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Analisi del progetto di legge sul testamento

biologico
 

1. Le ragioni di una legge.

     Prima di analizzare il testo è necessario tornare alle origini: ai motivi per cui è stata ritenuta
necessaria l’approvazione di una legge sul testamento biologico (o dichiarazioni anticipate di
trattamento).

     Quali erano le esigenze, le urgenze che spingevano all’adozione di una norma? La prima è stata
senza dubbio la necessità di evitare che quanto accaduto a Eluana Englaro si ripetesse nei confronti
di altri soggetti che si trovano o si troveranno nella sua stessa condizione (stato vegetativo): questa,
almeno, è la volontà manifestata dalla maggioranza parlamentare che ha approvato il testo al Senato
(e di cui fa parte il relatore, sen. Calabrò).

     Vi erano altre esigenze? Analizziamo il nuovo titolo: “Disposizioni in materia di alleanza
terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento” dobbiamo
evidentemente ritenere di sì.

     In effetti nella vicenda di Eluana Englaro non vengono in evidenza né un problema di alleanza
terapeutica (ella non ha mai avuto alcun rapporto con i medici relativamente alla patologia che l’ha
colta e nemmeno il padre ha fondato le sue decisioni e le sue azioni sulla base di un rapporto con i
medici, strumentalizzati solo al fine di procurare la morte alla figlia), né un problema di consenso
informato (nessuno ha mai contestato la legittimità delle terapie d’urgenza a suo tempo erogate ad
Eluana Englaro), né, infine, di dichiarazioni anticipate di trattamento che Eluana Englaro – come è
pacifico – non ha mai fatto, né oralmente né per iscritto.  

     Più in generale viene da chiedersi quali risultati voglia ottenere il legislatore.

     Forse ha sentito gli anziani che affollano gli ambulatori e li ha sentiti lamentarsi che il medico di
base, prima di prescrivere loro la medicina per i loro malanni, non li informava adeguatamente e
non faceva firmare loro il foglio del consenso informato?

     Forse ha sentito coloro che devono sottoporsi ad interventi seri e ha colto, come esigenza
principale, il fatto di non essere stati adeguatamente informati di quanto sarà fatto dai chirurghi sul
loro corpo? 

     Non è che anziani o operandi hanno chiesto, piuttosto, ambulatori e ospedali meglio attrezzati,
medici più motivati e specializzati, infermieri più premurosi, cibo delle mense mangiabile … 

      Lo sanno tutti: se la maggioranza avesse voluto impedire “un’altra Eluana” avrebbe scritto una
legge molto semplice e molto corta: “È vietato interrompere la nutrizione e l’idratazione erogata
con mezzi artificiali ai soggetti in stato vegetativo”.  

     Tutti sanno anche un’altra cosa: l’unico punto che interessa a maggioranza e opposizione è la
regolamentazione della morte procurata dei soggetti incoscienti: se è possibile, quando è possibile,
con quali presupposti è possibile, chi potrà disporla, chi dovrà eseguirla, chi ne sarà esentato.
     Tutto il resto è fumo: a nessuno interessa sapere se il genitore del figlio minore deve dare il
consenso per un apparecchio dentistico, o se il medico può rifiutarsi di erogare cure “naturali” e
inefficaci ad un paziente “fissato”, o se il medico di base, prima di scrivere la ricetta di un
antibiotico al bambino o all’anziano, chiederà alla madre o al paziente: “preferisce il prodotto X o
Y?”.  

     Riconosciamo, quindi, già nel titolo del progetto di legge quell’ipocrisia che ben conosciamo da
quando è stata approvata la legge 194 sull’aborto: dell’alleanza terapeutica e del consenso
informato (così come della tutela della maternità) al legislatore non interessa nulla (se non nella
misura in cui serve a raggiungere lo scopo principale).

     Tutti sappiamo che, se di un medico non siamo soddisfatti, perché non è abbastanza disposto ad
ascoltarci e a consigliarci o se diffidiamo della sua reale capacità professionale, possiamo cambiarlo
e scegliere un altro; così come tutti sappiamo che il medico di cui noi ci fidiamo, quando gli
porremo domande più approfondite su malattia, analisi, medicinali e cure, non avrà difficoltà a
spiegarci più in dettaglio il motivo delle sue scelte.  

     Ciò che interessa, quindi, sono le dichiarazioni anticipate di trattamento: o meglio, solo quella
parte del testamento biologico che farà sì che il soggetto incosciente venga lasciato morire o sia
curato e possa continuare a vivere (eventualmente anche contro o a prescindere da una volontà
precedentemente manifestata).  

     

2. Il divieto di accanimento terapeutico.

     In realtà, poiché lo scopo di una legge sul testamento biologico (come dimostrano ampiamente le
esperienze di altri paesi che le hanno introdotte) non è affatto (o almeno: quasi per nulla) quello di
far sì che il medico rispetti le volontà espresse in precedenza da un paziente divenuto incosciente,
ma piuttosto quello di permettere – a prescindere da un’espressione di volontà dell’interessato – la
soppressione dei soggetti in stato di incoscienza mediante la mancata erogazione delle terapie
salvavita e dei sostegni vitali, vale la pena di cercare subito quelle disposizioni che puntano
direttamente al risultato e che dimostrano come la autodeterminazione dell’individuo sia un valore
ritenuto del tutto secondario.  

     All’art. 1 lettera f) la legge “garantisce” che, “in caso di pazienti in stato di fine vita o in
condizione di morte prevista come imminente, il medico debba astenersi da trattamenti sanitari
straordinari, non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni
cliniche del paziente od agli obiettivi di cura.” 

     Il divieto è assoluto: sono scomparsi gli altri riferimenti al divieto di accanimento terapeutico,
tranne quello dell’art. 6 comma IV, secondo cui il fiduciario di colui che ha redatto delle
dichiarazioni anticipate di trattamento, deve vigilare per evitare che “si creino situazioni sia di
accanimento terapeutico, sia di abbandono terapeutico”. Sembra quindi assodato che il tema del
divieto di accanimento terapeutico sia estraneo a quello delle dichiarazioni anticipate di trattamento
che devono “essere conformi a quanto prescritto dalla legge e dal Codice di Deontologia medica”
(art. 3 comma 2) e, quindi, non possono contrastare con il divieto stesso.  

     Il verbo “garantire” e la natura oggettiva del divieto – non dipendente né dalle convinzioni del
medico curante, né dalla volontà del paziente – comporta la possibilità di controllo giudiziale sulle
terapie erogate al paziente: il paziente (così come fece Welby) potrà agire, in ragione del suo diritto
a non essere sottoposto a terapie integranti accanimento terapeutico, chiedendo che le stesse
cessino; e (soprattutto) analoga azione potrà essere promossa dai tutori degli interdetti, dai genitori
dei minori, dagli amministratori di sostegno, dai fiduciari di coloro che hanno sottoscritto
dichiarazioni anticipate di trattamento (articolo 5 comma 4); d’altro canto un medico o una
Direzione sanitaria potrà rifiutarsi di procedere a determinati trattamenti sanitari richiesti dal
paziente o dai suoi familiari se riterrà che essi integrino un accanimento terapeutico.

     

     I medici, quindi, saranno sotto controllo e a rischio di azione giudiziale (e di responsabilità
disciplinare nel caso, ad esempio, abbiano posto in essere terapie nell’ambito di un ospedale).  

     Questo sistema avrebbe senso se il concetto di accanimento terapeutico fosse agganciato alla
fase terminale di una malattia: ad esempio se il concetto fosse del tipo: “l’erogazione, ad un
paziente in stato terminale, di terapie di carattere straordinario e comunque di interventi terapeutici
o diagnostici inutili o superflui rispetto all’andamento del processo in corso. I trattamenti di
sostegno vitale di nutrizione, idratazione o ventilazione forzata non costituiscono accanimento
terapeutico, salvo quando sono oggettivamente incompatibili con lo stato fisico del morente e gli
procurino inutili sofferenze”. Il Consiglio Superiore di Sanità (parere 20/12/2006), negando che la
respirazione artificiale erogata a Welby configurasse accanimento terapeutico, definì l’accanimento
terapeutico “la somministrazione ostinata di trattamenti sanitari in eccesso rispetto ai risultati
ottenibili e non in grado, comunque, di assicurare al paziente una più elevata qualità della vita
residua, in situazioni in cui la morte si presenta imminente e inevitabile”.

     Pur nell’ambito di una discrezionalità tecnica, quindi, la definizione può essere oggettiva, nel
senso che spetterebbe ai medici stabilire se la morte è imminente e inevitabile e se i trattamenti sono
efficaci o eccessivi.

     

     Al contrario la definizione contenuta nella legge: “in caso di pazienti in stato di fine vita o in
condizione di morte prevista come imminente” dimostra che si vuole estendere il concetto (e quindi
il controllo giudiziale sull’operato del medico anche: a) alla condizione di morte non prevista come
imminente; b) alla condizione di morte non prevista come inevitabile.  

     In sostanza il concetto di “fine vita” è il grimaldello per estendere enormemente l’ambito della
previsione: tutti siamo in fine vita se non ci curiamo o non ci nutriamo! Si tratta di un’osservazione
paradossale: ma occorre ricordare che Beppino Englaro qualificava con gli stessi aggettivi le cure
prestate alla figlia; e che Karen Ann Quinlan (che era sopravvissuta per dieci anni al distacco del
respiratore artificiale ottenuto per via giudiziale) morì per una polmonite che non venne curata
perché, nelle sue condizioni, ogni terapia veniva considerata accanimento, terapia sproporzionata.

     Se il punto di partenza – esplicito o meno – è che i soggetti in stato vegetativo hanno una
condizione di vita non degna di essere considerata umana, evidentemente le terapie possono essere
ritenute straordinarie o non proporzionate agli obbiettivi di cura.  

     La previsione, in realtà, ha quindi una radice profonda nel caso Englaro nel senso di permettere,
su richiesta dei tutori degli incapaci, che gli stessi non vengano curati.

     Paradossalmente qui il legislatore sconfessa quella “prudenza” mostrata dalla Cassazione nel
Caso Englaro nel 2007 quando i supremi giudici dicevano che, in assenza di una prova
dell’irreversibilità della perdita della coscienza e della prova della volontà presunta del paziente di
morire, “deve essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado
di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato”; prudenza già
smentita dalla Corte d’Appello di Milano quando sottolineava che, al contrario, “[…] nulla
impedisce di ritenere che il tutore possa adire l’Autorità Giudiziaria quando, pur non essendo in
grado di ricostruire il pregresso quadro personologico del rappresentato incapace che si trovi in
Stato Vegetativo Permanente, comunque ritenga, e riesca a dimostrare che il (diverso) trattamento
medico in concreto erogato sia oggettivamente contrario alla dignità di qualunque uomo e quindi
anche di qualunque malato incapace, o che sia aliunde non proporzionato, e come tale una non
consentita forma di accanimento terapeutico, e quindi un trattamento in ogni caso contrario al best
interest il quale, è appena il caso di notarlo, avendo sempre come referente l’utilità del malato, non
può restare confinato in senso meramente soggettivistico solo nell’area di un’indagine riguardante la
volontà/personalità”.  

     Via libera, in definitiva, alle azioni tese ad intimidire i medici e a obbligarli a non spingersi
troppo oltre nelle cure, così da estendere il controllo su di loro ed ottenere la riduzione –
obbligatoria! – delle terapie rispetto ai pazienti scomodi: anziani ricoverati nelle case di cura,
malati mentali, soggetti in stato vegetativo ecc.  

     3. Il principio del consenso informato.

     L’articolo 1 lettera c) “garantisce che nessun trattamento sanitario può essere attivato a
prescindere dall’espressione del consenso informato nei termini di cui all’art. 2 della presente legge
…”  

     Il primo comma dell’art. 2 ribadisce il principio: “Salvo i casi previsti dalla legge, ogni
trattamento sanitario è attivato previo consenso informato esplicito ed attuale del paziente prestato
in modo libero e consapevole”.

     Il terzo comma descrive le informazioni che il medico deve fornire al paziente che deve
esprimere il consenso (o il rifiuto).  

     Quali sono le conseguenze della trasformazione di una regola deontologica come quella del
consenso informato in una regola giuridica?

     Il Codice deontologico (art. 35) già prescrive che “il medico non deve intraprendere attività
diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente”,
prevede che, quando si rende necessario, il consenso deve essere “espresso in forma scritta” e
conclude perché “in ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve
desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento
medico contro la volontà della persona”.

     La regolamentazione corretta – se si vuole rispettare l’articolo 32 della Costituzione nella parte
in cui prevede che “nessuno  può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non
per disposizione di legge” – è prevedere come efficace il rifiuto ad un trattamento sanitario
(sempre che sia adeguatamente informato e che il paziente sia pienamente capace di intendere e di
volere e in piena libertà) e non, al contrario, richiedere un preventivo consenso come condizione di
legittimità dell’intervento medico! Il fondamento dell’attività medica non è il consenso del
paziente, ma è la tutela della salute, bene costituzionalmente tutelato (articolo 2 della Costituzione:
così la sentenza delle Sezioni Unite penali della Cassazione del 18/12/2008 e così il Codice
deontologico: “dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo e il
sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana …”, art. 3).  

     Quindi: - obbligo (deontologico) di informazione, quando è possibile, del paziente;

           - presunzione di legittimità dell’operato del medico;

           - salva la espressione esplicita ed attuale di un rifiuto del consenso davanti al quale il medico
deve astenersi dall’intraprendere la terapia (salvo che sussistano altre esigenze: ad esempio pericoli
per la salute pubblica).  

     La norma sopra richiamata rovescia – in modo giuridicamente efficace – i termini della
questione: il trattamento sanitario attivato senza il previo consenso del paziente è illecito (regola
generale), salvo le eccezioni (trattamento sanitario obbligatorio, vaccinazioni, pericolo per la vita
della persona incapace in pericolo per un evento acuto).

     Il consenso viene, quindi, cristallizzato come elemento costitutivo della liceità dell’agire del
sanitario: qui il legislatore, di fronte all’evidente contrasto della giurisprudenza (ad esempio si
confronti la sentenza del 2007 sul Caso Englaro con quella delle Sezioni Unite penali sopra
ricordata) fa una scelta esplicita a favore di questa tesi.  
 
 

     Si noti che:

     - il consenso deve essere espresso in precedenza (“previo consenso …”): non è prevista alcuna
ratifica a posteriori dell’attività del medico;

     - il consenso deve essere esplicito (quindi non può essere presunto);

     - il consenso deve essere espresso in forma scritta: l’art. 2 comma 3, infatti, afferma che
“l’alleanza terapeutica … si esplicita in un documento di consenso, firmato dal paziente, che
diventa parte integrante della cartella clinica”. La versione originale del progetto Calabrò faceva
propendere per un valore ad probationem del documento (“L’alleanza terapeutica … è
rappresentata da un documento di consenso …”). La modifica apposta dimostra, invece, che si
tratta di forma prevista ad substantiam, nel senso che un consenso prestato oralmente non è valido e
non può essere, quindi, in alcun modo dimostrato a posteriori in mancanza del documento firmato.

     Anche la volontà del paziente di non essere informato deve essere espresso per iscritto (articolo
2 comma 4), mentre niente è previsto per la revoca, anche parziale, sempre possibile (art. 2 comma
5), anche se forse la necessità della forma scritta si può desumere dai principi generali.

     L’art. 2 comma 6 prevede esplicitamente la forma scritta per il consenso del tutore
dell’interdetto, mentre non lo prevede espressamente per il curatore dell’inabilitato, per
l’amministratore di sostegno e per i genitori del minore: ma si tratta, verosimilmente, di mancato
coordinamento delle varie norme, per cui è verosimile che verrà affermata in via generale la
necessità della forma scritta. 

     Gli scopi e gli effetti della regolamentazione sono diversi:


     - in relazione allo scopo fondamentale della legge – introdurre l’eutanasia dei malati incoscienti
– il medico è, sostanzialmente, messo da parte: se il consenso non è stato previamente prestato,
infatti, egli non ha nessun obbligo nei confronti del paziente, ma addirittura un divieto di agire; non
si può, quindi, più ipotizzare una sua responsabilità omissiva per la morte del paziente ex art. 40
capoverso codice penale perché viene meno l’obbligo di attivarsi.

     Nessun ostacolo è costituito dal divieto (articolo 1 lettera e) “ai sensi degli articoli 575, 579, 580
del codice penale di ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o aiuto al suicidio,
considerando l’attività medica, nonché di assistenza alle persone, esclusivamente finalizzata alla
tutela della vita e della salute, nonché all’alleviamento della sofferenza”: il richiamo, in realtà, si
riferisce solo all’uccisione procurata in modo attivo del paziente; ma, in mancanza di consenso alle
terapie, il medico verrà messo da parte prima, senza possibilità di operare (in un senso o nell’altro)
sul paziente.  

     Perché invece si vuole introdurre questo principio?

     - Si interpreta il diritto alla salute in senso strettamente individualistico, cancellando la salute
come “interesse della collettività”, quindi il dovere alla salute;

     - si introduce, quindi, il tema della disponibilità della propria salute e della propria vita;

     - si vuole eliminare ogni autonomia nell’operato del medico, che viene visto come esecutore
delle volontà altrui e non come operatore professionale che tutela la salute individuale e di tutti; egli
non ha più l’obbligo di salvare la vita e la salute del proprio paziente!

     - nello stesso tempo i medici vogliono essere al riparo da ogni rischio: il documento scritto (sia
di consenso, sia di rifiuto a ricevere le informazioni) li mette al riparo da ogni contestazione;

     - ma, ancora, la strada è quella del controllo dei medici sulle decisioni dei pazienti: soprattutto in
presenza di soggetti deboli sarà, di fatto, il medico ad influenzare le decisioni sulle cure, così da
indurre i pazienti a non prestare il consenso a determinate terapie;

     - non a caso nulla è previsto quanto alla libertà effettiva del paziente a prestare il consenso: si
pensi, banalmente, ad un soggetto anziano e povero cui il medico non prospetta una terapia che
pure potrebbe giovargli e allungargli la vita. Certo, l’art. 1 lettera b) “impone l’obbligo al medico di
informare il paziente sui trattamenti sanitari più appropriati”, così come l’art. 2, comma II, fa
riferimento a “corrette informazioni rese dal medico curante al paziente in maniera comprensibile
circa diagnosi, prognosi, scopo e natura del trattamento sanitario proposto …”: ma nessuna
sanzione è prevista per il medico che non informa e non propone terapie; lo stesso medico che non
ha informato e non ha proposto terapie, rispetto alla morte del soggetto che avrebbe potuto essere
evitata o ritardata non può essere considerato responsabile perché la non attivazione della terapia è
giuridicamente conseguenza della mancata prestazione del consenso scritto da parte del paziente.  

     La portata del principio è amplissima:

     - si prevede la possibilità di revocare il consenso anche parzialmente (articolo 2 comma V):
niente si aggiunge, ma sembra che ciò legittimi (anzi: imponga!) la cessazione delle terapie, anche
se salvavita. Non è prevista alcuna inefficacia di una revoca di consenso che interrompa una
terapia salvavita. È vero che il testo parla di “attivazione di trattamento sanitario”, quindi
riferendosi ad un “inizio” di terapia: ma, da una parte nelle patologie che necessitano di terapie
continue, è difficile distinguere quando un nuovo trattamento “inizia”; dall’altra non ha senso
prevedere come possibile la revoca del consenso senza attribuire ad essa un’efficacia: che, appunto,
non può che essere quella dell’interruzione del trattamento in corso.

     Il caso è quello di Piergiorgio Welby che revocò il consenso al trattamento del respiratore
artificiale che gli permetteva di rimanere in vita. Il G.I.P. che prosciolse Mario Riccio sostenne che
dal principio del consenso informato discende anche l’obbligo di interrompere le terapie già iniziate
per le quali il paziente ha revocato il consenso;

     - è previsto che il consenso sia prestato anche per terapie salvavita o d’urgenza: infatti l’art. 2
comma 8 prevede, come ipotesi eccezionale, che “Qualora il soggetto sia minore o legalmente
incapace o incapace di intendere e di volere e l’urgenza della situazione non consenta di acquisire il
consenso informato così come indicato nei commi precedenti, il medico agisce in scienza e
coscienza, conformemente ai principi della deontologia medica nonché della presente legge”,
mentre  l’art. 2 comma 9 prevede che “il consenso informato al trattamento sanitario non è richiesto
quando la vita della persona incapace di intendere e di volere sia in pericolo per il verificarsi di un
evento acuto”: è il caso dell’incidente stradale nel quale il soggetto arriva al Pronto Soccorso in
stato di incoscienza. Rianimarlo? Solo con questa eccezione la risposta è affermativa; ma se il
soggetto è cosciente e ciò nonostante deve essere sottoposto a terapia intensiva, occorrerà il suo
consenso scritto; o se, al contrario, lo stato di incoscienza è conseguenza di un evento non acuto (ad
esempio per la progressione prevista di una malattia inguaribile), il medico non potrà attivare una
terapia salvavita o d’urgenza se, prima di cadere nello stato di incoscienza, il soggetto non avrà
prestato il consenso a quelle terapie.  

     

4. Le terapie erogate a minori e incapaci.

     La portata negativa del principio del consenso informato si comprende appieno se si analizzano
le norme riguardanti le terapie da erogare ai minori e agli incapaci. Occorre ricordare quanto detto
all’inizio: è del tutto scontato che sarà il genitore a decidere se il figlio minorenne debba o meno
sottoporsi ad un intervento dentistico, magari dopo averlo sentito; ed è ovviamente positivo che
coloro che si prendono cura di pazienti incapaci, anziani, dementi o comunque non in grado di
decidere di sottoporsi o meno a terapie instaurino un rapporto costante con i medici curanti (magari
talvolta anche dialettico); ma il legislatore vuole nascondere dietro questi principi di buon senso
finalità diverse: ai parlamentari interessano soltanto le decisioni che permetteranno di non curare o
di lasciar morire il minore o l’incapace.  

     Le norme sono le seguenti:

     art. 2 comma VI: “In caso di interdetto, il consenso informato è prestato dal tutore che
sottoscrive il documento. In caso di inabilitato o di minore emancipato, il consenso informato è
prestato congiuntamente dal soggetto interessato e dal curatore. Qualora sia stato nominato un
amministratore di sostegno e il decreto di nomina preveda l’assistenza o la rappresentanza in ordine
alle situazioni di carattere sanitario, il consenso informato è prestato anche dall’amministratore di
sostegno ovvero solo dall’amministratore. La decisione di tali soggetti riguarda anche quanto
consentito dall’art. 3 ed è adottata avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute
dell’incapace”

     art. 2 comma VII: “Il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o
rifiutato dagli esercenti la potestà parentale o la tutela dopo avere attentamente ascoltato i desideri e
le richieste del minore. La decisione di tali soggetti riguarda quanto consentito anche dall’art. 3 ed è
adottata avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute psicofisica del minore” 
 

     L’articolo 32 della Costituzione non impone affatto che, nel caso di impossibilità del paziente di
prestare il consenso, qualcun altro debba prestarlo per lui: se il soggetto è incapace, egli non è
obbligato ad una cura, ma semplicemente viene curato.

     Non si vuole dire che i genitori dei figli minori e i tutori degli interdetti non debbano collaborare
con i medici per giungere alla migliore cura e terapia per gli assistiti: ma essi non hanno la
disponibilità del diritto alla salute e alla vita degli stessi. L’art. 32 della Costituzione, infatti, tutela
la salute come fondamentale diritto dell’individuo.  

     La regolamentazione corretta, quindi, dovrebbe essere:

     - alleanza terapeutica tra genitore/tutore e medico mediante adeguata informazione (è sufficiente
una previsione deontologica);

     - presunzione di legittimità dell’operato del medico;

     - obbligo per il medico di tutelare la salute e la vita dell’incapace;

     - possibilità per il tutore o i genitori di contestare le cure prestate sulla base di motivazioni
adeguate;

     - assoluta inefficacia del rifiuto di cure salvavita o delle richieste di interrompere cure salvavita
da parte dei tutori o dei genitori, permanendo, quindi, l’obbligo (penalmente sanzionato) per il
medico di continuare a curare l’incapace.  

     Invece la regolamentazione è opposta: se il tutore o i genitori non prestano il consenso – non


firmano! – il medico non può curare l’incapace!

     Lo dice esplicitamente l’art. 8 comma II: “L’autorizzazione giudiziaria (da parte del giudice
tutelare) è necessaria anche in caso di inadempimento o di inerzia da parte dei soggetti legittimati
ad esprimere il consenso al trattamento sanitario”. 

     L’autorizzazione è necessaria anche in presenza di urgenza: come si è visto, infatti, l’art. 2


comma 8 prevede che ciò non sia necessario solo quando “l’urgenza della situazione non consenta
di acquisire il consenso informato” (quindi, ad esempio, se il genitore non è reperibile: se invece è
raggiungibile, occorrerà il suo consenso scritto all’attivazione di qualsiasi trattamento sanitario sul
figlio).  

     L’autorizzazione del tutore o dei genitori è necessaria anche in caso di pericolo di vita
dell’incapace: infatti l’art. 2 comma 9, come si è visto, fa eccezione alla necessità del consenso
informato solo se il pericolo di vita dipenda dal “verificarsi di un evento acuto”: ad esempio una
rianimazione tentata per strada di un soggetto coinvolto in un incidente stradale; se il pericolo di
vita non dipende da un evento acuto l’eccezione non vale: il consenso è necessario per legittimare
l’intervento del medico.

     In definitiva: a decidere sulle cure sarà il genitore (il figlio esprimerà il suo parere non
vincolante) o il tutore (non è previsto che l’interdetto sia sentito e ciò pare irragionevole). Dubbi
ancora più forti riguardano il potere attribuito al curatore di un inabilitato (che, tendenzialmente, è
in grado di decidere sulle terapie che possono essergli erogate), a quello del minore emancipato (ha
più di 16 anni ed è già sposato! Potrà decidere sulle cure da ricevere …) o sull’amministratore di
sostegno (perché coloro cui è stato nominato un amministratore di sostegno hanno una capacità
mentale superiore agli interdetti e agli inabilitati): questo allargamento sembra essere un chiaro
segno del favore con cui il legislatore vede le decisioni sulle terapie da parte dei non pazienti.

     Il medico che vorrà andare contro al rifiuto di terapie espresso dal genitore o dal tutore dovrà
ricorrere al giudice tutelare.  

     Ma i genitori, il tutore e gli altri soggetti sono liberi nelle loro decisioni? La legge dice che la
loro decisione “è adottata avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute psicofisica del
minore (o dell’incapace)”.

     Si noti: non si parla di salvaguardia della vita dell’assistito e non è affatto scontato che la salute
sia un minus rispetto alla vita (e che quindi la previsione comprenda anche la difesa della vita. Il
concetto di “salute psicofisica” – lo sappiamo bene, conoscendone la portata rispetto alla legge
sull'aborto – è un criterio assolutamente vago e assolutamente soggettivo

     Ma quello che è più grave è che viene indicato lo scopo che il rappresentante deve seguire, ma
non viene prescritto né che il medico possa (o addirittura debba) sottoporre al trattamento sanitario
salvavita l’incapace o il minore nonostante l’illegittima mancata prestazione del consenso, né che
sia obbligatorio il ricorso al Giudice in questo caso. In sostanza, se c’è accordo tra genitori o tutore
da una parte e medico dall’altra nel non erogare un trattamento salvavita al minore o incapace, ciò
potrà avvenire, senza che si possa ipotizzare alcuna responsabilità né per il rappresentante (che
potrà invocare di avere agito con lo scopo previsto dalla legge) né per il medico (che non sarà
responsabile di omicidio per omissione in quanto non obbligato a prestare dette cure in mancanza
del consenso del legale rappresentante).  

     In realtà la vera soluzione sarebbe stabilire che il rifiuto di cure salvavita o la revoca del
consenso a cure salvavita da parte del rappresentante legale siano del tutto inefficaci, tamquam non
essent, e ribadire che la non instaurazione di dette cure o la sospensione delle stesse è condotta
punita ai sensi dell’art. 575 del codice penale: ma questo il legislatore non stabilisce.

     Non solo: quando prevede che “la decisione di tali soggetti riguarda quanto consentito anche
dall’art. 3”, permette ai genitori e ai tutori di rinunciare (per gli assistiti) “ad ogni o ad alcune forme
particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale”. Il concetto
di trattamento sanitario sproporzionato, se correlato allo scopo della salvaguardia della salute
psicofisica dell’incapace è assolutamente soggettivo.  

     In definitiva: i genitori e il tutore non potranno chiedere (come ha fatto Beppino Englaro) di
sospendere la nutrizione e l’idratazione ai figli o agli interdetti: potranno, però, rifiutare ogni
trattamento sanitario e perfino l’inserimento degli strumenti di nutrizione artificiale, anche se si
tratta di trattamenti che oggettivamente (secondo la valutazione medica) potrebbero salvare la vita
agli assistiti.  

     La norma in questione ratifica un principio niente affatto pacifico in giurisprudenza e che,
invece, in sostanza è stato affermato proprio dalla sentenza dell’ottobre 2007 della Cassazione sul
caso Englaro: che il tutore (e il genitore del minore) ha il potere di decidere per conto dell’interdetto
(o del minore) anche su questioni personalissime quali quelle del consenso al trattamento sanitario.
Tale principio era stato ripetutamente negato nelle fasi precedenti a quella sentenza sia dal
Tribunale di Lecco che dalla Corte d’Appello di Milano: in effetti l’articolo 357 del codice civile
stabilisce che il tutore ha la “cura” dell’interdetto, ma lo “rappresenta” solo “in tutti gli atti civili”.
Affermare il contrario significa – di fatto – reintrodurre lo ius vitae ac necis dei genitori sul minore
(e del tutore sull’interdetto): l’introduzione dell’obbligo di sentire il minore non cambia la sostanza,
perché la decisione finale spetta sempre al genitore.

     La previsione riguarda – temo – il caso della rianimazione dei neonati estremamente prematuri:
il contrasto sorto tempo fa circa la possibilità di proseguire le cure nei confronti dei neonati con
ridotte possibilità di sopravvivenza e alte probabilità di disabilità viene risolto nel senso che i
genitori possono decidere “avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute psicofisica del
minore”; se elidiamo la motivazione (come il meccanismo rende possibile) resta la possibilità di
decidere da parte dei genitori: esattamente quanto voleva quella parte che aveva sostenuto la “Carta
di Firenze” e che era stata sconfessata dal parere del Consiglio Superiore di Sanità.  

     La regolamentazione è palesemente incostituzionale.  

     5) Le dichiarazioni anticipate di trattamento.

Il testamento biologico viene previsto in tutta la sua ampiezza: il soggetto potrà rifiutare qualsiasi
trattamento sanitario sulla base della valutazione soggettiva secondo cui le eventuali terapie
possano essere “di carattere sproporzionato o sperimentale” (art. 3 comma III).  

Quali limiti hanno nella proposta le dichiarazioni anticipate di trattamento?

      - “il soggetto non può inserire indicazioni che integrino le fattispecie di cui agli artt. 575, 579,
580 del codice penale”: non può, quindi, chiedere di essere ucciso direttamente dal medico,
nemmeno con mezzi medici (ad esempio: una dose massiccia di sedativi).

     Questa previsione vieta che il soggetto possa disporre la cessazione di trattamenti salvavita (ad
esempio: distacco del respiratore artificiale)? Secondo qualcuno, sì; in realtà è un’interpretazione
dubbia, visto che il principio è che il consenso possa essere revocato: se così fosse, il legislatore
dovrebbe affermarlo esplicitamente (e per il momento non l’ha fatto);

     - l’alimentazione e l’idratazione artificiale non possono formare oggetto delle dichiarazioni
anticipate (art. 3 comma V): ma, si noti bene, le DAT possono invece rifiutare l’inserimento di
mezzi di alimentazione artificiale che costituiscono un intervento sanitario.  

     Le Dichiarazioni sono vincolanti oppure no?

     La risposta necessita di una puntualizzazione dell’ottica nella quale ci si pone: interessa sapere
se il singolo medico sarà esentato da pratiche per lui deontologicamente o moralmente inaccettabili,
oppure interessa sapere quale effetto hanno le DAT sull’ordinamento generale?

     Il fatto che le DAT non vincolino il singolo medico (come è garantito dall’art. 7 comma III: “il
parere espresso dal collegio non è vincolante per il medico curante, il quale non è tenuto a porre in
essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico o deontologico”) non
esaurisce affatto la questione; il medico che si rifiuterà di ottemperare alle DAT o alle indicazioni
del fiduciario o alla decisione del collegio medico (la procedura è prevista dall’art. 7) sarà infatti
sostituito da un altro medico disposto alle pratiche in questione.

     La domanda, quindi, resterà: il nuovo medico agirà legittimamente per l’ordinamento generale? 
     La categoria cui occorre fare riferimento, quindi, è quella dell’inefficacia: solo prevedendo
l’inefficacia di determinate DAT (e la conseguente punibilità del medico che le ponga in attuazione,
magari provocando la morte del paziente) si evita che mediante il testamento biologico si introduca
il principio della disponibilità della vita.

     In realtà l’inefficacia è prevista solo per le “indicazioni orientate a cagionare la morte del
paziente” (art. 7 comma II) (e cioè che “integrino le fattispecie di cui agli artt. 575, 579 e 580 del
codice penale”, art. 3 comma IV) e per la rinuncia all’alimentazione e idratazione (art. 3 comma V):
tutte le altre indicazioni sono valide ed efficaci.  

     Si noti le diverse espressioni utilizzate dall’art. 3: ai primi due commi si parla di “orientamento
in merito ai trattamenti sanitari” , quindi con un termine che sembra indicare la non vincolatività;
ma l’art. 3 comma III si passa improvvisamente ad una previsione palesemente vincolante: “Nella
dichiarazione anticipata di trattamento può essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad
ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato o
sperimentale”.

     Si tratta dell’applicazione del principio del consenso informato: la parola “rinuncia” è precisa
(non porre in atto quel determinato trattamento sanitario) e il verbo “esplicitata” è lo stesso previsto
dall’art. 2 comma 3 (in cui si prevede il documento scritto in cui viene esplicitato il consenso
informato).  

     Il medico, di fronte a questa rinuncia, sarà costretto – magari dall’azione del fiduciario (che
opererà “sempre e solo secondo le intenzioni legittimamente esplicitate dal soggetto nella
dichiarazione anticipata”) – a desistere; e d’altro canto, sarà spinto a desistere dal tentare di curare
l’incapace perché avrà garanzia di impunità: la mancata erogazione di terapie salvavita rinunciate
dal soggetto nelle DAT non sarà a lui attribuibile.  

     Esiste una norma di non chiara interpretazione: l’art. 4 comma VI che prevede che “in
condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato, la dichiarazione
anticipata di trattamento non si applica”. In realtà la norma non stabilisce automaticamente
l’inefficacia di DAT contenenti rinuncia a trattamenti salvavita, ma sembra esentare i medici dal
prenderle in considerazione in casi di urgenza (come per il consenso dei genitori del minore) e in
conseguente pericolo di vita del paziente: non pare certo che possa applicarsi alle DAT in cui si
contempla l’ipotesi di una morte prevista come conseguenza di una malattia inguaribile.  

Il testamento biologico è l’esatto opposto del consenso informato: nonostante la legge preveda che
esse debbano essere stilate (ma anche semplicemente firmate in calce ad un foglio dattiloscritto,
come il modulo di Veronesi) dal soggetto “in stato di piena capacità di intendere e di volere e in
situazione di compiuta informazione medico-clinica”, da soggetto maggiorenne, “dopo una
compiuta e puntuale informazione medico clinica” e “in piena libertà consapevolezza”, in realtà
non è previsto alcun controllo su queste condizioni: per fare un esempio paradossale il soggetto
potrebbe essere ingannato oppure minacciato, costretto a firmare e ciò nonostante le dichiarazioni
sarebbero efficaci. Il fatto che a raccogliere le dichiarazioni possa essere esclusivamente un medico
di medicina generale da una parte non dà alcuna garanzia della libertà effettiva di chi stilerà le
dichiarazioni, dall’altra fa sorgere seri dubbi sulla effettiva informazione clinica: forse un senso le
dichiarazioni potrebbero averlo nel caso di pazienti di malattia inguaribile e progressiva che le
dispongono dopo un colloquio con uno specialista in grado di rappresentare loro il progresso della
patologia; che senso ha rendere le dichiarazioni al medico di famiglia, quindi tendenzialmente in
una situazione di non malattia? 
In realtà quello che sembra proposto è uno svuotamento dall’interno delle norme sull’omicidio del
consenziente: il rifiuto di terapie reso in vista di una situazione futura e incerta, reso in una
condizione di piena salute, di fatto diventa una richiesta di morte nel caso il soggetto si trovasse in
una determinata situazione; richiesta, per di più, che sarà soggetta ad interpretazione in quanto
inevitabilmente generica, non frutto di effettiva informazione e soprattutto resa senza nessuna
garanzia di effettiva libertà morale.  

In questo modo, permettendo di individuare condizioni ritenute non degne di essere vissute si aprirà
la strada all’eutanasia diretta o alla spinta sociale e morale nei confronti dei soggetti deboli a
firmare le dichiarazioni per l’ipotesi in cui si trovino in quella condizione.  

Il fiduciario, in questa situazione, rischia di diventare più che la voce dell’incapace, colui che deve
garantire che terapie non accettate non vengano erogate.  

Giacomo Rocchi
Il disegno di legge Calabrò
 

Il 26 marzo il Senato ha approvato un disegno di legge sul testamento biologico (noto come
ddl Calabrò) attualmente all’esame della Camera. Evidenziamo alcuni punti significativi del
testo, soffermandoci sulle principali novità che introdurrebbe se diventasse legge dello
Stato.
Art. 1 - Tutela della vita e della salute. Lo Stato garantisce l’astensione da trattamenti
sanitari sproporzionati per chi si trova in fine vita o morte prevista come imminente. E SE
FOSSE IMMINENTE MA EVITABILE? Non si tratta di evitare l’accanimento terapeutico,
già vietato, ma di limitare le cure per chi non ha possibilità di guarigione. Non viene definito
chi e in base a quali parametri viene stabilita la sproporzione.
Art. 2 - Consenso informato. Prevede che per attivare un qualsiasi trattamento sanitario
serva sempre un consenso informato SCRITTO. Oggi si rileva solo per gli interventi
chirurgici e trattamenti CHE COMPORTINO UN POTENZIALE RISCHIO.  Se già oggi il
paziente può rifiutare un trattamento, qui si vorrebbe chiederne ogni volta il consenso prima
di poterlo attivare.
Se non può darlo l’interessato, va chiesto al tutore, sperando di rintracciarlo nei tempi debiti.
Viene meno l’attuale obbligo di attivarsi del medico, dovendo egli attendere il consenso
tranne in alcuni casi.
Art. 3 - Contenuti e limiti della dichiarazione anticipata di trattamento (Dat).
Alimentazione e idratazione non sono soggette ad  essere interrotte.
Art. 4 - Forma e durata della Dat.   Oggi IL CONSENSO deve essere sempre contestuale,
poi diverrebbe anticipato, fino a 5 o più anni, rispetto ad una ipotetica e non ben definibile
situazione. E’ REVOCABILE SOLO IN FORMA SCRITTA.
Art. 5 - Assistenza ai soggetti in stato vegetativo. Viene indicato di stabilire linee guida
affinché le regioni si conformino nell’assicurare l’assistenza domiciliare per i soggetti in
stato vegetativo permanente. SAREBBE Più CORRETTO CHIAMARLO
PERSISTENTE.
Art. 6 – Fiduciario. Nominabile nella stesura delle Dat, è l’unico che può interagire con il
medico col compito di verificarne attentamente la condotta e il rispetto delle Dat.
Art. 7 - Ruolo del medico. Deve prendere in considerazione le Dat ma non è obbligato ad
eseguirle. Tuttavia può essere sostituito.
Art. 8 - Autorizzazione giudiziaria. È chiamato in causa il giudice tutelare a decidere in
caso di controversia o inerzia ad esprimere il consenso ai trattamenti sanitari.
Art. 9 - Disposizioni finali. Istituisce un registro delle Dat e affida al Ministro del Lavoro,
della salute e delle politiche sociali la promulgazione di norme attuative sulla sua redazione
e modalità di conservazione.
Il testo presenta alcune anomalie:
- non stabilisce alcuno stanziamento di spesa, pur prevedendo l’impegno di assistere anche a
livello domiciliare i pazienti in oggetto;
- non individua chi e come dovrà far attuare la legge;
- non prevede alcuna sanzione amministrativa né penale per chi non la applica in modo
adeguato. (e.m.)
NO ALLA LEGGE SUL TESTAMENTO
BIOLOGICO

Ecco perché il Comitato Verità e Vita è contrario al progetto di legge sulle


dichiarazioni anticipate di trattamento

Il Comitato Verità e Vita – riunito nella sua VII Assemblea annuale a Bologna -  ribadisce le ragioni
di una decisa opposizione al progetto di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Non si
tratta soltanto di ragioni “etiche”: è una battaglia per la difesa del diritto alla vita, il diritto
fondamentale che deve essere garantito ai più deboli e sofferenti. L’esperienza già vissuta in altri
paesi dimostra che il testamento biologico, in qualunque forma o con qualunque nome, è il primo
passaggio per giungere all’eutanasia su persone non consenzienti, ritenute non degne di vivere.
Lucetta Scaraffia, nell’Introduzione al Primo quaderno di Scienza e Vita “Né accanimento né
eutanasia”, definiva l’introduzione del testamento biologico “forma leggera della legalizzazione
dell’eutanasia”.

Verità e Vita ritiene che occorrano parole chiare su questo progetto di legge.

È falso che questa legge sia necessaria per evitare altri casi Englaro. Al contrario, essa è lo sviluppo
logico di quelle sciagurate decisioni e dell’uccisione di quella donna disabile. Per salvare la vita di
Eluana era sufficiente il decreto legge non emanato e, per evitare altri casi simili, è necessaria una
legge che stabilisca il divieto di sospensione nei confronti degli incapaci di ogni forma di sostegno
vitale, nonché di cure e terapie ordinarie, come ad esempio idratazione, alimentazione e
ventilazione.

Le solenni proclamazioni sulla inviolabilità e indisponibilità della vita, contenute nella legge sulle
Dat, purtroppo, non avranno efficacia pratica. Così come la dichiarata tutela della vita delle leggi
sull’aborto e sulla fecondazione extracorporea è poi contraddetta dalle norme stesse.

Il progetto di legge svuota dall’interno le leggi penali che vietano l’omicidio, l’omicidio del
consenziente e l’istigazione al suicidio, che da sempre difendono il diritto alla vita: permette a
rappresentanti legali di minori, incapaci o soggetti in stato di incoscienza di impedire terapie, se
ritenute inutili o superflue; induce persone giovani e in buona salute a rifiutare, senza alcuna
consapevolezza, con una firma in calce a un modulo, cure e terapie che potrebbero essere necessarie
in un futuro lontano e incerto; spinge gli anziani e i malati a firmare la dichiarazione per non sentirsi
un peso sugli altri; tiene distanti e lega le mani ai medici coscienziosi, imponendo il preventivo
consenso scritto per ogni trattamento sanitario e vietando cure “sproporzionate” per una
indeterminata categoria di soggetti “in fine vita”, con il divieto di accanimento terapeutico
trasformato in uno strumento di contenimento dei costi sanitari.

Se sarà approvata, anche questa “legge ingiusta”, oltre a consentire l’uccisione di tante persone in
condizione di debolezza, agirà nella coscienza sociale portando ad accettare soluzioni che
dovrebbero essere aborrite; ancora più grave sarà l’effetto sui cattolici, costretti di nuovo a cercare
le “parti buone” della legge e indotti a ritenere che le Dichiarazioni anticipate siano un bene, in
quanto contenute in una legge sostenuta da una certa parte dello stesso mondo cattolico.

L’obbligo della difesa di ogni vita innocente impone il rifiuto integrale di questa legge.
Manifesto-appello
Contro la legge sul testamento biologico

Contro ogni eutanasia

Il giudizio

1. Il Parlamento italiano sta per discutere e votare una proposta di legge sul cosiddetto “fine vita”. Il
Comitato Verità e Vita intende esprimere – in forma pubblica e argomentata - un giudizio
decisamente negativo sul testo di legge già approvato dal Senato della Repubblica. A questo scopo,
Verità e Vita promuove un Manifesto appello, aperto all'adesione di tutti coloro che non approvano
i contenuti e gli effetti di questa legge, e che quindi auspicano non diventi mai legge dello Stato.
2. Il nostro giudizio negativo non nasce da alcun atteggiamento pregiudiziale, non si fonda su
affrettate valutazioni di natura emotiva, non disconosce le buone intenzioni e gli sforzi di tutti
coloro che hanno lavorato e lavorano per l'approvazione di questo testo di legge.
3. Il nostro giudizio nasce invece da una attenta, minuziosa, approfondita valutazione dei contenuti
della proposta di legge, dall'analisi tecnicamente documentata degli effetti che una simile legge
produrrebbe nell'ordinamento, e dal fermo riferimento ai principi che ispirano la nostra
associazione.
4. Infatti, il Comitato Verità e Vita, fin dal suo atto costitutivo, si è assunto il compito di “impegnarsi
per denunciare pubblicamente, senza cedimenti e compromessi, l'esistenza di leggi
intrinsecamente ingiuste, quali la legge 194/1978 sull'aborto volontario, la legge 40/2004 sulla
fecondazione extracorporea e ogni legge che dovesse rendere lecita la pratica dell'eutanasia
comunque denominata”.
5. Vale la pena di ricordare che l'uccisione intenzionale di un essere umano, realizzata con
comportamenti attivi o omettendo cure doverose, con o senza il consenso della vittima, è sempre in
ogni caso illecita e deve essere vietata e punita dalle leggi dello Stato.

Cultura della morte: strategia della menzogna & eliminazione dei difettosi

1. Verità e Vita è consapevole di quanto tale compito sia arduo: operiamo in una società in cui gli
attacchi alla vita di tutti gli uomini in condizioni di debolezza – embrioni in vitro, bambini prima
della nascita, neonati prematuri, disabili, anziani poveri e in condizioni mentali precarie, persone in
stato di incoscienza, persone affette da malattie progressive, morenti – si moltiplicano con modalità
sempre più aggressive.
2. Come sempre, la strategia della “cultura della morte” si affida all'astuzia e alla menzogna: la cruda
verità viene nascosta dietro espressioni volutamente neutre: procreazione medicalmente assistita o
PMA, interruzione volontaria di gravidanza o IVG, autodeterminazione del paziente, dichiarazioni
anticipate di trattamento o DAT lasciando credere siano cosa diversa dal testamento biologico.
3. I nemici della vita sanno imporre la menzogna per nascondere la realtà di quanto sta avvenendo:
così l'embrione e il bambino prima della nascita scompaiono, della loro cruenta uccisione non si
deve parlare; e ancora si insinua che quella dei disabili incoscienti non sia una “vera vita” e quindi
che la loro soppressione non sia una “vera uccisione”.
4. Si sta sempre più affermando la pretesa di distinguere tra vite degne di essere vissute e vite
indegne, inutili, superflue, costose per la collettività: vite di “non persone” o di uomini che
“persone devono ancora diventare”, vite che qualcuno può decidere di sopprimere sulla base di
qualunque esigenza o desiderio o necessità. Uomini senza diritti, uomini che devono farsi da parte,
in un modo o nell'altro.
5. Le democrazie moderne si avviano così a negare quei principi fondamentali che rendono le società
civili. Diritti riconosciuti fin dall'antichità nella dottrina del diritto naturale e ancora ribaditi nelle
grandi Dichiarazioni sui diritti umani approvate negli ultimi secoli vengono spazzati via dal
“totalitarismo gentile” dell'eugenetica legalizzata. Le società dei diritti fondamentali riconosciuti ad
ogni uomo si trasformano in quelle che garantiscono i diritti dei più forti, dei più ricchi, dei più sani,
contro i più deboli e indifesi che vengono schiacciati ed uccisi. In nome della pietà.

La legge sul fine vita: a chi gioverà veramente?

1. Nonostante alcune apparenze e alcuni espedienti linguistici, l'approvazione della cosiddetta “legge
sulle dichiarazioni anticipate di trattamento” costituirebbe un ulteriore passo nella direzione della
cultura di morte, e aprirebbe la strada all'eutanasia legalizzata.
2. La legge sul fine vita è un successo. Ma è un successo per coloro che in questi anni si sono
impegnati nella costruzione di casi mediatici – su tutti la vicenda di Eluana Englaro, fatta morire di
fame e di sete – allo scopo di “costringere” il Parlamento a legiferare in una materia già
ampiamente presidiata dall'ordinamento giuridico, mediante il principio costituzionale di
indisponibilità del diritto alla vita.
3. Oggi, in Italia non è lecito togliere la vita anche a chi ne faccia richiesta (omicidio del consenziente);
non è lecito togliere la vita a chi non abbia potuto o voluto chiederlo (omicidio volontario); non è
lecito aiutare qualcuno a uccidersi (istigazione al suicidio). Di più: il legislatore – ben consapevole
che rendere efficace la volontà di farsi uccidere spalanca la porta ad uccisioni che prescindono da
qualunque manifestazione di volontà – ha comunque reso del tutto inefficaci le richieste di morte
provenienti da soggetti incapaci o in stato di deficienza psichica o minacciati, ingannati o
suggestionati.
4. Come aggirare, allora, questo solido ostacolo alla discriminazione nei confronti delle categorie di
uomini in stato di debolezza? La soluzione è una, anche se ha molti nomi: testamento biologico,
dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT), living will. L'idea è semplice: approvare una
qualunque legge che, pur dichiarando nei suoi preamboli il divieto di ogni eutanasia, preveda
l'efficacia giuridica di volontà espresse in precedenza. In questo modo viene svuotato dall'interno il
divieto di suicidio assistito, così da permettere che certi malati non siano curati e nemmeno nutriti
e idratati.
5. Così – senza nemmeno usare le parole “omicidio” o “suicidio” – diventerà possibile procurare la
morte di pazienti che si trovano in determinate condizioni. La fittizia autodeterminazione porta
automaticamente con sé la sostanza di ciò che si vuole ottenere: l'eutanasia dei malati. Anche in
assenza della loro volontà.

La legge sul fine vita: ecco perché dire no

Purtroppo, il progetto di legge approvato dal Senato della Repubblica e attualmente in discussione
alla Camera dei Deputati realizza compiutamente questo risultato. E lo realizza ben al di là delle
intenzioni delle forze politiche e culturali che lo sostengono, convinte, spesso in buona fede, che
questa legge sia “per la vita” e “contro l'eutanasia”.

Il Comitato Verità e Vita, fedele al suo compito di denunciare senza compromessi l'ingiustizia delle
leggi che attentano alla vita degli uomini, segnala a tutte le persone oneste e di buona volontà la
vera sostanza di questa normativa.

1) Altri possono scegliere al posto del paziente.


a) Nel testo sul fine vita è previsto (articolo 5 commi 6 e 7) che il tutore può decidere per
l'interdetto, il curatore per l'inabilitato, l'amministratore di sostegno per l'assistito, i genitori per i
figli minori. Stiamo parlando di assegnare a terze persone la decisione sulla vita e sulla morte di un
paziente che non può dire alcunché (v. Eluana Englaro).

b) Il potere che il progetto di legge attribuisce a questi soggetti è enorme: essi possono rifiutare
qualunque terapia per i loro assistiti e ai medici è vietato somministrare terapie in mancanza di
consenso (articolo 2 comma 1), tanto che in caso di mancato consenso essi dovranno – se vorranno,
ma senza essere obbligati a farlo – ricorrere al Giudice (articolo 8 comma 2).

c) I rappresentanti legali dei minori e degli incapaci possono rifiutare anche terapie salvavita
(articolo 2 comma 7 e 3 comma 3): possono, cioè, rinunciare – per conto dei loro rappresentati – ad
“ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto ( da essi ritenute ) di carattere
straordinario o sperimentale”: in sostanza possono lasciar morire per mancanza di terapie i loro
assistiti e perfino rifiutare l'inserimento degli strumenti di nutrizione e idratazione artificiale.

d) I limiti a questo potere sono sostanzialmente apparenti : il medico non è obbligato a chiedere
l'autorizzazione giudiziaria in caso di mancato consenso e i tutori o genitori dovranno soltanto
seguire come “scopo esclusivo la salvaguardia della salute psicofisica” degli interdetti o dei minori:
suprema beffa in un sistema in cui la tutela della salute può non coincidere con la difesa della vita e
nel quale nessuno potrà intromettersi nella decisione dei rappresentanti legali .

e) In queste poche norme vi è già il via libera all'eutanasia per legge dei neonati prematuri con
grave rischio di disabilità e di tutti i pazienti privi di coscienza che, una volta interdetti, saranno
messi nelle mani dei loro tutori, anche in assenza di un testamento biologico .

2) La distruzione dell'arte medica

a) L'articolo 1 comma 1 lettera f) vieta al medico “trattamenti straordinari non proporzionati, non
efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli obbiettivi di
cura”. Il divieto di accanimento terapeutico avrebbe senso se si riferisse ai pazienti terminali, per i
quali, in conseguenza di una malattia inguaribile e progressiva, la morte è prevista dai sanitari come
imminente e inevitabile. Ma il progetto di legge estende il concetto di accanimento terapeutico
anche ai casi di morte non imminente o non inevitabile; con l'espressione “pazienti in stato di fine
vita” spalanca le porte a coloro che vedono l'accanimento tutte le volte in cui le terapie prestate non
corrispondono alla loro volontà.

b) Ma questo divieto riguarda anche le terapie prestate ai minori e agli incapaci: ecco aperta la
strada ad azioni giudiziarie di tutori o genitori contro i medici per costringerli ad interrompere cure
da loro ritenute straordinarie, “sproporzionate rispetto agli obbiettivi” (ma se una persona è in stato
vegetativo, quali sono gli obbiettivi?). Ecco, ancora, il via libera alle direzioni degli ospedali che –
in ragione delle esigenze di spesa – potranno vietare ai propri medici determinate terapie. E, perché
no, alle Presidenze delle Aziende Sanitarie per dettare linee guida in cui si definiranno certe cure
sproporzionate o inadeguate.

c) Ma l'intimidazione dei medici, lo svuotamento della loro professionalità, l'impedimento ad ogni


iniziativa individuale è completata e perfezionata dalla solenne proclamazione secondo cui “ogni
trattamento sanitario è attivato previo consenso informato esplicito ed attuale del paziente prestato
in modo libero e consapevole”, combinata alla previsione secondo cui la volontà del paziente “si
esplicita in un documento di consenso informato, firmato dal paziente, che diventa parte integrante
della cartella clinica”.
d) Il medico non ha più la missione – difficile, piena di responsabilità e di professionalità,
affascinante – di tutelare la nostra salute e, se possibile, di salvare la nostra vita dalle malattie: non è
più la persona di cui ci fidiamo e sul cui impegno, scrupolo, coraggio possiamo contare; è
l'esecutore delle nostre volontà, il burocrate che – senza un foglio scritto – non si muove, non può
muoversi.

e) Senza consenso scritto (anche da parte dei tutori e dei genitori) i medici non hanno nessun
obbligo di intervenire nei confronti dei malati; anzi: hanno il divieto di intervenire. E così la morte –
per inedia o disidratazione o per omissione di terapie – non sarà più imputabile all'inerzia del
medico, che non avrà alcuna responsabilità.

3) Le DAT, ovvero l'illusione dell'autodeterminazione.

a) Tutto questo avviene prima e a prescindere dalle norme sul testamento biologico: norme che
appaiono, così, uno specchietto per le allodole per nascondere la vera sostanza della legge. Anche le
norme sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento mostrano quanto poco al legislatore interessi la
volontà di ciascuno di noi, sano o malato.

b) In base all'articolo 4 commi 1 e 2, è sufficiente la firma apposta su un foglio dattiloscritto per


attuare le DAT. E' singolare: per lasciare una casa in eredità bisogna scrivere il testamento di
proprio pugno, per la sicurezza che chi scrive sappia quello che dispone: per far morire lecitamente
per mancanza di cure salvavita basta la firma di un diciottenne.

c) Il testo parla di una “compiuta e puntuale informazione medico-clinica” che dovrebbe essere
fornita prima della firma: ma quale informazione seria può essere fornita ad una persona in piena
salute spinta ad immaginarsi una condizione di malattia futura e incerta? Quanti e quali patologie il
medico di famiglia dovrà rappresentare al suo assistito per essere sicuro che egli abbia una “piena
consapevolezza”? Tutte quelle che possono portare alla morte?

d) Chi garantirà che chi firma lo faccia “in piena libertà” (articolo 4 comma 2)? Il medico di
famiglia che, tra una prescrizione e l'altra, dovrà far firmare le dichiarazioni anticipate? Chi tutelerà
i soggetti rimasti soli che si sentono abbandonati e di peso agli altri, oppure le persone affette da
depressione? Il medico sarà in grado di rendersi conto se c'è “minaccia, suggestione o inganno”?

e) Non è davvero un caso che un grande potere venga attribuito al fiduciario dell'incapace (articolo
6): ancora una volta sarà lui – e non l'ingenuo firmatario delle dichiarazioni anticipate – a decidere
se e come curare l'incapace, a negare il consenso alle terapie e a instaurare controversie contro il
medico che si ostina a seguire la propria coscienza (articolo 7 comma 3).

f) E' vero che la proposta di legge non permette di inserire nelle DAT quelle indicazioni che
integrino le fattispecie di omicidio del consenziente o di aiuto al suicidio (articolo 3 comma 4); e
che si vieta al medico di prendere in considerazione indicazioni orientate “a cagionare la morte del
paziente” (articolo 7 comma 2); ma queste disposizioni si potranno applicare, in realtà, all'uccisione
diretta e attiva del paziente; non all'omissione di cure: l'eutanasia – lo sappiamo – si esegue anche
così, omettendo di curare uomini o bambini che, se assistititi, sopravvivrebbero (abbandono
terapeutico).

g) E' vero che le dichiarazioni anticipate sono definite dalla proposta di legge “non obbligatorie”
(articolo 4 comma 1); ma il riferimento è all'obbligo del singolo medico: esse saranno
giuridicamente efficaci verso la struttura sanitaria e l'ordinamento in generale e il medico
recalcitrante sarà sostituito da uno disponibile.
Conclusioni

Verità e Vita non può che dire fermamente no alla proposta di legge sul fine vita. L'Italia non ha
bisogno di questa legge: auspichiamo che venga respinta, consapevoli che – a prescindere dalle
intenzioni di chi la sostiene e da alcune dichiarazioni di principio condivisibili – essa introduce
l'eutanasia legale nel nostro Paese.

Il testo proclama di “riconoscere e tutelare la vita umana quale diritto inviolabile e indisponibile”
(articolo 1 comma 1 lettera a), ma vi è in questo un'inquietante analogia con il legislatore della
legge 194, che affermava di “tutelare la vita dal suo inizio”, e poi rendeva lecito l'aborto a richiesta.

Non esiste nessun male minore da evitare: per impedire il ripetersi di altri casi come quello di
Eluana Englaro basterebbe una legge che vietasse l'interruzione di alimentazione e idratazione
artificiale ai soggetti incoscienti, che siano in grado di riceverla con beneficio.

Solo mantenendo integro il divieto di omicidio del consenziente e di suicidio assistito, e


valorizzando l'arte e la professionalità dei nostri medici, potremo davvero rispettare la vita e la
dignità di ogni uomo.

Il Comitato Verità e Vita

11 gennaio 2010
Articoli CR Giovedì 04 Marzo 2010 17:12 CR n.1132 del 6/3/2010

La commissione Affari sociali della Camera ha approvato a maggioranza un emendamento che


modifica l’art. 3 del ddl sul biotestamento in discussione al parlamento: l’idratazione e
l’alimentazione artificiale possono essere sospese nel caso in cui non risultino più efficaci per
garantire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo.

Domenico Di Virgilio, il relatore dell’emendamento, precisa che anche se il testo non specifica chi
dovrebbe prendere la decisione di sospendere la nutrizione si evince naturalmente che questa
spetterà al medico (sic!).

«Per lo stato vegetativo – dichiara Di Virgilio – non avrei presentato nessun emendamento perché
nutrizione ed alimentazione non sono trattamenti medici e non vanno sospesi, ma diverso è il caso
di pazienti in coma traumatico, ischemico, che hanno fatto le dat, per i quali il medico valuterà se ci
sono le condizioni di continuare idratazione e alimentazione. Si tratta dunque di un punto di
partenza diverso, cosa che non tutti hanno compreso».

Oltre ad annoverarci tra quelli che non hanno compreso a chi effettivamente possa giovare una tale
modifica, ci preme sottolineare come si stia puntualmente verificando ciò che era lecito attendersi:
il ddl Calabrò sul testamento biologico, già sufficientemente ambiguo da permettere una “capacità
di manovra” piuttosto ampia, rischia di vedere allargate a dismisura le già lacerate maglie normative
così da far passare senza particolari difficoltà il suicidio assistito dei malati.

L’emendamento è stato approvato grazie ai voti del centrodestra e di Paola Binetti (passata all’Udc
di Casini), mentre l’opposizione ha votato contro, giudicando la modifica (effettivamente a ragione)
un gran pasticcio che complica ulteriormente il guazzabuglio normativo del ddl Calabrò. Quel che
preoccupa ulteriormente dell’attuale situazione è la mancanza quasi totale di voci serie ed
autorevoli che si oppongano all’approvazione di una legge palesemente ipocrita.

Neppure la Pontificia accademia della Vita sembra accorgersi del tranello, al punto che il presidente
mons. Rino Fisichella ha dichiarato che si tratta di «un emendamento che va ancora una volta a
favore della vita perché specifica quanto il rispetto per l’ammalato e la dignità del malato non debba
mai arrivare ad una forma di accanimento». L’obiettivo principale (se non unico) sembra essere
quello di approdare ad un compromesso politico, una nuova “verità” da difendere ad oltranza. In
effetti, l’ansia che trapela dalle dichiarazioni di diversi esponenti, politici e non, di chiudere la
vicenda e giungere finalmente ad una legge, sembra derivare, più che dal timore di trovarsi di fronte
ad un nuovo caso Englaro, dall’impellente necessità di giungere a ciò che è considerato il fine
ultimo del legislatore e dell’attività politica, ossia il compromesso tra le diverse istanze
rappresentate in parlamento. Una volta approvata la legge che spiana la strada all’eutanasia sarà
sempre possibile per i neo pro-life appellarsi alla mancata applicazione delle parti buone in essa
contenute oppure richiamare all’integrale applicazione della stessa.

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