitolo (cfr. le relative note
del Libro Primo).
271 Cfr. la descrizione dell’uomo che pratica le virtù purificatrici in I, 8, 8.
272 Nei Saturnali Macrobio dedica ampio spazio all’opera politica di
Romolo: invenzione del calendario romano (I, 12, 3-38), divisione del popo
lo in anziani o maiores e giovani o iuniores «affinché gli uni difendessero lo
stato con il consiglio, gli altri con le armi» (I, 12, 16), Sull’ascesa in cielo del
l’eroe — che lo rende predecessore dei due Scipioni e Paolo Emilio del
Sogno — cfr. supra nota 169. Si noti che Giulio Proculo nel Romolo di
Plutarco giura di aver sognato il primo re di Roma che rivela al vecchio amico
«che gli dèi hanno voluto che dopo aver vissuto per un tempo determinato
con gli uomini..., dopo aver fondato una città che si eleverà all’impero e alla
gloria più alta, io ritornassi al cielo da dove sono venuto» (28, 2). I presup
posti di questa concezione sono naturalmente nella concezione pitagorica e
platonica dell’eternità dell’anima, che ascende dopo la morte al cielo attra
verso una serie di passaggi, simili a quelli descritti da Macrobio in I, 8, che
Plutarco sintetizza nel finale della Vita di Romolo: «e, se hanno trascorso tutti
i giorni della loro vita, come quelli dell’iniziazione ai misteri, nell’innocenza
e nella santità, se hanno fuggito tutte le passioni e tutti i desideri d’una carne
terrena e mortale, allora le loro anime, innalzate alla natura degli dèi, non per
decreto pubblico, ma per la verità stessa, e per le ragioni più giuste, gioisco'
no della condizione più bella e più felice» (28, 7-8).
273 Licurgo e Solone sono i due più noti legislatori, il primo di Sparta e
il secondo di Atene, Del primo vaghe e incerte sono le notizie sulla sua figu
ra, per quanto riguarda sia la cronologia sia la stirpe. Vissuto in un’epoca
antichissima, variabile secondo le fonti tra il XII e l’VIII sec. a.C. le riforme
legislative gli sarebbero state suggerite da un responso oracolare di Delfi o
secondo altri da dodici saggi cretesi ed erano fissate non da leggi scritte, ma
da norme consuetudinarie. Le severe leggi regolavano l’ordinamento dello
stato spartano nelle sue istituzioni politiche, sociali, economiche e militari.
Licurgo, sempre secondo Plutarco che gli accredita la duplice perfezione, sia
nel campo della saggezza che in quello dell’azione politica: «mostrò, a chi
crede irrealizzabile la figura del saggio com’è delineata nella teoria, una città
intera praticare l’amore per la saggezza, e superò giustamente per fama gli
statisti greci di qualsiasi epoca» (Licurgo, 31). Diversamente Solone, uno dei
Sette Savi della Grecia antica, è un personaggio storico (640-560 a.C.). Non
solo uomo politico e legislatore, ma anche poeta, avviò nel 594 a.C. una rifor
ma politica — anche lui sotto la dettatura dell’oracolo di Delfi — che favorì
uno sviluppo in senso democratico delle istituzioni ateniesi, proibendo la
schiavitù per debiti, suddividendo i cittadini in quattro classi censitarie, delle
quali solo le prime due godevano del diritto elettorale passivo e istituendo, a
fianco dell’Areopago, un consiglio popolare di quattrocento membri.
Platone, suo discendente per parte di madre, ne fa uno dei protagonisti del
Timeo, dove gli fa riferire il mito di Atlantide, e nello stesso dialogo lo defi
nisce «sapientissimo nelle altre cose, ma anche il più nobile fra tutti i poeti».
274 Numa Pompilio fu, secondo la tradizione, il secondo re di Roma e
avrebbe regnato tra il 715 e il 674 a.C. Gli si ascrive la riforma del calenda
rio inventato da Romolo (cfr. nota 272), che passò da 10 a 12 mesi, con l’ag
giunta di gennaio e febbraio, e che inoltre distinse in giorni fasti e nefasti
(Macrobio, Saturnali, I, 13 e I, 16, 2). Oltre al calendario luni solare, a lui si
attribuisce anche l’istituzione del culto e la fondazione dei collegi sacerdota
li. Secondo una tradizione più tarda sarebbe stato consigliato nella sua opera
dalla ninfa Egeria e sarebbe stato discepolo di Pitagora, nonostante l’eviden
te anacronismo e, infatti, Macrobio attribuisce la sua opera alla «sola guida
del suo ingegno... o forse informato delle osservazioni dei Greci» (op. cit., I,
13, 2). Marco Porcio Catone Censore (234-149 a.C.), uomo d’armi, politico,
oratore, agricoltore e scrittore enciclopedico, rivestì numerose cariche pub
bliche, ma è soprattutto ricordato come severissimo censore e avversario
delle idee ellenistiche. Macrobio nei Saturnali (Prefazione 14-15; II, l, 15) lo
ricorda solo per le sue arguzie. E invece storicamente nota la sua dura lotta
contro l’immoralità dei costumi romani e contro il lusso femminile. I proces
si che nel 187 e nel 184 intentati contro gli Scipioni e il loro raffinato circo
lo intellettuale costituiscono il più evidente e clamoroso atto della sua oppo
sizione alla cultura pitagorica ed ellenistica. E stato perciò giustamente osser
vato che Macrobio, in questo caso, non si riferisce certamente al personaggio
storico, ma all’immagine idealizzata descritta e prodotta da Cicerone in vari
suoi scritti (Pro Murena, De legibus, Laelius de amicitia, De officiis) e princi
palmente nel Cato Maior de senectute, ambientato nel 150 a.C., l’anno prece
dente la morte di Catone, in cui l’autorevole e prestigioso anziano impartisce
una lezione sull’immortalità dell’anima, ricordando il bene compiuto e la sua
vita ancora attiva, in attesa di quella dopo la morte. Diversamente da questa
immagine letteraria, la realtà di Marco Porcio Catone Uticense (95-46 a.C.),
pronipote di Catone il Censore, è quella di un politico celebre per la rettitu
dine e per l’attaccamento alla tradizione, insieme uomo d’azione e filosofo.
Eroico anticesariano (combattè per i pompeiani in Sicilia, in Asia, a Durazzo
e in Africa) fu anche modello dello Stoico romano, che rinuncia alla vita per
la libertà e che la notte prima del suo suicidio si dà alla lettura del Fedone.
Macrobio nei Saturnali (II, 4, 18) ne ricorda addirittura le lodi di Augusto
per il suo attaccamento agli ideali della conservazione della forma repubbli
cana, invece di deplorarlo per la sua ostinazione, come pretendeva un adula
tore dell’imperatore.
275 La lista degli esponenti delle virtù attive e contemplative è quasi del
tutto coincidente con i personaggi citati da Dante nel Convivio (Romolo: IV, 5,
10 sgg.; Pitagora: II, 13, 18 e 15, 12; III, 5, 4 sgg.; IV, 1, 1; Solone: III, 11, 4;
Numa: III, 21, 3 e IV, 5, 11; Catone vecchio il Censore: IV, 21, 9; 27, 16 e 28,
6; Catone l’Uticense o Marco Catone: III, 5, 12; IV, 5, 16; 6, 10 e 28, 13-19).
276 Si tratta della philosophiae mors, la morte filosofica illustrata chiara
mente in I, 13, 5-9, particolarmente centrale nel Fedone di Platone e nel trat
tato sul suicidio di Plotino (cfr, note 223-230 del Libro Primo).
277 In un testo di legge, l’enunciato della lex, ossia il dettato squisitamen
te normativo, detto rogatio, è seguito dalla sanctio, che compendia l’insieme
delle clausole tendenti ad assicurare il rispetto della legge. Una nota triparti
zione ulpinianea, risalente al III sec., classificava le leggi in: 1) leges perfectae,
quelle che vietano un atto previsto dal ius, impongono una sanzione e dichia
rano la nullità dell’atto; 2) leges minus quam perfectae, le leggi che vietano un
atto ma non lo annullano, prevedendo per il contravventore una sanzione; 3)
leges imperfectae, leggi che vietano il compimento di un atto ma non annul
lano l’atto se esso viene compiuto, né, come ricorda qui Macrobio, sanziona
no una pena. Nel diritto romano, col passare dei secoli, queste ultime erano
verosimilmente divenute le più numerose, finché nel 439 una Novella del
l’imperatore Teodosio dichiarò nullo ogni atto contrario alla legge, impeden
do in tal modo l’esistenza di leges imperfectae. La data del 439 potrebbe dun
que rappresentare un terminus ante quem per la composizione del Com
mento di Macrobio.
278 Cfr. Platone, Repubblica X, 615 a-c. La misura della pena è di dieci
volte cento anni per ogni capo d’accusa.
279 Le anime quae corpus tamquam peregrinae incolunt sono quelle di cui
si è trattato nel precedente § 6, come anche in I, 13, 10, Per il ritorno dell’a
nima in cielo, sua dimora d ’origine, cfr. I, 12, 17. Sulla possibilità di sfuggire
al ciclo delle reincarnazioni attraverso una perfetta purificazione e riguada
gnare il soggiorno celeste cfr. I, 13, 15-16.
280 L’allusione è all’antichissima e diffusissima dottrina della metempsi
cosi, più propriamente definibile come «metensomatosi» è di derivazione
indù. Macrobio l’ha enunciata e approvata in I, 9, 5. La sua influenza in
Grecia si può già riscontrare nell’orfismo, a cui s’ispirò Pitagora, diffonden
dosi quindi nel mondo greco-romano. L’idea nasce dal presupposto che, se
l’anima è immortale, mentre il corpo è mortale, la prima conoscerà una serie
di trasmigrazioni, ovvero di ritorni a una condizione corporea. Questa con
dizione sarà però diversa a seconda della condotta dell’anima durante la pre
cedente esistenza: un’anima che si lascia coinvolgere dalla corporeità cono
scerà reincarnazioni in forme di vita sempre più basse; un’anima che seguirà
invece le regole della virtù incontrerà forme di vita terrena sempre più alte,
fino ad abbandonare definitivamente il ciclo di nascite e morti e riprendere
la sua condizione divina.
281 La chiave dell’opera di Macrobio si trova in tutte queste ultime righe
del Commento, dove egli conclude il suo scritto celebrando la perfezione del
l’opera che ha provveduto a commentare. Il Sogno, afferma, è un’opera com
piuta in quanto abbraccia le tre parti che costituiscono l’insieme della filoso
fia, la morale (pars moralis), la fisica (pars naturalis) e la logica (pars rationa
lis,I.
La tripartizione macrobiana della filosofia in morale, naturale e raziona
le, corrispondente a etica, fisica e logica, che potrebbe a prima vista sembra
re del tutto peculiare è in realtà una classificazione tripartita, già presente
nell’Accademia di Platone, e fatta propria dalle principali scuole filosofiche
in età ellenistica (epicureismo, scetticismo, stoicismo). Furono gli Stoici a
sostituire alla dialettica dei primi seguaci di Platone la logica. Se nell’ambito
originario platonico fra le tre parti della filosofia esisteva una gerarchia, fon
data sulla medesima gerarchia dei domini studiati, per cui la filosofia s’innal
zava dalla contingenza umana fino alla trascendenza divina, gli Stoici ebbero
una concezione fortemente unitaria e sistematica della filosofia. Tra queste
parti intercorrono legami organici indisgiungibili ed essi utilizzarono varie
metafore per illustrare questo aspetto: la logica è simile alle ossa e ai nervi in
un corpo vivente, l’etica alle sue carni e la fisica all’anima, oppure la logica è
analoga al guscio in un uovo, l’etica all’albume e la fisica al tuorlo. Pur dive
nuta patrimonio comune agli Stoici e ai Platonici, questa tripartizione, sotto
l’influenza dello stoicismo aveva però condotto ad una degradazione della
logica (che per loro comprendeva la retorica, o scienza dei discorsi, e la dia
lettica, scienza del vero e del falso) facendone perdere lo statuto di scienza
metafisica che permetteva di accedere alle Idee. La classica tripartizione
viene rinnovata e rimodellata, a partire dal I sec., in ambito medio- e neopla
tonico, con l’introduzione dell’«epoptica» che si occupa dell’intelligibile, del
puro e dell’incontaminato. Si veda in proposito l’analoga definizione
dell’«epoptica» in Plutarco (Iside e Osiride 77) secondo il quale furono
Platone e Aristotele a chiamare così l’ultima parte della filosofia: «quanti
siano riusciti a superare con la ragione il mondo dell’opinabile, del compo
sto, del multiforme, si slanciano verso quell’essere primo, semplice e imma
teriale; e se giungono a toccare in qualche modo la verità, pura riguardo
all’essere, questa è per loro la rivelazione ultima e perfetta della filosofia». Il
termine è iT O T T T d a allude al terzo grado, il grado supremo del percorso ini
ziatico eleusino, dopo i Piccoli Misteri i Grandi Misteri (cfr. Platone,
Simposio), l’ultima tappa della conoscenza. Sebbene il termine «epoptica»
non sia direttamente attestato né in Piatone né in Aristotele, per contro, lo
s’incontra nel medio- e neoplatonismo (cfr. Teone di Smirne, Expositio rerum
mathematicarum ad legendum Platonem utilium, ed. E. Hiller, Lipsiae, 1878,
p. 14; Clemente d’Alessandria, Stromata I, 28, 176, 1-3; Origene, In Canti
cum canticorum , ed. W. A. Baehrens, Leipzig, 1925 p 75, 6), Le stesse
Enneadi di Plotino sono ordinate da Porfirio in conformità a questo schema
tripartito e, allo stesso modo, Macrobio concepisce la successione di questi
tre domini all’interno del Sogno, come lui stesso dichiara e come chiarisce nel
seguente § 16, e, di conseguenza del suo stesso Commento. Anche se
Macrobio, diversamente dal suo contemporaneo Calcidio (Commentano al
Timeo di Platone CXXVII: primariae superuectaeque contemplationis... quae
appellatur epoptica-, e CCLXXII), non utilizza questo termine, ci si accorge
che, nell’ambito della sua tripartizione, la pars rationalis, ovvero la logica,
riveste lo stesso dominio, poiché «è quella che ha per oggetto gli esseri imma
teriali comprensibili soltanto con l’intelletto». Non solo Calcidio, ma anche
Macrobio è debitore della sistemazione di Porfirio. Nel summenzionato § 16
si riconoscono in filigrana le concezioni neoplatoniche sopra menzionate: il
tema dell’iniziazione misterica (secreta commemorat), cui è improntata la
metafora dell’«epoptica» e quella della gerarchia delle parti della filosofia,
con l’immagine dell’altezza (ad altitudinem philosophiae rationalis ascendit).
282 Sull’immagine degli arcani e dei misteri applicata allo studio della
natura cfr. I, 2, 17-18 e nota 27 del Libro Primo, oltre alla precedente nota.
283 Si è giustamente osservato che la perfezione filosofica del Somnium è
anche indice di completezza del commento di Macrobio. La sua perfezione
si trasferisce, immediatamente, al Commento la cui struttura è ricalcata su
quella del Sogno. La parte etica del Commento consiste nei capitoli I, 8-14:
comprende, non inaspettatamente, l’esposizione sulle virtù; ma poiché que
ste virtù prendono la loro stessa sorgente nell’origine celeste e trascendente
dell’anima ed assicurano d ’altra parte il ritorno di essa al cielo, la sezione
etica del Commento v’inserisce la descrizione della discesa dell’anima e della
sua incarnazione, della sua morte, o meglio delle sue morti, la discussione
sulla collocazione degli Inferi e il ritorno dell’anima al cielo. La sezione dedi
cata alla fisica corrisponde alla parte «scientifica» (matematica, astronomia,
musica e geografia). Infine la logica, definita, dal Sogno, come la parte che
tratta del movimento e dell’immortalità dell’anima, si ritrova sotto questa
stessa definizione nel Commento (II, 12-16).
Dunque, seguendo il movimento — perfetto — del Sogno, Macrobio
costruisce a sua volta u n ’opera che riproduce questa perfezione realizzando
contemporaneamente la progressione dell’insegnamento dei neoplatonici in
etica-fisica-logica/epoptica (pur essendovi talora alcuni particolari slittamen
ti: l’esposizione sulle tre ipostasi, che si collega per eccellenza agli incorporei
percepibili con la sola intelligenza, dipende dalla logica ma tuttavia si effet
tua in I, 14, 5-7, in seno alla parte dedicata all’etica; lo stesso accade per la
dossografia sulla natura dell’anima, esposta in I, 14,19-20, che meglio si col
locherebbe nella parte logica). In ogni caso, nel complesso il propositum ed
il filo conduttore del Commento consistono nel fare percorrere al lettore l’in
sieme del campo della filosofia conducendolo al tempo stesso in un cammi
no spirituale ascendente, conformemente alla pratica delle scuole neoplato
niche, conferendo ad esso un carattere di summa del sapere e insieme di pro
gressione del cammino interiore verso l’elevazione individuale a uno stato
superiore dell’essere a cui molte generazioni di lettori hanno attinto e attin
geranno.
A p p e n d ic e I
I l S o g n o d i S c ip io n e
d i M a r c o T u l l io C ic e r o n e
2 Le varianti sono circa una ventina. Bastino qui un paio di esempi tra i più
lampanti: conseruatores in Cicerone, Repubblica VI, 13 ~ Sogno di Scipione 3,1;
seruatores in Macrobio, Commento al Sogno di Scipione I, 8,1 e I, 9,1. Coniunctus
in Repubblica VI, 18 = Sogno di Scipione 5,1; disiunctus in Commento al Sogno di
Scipione II, 2, 21; II, 3, 3; II, 3, 12. Le varianti che si osservano, da una parte, tra
il Sogno così come tradito dai manoscritti a seguito del Commento, e, dall’altra, le
citazioni che ne dà Macrobio nel corso della sua opera, sono non solo rivelatrici
di due tradizioni testuali differenti, ma ci offrono anche la certezza che Macrobio
non ha utilizzato l’archetipo di queste copie del Sogno per il suo commento e che
non ha nemmeno accluso il testo alla sua opera. Se Macrobio avesse avuto in
mano l’archetipo di queste edizioni autonome del Somnium, non avrebbe potuto
esimersi dall’armonizzare le sue citazioni con tale testo. Un altro indizio mostra
che Macrobio non utilizzava un’edizione autonoma dal Sogno di Scipione: è infat
ti in grado di situare il Sogno in seno al libro VI del De republica e di citarne il
contesto come fa nel suo Commento I, 4, 2-3. Salvo il Sogno, le citazioni qui men-
presenta alcune varianti rispetto al testo tràdito e sull'interpretazio
ne che egli dà delle parole di Cicerone. In qualche caso, perciò, si
discosta dal significato che si proponeva Cicerone 3.
zionate, con alcune altre rare e brevi testimonianze indirette, sono tutto ciò che
ci resta del Libro VI del De republica. Tutto ciò mostra che Macrobio aveva sotto
gli occhi, mentre scriveva, un esemplare completo del trattato di Cicerone.
Aggiungiamo infine che talvolta si dà la pena, per meglio evidenziare la citazione
che commenta, di riassumere il Somnium in tutto o in parte (Commento al Sogno
di Scipione II, 5, 1; II, 12, 1). Non ne avrebbe avuto il bisogno se avesse avuto l’in
tenzione di unire al suo Commento il testo integrale del Somnium, offrendo così
al lettore la possibilità di potervi fare riferimento in qualsiasi momento. Sono
dunque gli editori medievali ed essi solo che hanno unito il Sogno al Commento,
ad uso di lettori che non avevano il De republica nella loro biblioteca e che non
potevano altrimenti conoscere il testo di Cicerone, con una scelta tanto più sag
gia in considerazione del naufragio del De republica, ben presto sparito nei gor
ghi del Medioevo.
3 Accurate traduzioni in italiano della versione e quindi del significato cice
roniano si possono trovare, tra le più recenti, in: Somnium Scipionis / Cicerone,
introduzione e commento di Alessandro Ronconi, 2a ed. riv, F. Le Monnier,
Firenze, 1992; Il sogno di Scipione / Cicerone, a cura di Fabio Stok, Marsilio,
Venezia, 20036; Il sogno di Scipione; Il fato / Marco Tullio Cicerone, introduzione,
traduzione e note di Andrea Barabino, Garzanti, Milano, 20023. Per un studio
particolareggiato del Sogno di Scipione vedi Pierre Boyancé, Etudes sur le Songe
de Scipion: essais d’histoire et de psychologie religieuses, New York-London, 1987
(ripr. dell’ed. Feret et fils, Bordeaux, 1936); Id., Sur le Songe de Scipion, in
Lantiquité classique, voi. 11, n. 1, Bruxelles, 1942; Karl Buchner, Somnium
Scipionis: Quellen, Gestalt, Sinn, Steiner, Wiesbaden, 1976.
1 (VI. 9) Cum in Africam venissem M. Manilio consuli ad quar
tam legionem tribunus, ut scitis, militum, nihil mihi fuit potius quam
ut Masinissam convenirem regem, familiae nostrae iustis de causis
amicissimum. Ad quem ut veni, complexus me senex conlacrimavit
aliquantoque post suspexit ad caelum et «Grates» inquit «tibi ago,
summe Sol, vobisque, reliqui Caelites, quod, ante quam ex hac vita
migro, conspicio in meo regno et his tectis P. Cornelium Scipionem,
cuius ego nomine ipso recreor; itaque numquam ex animo meo
discedit illius optimi atque invictissimi viri memoria.» Deinde ego
illum de suo regno, me de nostra re publica percontatus est, multi-
sque uerbis ultro citroque habitis ille nobis consumptus est dies. (
2 (VI. 10) Post autem apparatu regio accepti sermonem in mul
tam noctem produximus, cum senex nihil nisi de Africano loquere
tur omniaque eius non facta solum, sed etiam dicta meminisset.
Deinde, ut cubitum discessimus, me et de uia fessum, et qui ad mul
tam noctem uigilassem, artior quam solebat somnus complexus est.
Hic mihi (credo equidem ex hoc quod eramus locuti; fit enim fere, ut
cogitationes sermonesque nostri pariant aliquid in somno tale quale
de Homero scribit Ennius, de quo uidelicet saepissime uigilans sole
bat cogitare et loqui) Africanus se ostendit ea forma, quae mihi ex
imagine eius quam ex ipso erat notior; quem ubi agnoui, equidem
cohorrui, sed ille «Ades» inquit «animo et omitte timorem, Scipio, et,
quae dicam, trade memoriae.»
3 (VI. 11) «Uidesne illam urbem, quae parere populo Romano
coacta per me renouat pristina bella nec potest quiescere?» (ostende
bat autem Carthaginem de excelso et pleno stellarum illustri et claro
quodam loco) «ad quam tu oppugnandam nunc uenis paene miles.
Hanc hoc biennio consul euertes, eritque cognomen id tibi per te
partum, quod habes adhuc a nobis hereditarium. Cum autem
Carthaginem deleueris, triumphum egeris censorque fueris et obieris
legatus Aegyptum, Syriam, Asiam, Graeciam, deligere iterum consul
1 (VI. 9) Quando arrivai in Africa come tribuno militare della
quarta legione al servizio del console Manio Manilio *, come sapete,
niente mi stette più a cuore che di incontrare Massinissa 2, un re che
per fondati motivi era molto amico della nostra famiglia. Non appe
na giunsi da lui, il vecchio, abbracciandomi, scoppiò in lacrime e,
dopo un po’, levò gli occhi al cielo e disse: «Ti ringrazio, sommo Sole,
come pure voi, altre divinità celesti, perché, prima di migrare da que
sta vita, ho la possibilità di vedere nel mio regno e sotto il mio tetto
Publio Cornelio Scipione, al cui nome mi sento rinascere; infatti dal
mio cuore non è mai svanito il ricordo di quell’uomo ottimo e valo
rosissimo. 3» Quindi io gli chiesi notizie sul suo regno ed egli mi chie
se della nostra repubblica: così, tra le tante parole spese da parte mia
e sua, trascorse quella nostra giornata.
2 (VI. 10) Poi, dopo essere stati accolti con un banchetto regale,
prolungammo la nostra conversazione fino a notte fonda, mentre il
vecchio non parlava d’altro che di Scipone l’Africano e ricordava non
solo tutte le sue imprese, ma anche i suoi discorsi. Poi, quando cì
congedammo per andare a dormire, un sonno più profondo del soli
to s’impadronì di me, stanco sia per il viaggio sia per la veglia fino a
tarda notte. Quand’ecco che (credo, a dire il vero, che dipendesse
dall’argomento di cui avevamo discusso: accade infatti di solito che i
nostri pensieri e le conversazioni producano nel sonno qualcosa di
simile a ciò che Ennio scrive a proposito di Omero 4, al quale, è evi
dente, era solito pensare e parlargli da sveglio) mi apparve l'Africano,
in quell’aspetto che mi era noto più dal suo ritratto che dalle sue reali
fattezze 5; appena lo riconobbi, provai davvero un brivido; tuttavia
quegli disse: «Rassicurati e scaccia ogni timore, Scipione, e tramanda
alla memoria ciò che ti dirò».
3 (VI. 11) «Vedi quella città che, da me costretta ad obbedire al
popolo romano, rinnova le antiche guerre e non riesce a rimanere in
pace?» — Da un luogo elevato, cosparso di stelle e tutto splendente
di luce, mi mostrava poi Cartagine — «Tu adesso vieni ad assediarla
come soldato semplice, ma in due anni la distruggerai in qualità di
console 6 e otterrai, per tuo personale merito, quel soprannome che
finora hai ereditato da noi7. Quando poi avrai distrutto Cartagine e
avrai celebrato il trionfo, avrai rivestito la carica di censore 8 e per
corso, in qualità di legato, l'Egitto, la Siria, l’Asia e la Grecia 9, verrai
absens bellumque maximum conficies, Numantiam exscindes. Sed
cum eris curru in Capitolium inuectus, offendes rem publicam con
siliis perturbatam nepotis mei.
4 (VI. 12) «Hic tu, Africane, ostendas oportebit patriae lumen
animi, ingenii consiliique tui. Sed eius temporis ancipitem uideo
quasi fatorum uiam. Nam cum aetas tua septenos octies solis anfrac
tus reditusque conuerterit, duoque hi numeri quorum uterque
plenus, alter altera de causa habetur, circuitu naturali summam tibi
fatalem confecerint, in te unum atque in tuum nomen se tota
conuertet ciuitas; te senatus, te omnes boni, te socii, te Latini intue
buntur, tu eris unus in quo nitatur ciuitatis salus, ac, ne multa, dicta
tor rem publicam constituas oportet, si impias propinquorum manus
effugeris». Hic cum exclamasset Laelius ingemuissentque uehemen-
tius ceteri, leniter arridens Scipio «St! quaeso» inquit, «ne me e
somno excitetis, et parumper audite cetera.»
5 (VI. 13) « Sed quo sis, Africane, alacrior ad tutandam rem
publicam, sic habeto: omnibus, qui patriam conseruarint, adiuuerint,
auxerint, certum esse in caelo definitum locum ubi beati aeuo sem
piterno fruantur. Nihil est enim illi principi deo, qui omnem
mundum regit, quod quidem in terris fiat, acceptius quam concilia
coetusque hominum iure sociati, quae ciuitates appellantur. Earum
rectores et seruatores hinc profecti huc reuertuntur.»
6 (VI. 14) Hic ego etsi eram perterritus, non tamen mortis metu
quam insidiarum a meis, quaesiui tamen uiueretne ipse et Paulus
pater et alii quos nos extinctos esse arbitraremur. «Immo uero»,
inquit, «hi uiuunt, qui e corporum uinclis tamquam e carcere euo-
lauerunt: uestra uero quae dicitur esse uita mors est. Quin tu aspicis
ad te uenientem Paulum patrem?» Quem ut uidi, equidem uim
lacrimarum profudi, ille autem me complexus atque osculans flere
prohibebat.
7 (VI. 15) Atque ego ut primum fletu represso loqui posse coepi,
«Quaeso», inquam, «pater sanctissime atque optime, quoniam haec
est uita, ut Africanum audio dicere, quid moror in terris? Quin huc
ad uos uenire propero?» — «Non est ita» inquit ille. «Nisi enim cum
scelto, benché assente, come console per la seconda volta e porrai a
termine una guerra importantissima, raderai al suolo Numanzia 10.
Ma, dopo che su un carro trionfale sarai portato in Campidoglio, tro
verai la repubblica sconvolta dai piani di mio nipote n ».
4 (VI. 12) «Allora occorrerà che tu, Africano, mostri alla patria la
luce del tuo coraggio, del tuo ingegno e anche del tuo senno. Ma per
quel frangente vedo un bivio per quella che si potrebbe dire la stra
da del tuo destino. Infatti, quando la tua età avrà percorso uno spa
zio di otto volte sette giri e ritorni del sole, e quando il concorso di
questi numeri, tutti e due reputati pieni, ma per ragioni differenti,
avrà con questa rivoluzione naturale prodotto la somma fatale che ti
è assegnata, tutto lo stato si volgerà verso di te e verso il tuo nome;
verso di te il senato, i buoni cittadini, gli alleati, i Latini volgeranno
gli occhi, ti guarderanno come l’unico sul quale possa appoggiarsi la
salvezza dello Stato; in una parola, sarai nominato dittatore e incari
cato di riorganizzare la repubblica, se riuscirai a sfuggire alle mani
empie dei tuoi congiunti.» A questo punto, poiché Lelio 12 levò un
grido e tutti gli altri cominciarono a gemere più forte, Scipione, sor
ridendo serenamente disse: «Sst! Vi prego, non destatemi dal mio
sonno e ascoltate ancora per un momento il seguito.»
5 (VI. 13) «Ma al fine, o Africano, d’ispirarti maggior ardore nel
difendere lo stato, sappi questo: per coloro che avranno salvato, dife
so, ingrandito la loro patria c’è nel cielo un posto particolare e ben
definito dove, beati, possono godere di un’eterna felicità. Al sommo
dio che regge tutto l’universo, nulla di ciò che accade in terra è infat
ti più caro delle comunità e aggregazioni di uomini, legate sulla base
del diritto, che vanno sotto il nome di Stati. Coloro che li reggono e
ne custodiscono gli ordinamenti come sono partiti di qui, così poi vi
ritornano.»
6 (VI. 14) A questo punto, benché fossi rimasto atterrito non
tanto dal timore della morte, quanto dall’idea delle insidie dei miei
parenti, gli chiesi tuttavia se fossero ancora in vita lui stesso, mio
padre Paolo 13 e gli altri che noi ritenevamo estinti. «Anzi» fu la
risposta «sono costoro i veri vivi, coloro che sono sfuggiti con un
colpo d’ala dai vincoli del corpo come da una prigione, mentre la
vostra, che ha nome vita, è in realtà una morte. Non vedi tuo padre
Paolo, che ti viene incontro?» Non appena lo vidi, scoppiai a piange
re a dirotto, mentre egli, abbracciandomi e baciandomi, cercava di
frenare il mio pianto.
7 (VI. 15) E io, non appena riuscii a trattenere le lacrime, potei
riprendere a parlare: «Ti prego» dissi «padre mio santissimo e otti
mo: se qui è la vita, a quanto sento dire daH’Africano, perché mai
indugio sulla terra? Perché invece non mi affretto a raggiungervi
quassù?» — «Non è così» rispose il padre «Se non ti avrà liberato da
deus is, cuius hoc templum est omne quod conspicis, istis te corporis
custodiis liberauerit, huc tibi aditus patere non potest. Homines
enim sunt hac lege generati qui tuerentur illum globum, quem in
templo hoc medium uides, quae terra dicitur, hisque animus datus est
ex illis sempiternis ignibus, quae sidera et stellas uocatis, quae, glo
bosae et rotundae, diuinis animatae mentibus, circulos suos orbesque
conficiunt celeritate mirabili. Quare et tibi, Publi, et piis omnibus
retinendus animus est in custodia corporis nec iniussu eius, a quo ille
est uobis datus, ex hominum uita migrandum est, ne munus adsigna-
tum a deo defugisse uideamini.
8 (VI. 16) «Sed sic, Scipio, ut auus hic tuus, ut ego qui te genui,
iustitiam cole et pietatem quae cum magna in parentibus et propin
quis tum in patria maxima est. Ea uita uia est in caelum et in hunc
coetum eorum qui iam uixere et corpore laxati illum incolunt locum
quem uides» (erat autem is splendidissimo candore inter flammas cir
cus elucens), «quem uos, ut a Grais accepistis, orbem lacteum nun
cupatis.» Ex quo omnia mihi contemplanti praeclara et mirabilia
uidebantur. Erant autem eae stellae quas numquam ex hoc loco
uidimus, et eae magnitudines omnium, quas esse numquam suspicati
sumus, ex quibus erat ea minima, quae ultima a caelo, citima terris
luce lucebat aliena: stellarum autem globi terrae magnitudinem facile
uincebant. Iam ipsa terra ita mihi parua uisa est, ut me imperii nostri,
quo quasi punctum eius attingimus, paeniteret.
9 (VI. 17) Quam cum magis intuerer «Quaeso» inquit Africanus,
«quousque humi defixa tua mens erit? Nonne aspicis, quae in templa
ueneris? Nouem tibi orbibus uel potius globis conexa sunt omnia,
quorum unus est caelestis extimus, qui reliquos omnes complectitur,
summus ipse deus, arcens et continens ceteros, in quo sunt infixi illi
qui uoluuntur stellarum cursus sempiterni. Huic subiecti sunt
septem qui uersantur retro contrari o motu atque caelum. E quibus
unum globum possidet illa quam in terris Saturniam nominant;
deinde est hominum generi prosperus et salutaris ille fulgor qui dici
tur louis; tum rutilus horribilisque terris quem Martium dicitis;
deinde de septem mediam fere regionem sol obtinet, dux et princeps
et moderator luminum reliquorum, mens mundi et temperatio, tanta
questi legami corporei quel dio che governa tutto il tempio celeste
che vedi, non può accadere che a te sia permesso l’accesso quassù.
Gli uomini sono infatti generati in base a questa legge: che veglino su
quel globo, chiamato terra, che tu scorgi al centro di questo tempio
celeste; ad essi viene fornita un’anima presa dai fuochi sempiterni cui
voi date nome di astri e stelle, quei solidi sferici che, animati da intel
ligenze divine, compiono le loro circonvoluzioni e orbite con un’am
mirevole velocità. Anche tu, perciò, Publio, come tutti gli uomini pii,
devi conservare l’anima sotto la custodia del corpo, né è permesso
abbandonare la vita umana senza il consenso di colui che ve l’ha data,
perché non sembri che intendiate sottrarvi al compito assegnatovi
dalla divinità.
8 (VI. 16) «Orsù, Scipione, come questo tuo avo, come me che ti
ho generato, coltiva la giustizia e la pietà, che come dev’essere gran
de verso i nostri genitori e parenti, così soprattutto dev’essere gran
dissima verso la patria. Tale condotta di vita è la strada che conduce
al cielo e al consesso di quelli che hanno già vissuto, e che, liberati dal
corpo, abitano il luogo che vedi» — vi era, appunto, quel circolo che
risplende di luminosissimo candore tra i fuochi celesti — «e che voi,
come avete appreso dai Greci, chiamate circolo latteo». Da quel
luogo, mentre contemplavo tutto l’universo, tutto mi appariva
magnifico e meraviglioso. C’erano, tra l’altro, certe stelle che da qui
non abbiamo mai visto e tutte erano di una grandezza che non avrem
mo mai pensato possibile; fra esse la più piccola, che è la più lontana
dalla volta celeste e la più vicina alla terra, brillava di luce riflessa: i
globi stellari, poi, superavano nettamente la grandezza della terra.
Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò talmente piccola, che
provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così
dire, solo un punto del globo.
9 (VI. 17) Poiché guardavo la terra con più attenzione, l’Africano
mi disse: «Posso sapere fino a quando la tua mente rimarrà fissa a
terra? Non ti rendi conto a quali spazi celesti sei giunto? Davanti a te
tutto l’universo è compaginato in nove orbite, anzi, in nove sfere.
Una sola di esse è la sfera celeste, la più estrema, che abbraccia tutte
le altre, essa stessa divinità suprema che racchiude e contiene in sé
tutte le restanti sfere, in cui sono confitti i sempiterni moti circolari
delle stelle. A questa sfera sottostanno sette sfere che ruotano in dire
zione opposta, con moto contrario all’orbita del cielo. Di tali sfere un
globo è quel pianeta chiamato sulla terra Saturno; quindi si trova
quella fulgida stella — propizia e salutare per il genere umano — che
è detta Giove; poi, rutilante e terrificante per la terra, c’è il pianeta
che chiamate Marte; sotto, ecco, il Sole che occupa la regione a un
dipresso nel mezzo: è guida, sovrano e regolatore di tutti gli altri astri,
mente e moderatore dell’universo, di tale grandezza che colma con la
magnitudine ut cuticta sua luce lustret et compleat. Hunc ut comites
consecuntur Veneris alter, alter Mercurii cursus; in infimoque orbe
luna radiis solis accensa conuertitur. Infra autem eam nihil est nisi
mortale et caducum, praeter animos munere deorum hominum
generi datos; supra lunam sunt aeterna omnia. Nam ea quae est
media et nona, tellus, neque mouetur et infima est et in eam feruntur
omnia nutu suo pondera.»
10 (VI. 18) Quae cum intuerer stupens, ut me recepi «Quid hic»,
inquam, «quis est qui complet aures meas tantus et tam dulcis
sonus?» — «Hic est», inquit, «ille qui interuallis disiunctus impar
ibus sed tamen pro rata parte ratione distinctis, impulsu et motu
ipsorum orbium efficitur, et, acuta cum grauibus temperans, uarios
aequabiliter concentus efficit. Nec enim silentio tanti motus incitari
possunt, et natura fert ut extrema ex altera parte grauiter, ex altera
autem acute sonent. Quam ob causam summus ille caeli stellifer cur
sus, cuius conuersio est concitatior, acute excitato monetur sono,
grauissimo autem hic lunaris atque infimus. Nam terra, nona, immo
bilis manens, una sede semper haeret, complexa mundi medium
locum. Illi autem octo cursus in quibus eadem uis est duorum,
septem efficiunt distinctos interuallis sonos: qui numerus rerum
omnium fere nodus est. Quod docti homines neruis imitati atque
cantibus aperuerunt sibi reditum in hunc locum, sicut alii, qui prae
stantibus ingeniis in uita humana diuina studia coluerunt.
11 (VI. 19) «Hoc sonitu oppletae aures hominum obsurduerunt;
nec est ullus hebetior sensus in uobis, sicut, ubi Nilus ad illa, quae
Catadupa nominantur, praecipitat ex altissimis montibus, ea gens,
quae illum locum adcolit, propter magnitudinem sonitus sensu audi
endi caret. Hic uero tantus est totius mundi incitatissima conuersione
sonitus, ut eum aures hominum capere non possint, sicut intueri
solem aduersum nequitis, eiusque radiis acies uestra sensusque uinci-
tur.» Haec ego admirans referebam tamen oculos ad terram identi
dem.
12 (VI. 20) Tum Africanus: «Sentio» inquit «te sedem etiam nunc
hominum ac domum contemplari; quae si tibi parua, ut est, ita uide
tur, haec caelestia semper spectato, illa humana contemnito. Tu enim
quam celebritatem sermonis hominum aut quam expetendam conse-
sua luminosità ogni cosa. Gli vanno appresso, come compagni di
viaggio, ciascuno secondo il proprio corso, Venere e Mercurio, men
tre nell’orbita più bassa ruota la Luna, illuminata dai raggi del Sole.
Al di sotto di essa, poi, non ce ormai più nulla, se non mortale e
caduco, eccetto le anime, assegnate per dono degli dèi al genere
umano; al di sopra della Luna tutto è eterno. La sfera che è centrale
e nona, ossia la Terra, non è infatti soggetta a movimento, rappresen
ta la zona più bassa delle sfere e verso di essa sono attratti tutti i gravi,
per una forza che è loro propria.»
10 (VI. 18) Dopo aver osservato questo spettacolo, non appena
mi riebbi, esclamai: «Ma che suono è questo, così intenso e armonio
so, che riempie le mie orecchie?» dissi. «È il suono» rispose «che
separato in funzione d’intervalli ineguali, eppure distinti da una
razionale proporzione, è cagionato dalla spinta e dal moto delle sfere
stesse e che, temperando i toni acuti con i bassi, realizza varie e pro
porzionate armonie. Del resto, movimenti così grandiosi non potreb
bero svolgersi in silenzio e natura esige che le estremità risuonino di
toni bassi l’una, acuti l’altra. Ecco perché l’orbita stellare suprema, la
cui rotazione è la più veloce, si muove con suono più acuto e conci
tato, mentre questa sfera lunare, la più bassa, produce il suono più
grave. La Terra, infatti, nono globo, poiché resta immobile, rimane
sempre fissa in un’unica sede, occupando il centro dell’universo. Le
rimanenti otto orbite, poi, all’interno delle quali due hanno la mede
sima velocità, producono sette suoni distinti dai loro intervalli, il cui
numero è, per così dire, il nodo di tutte le cose. I dotti che hanno
saputo imitare quest’armonia per mezzo delle budelle dei loro stru
menti e con i canti si sono aperti la via del ritorno in questo luogo
come quegli altri che, grazie all’eccellenza dei loro ingegni, durante
la loro esistenza terrena hanno coltivato gli studi divini.
11 (VI. 19) «Le orecchie degli uomini, riempite da tale suono,
sono diventate sorde. Nessun organo sensoriale, in voi mortali, è più
debole: allo stesso modo, là dove il Nilo, da monti altissimi, si getta a
precipizio nella regione chiamata Catadupa, abita un popolo che, per
l’intensità del rumore, manca dell’udito. Il suono, per la rotazione
vorticosa di tutto l’universo, è talmente forte, che le orecchie umane
non hanno la capacità di coglierlo, allo stesso modo in cui non pote
te fissare il sole, perché la vostra vista è vinta dai suoi raggi». Io, pur
contemplando tali meraviglie, volgevo tuttavia a più riprese gli occhi
verso la terra.
12 (VI. 20) Allora l’Africano disse: «Mi accorgo che continui a
contemplare la sede e la dimora degli uomini; ma se davvero ti sem
bra così piccola, quale in effetti è, non smettere mai di tenere il tuo
sguardo fisso sul mondo celeste e non tener conto delle vicende
umane. Tu infatti quale celebrità puoi mai raggiungere nei discorsi
qui gloriam potes? Vides habitari in terra raris et angustis locis, et in
ipsis quasi maculis ubi habitatur uastas solitudines interiectas, eosque
qui incolunt terram non modo interruptos ita esse ut nihil inter ipsos
ab aliis ad alios manare possit, sed partim obliquos, partim transuer-
sos, partim etiam aduersos stare uobis, a quibus expectare gloriam
certe nullam potestis.
13 (VI. 21) «Cernis autem eandem terram quasi quibusdam
redimitam et circumdatam cingulis, e quibus duos maxime inter se
diuersos et caeli uerticibus ipsis ex utraque parte subnixos obriguisse
pruina uides, medium autem illum et maximum solis ardore torreri.
Duo sunt habitabiles, quorum australis ille, in quo qui insistunt
aduersa uobis urgent uestigia, nihil ad uestrum genus; hic autem alter
subiectus aquiloni quem incolitis cerne quam tenui uos parte contin
gat. Omnis enim terra quae colitur a uobis, angusta uerticibus, late
ribus latior, parua quaedam est insula, circumfusa illo mari quod
Atlanticum, quod Magnum, quem Oceanum appellatis in terris; qui
tamen tanto nomine quam sit paruus uides.
14 (VI. 22) «Ex his ipsis cultis notisque terris num aut tuum aut
cuiusquam nostrum nomen uel Caucasum hunc, quem cernis, tran
scendere potuit uel illum Gangen tranatare? Quis in reliquis orientis
aut obeuntis solis ultimis aut aquilonis austriue partibus tuum nomen
audiet? Quibus amputatis cernis profecto quantis in angustiis uestra
se gloria dilatari uelit. Ipsi autem, qui de nobis loquuntur, quam
loquentur diu?
15 (VI. 23) «Quin etiam si cupiat proles futurorum hominum
deinceps laudes uniuscuiusque nostrum acceptas a patribus posteris
prodere, tamen propter eluuiones exustionesque terrarum, quas
accidere tempore certo necesse est, non modo non aeternam sed ne
diuturnam quidem gloriam adsequi possumus. Quid autem interest
ab iis, qui postea nascentur, sermonem fore de te — cum ab iis nul
lus fuerit, qui ante nati sunt, 16 (VI. 24) qui nec pauciores et certe
meliores fuerunt uiri — praesertim cum apud eos ipsos, a quibus
audiri nomem nostrum potest, nemo unius anni memoriam consequi
possit. Homines enim populariter annum tantummodo solis, id est
unius astri, reditu metiuntur; re ipsa autem, cum ad idem unde semel
profecta sunt cuncta astra redierint, eandemque totius caeli descrip
tionem longis interuallis retulerint, tum ille uere uertens annus appel-
della gente e quale gloria che sia degna di essere ricercata? Vedi che
sulla terra i luoghi abitati sono rari e angusti e che questa sorta di
macchie in cui si risiede è inframmezzata da enormi solitudini e che,
inoltre, gli abitanti della terra non solo sono separati al punto che, tra
di loro, nulla può propagarsi dagli uni agli altri, ma alcuni sono
disposti, rispetto a voi, in posizione obliqua, altri trasversale, altri
ancora si trovano addirittura all’opposto. Da essi, non potete di certo
attendere alcuna gloria!
13 (VI. 21) «Nota, d’altro canto, che questa stessa terra è in un
certo senso avvolta e cinta da fasce: due di esse, le più lontane possi
bili l’una dall’altra e poste sotto gli stessi poli opposti del cielo, sono
assediate, come vedi, dal ghiaccio e dalla galaverna, mentre la fascia
centrale, la più estesa, è arsa dalla vampa del sole. Due sono le zone
abitabili: di esse l’australe, nella quale gli abitanti lasciano impronte
opposte alle vostre, non ha nulla a che fare con la vostra razza.
Quanto a quest’altra, invece, esposta ad Aquilone, che abitate voi,
guarda in che minima misura vi appartiene. Infatti tutta la terra che
è da voi abitata, stretta ai vertici e più larga ai lati, è per così dire un
isolotto circondato da quel mare che sulla terra chiamate Atlantico,
Mare Magno o Oceano, ma che, a dispetto del nome altisonante, vedi
bene quanto sia minuscolo.
14 (VI. 22) «Forse che da queste stesse terre abitate e conosciute
il nome tuo o di qualcun altro di noi ha potuto valicare il Caucaso,
che qui scorgi, oppure oltrepassare il Gange, laggiù? Chi udirà il tuo
nome nelle restanti regioni remote dell’oriente e dell’occidente oppu
re a settentrione o a meridione? Se le escludi, ti accorgi senz’altro di
quanto sia angusto lo spazio in cui la vostra gloria vuole espandersi.
E la gente che parla di noi, fino a quando ne parlerà?
15 (VI. 23) «E anche nel caso che le future generazioni umane
desiderassero a loro volta tramandare ai posteri le lodi di uno di noi,
dopo averle ricevute dai loro padri, tuttavia, a causa dei diluvi e degli
incendi delle terre, che devono inevitabilmente prodursi in certe epo
che, non saremo in grado di conseguire una gloria non dico eterna,
ma neppure duratura. Cosa importa, dunque, che discuta sul tuo
conto chi nascerà dopo di te, se riguardo a te non parlava la gente
nata prima? E questi uomini furono non meno numerosi e, senza
dubbio, migliori. 16 (VI. 24) A maggior ragione perché presso que
sti stessi, da cui può essere udito il nostro nome, nessuno può racco
gliere di sé un ricordo che duri più di un anno. Gli uomini, infatti,
misurano ordinariamente l’anno soltanto dopo il ritorno del sole,
cioè di un unico astro; è quando, invece, tutti quanti gli astri saranno
ritornati nell’identico punto da cui una prima volta sono partiti e
avranno nuovamente tracciato, dopo lunghi intervalli di tempo, l’i
dentico disegno di tutta quanta la volta celeste, che solo allora si
lari potest, in quo uix dicere audeo quam multa hominum saecula
teneantur. Namque, ut olim deficere sol hominibus extinguique uisus
est cum Romuli animus haec ipsa in templa penetrauit, quandoque
ab eadem parte sol eodemque tempore iterum defecerit, tum, signis
omnibus ad idem principium stellisque reuocatis, expletum annum
habeto. Cuius quidem anni nondum uicesimam partem scito esse
conuersam.
17 (VI. 25) «Quocirca si reditum in hunc locum desperaueris, in
quo omnia sunt magnis et praestantibus uiris, quanti tandem est ista
hominum gloria, quae pertinere uix ad unius anni partem exiguam
potest? Igitur alte spectare si uoles atque hanc sedem et aeternam
domum contueri, neque te sermonibus uulgi dedideris nec in praemi
is humanis spem posueris rerum tuarum; suis te oportet inlecebris
ipsa uirtus trahat ad uerum decus; quid de te alii loquantur, ipsi
uideant, sed loquentur tamen. Sermo autem omnis ille et angustiis
cingitur iis regionum, quas uides, nec umquam de ullo perennis fuit
et obruitur hominum interitu et obliuione posteritatis exstinguitur.»
18 (VI. 26) Quae cum dixisset, «Ego uero» inquam, «Africane,
siquidem bene meritis de patria quasi iimes ad caeli aditum patet,
quamquam a pueritia uestigiis ingressus patris et tuis decori uestro
non defui, nunc tamen tanto praemio exposito enitar multo uigilan-
tius.» Et ille «Tu uero enitere et sic habeto non esse te mortalem, sed
corpus hoc. Nec enim tu is es quem forma ista declarat, sed mens
cuiusque is est quisque, non ea figura quae digito demonstrari potest.
Deum te igitur scito esse, si quidem est deus qui uiget, qui sentit, qui
meminit, qui prouidet, qui tam regit et moderatur et mouet id corpus
cui praepositus est quam hunc mundum ille princeps deus; et ut ille
mundum quadam parte mortalem ipse deus aeternus, sic fragile cor
pus animus sempiternus mouet.
19 (VI. 27) «Nam quod semper mouetur, aeternum est, quod
autem motum adfert alicui quodque ipsum agitatur aliunde, quando
finem habet motus, uiuendi finem habeat necesse est. Solum igitur
quod se ipsum mouet, quia numquam deseritur a se, numquam ne
moueri quidem desinit; quin etiam ceteris quae mouentur hic fons,
potrà parlare, a ragione, del volgersi di un anno, nel quale a fatica oso
dire quante generazioni di uomini vi siano contenute. Come un
tempo, infatti, il sole sembrò agli uomini venir meno e spegnersi,
allorché l’anima di Romolo entrò nelle nostre sacre dimore, così,
quando di nuovo, dallo stesso lato del cielo e nel medesimo istante, il
sole verrà meno, allora, una volta che saranno ricondotte al loro
punto iniziale tutte le costellazioni e le stelle, considera compiuto
l’anno. Sappi, comunque, che di un tale anno, non è ancora trascor
sa la ventesima parte.
17 (VI. 25) «Di conseguenza, se non avrai la speranza di ritorna
re in questo luogo, verso cui sono poste tutte le aspirazioni degli
uomini grandi e illustri, quanto vale in fin dei conti codesta vostra
gloria umana, che può riguardare a stento una parte esigua di un solo
anno? Se vorrai, pertanto, mirare in alto e fissare il tuo sguardo su
questa sede e dimora eterna, non prestare attenzione ai discorsi del
volgo e non riporre le speranze della tua vita nelle ricompense
umane: la virtù stessa, con le sue proprie attrattive, deve condurti
verso la vera dignità. Quali parole gli altri pronunceranno su di te
non ri riguarda, eppure parleranno; tutto quel loro discorrere, però,
è limitato dalle angustie di queste regioni che vedi e mai stato dura
turo per nessuno: viene sepolto con la morte degli uomini e con l’o
blio dei posteri si estingue.»
18 (VI. 26) Dopo che ebbe detto queste cose, gli dissi: «Allora, o
Africano, se è vero che ai benemeriti della patria si apre una sorta di
via per l’accesso al cielo 14, io, sebbene fin dall’infanzia, calcando le
orme di mio padre e le tue, non sia mai venuto meno al vostro deco
ro, ora tuttavia, con la prospettiva di un premio così grande, mi impe
gnerò con più sollecita attenzione». Allora egli: «Impegnati dunque
e tieni sempre per certo che non tu sei mortale, ma lo è questo tuo
corpo. Tu, infatti, non sei questa forma sensibile apparente, ma l’es
sere di ciascuno di noi è la mente, non certo la figura esteriore che si
può indicare col dito. Sappi, dunque, che tu sei un Dio, se davvero è
un Dio colui che ha forza, percepisce, ricorda, provvede, colui che
regge, regola e muove il corpo cui è preposto, così come il Dio supre
mo fa con questo universo; e negli stessi termini in cui quel Dio eter
no dà movimento all’universo, mortale sotto un certo aspetto, così
l’anima sempiterna muove il fragile corpo.
19 (VI. 27) «Infatti ciò che sempre si muove è eterno, ciò che,
invece, trasmette il movimento ad altro e a sua volta trae impulso da
una forza esterna, quando il movimento ha un termine, deve avere
necessariamente una cessazione di vita. Pertanto, solo ciò che si
muove per se stesso, in quanto non può mai essere abbandonato da
se stesso, non cessa mai neppure di muoversi; anzi, per tutte le altre
cose che si muovono, è la fonte, è il principio del movimento. Non vi
hoc principium est mouendi. Principii autem nulla est origo. Nam e
principio oriuntur omnia, ipsum autem nulla ex re alia nasci potest:
nec enim esset id principium quod gigneretur aliunde. Quod si
numquam oritur, ne occidit quidem umquam. Nam principium
extinctum nec ipsum ab alio nascetur, nec ex se aliud creabit, si qui
dem necesse est a principio oriri omnia. Ita fit ut motus principium
ex eo sit quod ipsum a se mouetur. Id autem nec nasci potest nec
mori, uel concidat omne caelum omnisque natura, et consistat
necesse est, nec uim ullam nanciscatur, qua a primo impulsu mouea
tur.
20 (VI. 28) «Cum pateat igitur aeternum id esse quod ipsum se
moueat, quis est qui hanc naturam animis esse tributam neget?
Inanimum est enim omne quod pulsu agitatur externo; quod autem
est animal, id motu cietur interiore et suo. Nam haec est propria
natura animi atque uis; quae si est una ex omnibus quae se ipsa
moueat, neque nata certe est et aeterna est.
21 (VI. 29) «Hanc tu exerce optimis in rebus; sunt autem opti
mae curae de salute patriae, quibus agitatus et exercitatus animus
uelocius in hanc sedem et domum suam peruolabit; idque ocius faci
et, si iam tum cum erit inclusus in corpore, eminebit foras, et ea quae
extra erunt contemplans quam maxime se a corpore abstrahet.
Namque eorum animi qui se corporis uoluptatibus dediderunt,
earumque se quasi ministros praebuerunt, impulsuque lubidinum
uoluptatibus oboedientium deorum et hominum iura uiolauerunt,
corporibus elapsi circum terram ipsam uolutantur, nec hunc in
locum nisi multis exagitati saeculis reuertuntur.» Ille discessit; ego
somno solutus sum.
è origine, poi, per un principio. Infatti, dal principio si generano tutte
le cose, mentre esso non può essere generato da nessun’altra cosa: se
fosse generato da qualcos’altro non potrebbe, infatti, essere un prin
cipio. E come non è mai generato, così non muore mai. Infatti, un
principio estinto non rinascerà da un’altra cosa e non ne genererà
un’altra da se stesso, se è inevitabile che ogni cosa si generi da un
principio. Ne consegue che il principio del movimento consiste in ciò
che si muove da sé. Non può, quindi, né nascere né morire, altrimen
ti sarebbe inevitabile che tutto il cielo crolli e che tutta la natura si
fermi e che non si trovi più alcuna forza per dare al loro movimento
l’impulso iniziale.
20 (VI. 28) «Siccome, quindi, risulta dimostrato che ciò che
muove se stesso è eterno, chi potrebbe negare che le anime abbiano
ricevuto questa natura in retaggio? È inanimato, effettivamente, tutto
ciò che è mosso da un impulso esterno; ciò che invece è un essere ani
mato si muove per un moto interno e proprio. Tale è infatti la natu
ra peculiare dell’anima, tale la sua essenza; e se, tra tutti gli esseri, è
l’unica a muoversi da sé, non è stata certamente generata ed è eterna.
21 (VI. 29) «Tu esercitala nelle azioni più nobili; orbene, le occu
pazioni più nobili riguardano la salute della patria; l’anima, stimola
ta ed esercitata da esse, trasvolerà più rapidamente verso questa sede
e dimora a lei propria; e lo farà con velocità ancor maggiore, se, già
da quando sarà chiusa nel corpo, si eleverà al di fuori e, mediante la
contemplazione dell’aldilà, si distaccherà il più possibile dal corpo 15.
Infatti per coloro che si sono abbandonati ai piaceri del corpo, che si
sono offerti quasi come loro complici e che, sotto la spinta delle libi
dini obbedienti ai piaceri, violarono le leggi divine e umane, una volta
scivolate fuori dai corpi, si aggirano in volo intorno alla terra e non
ritorneranno in questo luogo, se non dopo aver peregrinato per molti
secoli». Egli se ne andò; io mi riscossi dal sonno.
1 Nel 149 a.C. il giureconsulto Manio Manilio Nepote fu console in quel
l’anno con Lucio Marcio Censorino. Durante la terza guerra punica iniziò
con scarso successo l’assedio di Cartagine intimando ai Cartaginesi, in nome
del Senato Romano la consegna delle armi e l’abbandono della città.
L’attacco alle mura della cittadella di Manilio fu sanguinosamente respinto e
il contrattacco dei difensori distrusse parte delle macchine belliche.
Censorino tentò di bloccare il porto con la flotta e cercò di attaccare il borgo
di Neferi. In tale attacco si distinse Scipione l’Emiliano, che riuscì a portare
dalla sua parte, nel campo romano, milleduecento cavalieri cartaginesi.
2 Massinissa, re dei Numidi, alleato di Roma nella seconda guerra puni
ca, assistè materialmente Scipione il Maggiore nello sconfiggere Annibale nel
202 a.C. Sulla base dei termini del trattato di pace, grazie alla sua zelante
cooperazione, oltre ai suoi domini ereditari ottenne il possesso di Cirta e di
gran parte del territorio che aveva strappato al suo vicino avversario Siface.
Rimase alleato di Roma per tutto il suo lungo regno (morì all’età di novan
tan n i nel 148 a.C.). Nel 151 a.C. la ripresa delle ostilità tra Cartagine e
Massinissa fu usata come pretesto dai romani per intraprendere una terza
guerra contro Cartagine.
3 Publio Cornelio Scipione Africano il Maggiore, colui che sconfisse
Annibaie nel 202 a.C. e nonno adottivo del narratore di questo sogno, Publio
Cornelio Scipione Africano il Minore. Il re della Numidia, il vecchio
Massinissa, un tempo amico e alleato del nonno adottivo Scipione Africano
il Maggiore, ha quasi la sensazione di rivedere nel giovane Emiliano la figu
ra dell’Africano.
Publio Cornelio Scipione Emiliano Africano Numantino, nato nel 185 o
184 a.C., fu il figlio di Paolo Emilio (Emiliano ha dunque valore di patroni
mico). Divenuto per adozione un Cornelio Scipione, fu, infatti, com’era pras
si comune tra i patrizi dell’antica Roma privi di figli ed eredi, adottato da
Publio Cornelio Scipione, il figlio di Publio Cornelio Scipione Africano. La
sua carriera, militare e politica, lo rese uno dei personaggi più brillanti della
Repubblica romana. Soldato eccezionale, fece la sua prima esperienza belli
ca a Pidna, nel 168. Nel 149, data in cui si svolge il Sogno (cfr. supra nota 1),
raggiunse come tribuno militare in Africa l’esercito impegnato contro
Cartagine, dove si distinse tanto da essere eletto, nel 147, al consolato, non
ostante le disposizioni della lex annalis che prevedevano un’età maggiore
della sua per l’assunzione della suprema magistratura. E dunque come pro
console che, il seguente anno, conquistò Cartagine e l’annientò, mettendo
fine alla terza guerra punica: donde un primo trionfo e il soprannome di
Africano che fu già quello di suo nonno adottivo (per distinguerli, infatti, si
utilizzano gli epiteti il Maggiore e il Minore, oppure il Vecchio e il Giovane).
Nel 133, la presa di Numanzia, al termine di un assedio per fame tanto cele
bre quanto crudele, gli valse il suo secondo trionfo e il soprannome di
Numantino. Gli ultimi anni della sua vita furono agitati da lotte politiche. Si
oppose vigorosamente all’azione di suo cognato Tiberio Gracco, al punto
che la sua morte improvvisa, nel 129, darà adito a voci di omicidio familiare
(cfr. Macrobio, Commento al Sogno di Scipione I, 5, 2 e afferente nota).
Scipione Emiliano che Macrobio definisce come uir non minus philosophia
quam uirtute praecellens (Commento al Sogno di Scipione I, 3, 16) fu anche
uomo di elevatissima cultura. Allevato fin da giovane all’ellenismo grazie alle
cure del padre Paolo Emilio che aveva circondato i propri figli di maestri e
precettori greci (tra i quali Polibio), prima di offrir loro, prelevati dal botti
no di Pydna, la ricca biblioteca del re di Macedonia Perseo. In seguito,
Scipione Emiliano riunirà intorno a lui una brillante cerchia di intellettuali
greci e romani tra cui Panezio, Polibio, Terenzio, Lucilio — il cosiddetto cir
colo degli Scipioni. Cicerone vede in lui il paradigma dell’uomo di stato,
tanto atto alla riflessione teorica nutrita di cultura greca quanto all’azione
guidata dall’esperienza e dai precetti familiari. Di fatto, attraverso il «circolo
degli Scipioni» si elaborò una sintesi tra la cultura etico-estetica dell’elleni
smo da un lato e la virtus e il senso pratico dei romani dall'altro dando forma
a una concezione neostoica della vita, di tipo aristocratico, che per lungo
tempo costituì l’ideologia della classe dominante romana.
Il suo avo per adozione, Publio Cornelio Scipione Africano, nato circa il
235 a.C., è restato celebre per il suo valore militare e la sua integrità, fatti che
tuttavia non gli risparmiarono delusioni nella vita pubblica. Console nel 207,
riesce a farsi inviare dal Senato in Africa per proseguire la guerra contro
Cartagine. Là, dopo avere annodato dei legami di alleanza e di amicizia col
giovane re Massinissa, ottiene nel 202 su Annibaie la decisiva vittoria di
Zama, che pone termine alle seconda guerra punica e che gli vale, il seguen
te anno, il trionfo e l’appellativo di Africano. Una decina d’anni dopo,
affronta in Oriente, come legato di suo fratello Lucio, il re di Siria Antioco
III, resistendo, con virtù tutta romana, ai suoi tentativi di corruzione, prima
della disfatta di Antioco a Magnesia nel 190 e alla successiva pace di Apamea
nel 188. La fine della sua carriera politica, per quanto prestigiosa — divenne
censore nel 199, princeps senatus ed ebbe un secondo consolato nel 194 —,
fu oscurata da una campagna denigratoria, da astiose rivalità e dall’ostilità
del partito ultra-conservatore guidato da Catone. Dopo la sua morte, avve
nuta nel 183 a Literno, in Campania, nella villa ove, amareggiato, si era riti
rato, Scipione l’Africano entrò nella leggenda militare e civile di Roma. E a
questo prestigioso antenato che Cicerone affida il compito di iniziare
Scipione il Giovane ai segreti dell’aldilà e del cosmo.
4 Cfr. Lucrezio, La natura delle cose I, 124-126; Cicerone, Academicorum
priorum II, 51; Persio, Satire VI, 10-11. Quinto Ennio, spesso citato sempli
cemente come Ennio (239-169 a.C.), è stato un poeta considerato fra i padri
della letteratura latina. Scrisse tragedie e commedie, un poema epico
(Annales) ed altre opere di vario genere, tutte pressoché perdute. Nacque a
Rudiae (oggi Grottaglie, presso Taranto). Entrò in contatto con Scipione
l’Africano: fu anzi uno dei massimi esponenti del cosiddetto circolo scipioni
co. Nel proemio del poema degli Annales l’ombra di Omero gli appare in
sogno e gli illustra la natura dell’universo e la dottrina pitagorica della
metempsicosi, secondo cui l’anima di Omero si era incarnata prima in un
pavone e successivamente in Ennio stesso, donde l’onorifico titolo di alter
Homerus, «secondo Omero», con cui Orazio (Epistole II, 1, 50) si riferisce a
Ennio.
5 Ai discendenti dei cittadini romani che avevano ricoperto le magistra
ture supreme era concesso il diritto-privilegio di esporre una loro maschera
di cera o imago nell’atrio della propria domus. Cicerone (De senectute XIX)
colloca la morte di Scipione l’Africano e la nascita di Scipione l’Emiliano nel
185 a.C.; Polibio (Livio, Ab urbe condita XXXIX, 52) segnala la data della
morte di Scipione il Maggiore nel 183.
6 Eletto console (l’equivalente di un primo ministro moderno) nel 147
a.C., Scipione era proconsole quando distrusse Cartagine nel 146. Dopo sei
giorni di feroce combattimento corpo a corpo nelle strade circostanti la cit
tadella fu catturata e di Cartagine non rimase pietra su pietra. Lo storico
Polibio, presente alla scena, riferisce che Scipione, osservando i resti fuman
ti e informi della città, un tempo potente e superba, disse che si trattava di
un momento di gloria, ma che aveva un temuto presentimento: che un gior
no lo stesso decreto fatale sarebbe stato pronunciato sulla sua stessa città che
ne aveva voluta la fine, giacché gli Stati come gli uomini hanno la loro vita
che muta nel tempo, e un giorno sarebbe toccata a Roma la stessa sorte.
L’epoca delle guerre puniche e deU’imperialismo romano (di cui oggi è scon
tata l’equazione con l’imperialismo americano) è anche quella che più, nella
memoria scolastica, si ammanta di episodi leggendari e incredibili. Come
dimenticare, dunque, l’immagine tragica di Scipione Emiliano che piange su
Cartagine distrutta, dopo che i suoi uomini ne hanno abbattuto gli edifici,
arato il suolo e cosparso di sale le rovine? Meglio dimenticarla, in effetti, per
ché nessuna delle fonti antiche tramanda che fu sparso il sale sulle rovine per
evitare che mai Cartagine risorgesse su quella terra. Si tratta di un caso da
manuale di leggenda che si autogenera (probabilmente per l’emotività e la
retorica di qualche storico), ma suona subito così affascinante e convincente
da diventare un caposaldo della rappresentazione successiva. Sulla dinamica
di questo processo vedi, per esempio, Ronald T. Ridley, To be taken with a
pinch o f salt: thè destruction o f Carthage, in Classical Philology, 80, 1986, pp.
140-146; G. Piccaluga, "Chi” ha sparso il sale sulle rovine di Cartagine, in
Cultura e scuola, 105, 1988, pp. 153-165.
7 Si intende 1’agnomen di Africano. L'agnomen, usato di solito come sem
plice soprannome, che si aggiungeva al praenomen, nomen e cognomen, alcu
ne volte, come in questo caso, fu usato come titolo onorifico per ricordare
un’impresa importante. Il cittadino romano a pieno diritto (il cosiddetto civis
romanus optimo iure) era contraddistinto in genere da tre nomi: il praeno
men, cioè il nome proprio, il nomen, che designava la gens (gruppo genetico
di più famiglie imparentate fra loro) e il cognomen che indicava la familia.
Quando un romano veniva adottato, perdeva i suoi tre nomi e acquistava i
tre nomi del padre adottivo. In ricordo della sua origine, manteneva, tutta
via, un nome derivato col suffisso in -ianus dopo il cognomen. Perciò Emilio,
membro della gens Emilia, adottato da Publio Cornelio Scipione, finì per
chiamarsi Publio Cornelio Scipione Emiliano.
8 Nel 142 a.C.
9 Cicerone (.Academicorum priorum II, 5) colloca la data dell’ambasciata
prima di quella della carica di censore.
10 Nuovamente eletto console nel 134 a.C., Scipione il Minore distrusse
Numanzia nel 133 a.C. dopo un assedio di quindici mesi.
11 II riferimento è Tiberio Gracco. Cfr. note 43 e 54 del Libro Primo del
Commento al Sogno di Scipione di Macrobio, rispettivamente in p. 584 e p.
586.
12 Carissimo amico di Scipione il Minore e uno degli interlocutori nel
dialogo di Cicerone De amicitia. Su Lelio cfr. anche nota 54 del Libro Primo
del Commento al Sogno di Scipione a p. 586. Qui Cicerone interrompe il rac
conto di Scipione che viene ripreso nel paragrafo seguente.
13 Lucio Emilio Paolo Macedonico è il terzo personaggio del Sogno, che
resta però, in esso, un po’ in disparte. Tuttavia fu anch’egli un eroe naziona
le. Nato intorno al 228 a.C., figlio dell’omonimo console morto a Canne nel
216, fu anche lui console nel 182 e una seconda volta nel 168. Combattè con
grande valore i Liguri e i Lusitani. Richiamato al consolato, dopo una vita
proba e appartata e dedita all’educazione dei figli, divenne uno dei maggio
ri eroi di Roma per la sua vittoria su Perseo, re di Macedonia, nella battaglia
di Pidna del 168. Filoelleno, fu anche un abile oratore. Suo figlio, lo Scipione
che sogna, fu adottato dal figlio di Scipione Africano il Maggiore. Il suo
ruolo qui è più sentimentale di quello dell’Africano: vero padre di Scipione
Emiliano, legato a lui da tenero affetto, spetta a lui dissuadere il figlio dal rag
giungerlo prima del tempo attraverso il suicidio. Su Lucio Emilio Paolo vedi
anche nota 42 del Libro Primo del Commento al Sogno di Scipione a p. 584.
14 Lungo tutto il Sogno è sotteso un sistema di linguaggio figurato che i
lettori romani e cristiani del tempo riuscivano a cogliere e che oggi molti dei
lettori stentano a capire. Occorre, innanzitutto, prestare attenzione alla
maniera in cui Cicerone utilizza l’immagine centrale del Sogno: il Tempio di
Giove sul Campidoglio. Vengono infatti sottilmente utilizzate delle preposi
zioni con lo scopo di creare un senso di movimento e prospettiva che corri
spondono ai movimenti spirituali dell’anima di Scipione mentre progredisce
nell’istruzione iniziatica offertagli dalPAfricano. Allo stesso modo in cui i
suoi movimenti dell’anima procedono verso la virtù, Scipione si muove fisi
camente in direzione del Campidoglio, verso il Tempio di Giove. Cicerone
suggerisce diverse fasi che possono venire osservate dal punto di vista di chi
si avvicina a un tempio: prima la visione dal basso, quindi la visione dal podio
della porta, poi la visione dell’interno e infine quella della statua di culto
della divinità. La descrizione di Cicerone del progresso psicagogico di
Scipione come un ingresso fisico nel Tempio di Giove Capitolino corrispon
de anche ampiamente a quelli che sono i suoi scopi: collocare il proprio rac
conto morale aU’interno di una raffigurazione che fosse famigliare ai Romani.
Tutto ciò poteva essere racchiuso soltanto nella maniera più nota a un roma
no dell’apoteosi, ossia di divenire simile a un dio, e che era quella attraverso
il corteo trionfale verso il Tempio capitolino (cfr. cum eris curru in Capitolium
invectus, «quando sarai portato in Campidoglio sul carro trionfale», Sogno di
Scipione 2, 1; in Macrobio, Commento al Sogno di Scipione I, 4, 5). Cicerone
indica l’ingresso fisico al tempio in maniera molto sottile. Quando Scipione,
all’inizio, descrive la posizione dell’Africano nel momento in cui gli appare,
afferma che questi gli indica Cartagine de excelso et pleno stellarum, illustri
et claro quodam loco, «da un luogo elevato, cosparso di stelle e tutto splenden
te di luce» (ibidem). De può voler dire sia «in mezzo a», cioè che c’è una
Cartagine celeste fra le stelle (cosa improbabile nella migliore delle ipotesi),
sia, più conformemente al senso della radice della preposizione, «in giù da»,
ossia che PAfricano è sopra Scipione e sta indicando «giù da un luogo eleva
to». Il che dovrebbe suggerire che Scipione vede il nonno adottivo da sotto
e, come la leggenda spesso lo dipinge, in cima al tempio di Giove, sopra
l’Urbe, da dove si vuole che traesse l’ispirazione divina per i suoi atti (cfr.
Tito Livio Ab Urbe Condita XXVI, 19: ad hoc iam inde ab initio praeparans
animos, ex quo togam uirilem sumpsit nullo die prius ullam publicam priua-
tamque rem egit quam in Capitolium iret ingressusque aedem consideret et ple
rumque solus in secreto ibi tempus tereret, «per preparare fin dall’inizio gli
animi, dal giorno in cui indossò la toga virile, non fece alcun azione, pubbli
ca o privata, senza recarsi nel Campidoglio, senza entrare nel santuario e
senza restarvi per la maggior parte del tempo solo e in segreto»), Scipione
comincia poi a salire, sia fisicamente sia spiritualmente, sul podio. Deve
ascendere alla posizione di suo nonno per vedere «il percorso del fato»,
ovvero, il suo futuro che l’Africano sta osservando (eius temporis ancipitem
video quasi fatorum viam, «ma per quel frangente vedo un bivio, per così
dire, sulla strada del tuo destino», Sogno di Scipione 2,2), e che corrisponde
va a Roma, molto probabilmente, alla vista della via Sacra. Scipione non è
ancora in grado di vedere tutto, ma gli è dato vedere solo gli eventi. Come
Enea che segue ciecamente i suoi oracoli, Scipione non è ancora nella condi
zione d’intendere le ragioni per cui è destinato a tutto questo. Per capirlo,
deve contemplare nella sua interezza che cosa è e che cosa significa il Tempio
di Giove (certum esse in caelo definitum locum, ubi beati aevo sempiterno
fruantur. Nihil est enim illi principi deo qui omnem mundum r e g i t . «è riser
vato in cielo un luogo ben preciso, dove da beati godono di un’eterna felici
tà. Al sommo dio che regge tutto l’universo, nulla di ciò che accade in
terra...», Sogno di Scipione 3, 1; in Macrobio, Commento al Sogno di Scipione
I, 8, 1). L’edificio spirituale abbraccia non solo la fine, ma anche la via, che
comprende la vita nel mondo (cuius hoc templum est omne quod conspicis,
«che governa tutto il tempio celeste che vedi», Sogno di Scipione 3, 5, in
Macrobio, Commento al Sogno di Scipione I, 13, 3; ea vita via est in caelum,
«tale condotta di vita è la strada che conduce al cielo», Sogno di Scipione 3,
5, in Macrobio, Commento al Sogno di Scipione I, 4, 4). Il giovane Scipione
vede che la porta gli è preclusa mentre è ancora in vita (huc tibi aditus pate
re non potest, «non può accadere che a te sia permesso l’accesso quassù»,
Sogno di Scipione 3, 5; in Macrobio, Commento al Sogno di Scipione I, 13, 3).
Il culmine della lezione è una speciale dispensa a guardare per un momento
l’interno del tempio dell’universo (Nonne aspicis quae in templa veneris?
«Non ti rendi conto a quali spazi celesti sei giunto?», Sogno di Scipione 4, 3).
Da questa posizione di favore scorge dapprima l’armonia delle sfere e tutto
quello che il mondo esterno è in realtà. Ma — cosa che è più importante di
tutte —, vede in seguito il mondo interiore dell’anima. Cicerone paragona
ciò a una visione della stessa statua di culto (ìgitur alte spedare si voles atque
I n d ic e g e n e r a l e
N o t e e A p p e n d ic i 573
N o t e al testo 575
A p p e n d ic e I. Il S o g n o d i S c ip io n e d i M. T. C i c e r o n e 689
N o t e a l t e s t o d i C ic e r o n e 707
A p p e n d ic e II. S c ip io n e : s o g n i e m a g n a n im it à n e l l e arti 713
A p p e n d ic e III. S c ip io n e d i P a o l o A n t o n io R o lli 80 9
A p p e n d ic e IV. Il s o g n o d i S c ip io n e d i P i e t r o M e t a s t a s io 857
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